Sul tetto del mondo, il cielo tocca la terra
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Sul tetto del mondo, il cielo tocca la terra
Sondrio Storie 30 Sabato, 8 gennaio 2011 A N G A T N MO La storia di Oreste Forno/1 - Una vita dedicata all’alpinismo Superare una cresta per vedere altre cime da scalare N omen, omen, un nome un presagio! Eppure, quando i genitori chiamarono Oreste il loro terzo figlio, certo non pensavano al significato di “montanaro”, né che ne avrebbe segnato il maniera tanto profonda tutta la vita. Ed ora che ha cominciato a riavvicinarsi almeno come lavoro alla sua terra, ecco che nei giorni scorsi, Oreste Forno ha voluto presentare presso il salone dell’Oratorio di Berbenno, il comune dove è nato nella frazione di Monastero, il suo ultimo libro Fiori di ciliegio - Bambini anni ‘50, ciak si gira! (edizioni Bellavite, euro 15), facendolo precedere da una proiezione multimediale di diapositive, a illustrare le tappe più significative delle sue straordinarie imprese alpinistiche. Nelle prime pagine del libro, dove i capitoli si susseguono brevi, quasi fotogrammi disegnati con le parole, racconta che a cinque anni cominciò ad avvertire il fascino della montagna. Quella volta, però, l’avventura finì sul nascere, perché Oreste e il suo amico Bruno si imbatterono in un cacciatore del paese che, caricatisi entrambi sulle spalle, li riportò alle madri in ansia per la loro scomparsa. Un altro episodio premonitore lo troviamo nel capitolo I primi sci, avventura conclusasi in maniera comica e poco onorevole, ma che ha lasciato inalterato un desiderio che poi ha trovato pienezza nelle salite e discese scialpinistiche sui monti più alti della terra. La prima conquista fu intorno ai 17 anni quando, presi a prestito ramponi e piccozza, Oreste salì in cima al Disgrazia. Così la racconta nello splendido filmato: «Superare prima il ghiacciaio e poi la cresta fu per me una grande soddisfazione. In cima non trovai quel dono che avevo immaginato da bambino, ma la gioia, sì, fu tanta. Mi guardai attorno e vidi tante altre montagne che mi aspettavano». Seguirono le ascensioni al Cengalo, ai Corni Bruciati, allo Scalino, al Bernina, al Roseg; a 23 anni conquistò il Cervino, salito e disceso rientrando prima di sera. Il giorno successivo era già pronto a salire il Bianco, se non glielo avesse impedito un temporale. Di lì a poco venne la prima ascesa su roccia: in meno di due ore e mezzo salì lo spigolo nord del Badile con ai piedi scarponi di quasi due chili l’uno. A metà pomeriggio era già a Bondo per tornare a casa in macchina, dopo essere sceso alla Gianetti e tornato al rifugio Sasc Fourà attraverso i passi Porcellizzo e Trubinasca. In quegli anni iniziò anche lo scialpinismo con tante salite prima coi colleghi di lavoro, poi con gli istruttori Cai di Lecco, fino a diventare egli stesso istruttore nazionale. La prima avventura lontano dall’Italia la visse con questi amici, a sciare in Marocco sul Grande Atlante e sulle dune di sabbia. Negli anni Settanta il lavoro lo portò negli Stati Uniti, in Minnesota, e forse la lontananza acuì il desiderio e la nostalgia per il superamento di una via, o la conquista di una cima. Eccolo, quindi, lanciarsi verso nuovi traguardi su montagne più alte, organizzando nel maggio del 1983 con un gruppo di Lecco la salita al McKinley (o Denali, la Grande Montagna), la più alta degli Stati Uniti. Fu l’inizio di una serie di grandi ascensioni: nell’84 il Peak Lenin nel Pamir Russo, salito e disceso con gli sci e due amici di Lecco; l’anno dopo la meta fu un ottomila, lo Shisha Pangma. In meno di tre settimane piazzarono i campi per tentare la vetta, ma l’imprevisto si materializzò in un crepaccio che inghiottì Oreste. Fu recuperato dai compagni e visse il calvario interminabile della discesa in barella col bacino rotto e di quaranta giorni in un letto d’ospedale. Riprese a frequentare la montagna ancora con le stampelle e nella primavera successiva era in Perù ad organizzare le salite del Huascarán, del Pisco e del Copa ancora con gli sci. Nell’88 il sogno dell’ottomila divenne realtà sul Cho Oyu, la sesta montagna della terra: a raggiungere la vetta fu una squadra di tre, tra cui il medico alpinista Giuliano De Marchi, scomparso a giugno 2009 sull’Antelao. Al ritorno dei compagni, Forno salì da solo, senza sci, sfidando la tormenta. La gioia della conquista sarebbe stata piena solo il giorno seguente, dopo aver trascorso in quota la notte, accampato in mezzo a una terribile bufera. L’anno successivo gli riuscì di organizzare una