Primo Levi L`unità di Se questo è un uomo e La tregua - UvA-DARE
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Primo Levi L`unità di Se questo è un uomo e La tregua - UvA-DARE
Primo Levi L’unità di Se questo è un uomo e La tregua Linee di continuità e opposizioni tematiche Tesi di laurea Floortje de Jonge Relatore: Ronald de Rooij Correlatore: Linda Pennings Universiteit van Amsterdam Facoltà di Scienze Umane Anno accademico 2009-2010 Indice Introduzione 2 Parte prima 1.1 L’unità di SQU e T 1.2 Le due edizioni di SQU (1947 e 1958) 6 11 Parte seconda 2.1 Il tempo 2.2 Lo spazio 2.3 La natura 2.4 Il teatro 30 38 47 72 Conclusione 94 Bibliografia 100 Appendice 104 1 Introduzione Risulta molto chiaramente dal quaderno manoscritto di La tregua che il primo libro di Primo Levi sull’esperienza in Auschwitz, Se questo è un uomo (SQU) e il secondo sul viaggio di ritorno, La Tregua (T) 1 , sono intesi dallo scrittore stesso come libri ‘gemelli’: ‘Metodico come era, Levi ha conservato in una pagina del quaderno manoscritto della Tregua l’elenco dei capitoli nell’ordine in cui compaiono nel libro e accanto ha indicato il numero di righe di ogni capitolo (ogni pagina del quaderno, ha calcolato Levi, è di circa 170 parole). Su due colonne sono invece scritte date di composizione e le parole presenti in ogni capitolo, ma anche, in progressione, la percentuale di parole, capitolo per capitolo, in rapporto alle corrispondenti di Se questo è un uomo; questo spiega anche perché i due libri abbiano una lunghezza quasi identica’ 2 . Molti studiosi hanno rintracciato linee di continuità tra SQU e T. Io credo che il rapporto unitario dei due libri sia ancora più forte: non ci sono solo linee di continuità, ma i due libri devono essere interpretati anche nel loro insieme. Sarà questa l’ipotesi di base su cui si fonda questa tesi di laurea. Sarebbe naturale supporre che il secondo libro che racconta il viaggio di ritorno con Auschwitz dietro le spalle sia permeato da esperienze, angosce, temi presi dal primo libro. Ma credo anche viceversa che il secondo libro ci suggerisca in retrospettiva la chiave interpretativa del primo libro, come se fosse un ‘commento’ sul primo libro. Quale sarà dunque la cornice che unifica questi due libri? A questa domanda si riferisce il titolo – e sarà la seconda ipotesi di base – ‘L’unità di Se questo è un uomo e La Tregua: linee di continuità e opposizioni tematiche’: oltre ai temi ripresi ed alle simmetrie sul livello strutturale – le linee di continuità – penso che i due libri siano legati da opposizioni tematiche, temi che si presentano in SQU e si riprendono in T, ma in un modo diverso: a rovescio. Proprio nel rovesciamento c’è anche l’unità, cioè la complementarità. Si pensi ad opposizioni come vitamorte, mobilismo-immobilità ecc. In più – e sarà la terza ipotesi di base – credo che i due libri siano legati da una linea simbolica, una linea che coesiste con il genere della testimonianza orientato verso la rappresentazione della verità. Ciò sembrerebbe una contraddizione, ma non lo è. Credo che un’interpretazione letterale e simbolica possano coesistere in questo caso. La linea simbolica che si nasconde dietro le immagini ed i temi scelti dallo scrittore non vuole evocare un altro mondo, un mondo trascendentale, ma vuole aggiungere un valore più profondo alla scrittura che 1 Per le abbreviazioni, si veda ‘la bibliografia’. Belpoliti (1998), p.185. Si veda anche le note ai testi in Opere, I, (a cura di Belpoliti, 1997) p.1391: ‘Giovanni Tesio cita un quaderno che ha potuto vedere e che successivamente ha definito “il quasi gemello” di quello della Tregua ma di cui, purtroppo, non ci dice molto’. 2 2 oltrepassa il genere della testimonianza. Secondo me questo simbolismo è anche una delle ragioni per cui si potrebbe definire SQU e T libri fortemente letterari. T è il libro più letterario, anche perché è più narrativo, mentre in SQU coesistono vari generi allo stesso tempo, per cui si potrebbe dividere SQU anche in sezioni più narrative ed altre più descrittive. Infatti la linea simbolica riguarda soprattutto le parti che sono narrative. Nella prima parte esamino soprattutto le linee di continuità, prendendo spunto da quello che è stato detto dalla critica e da Primo Levi stesso sulle linee di continuità in SQU e T per poi aggiungere alcune mie osservazioni (1.1). In 1.2 considero le due edizioni di SQU (del 1947 e del 1958). Secondo me le aggiunte della seconda edizione di SQU rafforzano il rapporto con T, tanto da poter ipotizzare che per la revisione del primo libro Primo Levi abbia già il secondo in mente. Nella critica manca, per quanto io sappia, un’analisi delle aggiunte del ’58 alla luce del libro ‘gemello’, T. Credo che le aggiunte ’58 rivelino molto su come Primo Levi abbia inteso il rapporto tra SQU e T sia sul livello tematico che sul livello strutturale e persino sul livello del tono dei due libri. L’analisi in questa prima parte sull’unità di SQU e T è il punto di partenza per l’analisi nella seconda parte in cui metto in luce altre linee di continuità finora troppo poco considerate dalla critica, e cioè linee che consistono in opposizioni tematiche. Nella seconda parte esamino le opposizioni tematiche sulla base di quattro temi: il tempo, lo spazio, la natura e il teatro. I primi tre sono concorrenti, perché si inseriscono in una linea simbolica che percorre i due libri. Infatti, come vedremo, la rappresentazione del tempo, dello spazio e della natura in SQU e T sembra delineare due mondi diversi, tutti e due ‘nuovi’, il mondo di Auschwitz e la Russia. Dietro le immagini del tempo, dello spazio e della natura in SQU e T si rivelano i valori diametralmente opposti di questi due mondi nuovi e sconosciuti. L’ultimo tema ‘il teatro’ è un po’ a se stante, anche se dimostra esattamente la stessa tendenza all’opposizione tematica presente negli altri temi. Infatti, anche il tema del teatro rivela due mondi diversi, ma in termini diversi rispetto agli altri temi nominati, e cioè in termini di realtà – irrealtà, come vedremo. In più credo che ‘il teatro’ sia un aspetto fortemente presente soprattutto in T, ma sottovalutato dalla critica. Inoltre questo tema potrebbe essere un esempio, perché credo che ci siano anche altri temi in SQU e T che si possono interpretare in questo modo, come opposizioni tematiche. Si pensi per esempio al linguaggio, al sogno, ai personaggi ecc. a cui accennerò brevemente in questa tesi. Per finire un’osservazione che riguarda lo studio dell’opera leviana in generale. La trappola in cui potrebbe facilmente cadere chi studia l’opera di Primo Levi, è l’apparenza di una scrittura limpida e chiara. Infatti, come hanno messo in luce vari studiosi, Primo Levi ha lottato per affrontare il Caos, il buio di Auschwitz attraverso una scrittura più chiara possibile. Ma 3 proprio dietro questa limpidezza si nascondono i lati oscuri. Cito per esempio Ferrero: ‘Levi si è insomma come nascosto dietro la propria chiarezza: ha sempre parlato con il massimo della concisione e dell’efficacia espressiva, ma ha occultato i suoi dubbi piú angosciosi proprio nella cristallina organizzazione del suo raccontare’ 3 . Le linee che rintraccio in SQU e T per rendere due mondi diversi, vengono, come vedremo, anche subito contraddette da altri indizi nei libri. Credo che sia importante tenere presente che la scrittura leviana non si lascia mai ridurre a schemi semplici. Per questo motivo ho provato a rintracciare oltre alle linee di continuità e le opposizioni tematiche, anche i lati ambigui della scrittura leviana nei temi analizzati. 3 Ferrero (1997), introduzione, p.XV. 4 PARTE PRIMA 5 1.1 L’unità di SQU e T In Italia a partire dal 1972 SQU e T sono sempre usciti in un unico volume; in questo modo anche la casa editrice sembra voler sigillare la loro unità. Levi stesso 4 ha detto che i libri gli venivano sempre gemellati 5 , e quest’affermazione vale anche per SQU e T. Dall’altra parte Primo Levi stesso ha sottolineato anche la rottura tra SQU e T. Nella prefazione all’edizione scolastica di T scrive: Se questo è un uomo ebbe successo, ma non tale da farmi sentire “scrittore” a pieno titolo. Avevo detto quanto dovevo dire, avevo ripreso la mia professione di chimico, non provavo più quel bisogno, quella necessità di raccontare, che mi avevano costretto a prendere la penna in mano. Tuttavia, questa esperienza nuova, così estranea al mondo del mio lavoro quotidiano, l’esperienza dello scrivere, del creare dal nulla, del cercare e trovare la parola giusta, del fabbricare un periodo equilibrato ed espressivo, era stata per me troppo intensa e felice perché non desiderassi ritentare la prova. Avevo ancora molte cose da narrare: non più cose tremende, fatali e necessarie, ma avventure allegre e tristi, paesi sterminati e strani, imprese furfantesche dei miei innumerevoli compagni di viaggio, il vortice multicolore e affascinante dell’Europa del dopoguerra, ubriaca di libertà e insieme inquieta nel terrore di una nuova guerra. Sono questi gli argomenti di La tregua, il libro del lungo viaggio di ritorno. Credo si distingua agevolmente che esso è stato scritto da un uomo diverso: non solo più vecchio di 15 anni, ma più pacato e tranquillo, più attento alla tessitura della frase, più consapevole: insomma più scrittore in tutti i sensi buoni e meno buoni del termine (Op.I, pp.1144-1145) 6 . Dobbiamo stare attenti però a proposito di quello che dice Levi su se stesso, perché a volte ha la tendenza a mitizzare la propria attività di scrittore 7 . Primo Levi parla di una distanza di più di 15 anni, dalla prima pubblicazione di SQU (1947) alla prima pubblicazione di T (1963) 8 . Ma la storia della stesura dei libri fa vedere una linea molto più graduale 9 . Infatti, di SQU ci sono due edizioni (1947) e (1958), assai differenti. Per le differenze, le conseguenze e per l’unità di SQU e T, si veda il capitolo 1.2 Le due edizioni di SQU (1947) e (1958). La stesura di T fa vedere uno sviluppo diverso. T è stato scritto tra il 1961 e il 1962. Ma i primi due capitoli risalgono già al 4 Secondo la teoria letteraria, si dovrebbe fare una netta distinzione tra scrittore, persona vera e propria e personaggio. Nel caso di Primo Levi questo è estremamente problematico. Sarebbe molto artificioso fare questa distinzione, anche perché Primo Levi stesso commenta spesso anche la sua opera. Come si potrebbe dunque escludere la persona vera e propria? Dall’altra parte è anche vero che a volte – soprattutto in SQU – è molto difficile sapere chi parla esattamente: Primo Levi scrittore che scrive ora, il narratore onnisciente oppure Primo Levi personaggio. Nonostante questa difficoltà, mi riferisco in questa tesi sempre a Primo Levi senza fare distinzione tra queste diverse istanze, a meno che non sia necessario per evitare ambiguità, semplicemente perché non è l’argomento della mia tesi. 5 Grassano (1981), p.74. 6 I riferimenti alle opere di Primo Levi sono tratti dall’edizione Einaudi, in due volumi, curata da M. Belpoliti (Primo Levi, Opere, volumi I-II, Einaudi, Torino 1997) e sono indicati dal numero del volume, seguito dalla pagina. Per la storia della stesura raccontata da Primo Levi stesso, si confronti anche il capitolo Cromo (SP). 