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ISTITUTI SECOLARI DEI MISSIONARI/E DELLA REGALITÀ DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO CONVEGNO UNITARIO – ASSISI 23 AGOSTO 2014 La profezia della consacrazione secolare alla luce del magistero di Papa Francesco Il cammino compiuto dagli Istituti Secolari, dalla “Provida Mater Ecclesia” a oggi, sia a livello di riflessione teologica e magisteriale che a livello di esperienza di vita, ci permette di affrontare l’argomento di questo Convegno tenendo sullo sfondo alcuni dati acquisiti: la piena consacrazione, la sua dimensione secolare, lo spirito missionario inteso prevalentemente come lettura dei segni dei tempi e animazione cristiana della realtà terrena, lo stile del dialogo. Oggi però si stagliano in primo piano alcune suggestioni di grande attualità, sottolineate o addirittura introdotte dal magistero di Papa Francesco, che conferiscono agli II.SS. e al loro carisma una rinnovata connotazione profetica. Basti citare alcune definizioni che Egli ha dato degli Istituti secolari all’udienza del 10 maggio scorso: “Voi fate parte di quella chiesa povera e in uscita che io sogno” “Siete segno di quella chiesa dialogante di cui parla Paolo VI nell’enciclica ES al N. 90” “Siete nel cuore del mondo con il cuore di Dio” “Il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale” “La vostra è una vocazione per sua natura in uscita... soprattutto perché vi chiede di abitare là dove abita ogni uomo”. A partire da una lettura attenta del suo discorso mi sembra si possano individuare cinque suggestioni più propositive: 1. Custodire la contemplazione (verso il Signore e nei confronti del mondo). Ha a che fare con la consacrazione. L’espressione è stata usata dal Papa nella conversazione libera avuta all’udienza con i partecipanti all’incontro promosso dalla CIIS il 10 maggio 2014. Precisamente egli ha affermato: “E da quel tempo (il tempo della Provida Mater) fino ad ora è tanto grande il bene che voi fate nella Chiesa, con coraggio perché c’è bisogno di coraggio per vivere nel mondo. (…). Tutti i giorni, fare la vita di una persona che vive nel mondo, e nello stesso tempo custodire la contemplazione, questa dimensione contemplativa verso il Signore e anche nei confronti del mondo, contemplare la realtà, come contemplare le bellezze del mondo, e anche i grossi peccati della società, le deviazioni, tutte queste cose, e sempre in tensione spirituale...”. Nella Evangelii Gaudium (EG) al n. 264 aveva scritto: “È urgente recuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri”. Vengono spontanee alcune considerazioni: don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 1! - Innanzitutto va focalizzato l’oggetto primario della nostra consacrazione, che è il Signore Gesù. È al suo amore che noi aderiamo, alla sua chiamata che diciamo il nostro ‘sì’; è del suo progetto che noi ci mettiamo a servizio, donando con radicalità tutto di noi (affetti, beni e volontà). La stessa professione dei voti, quindi, va nel senso di quell’incontro personale con Gesù che ci mette in movimento dietro di lui dentro la storia. Del resto ciò che noi cerchiamo è la “perfezione della carità”: “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1Gv 4,12). - Va poi specificato che, intesa in questo senso, la consacrazione non porta fuori, non distrae, non separa dalla realtà mondana, positiva o negativa che essa sia, ma offre piuttosto una prospettiva pasquale, di redenzione e di speranza. Addirittura la relazione personale con Cristo passa attraverso le vicende umane e si sostanzia di tutto ciò che noi portiamo della nostra esistenza concreta. Potremmo richiamare quanto afferma la Gaudium et Spes al n. 1: “Nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore” dei discepoli di Cristo; dove per “eco” si intende non solo “risposta” ma anche ripresa, valorizzazione, coinvolgimento, “empatia” ha spiegato Papa Francesco a Seul. - Se Papa Francesco avesse conosciuto quello scritto con cui Don Tonino Bello aveva insegnato ai catechisti ad essere “contempl-attivi”, egli l’avrebbe fatto senz’altro suo: leggere insieme il passaggio del Signore, attraverso la contemplazione del Vangelo, “sostando sulle sue pagine e leggendolo col cuore” (EG 264); cogliere i suoi appelli alla solidarietà umana, alla giustizia e alla pace, presenti anche nel “grido” dei poveri e di interi popoli (cfr EG 187-190); lavorare alacremente per la costruzione del suo Regno, perché “nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti” (EG n. 180). - Avere uno spirito contemplativo significa allora dedicarsi consapevolmente a tutto ciò che è bene, che rende migliore l’uomo e la società, che qualifica la storia come ‘storia di salvezza’. Custodire la contemplazione è proprio di chi, a diretto contatto con il mondo, ne conosce le dinamiche e vi incarna la fede attraverso il suo vissuto. - La profezia sta nella chiamata a tenere sempre uniti fede e vita, dimensione spirituale e vissuto concreto, celebrazione dei sacramenti e impegno storico… o, ancora meglio, il proprio essere nel mondo e il proprio essere di Dio senza che questo costituisca dicotomia ma generi continuità e si configuri come prodromo del Regno. 