spedizione all’Everest con Sergio Martini, Fausto De Stefani e Silvio Mondinelli. Trovate chiuse le frontiere della Cina, ripiegarono sul Dhaulägiri, la Montagna Bianca. Solo una squadra salì la cima (De Stefani e Martini), perché si seppe che i cinesi avevano riaperto le frontiere per l’Everest. Bruciarono le tappe del trasferimento, ma ormai la stagione era troppo avanti, cominciò a nevicare e dovettero ritirarsi tra le valanghe, una delle quali seppellì cinque polacchi Su quella neve Forno e Mondinelli piantarono la piccola croce che papa Giovanni Paolo II aveva donato loro per la vetta. di PIERANGELO MELGARA La storia di Oreste Forno/2. In cima all’Everest. Sul tetto del mondo, il cielo tocca la terra «H o ancora viva e nitida nella mente la voce di Battistino, quando alle tre e quaranta del pomeriggio mi chiamò: Ciao Oreste, siamo in cima! Leo è arrivato su venti minuti prima di me. Tutto bene, ma sta nevicando. Passo. Battista complimenti! Siete stati bravissimi tutti e due. Bravi, complimenti!. Era il 17 maggio 1991: l’Everest era stato conquistato dal versante nord, senza ossigeno, senza portatori e senza corde fisse». Un successo arriso due anni più tardi a una spedizione guidata ancora da Oreste con Graziano Bianchi, Battistino Bonali, Giuliano De Marchi, Fausto De Stefani, Sergio Salini, Leopold Sulovski e il cineoperatore Tomasek. Ma neppure stavolta fu tutto facile. Infatti, il 6 maggio si era Il racconto di un’ascensione a tratti drammatica, conclusa con la conquista della vetta e la salvezza dei compagni. sfiorata la tragedia. Giuliano a Fausto erano partiti per il primo tentativo alla vetta. Tutto era filato liscio fino al campo 3, ma «Dal campo 4, a 8350 metri, alle sei del mattino mi raggiunse via radio la voce di Giuliano: Oreste, Fausto è assopito. Come assopito?- chiesi - cosa vuol dire assopito? È assopito, non riesce più a svegliarsi… Fausto era stato colpito da un edema cerebrale. Mi sembrò che il mondo andasse a pezzi e implorai Giuliano di portarlo giù. A casa Fausto aveva una bambina di nove anni». Oreste fece partire subito dal campo 2 la seconda squadra con Battistino e Leopold, che raggiunsero i compagni all’imbrunire sopra gli ottomila metri. Mentre Battistino, Leopold e Giuliano aiutavano Fausto a scendere, dalla base anche gli altri si muovevano in soccorso. Li incontrarono oltre il campo 1. «Le parole di Giuliano mi fecero capire la drammaticità della situazione. Graziano e io demmo il cambio agli altri, che esausti proseguirono la discesa, mentre noi ci fermavamo con Fausto al campo 1 e Monti chiedeva aiuto a un mio amico sherpa. Al mattino cominciammo a scendere. Speravo che Fausto si riprendesse alla fine del ghiacciaio, invece si lasciò cadere sui massi senza più forze né volontà. L’amico sherpa giunse con un portatore, che se lo caricò sulle spalle, portandolo fino al campo avanzato di una spedizione svedese. Due medici lo visitarono: «Un giorno di ritardo e sarebbe stato spacciato», furono le loro parole... Il giorno successivo Fausto fu portato al campo base, dove una jeep lo stava aspettando e Monti partì con lui per accompagnarlo a Katmandu e in Italia». Ma non era finita: al campo base avanzato c’era Giuliano che, per aiutare Fausto, aveva trascurato se stesso e si era congelato le dita dei piedi. Forno riuscì a far partire anche lui per l’Italia. Al rientro al campo, Battistino e Leopold gli chiesero di fare un ultimo tentativo alla vetta. Si poteva acconsentire dopo quello che era capitato? Come avrebbero potuto aiutarli lui e Graziano da soli? Tuttavia, non se la sentì di impedire di tentare e li lasciò andare dopo aver promesso che al minimo problema sarebbero tornati sui loro passi. «Per fortuna entrambi erano in gran forma. In un giorno salirono al campo due, poi al tre e al quattro e, da lì, superando un passaggio in roccia di quinto grado, raggiunsero la vetta. Lassù, su una bombola lasciata da una spedizione di sherpa qualche giorno prima, fissarono la croce che don Ludovico ci aveva dato per il punto in cui la terra è più vicina al cielo». Ma le pene non erano finite. Era nevicato fino a poco prima e quando si avviarono, era già tardi. «Sarebbero arrivati al campo tre prima di notte? L’angoscia continuò il giorno dopo, quando persi il collegamento radio. Mi sentivo divorare dall’ansia e partii per andare loro incontro. Quando li vidi comparire sul ghiacciaio, mi tolsi un gran peso, ma avevo sofferto troppo per gioire. Avrei gioito poco dopo, quando finalmente potei stringerli tra le braccia: ce l’avevamo fatta!». PI. ME.