7 Si pensi per esempio al ‘mito’ della scrittura spontanea di SQU. 8 Per la storia della pubblicazione di SQU e T, si vedano le biografie: Thomson (2002), Angier (2002), Anissimov (1998). 9 In più entrambi i libri nascono da racconti orali. Per una bella sintesi, si veda Belpoliti (1998) sotto le voci ‘Se questo è un uomo’ e ‘La Tregua’. 6 1947-1948 10 . Sfortunatamente non ho potuto vedere il quaderno manoscritto di T, in possesso di Giovanni Tesio. Sarebbe soprattutto molto interessante per questi primi due capitoli. Infatti, suppongo in questa tesi (parte seconda) una rottura tematica in T fra i primi due capitoli che si collegano perfettamente a SQU per vari motivi e gli altri capitoli. In più credo che il secondo capitolo dovrebbe essere considerato come capitolo di transizione, transizione dal ‘vecchio’ mondo di Auschwitz al ‘nuovo’ mondo post-Auschwitz. Se la mia analisi fosse corretta, si potrebbe tracciare una linea tematica che coincide con la storia della stesura con T. Che tra SQU e T ci siano linee di continuità, è stato affermato tante volte nella critica. Prima di tutto, come sostiene Cavaglion, Primo Levi rimane uno scrittore ‘unius libri’ 11 . Cavaglion spiega come Levi torni sempre al primo libro: riprende un tema, un aneddoto, un personaggio da SQU, ampliandolo ed arricchendolo in un nuovo libro o racconto come un commento o una copiosa nota a piè di pagina, una procedura che Cavaglion paragona al termitaio, metafora usata da Levi stesso: ‘il termitaio Se questo è un uomo che non ha mai smesso, nemmeno per un attimo, di agitarsi, di riprodursi, di lasciare, dietro a sé, una scia’ 12 . Cavaglion ne dà alcuni esempi. Di T nomina il sogno finale: ‘“sogno” = il racconto della prigionia e l’incubo di non essere ascoltati, sogno raccontato per la prima volta in Se questo è un uomo e poi ripreso in un primo ‘commento’ nella pagina conclusiva de La tregua’ 13 . Come spero di mostrare in questa tesi, si potrebbe applicare quest’idea del ‘termitaio SQU’ anche a temi presi da SQU, ma presenti come temi capovolti, contrastanti in T che uniscono profondamente i due libri. Anche a un livello più profondo, quello simbolico, credo che si possa rintracciare una linea che pervada i due libri. L’idea del ‘termitaio SQU’ non vale solo per T, ma per tutta l’opera leviana. Cosa hanno detto i critici a proposito di SQU e T in specifico? I critici hanno soprattutto confermato l’unità dei due libri in termini letterari ed intertestuali. Hanno chiamato SQU l’inferno, T il purgatorio, riferendosi chiaramente a Dante 14 . Hanno indicato anche Omero come modello. Italo Calvino per esempio sul risvolto di copertina di T definisce SQU l’Iliade e T l’Odissea 15 . Ci sono poi anche molte riprese strutturali e tematiche che confermano l’unità. La scena di apertura di T riprende quasi letteralmente la scena finale di SQU: 10 Zaccaro (2003), p.82: ‘I primi due capitoli, come Levi stesso dichiara – in una conversazione con Carlo Paladini dice infatti di aver scritto un capitolo o due già nel ’47-’48 su sollecitazione di Franco Antonicelli e Sandro Galante Garrone, “a cui raccontavo in altro modo le storie di questo complicato rimpatrio” -, erano stati scritti tra il 1947 e il 1948, a proseguimento di Se questo è un uomo’. 11 Cavaglion (1997b), p.79 12 Ivi, p.90 13 Ivi, p.88 14 Per esempio Calcagno (2000), p.173, Mattioda (2000), p.189-190, Biasin (2001), pp.4-5 7 La tregua si apre con la scena dell’arrivo dei soldati dell’Armata Rossa, che è esattamente la scena che conclude Se questo è un uomo (Del Giudice considera infatti questi due romanzi come una successione narrativa) tanto da far pensare – come sostiene Belpoliti che Levi abbia scritto il racconto della liberazione in due differenti versioni: una, sotto forma di diario, è la Storia di dieci giorni, l’altra è invece il primo e secondo capitolo della Tregua, in cui narra l’epilogo della sua liberazione, la malattia e il trasferimento al Campo Grande di Auschwitz 16 . Mengaldo invece sottolinea anche la rottura: La Tregua (...) è sì il secondo tempo di Se questo è un uomo, cui si lega direttamente nelle stupende pagine iniziali sulla liberazione di Auschwitz, con la sequenza lenta e solenne dei giovani soldati dell’Armata Rossa che incedono straniti per il campo, alti sui loro cavalli; ma ne è pure il rovescio, e trae una parte della sua suggestione proprio da questa totale diversità di ritmo e di atmosfera. Più che come una rievocazione biografica, io preferisco leggerlo come un singolare romanzo picaresco moderno ... 17 Molti temi del primo libro ritornano in T. Si pensi ad esempio al sogno 18 , ai paragoni animaleschi, alla fame 19 , alla centralità dell’uomo 20 per nominarne alcuni segnalati dalla critica. Vorrei aggiungere alcune simmetrie sul livello strutturale. La struttura di SQU e T è simile: una poesia che apre il libro, diciassette capitoli ed una lunghezza quasi identica (si veda capitolo 1.2). I libri aprono tutti e due con la tematica della vita e la morte. SQU si apre con riti che costituiscono il congedo dalla vita, T si apre al contrario con una scena di morte che si trasforma poi in vita. Poi alla fine del primo capitolo c’è il viaggio in autocarro (il Caronte) verso la morte/ l’inferno (SQU) e il viaggio in carro (Yankel) verso la libertà e la vita (T). Poi la vita nel ‘nuovo’ mondo è segnata da un bagno simbolico nel secondo capitolo di SQU e T. Infatti, in T Levi si riferisce esplicitamente al bagno in Auschwitz ed attribuisce ai bagni un valore simbolico. Si noti anche come il bagno nel Lager venga chiamato ‘un bagno grottesco-demoniaco-sacrale’ che riprende esattamente l’atmosfera del bagno descritto in SQU (si veda il capitolo 2.4): Anche qui, come ad ogni svolta del nostro cosí lungo itinerario, fummo sorpresi di essere accolti con un bagno, quando di tante altre cose avevamo bisogno. Ma non fu quello un bagno di umiliazione, un bagno grottescodemoniaco-sacrale, un bagno da messa nera come l’altro che aveva segnato la nostra discesa nell’universo concentrazionario, e neppure un bagno funzionale, antisettico, altamente tecnicizzato, come quello del nostro passaggio, molti mesi piú tardi, in mano americana: bensí un bagno alla maniera russa, a misura umana, estemporaneo ed approssimativo. Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri, era agevole ravvisare, dietro all’aspetto concreto e letterale, una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte della nuova autorità 15 ‘Dopo l’Iliade mortale del Lager, questo libro descrive l’Odissea del ritorno’ (Calvino). Per il risvolto di copertina, si veda il sito del Centro Interazionale di Studi Primo Levi: www.primolevi.it. Biasin (2001), p.7 considera Dante come modello primario per SQU e Omero per T. 16 Zaccaro (2003), p.91-92 17 Mengaldo (1989), p.97 18 Belpoliti (2000) 19 Biasin (2001), pp.5-6 20 Benchouiha (2006), p.24 8 che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera, di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio (Op.I, T, p.212). Infine si pensi alle due figure ‘guida’ che vengono introdotte tutte e due nel terzo capitolo: Steinlauf (SQU) e Mordo Nahum (T) e di cui parlerò in 1.2. Di queste simmetrie strutturali molte sono state aggiunte nel 1958: un nuovo capitolo in SQU, la figura di Caronte e la figura di Steinlauf. Infatti, come sosterrò in 1.2 molte delle aggiunte servono per rafforzare la continuità e l’unità tra SQU e T. Finora abbiamo esaminato le simmetrie. Recentemente (soprattutto a partire dai due studi fondamentali del 1997 21 ) sono stati messi in luce aspetti che riguardano strutture simmetriche, ma anche appunto quelle asimmetriche, ossia le simmetrie asimmetriche 22 . L’interesse di Primo Levi per l’asimmetria risale al periodo ante-Auschwitz, perché la sua tesi di laurea in chimica era dedicata a quella tematica, all’inversione di Walden, in cui esamina il concetto dell’enantiomorfismo, una simmetria, ma solo parziale come la mano destra e la mano sinistra. Nel saggio L’asimmetria e la vita (1984) Levi riprende questa tematica e sottolinea come l’assimetria è fortemente legata alla vita, perché ‘la maggior parte delle sostanze asimmetriche appartengono al mondo vivente’ 23 . Questo interesse di Primo Levi per la simmetria, l’asimmetria e l’enantiomorfismo si rispecchia anche nella sua scrittura. Infatti, in vari libri ritroviamo queste forme e strutture 24 . Linguisticamente la tendenza all’asimmetria si esprime nella figura dell’ossimoro che si potrebbe considerare la figura stilistica leviana per eccellenza, come ha rivelato Mengaldo: ‘Di fatto, la figura stilistica regia, per frequenza e qualità, dell’opera di Levi è quasi certamente l’ossimoro (in senso lato)’ 25 . Questa tendenza si collega al tentativo di Primo Levi di imporre ordine a un mondo caotico, dopo il fiasco dell’ordine cartesiano a cui Primo Levi credeva prima della deportazione ad Auschwitz: Davvero questo spiegamento di ossimori è il massimo omaggio che la razionalità di Levi, naturalmente chiara e distinta, e semplificatrice, abbia reso alla complessità ardua, al caos, alla contraddittorietà e all’ambivalenza, irriducibili e conturbanti, che abitano tanta parte della realtà; l’ossimoro è la figura di compromesso fra queste due forze opposte, in cui quella limpidezza insieme resiste e cede al proprio necessario oscurarsi 26 . 21 AA. VV. (1997a) Primo Levi, “Riga” 13 e AA. VV. (1997b) Primo Levi: un’antologia della critica. Per esempio Cavaglion (1997a) e Belpoliti (1998). 23 Belpoliti (1998), p.156 24 Per alcuni esempi si vedano Cavaglion (1997a) e Belpoliti (1998). 25 Mengaldo (1997), p.233 26 Ivi, p.237 22 9 Molto interessante trovo l’articolo di Belpoliti su sogni, incubi e risvegli nell’opera di Primo Levi (Belpoliti (2000)). Belpoliti rivela che esiste un rapporto enantiomorfo tra il sogno nella poesia che apre T e il sogno finale: Constatato che non si tratta del medesimo sogno, ma di due sogni diversi, ci si accorge ben presto che tra i due sogni narrati da Levi c’è una simmetria: il sogno del Lager è il rovescio del sogno della vita normale, una simmtria non simmetrica, poiché i due sogni non combaciano affatto. Sognare di tornare e non essere ascoltati non è certo sognare di essere tornati e tuttavia di essere ancora nel Lager. Quello che lega i due sogni è quel “Wstawać”. I due sogni sono enantiomorfi, identici, eppure rovesciati... 27 Secondo Belpoliti questo rapporto enantiomorfo esiste anche tra SQU e T: ‘Anche i due sogni che aprono e chiudono La tregua sono sogni enantiomorfi, così come i due primi libri di Levi, Se questo è un uomo e La Tregua sono libri enantiomorfi in cui è difficile stabilire quale sia la mano destra e quella sinistra’ 28 . Credo che a quest’ipotesi si colleghino perfettamente la mia ipotesi di opposizioni tematiche e la linea simbolica in SQU che si esprime in modo rovesciato in T che uniscono SQU e T e che si possono dunque anche considerare come simmetrie asimmetriche. 