2. Camminare per le strade del mondo e abitare le periferie (in uscita, andare oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia...). Ha a che fare con la secolarità. Anche questa espressione è stata usata dal Papa all’udienza succitata, in questo preciso contesto: “Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto e zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze. La passione missionaria, la gioia dell’incontro con Cristo che vi spinge a condividere con gli altri la bellezza della fede, allontana il rischio di restare bloccati nell’individualismo”. Nella EG al n. 20 aveva scritto: “Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del vangelo”. E al n. 46: “La Chiesa ‘in uscita’ è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 2! da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà”. Anche qui alcune considerazioni: - La Chiesa vive nel mondo e in dialogo con esso. Il Signore Gesù ha voluto la Chiesa come sacramento della sua presenza di risorto nella storia. Ora Cristo continua “a prendere l’iniziativa”, a “precedere nell’amore” - come spiega il n. 24 della EG - e quindi la Chiesa è chiamata a “coinvolgersi” (“La comunità evangelizzatrice mediante opere e gesti si mette nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana…”), ad “accompagnare” (“Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. Usa molta pazienza ed evita di non tenere conto dei limiti...”), a “fruttificare” (“Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti e incompiuti…”) e a “festeggiare” (Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti. (…) si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene…). Sono quattro verbi della secolarità, cioè di una presenza operosa ed incisiva in ogni angolo di umanità dove risuonano più forti gli interrogativi degli uomini e dei popoli. - La Chiesa abita le periferie attraverso di noi che, per vocazione, siamo chiamati a restare “in saeculo” e ad agire “con i mezzi che sono propri del mondo” senza alcuna distinzione che non sia la testimonianza di fedeltà al vangelo che connota le nostre scelte e il conseguente stile di vita. - Secolarità è anche andare, non restare bloccati sulle proprie posizioni e le proprie sicurezze. Richiede la capacità di porsi delle domande e non solo di dare delle risposte, rischiando nella ricerca, ascoltando la realtà della vita prima di stigmatizzarla con delle norme. - La profezia sta nella chiamata a non temere nessun luogo e nessuna situazione, anzi a leggere e a collaborare nel compimento della storia della salvezza proprio a partire da lì, dove la persona è al limite dell’esclusione, soffre l’indifferenza, è svuotata della sua dignità. 3. Toccare con mano sullo stile del samaritano, presentando il volto della misericordia (ospedale da campo) e della tenerezza. Ha a che fare con la missionarietà. Sempre nel discorso consegnato all’udienza succitata Papa Francesco afferma: “In forza dell’amore di Dio che avete incontrato e conosciuto, siete capaci di vicinanza e tenerezza. Così potete essere tanto vicini da toccare l’altro, le sue ferite e le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è espressione di una cura che cancella ogni distanza. Come il Samaritano che passò accanto e vide e ebbe compassione. È qui il movimento a cui vi impegna la vostra vocazione: passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni persona che incontrate; perché il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale che vi chiama ad uno stare consapevole, attento, che sa scorgere, vedere e toccare la carne del fratello”. In EG al n. 49 scriveva: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 3! senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare»”. E ancora al n. 88: “L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo. Perché, così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando. Nel frattempo, il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza”. Considerazioni: - La Chiesa è chiamata ad un annuncio che non risuona dall’alto dei pulpiti (all’Omelia Papa Francesco ha dedicato pagine intensissime nella sua esortazione apostolica perché il predicatore giunga ad una “personalizzazione della Parola” da “far ardere i cuori” cfr EG 142), non risuona nelle dotte conferenze, nelle scuole teologiche, ma nelle relazioni interpersonali dove ciò che è vero e buono passa attraverso la comunicazione del vissuto. - Anche la preoccupazione per le vicende prettamente sociali rientra nello spirito missionario della Chiesa di