27 28 Belpoliti (2000), p.66 Ivi, p.67 10 1.2 Le due edizioni di SQU (1947 e 1958) Introduzione Di SQU esistono due versioni: l’edizione De Silva, uscita nel 1947, e quella Einaudi, uscita nel 1958. Tra queste due edizioni le differenze sono notevoli. Nella seconda edizione del ’58 Primo Levi ha aggiunto diciassette o diciotto pagine 29 ed anche un nuovo capitolo. Giovanni Tesio (1977), che ha visto anche il manoscritto e il quaderno, ha esaminato queste differenze per la prima volta. Nell’opera completa di Primo Levi in due volumi, c’è un confronto tra le diverse varianti 30 . Il ‘dizionario’ di Belpoliti (1998) offre una bella sintesi della stesura del testo. In queste analisi si discutono le differenze e le varianti: le conseguenze dei cambiamenti sul microlivello testuale e a volte anche le conseguenze per il testo nel suo insieme e alla fine la ‘particolare architettura del libro’, costruito come ‘tessere’: ...rileggendo queste varianti, ci si rende conto che Levi lavora per accumulo, per inserimenti, aggiunte, come se il libro fosse uno spartito a cui è sempre possibile aggiungere una nota o una manciata di note senza con questo variare la sinfonia, o almeno l’ordito generale, per quanto senza quel grappolo che ora ascoltiamo la musica non sarebbe più la stessa. Questo significa che ogni frase ha un valore a sé, ma in ogni brano è contenuto il disegno generale, come se si trattasse di un ologramma: anche dividendo in piccoli pezzi ogni pagina di Levi – lo dimostra la variante non utilizzata –, il disegno d’insieme risulta comunque presente in ogni singolo frammento; per questo lo scrittore può continuare a lavorare ai propri testi senza alterarli nel loro insieme 31 . Quello che manca, però, è un’analisi delle aggiunte del ’58 alla luce del libro ‘gemello’ La Tregua. Come sappiamo in base al quaderno manoscritto di T – si veda l’introduzione –, T era inteso come libro ‘gemello’ da Primo Levi stesso. Si deve tener conto anche del fatto che tra l’uscita della prima edizione di SQU, nel 1947 e quella della seconda edizione del 1958 sono passati più di dieci anni, mentre T è stato pubblicato nel 1963, solo cinque anni dopo la seconda edizione di T. Quindi non sarebbe molto sorprendente se ci fosse un avvicinamento tra la seconda edizione di SQU e T. Quali sono dunque le conseguenze delle aggiunte del ’58 per la connessione con T? Le considererò da vari punti di vista – ritratti umani, il nuovo capitolo, Dante, leggerezza, ed altre aggiunte – che mi sembrano convenienti alla luce dell’unità con T. Resta da dire per la linea generale che le aggiunte (di diciassette/ diciotto pagine) si trovano soprattutto nei primi cinque capitoli e negli ultimi capitoli. Considero solo gli interventi 29 Belpoliti (1998), p.152 parla di circa trenta pagine nuove. Non so su quale edizione sia basata questa affermazione, ma nell’edizione curata da Belpoliti (opere complete) le aggiunte sono tra diciassette e diciotto pagine. 30 Op.I, note ai testi, pp.1391-1406. 31 Ivi, p.1398 11 maggiori che riguardano frasi intere. Li ho potuti trascrivere facilmente grazie alla versione digitale di SQU con le note di Cavaglion (2000) 32 . Interpretazioni diverse dalla mia forniscono per esempio Mesnard (2008) e Ferrero (2007) 33 . I ritratti umani La maggior parte delle aggiunte del ’58 riguarda l’inserimento di ritratti umani, soprattutto ritratti positivi. Nell’edizione del 1947 oltre alle vittime i ritratti positivi sono: Walter Bonn, l’ingegner Kardos, Resnyk, Jean, Lorenzo, Alberto, l’ultimo ed i due francesi Arthur e Charles (per il loro comportamento umano nel Lager oppure per la loro dignità umana – si veda l’analisi che segue). Nell’edizione del 1958 sono stati aggiunti come ritratti positivi: Schlome, Diena, Steinlauf, Chajim ed Alberto 34 . Degli altri ritratti aggiunti, c’è un ritratto di un soldato tedesco (il Caronte): un personaggio ambiguo e unico in SQU, cioè nemico ed umano allo stesso tempo, c’è Flesch, un personaggio per cui Levi prova soprattutto rispetto, c’è un ragazzo francese che figura nel secondo capitolo come personaggio negativo e c’è alla fine Emilia, la bambina, morta in Auschwitz. Predominano dunque le aggiunte di ritratti positivi. Di conseguenza il messaggio di SQU è, come vedremo, cambiato da un messaggio molto cupo ad un messaggio ambiguo. Consideriamo prima il messaggio dell’edizione del 1947, per vedere poi quali siano le conseguenze delle aggiunte per il messaggio del ’58. Alla fine facciamo un confronto con il libro ‘gemello’, T. Il titolo del libro ‘Se questo è un uomo’ è preso dalla poesia in apertura ed è una domanda rivolta al lettore: ‘Considerate se questo è un uomo/ Che lavora nel fango/ Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane? Che muore per un sí o per un no./ Considerate se questa è una donna ... ecc.’. Troviamo la risposta a questa domanda esplicitamente nel capitolo I fatti dell’estate. Questo capitolo è dedicato parzialmente a Lorenzo, l’operaio ‘civile’ italiano, a cui Levi deve la sua vita, come spiega: ...non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi (Op.I, SQU, pp.117118) 35 . 32 Si veda l’appendice. Per le correzioni minori, si vedano le note ai testi. Mesnard (2008), pp.96-102 e Ferrero (2007), pp.34-37. 34 Alcuni di loro sono già stati nominati nella versione del 1947. Ma nella versione del ’58 le aggiunte li rendono più esplicitamente positivi ed umani. 35 Per questa concezione umanistica, si veda anche Amsallem (1993), p.115. 33 12 Per Levi Lorenzo era il simbolo di una speranza, che gli ricordava di essere uomo, perché nel Lager non c’erano più uomini. Ecco la risposta alla domanda ‘considerate se questo è un uomo’: I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna. Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo (Op.I, SQU, p.118) 36 . In SQU la parola uomo è densa di significato. L’esperienza in Auschwitz e la distruzione dell’uomo che lo scrittore ha visto e vissuto, lo porta alla domanda e conseguentemente anche alla ridefinizione di che cosa sia l’umanità e che cosa significhi essere uomo. Anche nel capitolo L’ultimo troviamo questo significato pregnante della parola uomo. In questo capitolo viene impiccato qualcuno che ha preso parte ad una rivolta contro i tedeschi. È l’ultimo in doppio senso: l’ultimo che viene impiccato, ma anche l’ultimo vero uomo, uno che non si è rassegnato, muore da uomo en non da bestia: L’uomo che morrà oggi davanti a noi ha preso parte in qualche modo alla rivolta [....] Morrà oggi sotto i nostri occhi: e forse i tedeschi non comprenderanno che la morte solitaria, la morte di uomo che gli è stata riservata, gli frutterà gloria e non infamia (Op.I, SQU, p.145). È l’ultimo vero uomo: il grido del morente ‘penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi’ (Op.I, SQU, p.145), ma senza reazione, perché ‘non vi sono più uomini forti fra noi’ (Op.I, SQU, p.146). Quando verranno i russi ‘non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende’ (Op.I, SQU, p.146). Il messaggio è chiaro e molto cupo. Infatti, l’unico uomo vero e proprio è fuori dal Lager (Lorenzo) e l’ultimo uomo è stato impiccato prima che vengano i russi. Uomini non ci sono più. Forse l’unico momento di speranza in questa versione del ’47 è il capitolo Il canto di Ulisse, in cui Levi recita a Jean da questo canto dantesco. Nel contesto di Auschwitz questo canto dantesco assume un nuovo valore: diventa un alto momento di umanità, una metafora di ribellione, l’infrazione della barriera che per Ulisse era un atto di hybris, diventa in questo contesto una facoltà di negare il consenso ai tedeschi: l’umanesimo come espressione di opposizione alla disumanizzazione. I versi ‘Considerate la vostra semenza:/ Fatti non foste a 36 Il corsivo è sempre mio. 13 viver come bruti,/ Ma per seguir virtute e conoscenza 37 ’ riguardano, come sostiene Boitani38 soprattutto Levi stesso, perché più avanti Levi scrive: ‘Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio’ (Op.I, SQU, p.109). Lui stesso sente dunque la voce di Dio: un appello di non vivere come ‘bruto’, ma per ‘seguir virtute e conoscenza’ 39 . Boitani spiega giustamente come Levi rovescia il senso originale della terzina, attribuendoci un nuovo senso: In un sol colpo, dal Lager di Auschwitz, Levi annienta la lettura critica ortodossa e tradizionale della terzina. Nel mezzo della catastrofe della civiltà europea la realtà del presente e la cultura classico-umanistica di un Ebreo italiano fanno coincidere il desiderio pagano di conoscenza e virtù con il destino primigenio dell’uomo, prima del peccato originale, nella Genesi: fatto non a viver come bruto, ma appunto, secondo “la voce di Dio”, a Sua immagine e somiglianza 40 . Boitani spiega la ricerca di ‘non viver come bruto, ma per seguir virtute e conoscenza’ in termini biblici. Ma forse l’appello a questo modo di vivere per i deportati, riguarda anche il particolare modo in cui Levi stesso vede l’umanità in SQU: il codice etico, il comportamento umano e la dignità umana che si legge nei ritratti di Lorenzo, dell’ultimo, ma anche degli altri che seguono nell’analisi qui sotto. Nonostante questo momento di umanità – come commenta Levi nell’ultimo libro I sommersi e i salvati a proposito di questo passo in SQU, ‘una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso’(Op.II, SES, p.1101) – il brano finisce in modo molto cupo, con il commento sull’anacronismo dantesco ‘come altrui piacque’ (Op.I, SQU, p.110) che nel canto dantesco significa un Dio che punisce Ulisse per la sua hybris, nel contesto del Lager dovrebbe significare un Dio a cui piacque forse il destino degli ebrei, come suggerisce il commento fornito da Levi personaggio: ‘ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...’ (Op.I, SQU, p.111) 41 . Questo capitolo si deve anche interpretare come un intermezzo (‘una vacanza’), un unico momento di umanità nel mondo di disumanizzazione. Il capitolo finisce con l’ultimo verso 37 ‘conoscenza’, in Dante: ‘canoscenza’. Infatti i versi danteschi citati in questo capitolo differiscono talvolta leggermente dal testo della Commedia stabilito da Petrocchi e poi universalmente adottata. 38 Boitani (1992), p.185. 39 L’aggiunta del 1958 (l’aggiunta è in corsivo) rafforza soprattutto il nuovo significato del canto dantesco che acquista un senso che riguarda i deportati stessi: ‘Considerate la vostra semenza:/ Fatti non foste a viver come bruti,/ Ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di piú: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e fretoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle’ (Op.I, SQU, pp.109-110). 40 Boitani (1992), p.185. 14 dantesco del canto ‘Infin che il mar fu sopra noi richiuso’ che esprime nel contesto di Auschwitz il ritorno al mondo del Lager. Insomma, il messaggio del ’47 era molto cupo: gli uomini non ci sono più e l’unico momento di speranza finisce in modo cupo ed è alla fine solo un intermezzo (‘infin che il mar fu sopra noi richiuso’) 42 . Vediamo ora come il messaggio del 1958 si sia spostato da un messaggio molto cupo ad un messaggio ambiguo attraverso l’inserimento di personaggi positivi. Forse il personaggio più notevole, è Steinlauf. Figura solo nel capitolo 3, capitolo interamente aggiunto, e non appare più altrove. Nel capitolo 3 Levi descrive il lavatoio, dove lavarsi nell’acqua torbida è praticamente inutile, ma ‘importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale’ (Op.I, SQU, p.33). È il sergente Steinlauf che gli impartisce questa lezione, proprio come un maestro ad un allievo che ha ancora tante cose da imparare: (si veda l’analisi qui sotto Il nuovo capitolo) che ‘si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà’, perché è l’unica facoltà rimasta, ‘la facoltà di negare il nostro consenso’: ...che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni difesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarsi nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché cosí prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire (Op.I, SQU, p.35). Dei ritratti aggiunti ci sono due altri che costituiscono esempi di ‘sopravvivenza morale’, esempi di quelli che hanno saputo conservare la loro dignità umana: Chajim ed Alberto. Chajim ed Alberto sono già presenti nella versione del 1947, le aggiunte mettono soprattutto in rilievo la loro dignità umana. Nel capitolo 4 Chajim viene introdotto, quando Levi viene ammesso in KaBe con una ferita al piede: Chajim si felicita con me: ho una buona ferita, non pare pericolosa e mi garantisce un discreto periodo di riposo. Passerò la notte in baracca con gli altri, ma domani mattina, invece di andare al lavoro, mi debbo 41 Si veda l’analisi di Boitani (1992), pp.185-188. Dante: ‘infin che ’l mar fu sovra noi richiuso’ (edizione Petrocchi). Curiosamente nella versione del ’58 questo ultimo verso cambia in “Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”. Cavaglion (2006) ha notato che questo potrebbe essere un lapsus, perché la lettura del ’47 segue fedelmente il testo dantesco e ‘richiuso’ vuole dire quando il mare si chiude; ma ‘rinchiuso’ vuol dire essere imprigionato, cioè un Ulisse prigioniero, come era lui: ‘Dieci anni dopo, come se di nuovo “rinchiuso” in Lager, si lascia tradire da una ricostruzione a memoria e cede alla lectio facilior’ (Cavaglion (2006), p.1). Questo lapsus rientra perfettamente tra le metafore di chiusura (Cavaglion, (2006), p.1), si veda il capitolo 2.2. 42 15 ripresentare ai medici per la visita definitiva: questo vuol dire Arztvormelder. Chajim è pratico di queste cose, e pensa che probabilmente domani verrò ammesso al Ka-Be (Op.I, SQU, p.41). Nel 1958 Levi aggiunge: Chajim è il mio compagno di letto, ed io ho in lui una fiducia cieca. È un polacco, ebreo pio, studioso della Legge. Ha press’a poco la mia età, è di mestiere orologiaio, e qui in Buna fa il meccanico di precisione; è perciò fra i pochi che conservino la dignità e la sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati (Op.I, SQU p.41). La sua dignità umana risiede nell’esercitare un’arte (fa il meccanico). Questa tematica, l’etica del lavoro, ritornerà spesso in altre opere e soprattutto nel libro La chiave a stella 43 . Nella versione del ‘47 Alberto entra in scena nel capitolo 5 senza parole introduttive. Da qui in avanti Alberto sarà una presenza costante in SQU, l’amico di Levi tanto da poter parlare di uno sdoppiamento, una dualità (‘Alberto ed io’) fino al momento della separazione nell’ultimo capitolo in cui Levi rimane nel Lager fra i malati, mentre Alberto parte per la marcia di evacuazione che porterà alla sua morte. Nella versione del ’58 due brani vengono aggiunti (nel capitolo 5 e nel capitolo 15) che ribadiscono l’amicizia tra di loro e la dignità umana. Si notino nel passo aggiunto nel capitolo 5 la composizione anulare per sottolineare l’amicizia (‘il mio migliore amico’ ..... ‘amico’ (Op.I, SQU, p.51)) e la virtù umana (soprattutto: ‘Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. [....] non è diventato un tristo44 . Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte’ 45 ): Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidueanni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. «Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte. Non sono però riuscito a ottenere di dormire in cuccetta con lui, e neppure Alberto ci è riuscito, quantunque nel Block 45 egli goda ormai di una certa popolarità. È peccato, perché avere un compagno di letto di cui fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è un inestimabile vantaggio; e inoltre, adesso è inverno, e le notti sono lunghe, e dal momento che siamo costretti a scambiare sudore, odore e calore con qualcuno, sotto la stessa coperta e in settanta centimetri di larghezza, è assai desiderabile che si tratti di un amico (Op.I, SQU, p.51). 43 Cavaglion (2000), capitolo 4, nota 1, p.80. Come afferma Cavaglion (2000), capitolo 5, nota 5, p.97, la parola ‘tristo’ è parola dantesca: ‘È detto naturalmente nel senso dantesco, di afflitto, di perseguitato (Inf. XIII, 145 o anche VII, 106). Esiste una differenza di significato fra «tristo» e «triste»: «tristo» è l’uomo che le sventure hanno reso non solo triste, ma anche malvagio e odioso agli altri’. 45 Per l’intertestualità dell’ultima frase, si veda Cavaglion (2000) capitolo 5, nota 7, pp.102-103. 44 16 Secondo Cavaglion Alberto è ‘la prima rappresentazione concreta dell’ideale leviano di amicizia’ 46 . L’amicizia diventerà un tema ricorrente nell’opera di Primo Levi. In questo modo l’amicizia tra Levi ed Alberto anticipa tra l’altro quella tra Levi e Mordo Nahum (il greco) e Levi e Cesare in T. Forse assomiglia di più quella tra Levi e Cesare, perché l’amicizia tra Alberto e Levi è fin dall’inizio un’amicizia tra pari (per il rapporto tra Levi e Mordo Nahum, si veda sotto Il nuovo capitolo). Interessante per il parallelismo con T è anche l’osservazione; ‘Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra’ (Op.I, SQU, p.51). Infatti, un’eco molto chiara ritroviamo in T: per Mordo Nahum la visione sulla vita si riassume nel suo detto ‘Guerra è sempre’ (Op.I, T, p.242) e ‘Guerra è sempre, l’uomo è lupo all’uomo: vecchia storia’ (Op.I, T, p.242) e poi anche nei pensieri di Levi: ‘‘Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre’ (Op.I, T, p.245). Anche nell’altro passo aggiunto su Alberto si evidenzia l’amicizia e la sua virtù umana (‘sangue ... libero’, ‘il mio amico non domato’): Molti compagni si congratulano; primo fra tutti Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia. Alberto non trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è toccata, e ne è anzi ben lieto, sia per amicizia, sia perché ne trarrà lui pure dei vantaggi: infatti noi due siamo ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza, per cui ogni boccone «organizzato» viene diviso in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rientrava né nelle sue speranze, né pure nei suoi desideri. Il sangue delle sue vene è troppo libero perché Alberto, il mio amico non domato, pensi di adagiarsi in un sistema; il suo istinto lo porta altrove, verso altre soluzioni, verso l’imprevisto, l’estemporaneo, il nuovo. A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare gli incerti e le battaglie della «libera professione» (Op.I, SQU, p.134-135). Abbiamo finora visto come i brani aggiunti offrono tre possibilità diverse per rimanere ‘umano’: Steinlauf si oppone al sistema tedesco perseverando nei propri intenti di ‘salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà (Op.I, SQU, p.35)’, Chajim trova la sua virtù nel mestiere (etica di lavoro) e Alberto è uno che non è corrotto, è rimasto simpatico e non si è lasciato domare dai tedeschi. Agli antipodi di quelli che sono ridotti a bestie, si contrappongono questi esempi di come si possa conservare l’umanità nel Lager. La risposta della versione del ‘58 sulla domanda implicita nel titolo: <considerate> se questo è un uomo, è dunque molto più ambigua: alcuni sì, altri no. Credo che la versione del ’47 testimoni soprattutto il processo di disumanizzazione nel Lager, mentre la versione del ’58 esplora piuttosto i limiti dell’umano e del disumano. Uno spostamento dalla ‘disumanizzazione’ (versione del ’47) – come tema centrale – verso una ricerca su che cosa è l’umanità e che cosa vuol dire essere uomo (versione del ’58). Appunto la disumanizzazione avvenuta nel Lager permette anche una ricerca su che cosa è ‘umano’, perché essere un uomo spogliato di tutto quello che lo rende uomo o umano, la riduzione all’essere 46 Cavaglion (2000), capitolo 5, nota 3, pp.96-97 17 vuoto dunque, fa anche capire l’essenza dell’umanità 47 . Credo che questo sia stata la ricerca intellettuale di Primo Levi negli anni tra la prima e la seconda versione, già presente nella prima versione ma molto più forte nella seconda versione, una ricerca che oltrepassa la linea puramente testimoniale e che si potrebbe definire una ricerca sociologica ed anche etica, perché Levi non si esime dal giudizio: di quasi ogni personaggio sappiamo – implicitamente o esplicitamente – il suo giudizio, anche se è sempre un giudizio molto sfumato. L’umanità si potrebbe dunque trovare dentro se stesso, conservando la propria dignità umana (come abbiamo visto qui sopra), ma la si potrebbe anche trovare nel rapporto con gli altri, nell’interazione con gli altri. In molti ritratti positivi aggiunti nel ’58 troviamo accenni all’interazione con gli altri. Troviamo quest’idea di una linea etica d’interazione in SQU, nel primo capitolo dell’indagine etica di Gordon (2003) in Primo Levi: Le virtù dell’uomo normale. Per l’interazione tra gli uomini, Gordon rintraccia in SQU un’etica che rasenta quella di Emmanuel Levinas: ‘Per Levi, come per Levinas, le radici dell’etica affondano nell’incontro fra due persone, ciascuna delle quali guarda all’altra, prendendo atto dell’altrui esistenza e riconoscendola, e, in particolarità, riconoscendo l’”alterità” dell’altro’ 48 . Gordon, che intitola il capitolo Lo sguardo, focalizza soprattutto sullo sguardo: ...è soprattutto la negazione di un peculiare elemento dell’interazione fra esseri umani a emergere come strumento devastante di spersonalizzazione, come il nocciolo dell’anti-etica del campo: il rifiuto insistente di rispondere alle domande o anche solo di restituire lo sguardo del nuovo arrivato da parte delle SS, dei Kapo, degli altri prigionieri, e di tutti in genere. La risposta negata, lo sguardo negato – a, all’inverso, la possibile fondazione di un’etica del riconoscimento dello sguardo – saranno l’oggetto di questo primo capitolo 49 . Io credo che si potrebbe facilmente estendere quest’idea dello sguardo negato e – all’inverso – il riconoscimento dello sguardo, più in generale al riconoscimento dell’uomo nell’altro. Credo che gran parte dell’etica implicita nella descrizione dei ritratti – negativi e positivi – si basi infatti sul rifiuto del riconoscimento dell’uomo nell’altro oppure viceversa appunto sul riconoscimento dell’uomo nell’altro. Questo riconoscimento o rifiuto del riconoscimento riguarda tutto lo spettro dell’interazione umana: sia il linguaggio verbale che il linguaggio non-verbale. Agli esempi di domande senza risposta, agli sguardi negati che elenca Gordon si potrebbe aggiungere anche per esempio Alex che ‘senze odio e senza scherno [...] strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il 47 Interessante è il fatto che Levi vede per se stesso l’umanità riconquistata attraverso la scrittura o anzi, la testimonianza. In una lettera scrive (Zaccaro (2003), p.50): ‘Paradossalmente, è stato il Lager a rendermi forte: l’ossatura morale mi è venuta dopo, dopo di aver raccontato e scritto, dopo di essermi sentito depositario di un’esperienza orribile e fondamentale, che era “necessario” diffondere e commentare. Solo dopo che l’umanità mi era stata negata, e dopo di averla riconquistata scrivendo, mi sono sentito “uomo” nel senso del titolo del libro’. 