Papa Bergoglio, perché il vangelo è per tutti e, se qualcuno può essere privilegiato da questo movimento ‘in uscita’, questi deve essere il povero, colui che è stato ferito nella battaglia della vita e cerca qualcuno che gli sia prossimo. - La missionarietà è insita nella consacrazione secolare: la consacrazione, dicevamo, consiste nel dedicarsi al progetto di Dio sulla storia e la secolarità consiste nell’abitarla, condividendone “gioie e speranze, tristezze e angosce”. Da questa posizione, che per noi costituisce un vero e proprio stato di vita, si impone la testimonianza del vangelo: “Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli»” (Mt 5,13-16). - La profezia sta nella chiamata a soccorrere senza giudicare, a evidenziare il positivo all’interno di qualsiasi situazione, a “non aver paura della tenerezza”, a rivalutare tutte quelle virtù umane che rendono vero ogni tipo di rapporto e solidale l’impegno per un mondo nuovo. 4. Rivalutare il senso di appartenenza alla propria comunità vocazionale dove si sperimenta l’essere Chiesa povera per i poveri, si diventa antenne, si dona una testimonianza che attrae. Ha a che fare con la fraternità. don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 4! Il discorso consegnato dal Papa all’udienza del 10 maggio 2014 conteneva anche questa affermazione: “È urgente rivalutare il senso di appartenenza alla vostra comunità vocazionale che, proprio perché non si fonda su una vita comune, trova i suoi punti di forza nel carisma. Per questo, se ognuno di voi è per gli altri una possibilità preziosa di incontro con Dio, si tratta di riscoprire la responsabilità di essere profezia come comunità, di ricercare insieme, con umiltà e con pazienza, una parola di senso che può essere un dono per il Paese e per la Chiesa, e di testimoniarla con semplicità. Voi siete come antenne pronte a cogliere i germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e potete aiutare la comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti”. EG ai nn. 91-92 approfondisce: “È necessario aiutare a riconoscere che l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità. Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!”. Considerazioni: - Il tema delle relazioni è stato sviluppato più volte all’interno dei nostri Istituti. Esse costituiscono infatti il tessuto su cui ricamare la ricchezza del nostro carisma. Senza relazioni tutto si sfalda e rischia di risultare addirittura una contro testimonianza. E non parliamo solo delle relazioni istituzionali, ma anche di quelle esistenziali nei diversi ambiti di vita e di lavoro, nelle diverse situazioni psicologiche e sociali, in famiglia e nella comunità cristiana, relazioni di cui l’esperienza del gruppo diventa punta di diamante, autentico “laboratorio”. - Le ricadute più significative sono quelle del perdono, della collaborazione, del discernimento comunitario, della fraternità. - La fraternità porta a stare sullo stesso piano, non ammette superiorità e sudditanza, richiama il concetto di creaturalità, porta ad accogliere povertà e fragilità proprie e altrui, motiva lo scambio non solo in termini di intesa psicologica ma soprattutto di condivisione della fede e dell’impegno apostolico. - La comunità vive delle esperienze di ciascuno dei suoi membri, gioisce e soffre con loro, e attraverso queste esperienze viene a contatto con il mondo e con la storia imparando a cogliere i segni della presenza del Risorto e irradiando il gusto dell’appartenenza. - La profezia sta nella chiamata a vivere le relazioni interpersonali, soprattutto all’interno dei nostri gruppi, non come una circostanza ma come il luogo dell’ascolto, del dono di sé, della ricerca e della testimonianza della propria identità. 5. Trasmettere la gioia dell’incontro con Cristo e della vicinanza ai fratelli. Ha a che fare con lo spirito francescano. don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 5! Sempre nel discorso del 10 maggio leggiamo: “Insieme ed inviati, anche quando siete soli, perché la consacrazione fa di voi una scintilla viva di Chiesa. Sempre in cammino con quella virtù che è una virtù pellegrina: la gioia!”