48 Gordon (2003), pp.41-42. 49 Ivi, p.41. Per il rapporto tra etica e lo sguardo in SQU, si veda anche Mauro (2009), p.39-78. 18 dorso, per nettarla, e sarebbe assai stupito, l’innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico...’ (Op.I, SQU, pp.103-104). Infatti, Alex è colpevole, perché non ha riconosciuto l’uomo nell’altro. Si pensi anche per esempio a Henri che a volte sembra persino umano ma alla fine non lo è; e proprio per questo, comunicazione – come fra due esseri umani – non è possibile, perché lui non riconosce l’uomo nell’altro (‘col sospetto confuso di essere stato anch’io, in qualche modo inavvertito, non un uomo di fronte a lui, ma uno strumento nelle sue mani’): Parlare con Henri è utile e gradevole; accade anche, qualche volta, di sentirlo caldo e vicino, pare possibile una comunicazione, forse perfino un affetto; sembra di percepire il fondo umano, dolente e consapevole della sua non comune personalità. Ma il momento appresso il suo sorriso triste si raggela in una smorfia fredda che pare studiata allo specchio; Henri domanda cortesemente scusa (»... j’ai quelque chose à faire», «... j’ai quelqu’un à voir»), ed eccolo di nuovo tutto alla sua caccia e alla sua lotta: duro e lontano, chiuso nella sua corazza, nemico di tutti, inumanamente scaltro e incomprensibile come il Serpente della Genesi. Da tutti i colloqui con Henri, anche dai più cordiali, sono sempre uscito con un leggero sapore di sconfitta; col sospetto confuso di essere stato anch’io, in qualche modo inavvertito, non un uomo di fronte a lui, ma uno strumento nelle sue mani (Op.I, SQU, p.96). Il Lager è il mondo della disumanizzazione. Anche il linguaggio verbale e non-verbale è dunque spia di questo processo di demolizione dell’uomo, dell’umano. Ci sono però eccezioni. Già nella versione del ’47 ci sono ritratti di personaggi che si comportano umanamente nel confronto degli altri, cioè riconoscono l’uomo nell’altro. Si pensi a Walter Bonn che è civile, impresta il suo coltello, offrendolo spontaneamente e con cui poi Levi fa un dialogo: Uno è Walter Bonn, un olandese civile e abbastanza colto. Vede che non ho nulla per tagliare il pane, mi impresta il suo coltello, poi si offre di vendermelo per mezza razione di pane. Io discuto sul prezzo, indi rinuncio, penso che qui in Ka-Be ne troverò sempre qualcuno in prestito, e fuori costano solo un terzo di razione. Non per questo Walter vien meno alla sua cortesia, e a mezzogiorno, mangiata la sua zuppa, forbisce colle labbra il cucchiaio (il che è buona norma prima di imprestarlo, per ripulirlo e per non mandare sprecate le tracce di zuppa che vi aderiscono) e me lo offre spontaneamente. – Che malattia hai, Walter? – «Körperschwäche»...(Op.I, SQU, pp.45-46) Si pensi anche all’intero capitolo Il canto di Ulisse, il capitolo dedicato al dialogo fra Jean e Levi come tra due esseri umani, uguali, uomini tutti e due, che parlano per scambiare un discorso, non un dialogo perverso come tra Levi e Pannwitz per esempio, tra ‘due esseri che abitano mezzi diversi’ (Op.I, SQU, p.102). Il dialogo tra due uomini è ‘umano’ per eccellenza e sarà per Levi dopo Auschwitz il filo rosso della sua vita e della sua produzione letteraria: la comunicazione, il dialogo tra sopravvissuto e il mondo, il dialogo tra lettore e scrittore, fino a diventare una ‘poetica’ vera e propria in CS 50 . 50 Altri personaggi nella versione del 1947 che rispettano questo codice etico dell’interazione umana e che sono dunque umani: Chajim, Resnyk ed i due francesi Charles ed Arthur nell’ultimo capitolo. 19 Questa linea etica dell’interazione umana si afferma nella seconda versione del ’58 con l’inserimento di molti ritratti positivi che testimoniano di questo linguaggio del riconoscimento dell’uomo nell’altro. Nel secondo capitolo di SQU sono inseriti due personaggi nuovi: un ritratto negativo, un ragazzo francese e un ritratto positivo, Schlome. Questi due personaggi si contrappongono come esempi di interazione disumana (il ragazzo francese) e interazione umana (Schlome) proprio sulla soglia dell’entrata nel mondo di Auschwitz, e cioè nel capitolo dedicato all’iniziazione. Secondo me serve per tematizzare l’interazione (quella umana e quella disumana) come motivo ricorrente in tutto il libro. Questo ragazzo francese ‘non parla volentieri’ (Op.I, SQU, p.23) e quando Levi gli pone una domanda ‘non ha riso, ma col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: - Vous n’êtes pas à la maison – ’ (Op.I, SQU, p.23). Alla fine del processo di iniziazione Levi va ‘alla ricerca di una voce, di un viso amico, di una guida’ (Op.I, SQU, p.24). Vede due ragazzi ed uno dei due ‘mi chiama, e mi pone in tedesco alcune domande che non capisco; poi mi chiedo da dove veniamo’ (Op.I, SQU, p.24). Poi scambiano un discorso e alla fine ‘si alza, mi si avvicina e mi abbraccia timidamente. L’avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia. Non ho più rivisto Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti’ (Op.I, SQU, p.25). Si vede come si esprime il riconoscimento dell’uomo, in piccoli gesti: il discorso anche semplice, l’avvicinamento, l’abbraccio. Anche Steinlauf, personaggio ‘nuovo’ viene introdotto con l’accenno alla sua interazione umana: ‘Steinlauf mi vede e mi saluta...’ (Op.I, SQU, p.34). Anche Diena, personaggio ‘nuovo’ assume quest’umanità: ‘Diena si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve amichevolmente’ (Op.I, SQU, p.32). Più avanti quando Levi gli pone delle domande ‘mi risponde con altre domande’ (Op.I, SQU, p.32). E alla fine Alberto che (nel brano nuovo del quinto capitolo) ‘è amico di tutti’ (Op.I, SQU, p.51) e quando Levi è stato scelto per il Laboratorio (nel brano nuovo del capitolo 15): ‘Molti compagni si congratulano; prima fra tutti Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia’ (Op.I. SQU, p.134). E alla fine persino il Caronte (inserito come personaggio ‘nuovo’ nel primo capitolo), un nemico (!), eccezione unica in SQU, è umano, perché ‘invece di gridare “Guai a voi, anime prave” ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli ....’ (Op.I, SQU, p.15). Oltre al fatto che ‘domanda cortesemente’ è curioso il riferimento alla ‘lingua franca’ come se volesse davvero farsi capire (l’unico tedesco che vuole farsi capire), certo in modo ambiguo, perché avido di danaro ed orologi. Abbiamo ora visto come i ritratti aggiunti sono soprattutto ritratti positivi che sottolineano l’umanità (oppure dentro se stesso oppure nell’interazione con l’altro), il che risulta conseguentemente in uno spostamento del messaggio: l’umanità che contrappone la 20 disumanizzazione che è la norma del Lager. Questo nuovo bilancio – esempi di umanità da contrappeso alla norma della disumanizzazione – sposta il messaggio da un messaggio cupo sulla demolizione dell’uomo ad un messaggio ambiguo sull’umanità, su che cosa è umano e disumano, cosa vuol dire essere uomo ed essere vuoto, come si potrebbe conservare la dignità umana e come la si perde? Ora ci chiediamo: quali sono le conseguenze di questo per l’unità con T? In primo luogo anche T è permeato dall’ambiguità, già presente nel titolo. Infatti, la tregua indica ‘sospensione o interruzione temporanea di lotte’, perché il libro oscilla fra momenti di illimitate possibilità, di avventure senza limiti, di gioia e di vitalità da una parte e dolore, nostalgia, nuove prove dall’altra parte. In più non si deve dimenticare che il libro finisce con Auschwitz, perché tornato a casa, Levi sogna di essere di nuovo in Auschwitz: ‘sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa’ (Op.I, T, p.395). In una nota all’edizione scolastica di T, Levi dichiara: Questa pagina, che chiude il libro su una nota inaspettatamente grave, chiarisce il senso della poesia posta in epigrafe, e ad un tempo giustifica il titolo. Nel sogno, il Lager si dilata ad un significato universale, è divenuto il simbolo della condizione umana stessa (“nulla era vero all’infuori del Lager”), e si identifica con la morte a cui nessuno si sottrae. Esistono remissioni, “tregue”, come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal “comando dell’alba” temuto ma non inatteso, dalla voce straniera (“wstawać” significa “alzarsi”, in polacco) che pure tutti intendono e obbediscono. Questa voce comanda, anzi invita, alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio, nelle gelide albe di Auschwitz 51 . La tregua, il soggiorno in Russia, non era dunque niente altro che un momento temporaneo ed anche essere a casa non significa tornare alla vita, perché Auschwitz ‘è divenuto il simbolo della condizione umana stessa [...] e si identifica con la morte a cui nessuno si sottrae’, ed è onnipresente. Belpoliti suggerisce che ‘è probabile che la stessa pagina finale del libro, quella con il sogno del risveglio che riporta tutta la storia alla terribile realtà del Lager, sia stata aggiunta successivamente, quasi a siglare la continuità tra le due prime opere (nel quaderno manoscritto della Tregua, in possesso di Giovanni Tesio, mancano gli ultimi capitoli del libro)’ 52 . Se è vero, vuol dire che Levi ha voluto rendere i due libri ambigui tutti e due, aggiungendo al libro cupo (SQU) degli interventi positivi che lo rendono meno cupo e aggiungendo all’altro libro (T) invece una fine molto cupa che lo collega direttamente al primo libro. 51 52 Primo Levi (1965), La tregua, capitolo 17, nota 1, pp.269-270. Belpoliti (1998), p.186. Si veda anche il capitolo 2.3. 21 Per quanto riguarda il codice etico dell’interazione umana, già presente nella prima versione di SQU, ma più chiaramente tematizzata nella seconda versione, credo che T invece si possa definire ‘il libro degli incontri’, perché la lunga sfilata dei personaggi che appariscono in questo libro serve anche al bisogno immediato di Primo Levi di ‘riprendere contatto col mondo’: ‘il bisogno di contatti umani è da annoverarsi fra i bisogni primordiali’ (Op.I, T, p.241). Il riconoscimento dell’uomo nell’altro è la norma in T. Non è dunque casuale la forte presenza del dialogo in questo libro. D’altronde credo che, benché presente, la riflessione morale (presente nella rappresentazione di quasi tutti i personaggi di SQU) cede il passo ad una teatralità – per quanto io sappia un fenomeno sottovalutato nella critica –, assente in SQU. Si veda il capitolo 2.4. Il nuovo capitolo Nel 1958 Levi ha aggiunto un nuovo capitolo – capitolo 3 Iniziazione –. SQU e T recano così una struttura identica: diciassette capitoli tutti e due. Si osservi anche il cambiamento sulla prima pagina: da titolo, prefazione, poesia (1947) a titolo, poesia, prefazione (1958). Le prime pagine di SQU e T sono simmetriche adesso: titolo, seguito da una poesia che apre il libro 53 . Anche per quanto riguarda la tematica, questo nuovo capitolo è interessante per il rapporto con T. Prima di tutto c’è la tematica della confusione delle lingue, ‘una perpetua Babele’ (Op.I, SQU, p.32), un pericolo molto grave per chi non sa adeguarsi. In T ritroviamo questa tematica della confusione delle lingue, ma – a rovescio – diventata un gioco. Si pensi ad esempio a Primo Levi che parla con il prete in latino, perché non parla né francese né tedesco: ‘...di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni’ (Op.I, T, p.241). Si pensi anche alla farsa, la scena con la ‘curizetta’ in cui Cesare e Levi provano a cambiare sei piatti per un pollo: E <Cesare> si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi? Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. «His fretus», vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire «pollo» e «uccello» in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile (Op.I, T, p.322). Da qui in poi si svolge una scena di gran carica comica in cui Cesare e Levi provano a spiegare con gesti, atti, e disegni quello che vogliono. Questa tematica è un bell’esempio di una simmetria asimmetrica in quanto la linea della confusione delle lingue si estende nel secondo libro, ma in 53 Si veda anche l’appendice. 22 modo rovesciato: la Babele della confusione delle lingue non costituisce più un pericolo, ma un gioco. Il nuovo personaggio inserito, Steinlauf, è anche interessante per il parallello con il personaggio del terzo capitolo in T: Mordo Nahum, il Greco. Tutti e due si possono caratterizzare come figure ‘guida’ nel nuovo mondo. Nel terzo capitolo con cui il nuovo mondo si apre, Steinlauf e Mordo Nahum insegnano una lezione importante a Primo Levi. La lezione di Steinlauf è una lezione su come conservare l’umanità e il bisogno di sopravvivere per testimoniare, come abbiamo visto qui sopra; Mordo Nahum insegna a Primo Levi la dura legge ‘guerra è sempre’, con cui si presenta subito il nuovo mondo come ambiguo, non come la Terra Promessa, ma ‘sotto forma di una spietata pianura deserte’ (Op.I, T, p.230), con cui aspettano ‘altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, altre paure’ (Op.I, T, p.230). Gli insegna anche la sua personale etica di lavoro, di affari. Che nel caso di tutti e due si tratti di un rapporto di discepolo e maestro, è chiaro dalle indicazioni fornite dal testo. Di Steinlauf si legge ‘il mio amico quasi cinquantenne’ (Op.I, SQU, p.34), un amico, ma molto più vecchio di Primo Levi. Steinlauf domanda Levi perché non si lava e quando Levi obietta, perché lo considera inutile: ‘..Steinlauf mi dà sulla voce [....] mi somministra una lezione in piena regola’ (Op.I, SQU, pp.34-35). Il terzo capitolo si intitola Iniziazione, anche se forse questo titolo sarebbe più adatto per il secondo capitolo che è il vero rito di iniziazione (si veda il capitolo 2.4). Comunque sia, l’iniziazione riguarda forse una seconda iniziazione e cioè, al contrario, imparare come si potrebbe restare umano nel Lager. Nel terzo capitolo di T, ritroviamo lo stesso uso affettivo del pronome possessivo: ‘Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturí dal nulla’ (Op.I, T, p.226). Quello che è subito indicativo per il loro rapporto di discepolo e maestro, sono le scarpe e il sacco che porta: Si chiamava Mordo Nahum, e a prima vista non presentava nulla di notevole, salvo le scarpe (di cuoio, quasi nuove, di modello elegante: un vero portento, dato il tempo e il luogo), e il sacco che portava sul dorso, che era di mole cospicua e di peso corrispondente, come io stesso avrei dovuto constatare nei giorni che seguirono (Op.I, T, p.227). Le scarpe, importantissime nel Lager – si veda qui sotto (Altre aggiunte) – costituiscono anche in questo mondo nuovo un fattore di grande importanza, come gli insegna il Greco, quando Levi subito rimane dopo i primi passi nella libertà con le scarpe rotte: ‘Non ero più uno schiavo: ma dopo i primi passi sulla via della libertà, eccomi seduto su un paracarro, coi piedi in mano, goffo e inutile come la locomotiva in avaria che da poco avevamo lasciata. Meritavo dunque la libertà? il greco sembrava dubitarne’ (Op.I, T, p.233). Il Greco viene chiamato da Levi ‘un grande greco’ (Op.I, T, p.233) e poi (si noti di nuovo il possessivo con valore affettivo) ‘...il mio non era un 23 greco qualunque, era visibilmente un maestro, un’autorità, un supergreco’ (Op.I, T, p.235). Ma il passo decisivo sul loro rapporto si trova ancora più avanti: ‘Si sentiva anzi in vena benevolmente pedagogica; a mano a mano che passavano le ore, il tono del suo discorso andava insensibilmente intiepidendosi, e in parallelo andava mutando il rapporto che ci univa: da padrone-schiavo a mezzogiorno, a titolare-salariato alla una, a maestro-discepolo alle due, a fratello maggiore – fratello minore alle tre’ (Op.I, T, pp.241-242). Quest’introduzione di due figure ‘guida’ fa pensare che SQU e T si leggano anche come una specie di Bildungsroman. Non occorre qui analizzare pienamente questo aspetto, ma comunque si può già indicare una linea di sviluppo del personaggio Primo Levi in SQU e T, perché in entrambi i libri Levi si adatta sempre meglio al ‘nuovo’ mondo: in SQU sa svilupparsi ad uno che sa ‘organizzare’ e acquista un posto in un Laboratorio, in T sa superare l’inerzia (parola chiave che indica l’essere vuoto, passivo, ‘la malattia di Auschwitz’) e sa superare anche le nuove prove che gli aspettano. Dall’altre parte questo ultimo libro finisce in modo cupo con il sogno che lo fa ritornare ad Auschwitz. Dante Già la prima edizione di SQU è fortemente permeata su vari piani dall’Inferno dantesco, tanto da poter caratterizzare SQU come un inferno ‘moderno’. Infatti, il soggiorno ad Auschwitz viene descritto come un ‘viaggio verso il nulla, [....] all’ingiù, verso il fondo’ (Op.I, SQU, p.11), come un altro mondo ‘dall’altra parte’ (Op.I, SQU, p.1) e più esplicitamente ancora: ‘Questo è l’inferno’ (Op.I, SQU, p.16). Le aggiunte del ’58 rafforzano quest’idea di una discesa infernale di ascendenza dantesca. Infatti, la figura del Caronte e la citazione: ‘Guai a voi, anime prave’ (Op.I, SQU, p.15), alla fine del primo capitolo raffigura – ed è la prima indicazione – l’entrata nel mondo di Auschwitz come una discesa nell’inferno dantesco. La citazione esplicita di due versi danteschi (Inf. XXI, 48-49) che rinviano a Malebolge (Op.I, SQU, p.23) 54 e la presentazione di questo primo giorno di iniziazione come ‘antinferno’ (Op.I, SQU, p.23) nel secondo capitolo rafforzano il parallelo dantesco. Questa linea dantesca continua in T e unisce i due libri con riferimenti al ‘purgatorio’ (Op.I, T, p.220) e al ‘limbo’ per le fasi transitorie del Campo grande (Op.I, T, p.219) e il lungo periodo a Starye Doroghi (Op.I, T, p.346) e con altre allusioni di ascendenza dantesca 55 . 54 55 Per l’analisi, si veda il capitolo 2.4 Si veda per esempio Belpoliti (1998), pp.60-65 24 Leggerezza (verso una tonalità diversa) Nell’edizione del ’47 il tono è molto cupo e l’ironia è molto amara. Si pensi per esempio alla prima frase nella prefazione: 'Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944 ...’ (Op.I, SQU, p.5). Alcune delle aggiunte del ’58 spiccano per la leggerezza del tono che sembra sgomberare la strada per un tono più leggero, anzi a volte comico in T. Si pensino alle ‘tre nuovissime nostre imprese’ (Op.I, SQU, p.142) (la scopa, l’operazione lima ed i dischetti per controllare che nessuno si sottragga a fare la doccia) di Alberto e Levi nel capitolo 16, raccontate nel modo di un libro di avventura per ragazzi 56 , si pensi alla figura di Caronte, figura metà comica, perché è nemico e porta gli uomini all’inferno, ma chiede allo stesso tempo cortesemente danaro od orologi. Per l’avvicinamento al teatro comico-grottesco di questo personaggio, si veda il capitolo 2.4. Si pensi alla fine anche al passo in cui viene descritto il carattere di Alberto nel capitolo 15. L’ironia leggera di “buon impiego e libera professione”, come se si trattasse di un mondo ‘regolare’, stona nel contesto delle disumane circostanze dei lavori forzati ad Auschwitz: ‘A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare gli incerti e le battaglie della “libera professione” (Op.I, SQU, p.135). La leggerezza del tono assente nella versione del ’47 e aggiunta in piccola misura nella versione del ’58, la ritroviamo in T sia sul piano tematico – come sosterrò nel capitolo 2.4 – per le scene che fanno pensare al teatro comico, sia sul piano stilistico. Si pensi per esempio ad una frase, in cui lo ‘stupido’ Levi viene contrapposto a Mordo Nahum, il greco furbo ed astuto (si osservi anche il contrasto tra uno stile metaforico e quasi patetico per descrivere il comportamento di Levi e lo stile conciso con cui si descrive il greco, quasi come uno specchio della loro psicologia): ‘La sera prima mentre io già navigavo in un mare di vapori vinosi, lui si era diligentemente informato sulla ubicazione, usanze, tariffe, domande e offerte del libero mercato di Cracovia, e il dovere lo chiamava’ (Op.I, T, p.238). Oppure si osservi l’ironia leggera del passo in cui Cesare consegna a Levi un dizionario italiano – tedesco, che pensa possa essergli d’aiuto a fare la corte ad una ragazza polacca: ‘Qui c’è tutto, mi disse, con l’aria di chi non ammette altre discussioni e cavilli. Non c’era tutto, purtroppo: mancava anzi proprio l’essenziale, quello che una misteriosa convenzione espunge dall’universo della carta stampata; quattrini sprecati. Cesare se ne andò nuovamente, deluso della cultura, dell’amicizia, e della carta stampata medesima’ (Op.I, T, p.277). Questi esempi bastano per far capire che il tono più leggero in T, che risulta spesso in un tono addirittura comico (si veda il capitolo 2.4), è già anticipato in SQU, nella versione del ’58. 56 Si veda l’appendice. 