. Del tema della gioia è intrisa tutta l’EG. Si apre così: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (n. 1). E più avanti descrive l’identità dell’evangelizzatore: “Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: «Qui scopriamo un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo». Di conseguenza, un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, «la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […] Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo»” (n.10). “Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore” (n. 268). Considerazioni: - Non è un generico invito alla gioia, ma la sottolineatura che la gioia è nello stesso tempo contenuto e forma dell’annuncio. La consacrazione secolare mette in comunione piena con la sorgente della gioia, che è Cristo Gesù e il suo Vangelo, e nello stesso tempo domanda una testimonianza che passa più attraverso la vita che la parola. Se i nostri occhi non sprizzano gioia vuol dire che non abbiamo incontrato veramente il Signore e la nostra fede appare stanca, faticosa, senza attrazione. - Nelle relazioni secolari, le più diverse, il primo impatto è dato proprio dalla capacità di irradiare serenità, fiducia, entusiasmo. La comunicazione della fede ha come obiettivo la pienezza della vita, del suo senso, della sua realizzazione, della sua felicità. - La gioia del cristiano non è frutto della fuga dalle problematiche del quotidiano, ma certezza, anche nella prova, dell’amore del Signore che ci raggiunge, ci coinvolge e ci salva. - La profezia sta nella chiamata a rendere ragione della speranza che abita in noi attraverso la testimonianza della gioia, cercata nell’incontro con il Signore e maturata a contatto con la vita quando la si sa leggere nell’ottica della fede. Sono tutte immagini utilizzate da Papa Francesco per indicare con quale volto la Chiesa è chiamata a stare oggi nel mondo e di fronte al mondo. La loro attualizzazione vede gli II.SS. e i loro membri in prima fila, come in trincea, perché questo stile di vita è nel loro DNA. La consacrazione secolare è stata capace di richiamare costantemente la Chiesa a questa sua missione e di far crescere una riflessione e offrire una testimonianza che ha portato al magistero di Papa Francesco. don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 6! Noi non possiamo lasciar passare sotto silenzio questo accostamento non casuale, ma altrettanto profetico, tra l’attuale Pontefice, il Santo di Assisi e la nostra spiritualità. Integrazione francescana di P. Cesare Vaiani I cinque punti evidenziati hanno obiettive connessioni con punti qualificanti della spiritualità francescana. Ripercorriamo i cinque punti evidenziandone la declinazione francescana e i testi di san Francesco di riferimento. Va evidenziato che questa non vuole essere una aggiunta forzata: è perché i contenuti dei cinque punti sono già “obiettivamente” in sintonia con la spiritualità francescana che si può fare questa operazione. Un buon esempio per riconoscere che per essere “francescani” non è essenziale citare san Francesco, ma bisogna dire cose che siano in sintonia obiettiva con la sua esperienza spirituale: come nel nostro caso. 1. Custodire la contemplazione In chiave francescana si può citare l’Ammonizione 1 che propone di passare dal vedere al vedere e credere. Tale passaggio è sostanzialmente la fede (vedere e credere, appunto). In tale passaggio sta la dimensione contemplativa, che altro non è che la fede in esercizio. Nell’Ammonizione 1 sta l’unica ricorrenza del verbo contemplare negli Scritti di Francesco: “oculis spiritualibus contemplantes” (contemplando con occhi spirituali). Gli occhi spirituali sono animati dallo Spirito santo, che è l’agente attivo del passaggio dal semplice vedere al vedere e credere. Da notare che il passaggio proposto non è dal vedere al credere, ma dal vedere al vedere e credere: il vedere continua. Il credente non vede cose diverse dal non credente, ma vede diversamente le medesime cose. Questo vuol dire che l’oggetto della contemplazione non sono gli angioletti o improbabili cose “spirituali”, ma la realtà vista con gli occhi della fede. Due applicazioni di questo atteggiamento in Francesco: Cantico e Testamento. Nel Cantico, a proposito del sole egli dice: “et ellu è bellu e radiante cum grande splendore”: fino a qui è il vedere, possibile a ogni uomo; poi aggiunge subito: “de Te, Altissimo, porta significazione”: questo è il vedere e credere, possibile solo al credente, che non vede un sole diverso dal non credente, ma vede diversamente la stessa realtà, e vi riconosce un rimando a Dio. Questa è la contemplazione francescana, applicabile alle creature (così nel Cantico), ma anche alla propria storia personale: così nel Testamento. Alla fine della vita, nel suo Testamento Francesco rilegge la propria storia con gli “occhi spirituali” che sanno contemplare, cioè vedere e credere: per questo il soggetto del Testamento è “il Signore”. “Il Signore diede a me, frate Francesco, di cominciare così…”, “il Signore mi condusse tra i lebbrosi”, “Il Signore mi dette tanta fede..”, “il Signore mi dette dei fratelli”, ecc. Una rilettura di questo tipo (in cui non dice “Io ho cominciato … io sono andato tra i lebbrosi, ecc.” ma “il Signore…”) è la rilettura credente, “contemplativa”, della propria vita. 2. Camminare per le strade del mondo e abitare le periferie. don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 7! Qui la parola francescana è itineranza. Il luogo della vita di Francesco e dei suoi è la strada. Nelle regole, quando parla della vita / attività dei frati egli usa l’espressione riassuntiva: “andare per il mondo”. Cfr. Rnb 14, tutto il capitolo, intitolato proprio “come i frati debbono andare per il mondo” e Rb 3, 10-14 dove dice: “Consiglio, poi, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo, che quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole e non giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità. In qualunque casa entreranno, dicano prima di tutto: Pace a questa casa; e, secondo il santo Vangelo, sia loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro messi davanti”. È la descrizione di una vita itinerante, dove ancor prima del “che cosa” fare è importante il “come” andare: da minori, sempre. 