25 Altre aggiunte Resta da osservare che ci sono alcune altre aggiunte che rafforzano il rapporto tra SQU e T. C’è in primo luogo il ritratto di Emilia, che rispecchia quello di Hurbinek in T. Sono tutti e due ritratti di bambini morti ad Auschwitz, posti all’inizio per il loro forte valore emotivo e patetico. Il pathos è una strategia retorica per coinvolgere il lettore, per provocare una reazione emotiva. La forza drammatica dei bambini morti ad Auschwitz e il pathos che ne consegue è evidente. Infatti, non a caso tra i primi morti ad Auschwitz che aprono sia SQU che T, ci sono questi bambini; tutti e due avevano tre anni (si noti la simmetria). Del ritratto di Emilia si osservi soprattutto il contrasto tra la fredda osservazione della ‘necessità storica’ e il calore del carattere di Emilia (‘bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente’) e l’aneddoto commovente del bagno, immagine vivace che si scontra con l’annuncio della morte (si noti anche la costruzione circolare ‘Cosí morí Emilia’ .... ‘tutti alla morte’). Lo scrittore non si trattiene dal giudizio (‘il degenere macchinista’): Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte (Op.I, SQU, p.14). Del ritratto di Hurbinek si osservi anche qui il contrasto tra la ‘potenza bestiale’ e il bambino ‘che non aveva mai visto un albero’ e ‘che aveva combattuto come un uomo’, ‘il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz’: Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole (Op.I, T, p.216) 57 . Quando parla Primo Levi in veste di testimone al posto di quelli che sono morti, c’è un coinvolgimento emotivo molto forte da parte sua, ma richiesto anche dal lettore. Questi ritratti di 57 Secondo me si potrebbe verificare un ossimoro (come figura stilistica leviana per eccellenza, si veda Mengaldo (1997)) in questa descrizione. Hurbinek viene introdotto con queste parole: ‘Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz’ (Op.I, T, p.215) e poi ‘dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome’ (Op.I, T, p.215). Nel caso di Hurbinek il ‘nulla’ vuol dire il vuoto in senso assoluto: non ha una lingua per esprimersi – Hurbinek è infatti l’incarnazione della fine della comunicazione ad Auschwitz – (‘non sapeva parlare’ Op.I, T, p.215), non ha passato (‘nessuno sapeva niente di lui’ Op.I, T, p.215/‘forse era nato in Auschwitz’ Op.I, T, p.216), non ha un nome (‘non aveva nome’ Op.I, T, p.215/‘il senzanome’ Op.I. T, p.216) e quindi non ci sarà nessuno per ricordarsi di lui, perché è uno sconosciuto (‘nulla resta di lui’ Op.I, T, p.216). Ma allo stesso tempo attraverso le parole di Primo Levi conquista un nome, un passato ed alla fine anche una lingua. Levi testimonia al suo posto con le sue parole , cioè le parole dedicate a lui nel suo libro: ‘Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole’ (Op.I, T, p.216). Ecco l’ossimoro! 26 Emilia e Hurbinek hanno una doppia funzione: da una parte sono ritratti emblematici in quanto rappresentativi per tutti i bambini morti ad Auschwitz, dall’altra parte sono anche ritratti individuali a cui lo scrittore rende omaggio, scrivendo la loro storia. Un’altra aggiunta riguarda un tema che sembra banale, ma non lo è, cioè le scarpe. Due aggiunte (nel secondo capitolo e nel quarto capitolo) riguardano la tematica dell’importanza delle scarpe. Le scarpe sono d’importanza primaria in Auschwitz prima di tutto, ma anche dopo Auschwitz, come scopre Primo Levi quando fa i primi passi nella libertà e rimane con le scarpe rotte. Mordo Nahum, il greco che indossa un paio di scarpe impressionanti, gli insegna l’importanza delle scarpe: ‘Chi non ha scarpe è uno sciocco’ (Op.I, T, p.233). L’edizione olandese di T reca sulla copertina una fotografia di scarponi. Nell’edizione del ’58 sono stati aggiunti quattro/ cinque capoversi subito all’inizio del primo capitolo che riguardano gli eventi prima della deportazione ad Auschwitz. Il primo capoverso è dedicato ad un autoritratto amaro-ironico che sottolinea l’ingenuità (‘Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale ...’ (Op.I, SQU, p.7)), gli altri capoversi raccontano gli eventi in Italia. Infatti, l’impressione dell’Italia che ne emerge è di un paese caotico, permeato dalle casualità: Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe..... Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta... (Op.I, SQU, p.7) Il caos italiano si contrappone al sistema tedesco – si noti il tono amaro-ironico – negli stessi capoversi: A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti (Op.I, SQU, p.7). Anche nel rifiuto della lezione che insegna Steinlauf, Primo Levi fa accenno all’italianità: Queste cose mi disse Steinlauf, uomo di volontà buona: strane cose al mio orecchio dissueto, intese e accettate solo in parte, e mitigate in una più facile, duttile e blanda dottrina, quella che da secoli si respira al di qua delle Alpi, e secondo la quale, fra l’altro non c’è maggior vanità che sforzarsi di inghiottire interi i sistemi morali elaborati da altri, sotto altro cielo (Op.I, SQU, p.35). 27 Secondo Cavaglion ‘Italianità e germanesimo in SQU sono dualità fra loro contrapposte, anzi l’una contro l’altra armata: Levi è un appassionato difensore dell’ideologia italiana, del suo «essere italiano», portatore di «una blanda dottrina» capace di annullare i più rigidi sistemi di pensiero’ 58 . Secondo me queste aggiunte dell’italianità contrapposta al germanesimo (visioni assai stereotipe), che sottintendono un movimento da umanità (il mondo caotico in cui vive un Primo Levi ingenuo) a ordine/ sistema (il mondo di Auschwitz in cui Levi perde l’ingenuità) prefigurano già la stessa opposizione tra i russi ed i tedeschi in T, in cui la Russia viene spesso – implicitamente ed esplicitamente – considerata il Lager a rovescio, e dunque un movimento opposto da disumanizzazione ad umanità. Credo che quest’aggiunta della tematica del caos (positivo) e ordine/ sistema (negativo), che diventa poi una tematica ricorrente nell’opera di Primo Levi, unisca SQU a T. La conclusione che vorrei trarre dall’analisi soprastante è un’ipotesi, e cioè che forse Primo Levi quando riscriveva SQU per la Einaudi nel 1958, avesse già in mente T, uscito nel 1963. Infatti, la maggior parte delle aggiunte, come ho voluto mostrare, rafforza il rapporto e l’unità tra SQU e T. 58 Cavaglion (2000), capitolo 3, nota 10, pp.68-69. 28 PARTE SECONDA 29 2.1 Il tempo Il tempo sterile e stagnante in SQU In SQU il tempo si è fermato, predomina il presente che è il tempo del Lager, tanto da indurre Segre a parlare dell‘uccisione del tempo’ 59 . Prima di tutto la sofferenza fisica e la disumanizzazione dei prigionieri cancellano ogni pensiero al futuro o al passato. La percezione del tempo nel Lager è diversa, è un tempo morto, immobile ed eterno (‘sterile e stagnante a cui eravamo incapaci di immaginare una fine’), fermo insomma (‘Per noi, la storia si era fermata’): ...così concrete la fame e la desolazione, e così irreale tutto il resto, che non pareva possibile che veramente esistesse un mondo e un tempo, se non il nostro mondo di fango, e il nostro tempo sterile e stagnante a cui eravamo oramai incapaci di immaginare una fine. Per gli uomini vivi le unità del tempo hanno sempre un valore, il quale è tanto maggiore, quanto più elevate sono le risorse interne di chi le percorre; ma per noi, ore, giorni e mesi si riversavano torpidi dal futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile e superflua di cui cercavamo di disfarci al più presto. Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata (Op.I, SQU, p.113) 60 . Si noti come il futuro venga visto come ‘una barriera invincibile’ 61 : l’immagine del tempo come un carcere dunque, la cui porta – il futuro – non si apre mai per chi vive ad Auschwitz, perché l’unico scampo è la morte. Già una sola giornata è una barriera quasi invincibile; si noti la stessa metafora della barriera che viene oltrepassata questa volta: Anche oggi, anche questo oggi che stamattina pareva invincibile ed eterno, l’abbiamo perforato attraverso tutti i suoi minuti; adesso giace conchiuso ed è subito dimenticato, già non è più un giorno, non ha lasciato traccia nella memoria di nessuno... Sapete come si dice “mai” nel gergo del campo? “Morgen früh”, domani mattina (Op.I, SQU, p.129, ). Il tempo si annulla veramente, perchè alla fine del giorno, il giorno ‘giace conchiuso ed è subito dimenticato’ e non lascia ‘traccia nella memoria’ 62 . Paradossalmente la barriera del tempo, il carcere del tempo, offre anche una sorta di protezione. È doloroso pensare al passato (i ricordi) o al futuro (le fantasie, i pensieri). Nel Ka59 Segre (1997), p.63. Si confronti anche Bidussa (1997), p.508 che parla della ‘percezione esistenziale e soggettiva del tempo’: ‘Il concetto di tempo fermo, di ripetizione all’infinito della stessa situazione, di una fissità e di una immobilità del tempo, costituirebbe di per sé una delle condizioni della vita nel sistema concentrazionario’. 60 Alcuni altri esempi: ‘Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme’ (Op.I, SQU, pp.30-31), ‘Quando si lavora, si soffre e non si ha tempo di pensare: le nostre case sono meno di un ricordo’ (Op.I, SQU, p.49). 61 Cavaglion (2000), capitolo 12, nota 5, p.194: ‘Questa volta è il tempo stesso a costituire «una barriera invincibile», uno scudo, un guscio, uno schermo’. Per il parallelismo con altre metafore di chiusura, si veda il capitolo 2.2. 62 Si veda anche Benchouiha (2006), pp.17-19. 30 Be dove non si soffre fisicamente, ritornano il tempo, le conversazioni, i pensieri, seguiti dal dolore : Quando si lavora, si soffre e non si ha tempo di pensare: le nostre case sono meno di un ricordo. Ma qui il tempo è per noi: da cuccetta a cuccetta, nonostante il divieto, ci scambiamo visite, e parliamo e parliamo. La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena di parole, di ricordi e di un altro dolore. «Heimweh» si chiama in tedesco questo dolore; è una bella parola, vuol dire «dolore della casa». Sappiamo donde veniamo: i ricordi del mondo di fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci accorgiamo con stupore che nulla abbiamo dimenticato, ogni memoria evocata ci sorge davanti dolorosamente nitida. Ma dove andiamo non sappiamo. Potremo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo. (Op.I, SQU, p.49) Risulta da questo passo anche il forte legame tra l’uccisione del tempo e l’annientamento dell’uomo: il ritorno del tempo si fonde con il ritorno all’essere uomo (‘possiamo rientrare in noi stessi’): essere vuoti, vuol dire anche essere senza passato e senza futuro. Come è noto, soprattutto nel periodo iniziale c’era un gran rischio di morire a causa dello ‘shock’ provato da quelli che entrarono in Lager. Infatti, molti morirono nei primi giorni. Come spiega Primo Levi nel passo qui sotto, i vecchi prigionieri non pensano più, non cercano di capire e conservano i ricordi, ma ‘velati e lontani’, insomma hanno costruito intorno a sé una corazza contro il dolore che provoca il pensiero al passato (o al futuro). Quel pensiero tormenta invece i nuovi prigionieri come ‘ferite ogni giorno riaperte’: Eravamo dei vecchi Häftlinge: la nostra saggezza era il «non cercar di capire», non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande. Conservavamo i ricordi della nostra vita anteriore, ma velati e lontani, e perciò profondamente dolci e tristi, come sono per ognuno i ricordi della prima infanzia e di tutte le cose finite; mentre per ognuno il momento dell’ingresso al campo stava all’origine di una diversa sequenza di ricordi, vicini e duri questi, continuamente confermati dalla esperienza presente, come ferite ogni giorno riaperte (SQU, Op.I, p.112). Qui il lato ambiguo – il chiaro/oscuro 63 – di Primo Levi si rivela, perché come si potrebbe spiegare in questa luce, per esempio, il capitolo 11, il canto di Ulisse ed altri passi – i ritratti umani positivi – che testimoniano invece di una conferma dell’umanità (i pensieri, la cultura, i riti umani ecc.) come difesa e protesta contro la disumanizzazione avvenuta nel Lager? Nel capitolo L’intellettuale ad Auschwitz (in I Sommersi e i salvati) Primo Levi si pone la domanda se essere un intellettuale ad Auschwitz fosse un vantaggio o uno svantaggio e risponde in modo sfumato a questa domanda. Si sofferma sull’episodio del canto di Ulisse e scrive: 63 Per esempio Scarpa (1997), Cases (1997), Mengaldo (1997). 