3. Toccare con mano sullo stile del samaritano, presentando il volto della misericordia. Qui la parola chiave, importante negli Scritti di Francesco, è la parola misericordia. Francesco la usa per indicare la sua conversione, all’inizio del Testamento: “Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia (lat. feci misericordiam). E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo”. In questo testo va sottolineato il parallelo (ancor più convincente nel testo latino originale) tra il fare penitenza (facere penitentiam) e l’usare misericordia (facere misericordiam). Il nome della penitenza (conversione) di Francesco è misericordia: essa è “l’amaro che si muta in dolcezza d’animo e di corpo”. La stessa parola misericordia è fondamentale nella Lettera a un ministro 9-12 (attenzione alle traduzioni italiane, che non sempre traducono il misericordia latino con misericordia, e talvolta preferiscono perdono). E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè che non ci sia mai alcun frate al mondo che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso (misericordiam), se egli lo chiede (letteralmente: se egli chiede misericordia); (10) e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. (11) E se in seguito mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo, che tu possa attirarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia di tali fratelli. (12) E notifica ai guardiani, quando potrai, che da parte tua sei deciso a fare così. In questo testo l’atteggiamento richiesto nella relazione fraterna è la misericordia ad oltranza, non solo con chi ci piace ma anche con il fratello “poco di buono”. Da sottolineare il riferimento allo sguardo (nel testo: “il quale, dopo aver visto i tuoi occhi”) che evoca persone che si guardano in viso, un incontro reale, concreto, quel “toccare con mano” e quel guardare negli occhi di cui parla il Papa. don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 8! 4. Rivalutare il senso di appartenenza alla propria comunità vocazionale. Nel linguaggio francescano è il tema della fraternità. Negli Scritti di Francesco il vocabolo frater (italiano: fratello/frate) è uno dei più ricorrenti: si parla di fratello, più che di fraternità (secondo una caratteristica del linguaggio di Francesco, che privilegia il concreto sull’astratto). La dimensione fraterna è costitutiva dell’esperienza di Francesco: a partire dai fratelli-lebbrosi per passare attraverso il dono dei fratelli-frati, la presenza dell’altro è per Francesco il luogo di rivelazione di Dio. Francesco scopre il Signore attraverso il “sacramento del fratello”: all’inizio sono i fratelli-lebbrosi che rendono possibile la scoperta della conversione, poi saranno i fratelli-frati che rendono possibile la scoperta del Vangelo, come dice Francesco nel Testamento 14: “E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo”. Possiamo chiederci: se non fossero arrivati i fratelli donati dal Signore, Francesco avrebbe compreso la rivelazione del Signore: “vivere secondo la forma del santo Vangelo”? la “rivelazione” è contestuale all’arrivo dei fratelli: essi rendono possibile la scoperta della voce di Dio. Così accade all’inizio, così sarà per tutta la vita di Francesco: basta leggere le Ammonizioni, dove la relazione con Dio è sempre mescolata, e in certo modo verificata, dalla relazione con i fratelli. Francesco ha sperimentato che il primo comandamento tiene insieme, inscindibilmente uniti, l’amore di Dio e del prossimo. 5. Trasmettere la gioia dell’incontro con Cristo e della vicinanza ai fratelli. Si tratta di un tema tipicamente francescano: basti pensare alla maggioranza delle preghiere di Francesco, che sono preghiere di lode, traboccanti di gioia e di esultanza. Tale atteggiamento nasce dalla constatazione di fondo che segna l’esperienza di Dio di Francesco d’Assisi: Dio come bene. Si tratta di una espressione che ritorna numerose volte negli Scritti (Am 7,4: FF 156; 8,3: FF 157; LodAl 3: FF 161; Pater 2: FF 267; Lora 11: FF 265; Rnb 17,18: FF 49; 23,9: FF 70) perché costituisce davvero un elemento fondamentale della immagine che Francesco ha di Dio. don francesco zenna – 23 agosto 2014 Pagina 9!