31 Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso (Op.II, SES, pp.1100-1101). SQU è il libro delle ripetizioni: spesso si ripetono delle parole (per esempio nel capitolo sul fondo: ‘dice...dice...dice...dice...dice’ (Op.I, SQU, pp.19-20) 64 che crea un ritmo monotono), o si pensi ad un capitolo basato su un Leitmotiv, come quello del tempo nel capitolo 15, che comincia: ‘Quanti mesi sono passati dal nostro ingresso in campo? Quanti dal giorno in cui sono stato dimesso dal Ka-Be? E dal giorno dell’esame di chimica? E dalla selezione di ottobre?’ (Op.I, SQU, p.132) 65 e termina con una composizione anulare: ‘Quest’anno è passato presto. .... Quest’anno è passato presto’ (Op.I, SQU, pp.139-140) 66 . Come sostiene Cavaglion: ‘Come si può avvertire nelle prime sezioni che aprono altri capitoli, Levi procede spesso ad una specie di riassunto; donde la monotonia, il tono generale di buon senso che gli è stato, non a torto, rimproverato [...], ma l’incomprensibilità di certe storie si regge anche sulla ripetitività di parti e di segmenti narrativi fissi. I riassunti sono solitamente intessuti di richiami a vocaboli chiave ben chiari ormai nella mente del lettore (fango, melma, schiera) o a sintagmi altrettanto consueti (per esempio «giacere sul fondo», che ritorna nel finale della precedente sezione)’ 67 . Secondo me questa ripetitività che si ritrova sul livello linguistico e strutturale rispecchia anche il messaggio profondo del libro: la vita ad Auschwitz in realtà non ha storia, perché è ferma ed eterna allo stesso tempo, il cui unico movimento è il ritornello eterno della ripetitività meccanica. La monotonia del mondo di Auschwitz in cui i giorni si assomigliano, ma anche la macchina del Lager, il sistema nazista di ridurre gli uomini ad esseri vuoti, automi, a macchine che rispondono solo con riflessi senza volontà e coscienza. Si consideri il brano qui sotto in cui Primo Levi in Ka-Be riflette sulla musica infernale. Forse ‘la follia geometrica’, ‘l’ipnosi del ritmo interminabile’, ‘l’incantamento’ si esprimono anche linguisticamente nel ritmo del passo in cui viene descritta la ‘danza degli uomini spenti’: ritmo ‘geometrico’ caratterizzato da ripetizioni, antitesi ed allitterazione (‘non pensano e non vogliono, camminano’, ‘Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS’, ‘squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia?’). Si osservi anche la nota storta e rozza (‘volontà. Non c’è più volontà’). Nel frammento seguente si notino anche i trikolon: ‘come automi [...] anime [...] morte, come il vento le foglie 64 Cavaglion (2000), capitolo 2, nota 15, p.39. Si noti l’effetto ipnotizzante di queste domande ripetitive che sembrano volersi imporre al prigioniero che non ha più coscienza del mondo fuori del Lager. 66 Segre (1997), p.69 cita questi passi per dimostrare come Primo Levi mantiene il rapporto con il lettore: ‘... serve a mostrare che il tempo passato, nel Lager, si misura dal numero dei morti, e il futuro dalle probabilità di aggiungersi a questi morti’. 67 Cavaglion (2000), capitolo 14, nota 4, p.215. 65 32 secche 68 ’, ‘sono diecimila, e sono una sola grigia macchina, sono esattamente determinati’, ‘non pensano e non vogliono, camminano’ 69 : I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. I tedeschi sono riusciti a questo. Sono diecimila, e sono una sola grigia macchina; sono esattamente determinati; non pensano e non vogliono, camminano. Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? quale prova più concreta della loro vittoria? Anche quelli del Ka-Be conoscono questo uscire e rientrare dal lavoro, l’ipnosi del ritmo interminabile, che uccide il pensiero e attutisce il dolore; l’hanno provato e lo riproveranno. Ma bisognava uscire dall’incantamento, sentire la musica dal di fuori, come accadeva in Ka-Be e come ora la ripensiamo, dopo la liberazione e la rinascita, senza obbedirvi, senza subirla, per capire che cosa era; per capire per quale meditata ragione i tedeschi avevano creato questo rito mostruoso, e perché, oggi ancora, quando la memoria ci restituisce qualcuna di quelle innocenti canzoni, il sangue ci si ferma nelle vene, e siamo consci che essere ritornati da Auschwitz non è stata piccola ventura (Op.I, SQU, pp.44-45). Questo passo è anche un ottimo punto di partenza per l’ultimo argomento riguardante il tempo e cioè il fenomeno linguistico forse più sorprendente di SQU e spesso notato anche dai critici: l’uso del tempo verbale, il presente 70 . Come si vede qui sopra il presente è usato in due modi: il presente che riferisce al tempo ad Auschwitz (da ‘I motivi sono pochi [....]’ fino ad ‘...attutisce il dolore’) e il vero presente (da ‘... come ora la ripensiamo [...]’ fino a ‘... piccola ventura’), il presente dello scrittore dietro la scrivania dopo il ritorno a Torino. Quello che ci interessa soprattutto è il primo modo: perchè Primo Levi usa il presente per descrivere la sua esperienza ad Auschwitz? Si deve tenere conto del fatto che l’ampio uso del presente in SQU per descrivere il passato è unico nell’opera di Primo Levi. Come sostiene Mengaldo questo presente e le forme verbali satelliti e altri fenomeni linguistici ad esso relativi ‘non scompaiono nelle opere successive di Levi [...], ma vi decrescono nettamente di frequenza; ed è proprio il presente storico che, dopo qualche pur notevole impiego residuo – e non sorprende – in T [...], in pratica scompare o quasi’ 71 . Prima di tutto c’è la riflessione sul termine. Non a caso Mengaldo lo chiama presente “storico” con “storico” fra parentesi 72 . Tradizionalmente (già nel latino) il presente viene a volte 68 Per il riferimento a Dante, si veda Cavaglion (2000), capitolo 4, nota 19, p.85. Primo Levi linguisticamente è fortemente permeato dai classici – ‘Fra i contemporanei, Levi appare anche linguisticamente, se altri mai, un classico’ Mengaldo (1997), p.169. 70 ‘Ma il fenomeno stilistico più caratterizzante di SQU è senza dubbio l’uso fittissimo del presente “storico”’, Mengaldo (1997), p.201. Si vedano anche Bidussa (2000) e Bidussa (1997), Segre (1997). Anche Cavaglion (2000) ci si sofferma nelle sue note, per esempio capitolo 2, nota 15, p.39-40. 71 Mengaldo (1997), p.202. 72 Ivi, p.201. 69 33 usato come un passato quasi come far rivivere il passato per attualizzarlo, ma Mengaldo ci conferisce nel caso di Primo Levi, come vedremo, un significato più individuato. Segre segue la linea d’interpretazione di Mengaldo dell’uso del tempo verbale e parla di ‘presente assoluto’, forse – ma non dà spiegazione – riferendosi al tempo della tragedia che, in quanto genere mimetico, è il presente assoluto ‘hic et nunc’, o forse piuttosto riferendosi a un presente come tempo fermo, perché di solito il futuro diventa presente e il presente diventa passato 73 . Forse il termine ‘presente assoluto’ è il più felice, perché permette di coprire con un’unica espressione varie sfumature nell’interpretazione dell’uso del presente in SQU e come vedremo l’aggettivo “storico” non è affatto appropriato in questo caso. Mengaldo suggerisce tre motivazioni per il fenomeno del presente “storico” (assoluto). In primo luogo nomina ‘l’influsso dell’oralità, giusta la notissima testimonianza dell’autore che la stesura del libro è stata preceduta da una serie di racconti orali’ 74 . Ciò nonostante questo influsso dell’oralità non mi sembra decisivo per spiegare il fenomeno, soprattutto perché anche T è stato preceduto da racconti orali e l’oralità è un elemento ancora più presente in T 75 . E come ha notato lo stesso Mengaldo in T c’è qualche residuo del presente “storico” (assoluto), ma il fenomeno decresce. Come seconda motivazione nomina la possibilità di articolare sottilmente i piani del racconto. Ma anche questa non spiega ancora l’uso quasi esclusivo del presente “storico” (assoluto) in SQU. Per questo la terza motivazione mi sembra la più convincente, anche perché è del tutto coerente con la tematica del tempo come l’abbiamo analizzato qui sopra: ...l’effetto di attualizzazione e drammatizzazione dei fatti narrati, quasi un portare l’autore, e il lettore, sul luogo, che è connesso al valore tipicamente “astanziale” del presente storico; ma questa attualizzazione e astanzialità vengono ad assumere nel nostro caso un significato piú individuato, e inquietante, come se cosí ci venisse suggerito che Auschwitz non è esperienza che l’autore, e nessuno, possa ritenere esaurita, circoscritta in un suo tempo trascorso: il presente che cosí spesso la attualizza, immergendovici, è il presente del suo incombere come una realtà incancellabile, che ci avvolge ancora e sempre può rinascere; e quel presente slitta insensibilmente da storico ad acronico, o dell’eterno 76 . La nozione del portare l’autore, ma soprattutto il lettore (!) sul luogo mi sembra molto importante. Forse più che in ogni altro libro di Primo Levi è presente il lettore, quasi come 73 Per ancora altri termini, si veda Bidussa (1997). Mengaldo (1997), p.203 75 Dell’influsso dell’oralità Mengaldo (1997), p.203 sostiene: ‘..tale conessione appare più evidente quando è proprio un episodio di racconto orale a divenire motivo del testo, come nelle pagine sul canto di Ulisse, 98sgg., dove il passaggio al presente caratterizza appunto, in una specie di “stretta”, l’avvicinamento al nucleo emozionalmente e narrativamente centrale della vicenda’. Ma in T non c’è questa connessione! Per molti dialoghi – per esempio quelli tra Levi e il Greco (capitolo 3, Il greco) o Cesare (capitolo 5, Cesare pp.269-274) viene usato il passato, per alcuni – ma più eccezionalmente – il presente, per esempio tra Cesare ed Irina (Op.I, T, p.340). 76 Mengaldo (1997), pp.203-204. 74 34 assegnargli un ruolo come personaggio o persino protagonista del libro 77 . Propongo come ipotesi che si potrebbe vedere l’uso del presente anche come una strategia linguistica per richiedere l’impegno del lettore: anche noi lettori siamo coinvolti, Auschwitz è il presente. Secondo me la reticenza a dare giudizi, spesso lodata dalla critica, è anche un mezzo retorico per richiedere l’impegno del lettore: l’autore ci fornisce tutti i dati – nel modo più razionale e oggettivo possibile, ma già nella scelta e nella selezione dei dati c’è inevitabilmente soggettività – ma quasi sempre si trattiene dal formulare la conclusione, invece scrive per esempio alla fine del capitolo sul sistema economico del Lager: Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole «bene» e «male», «giusto» e «ingiusto»; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato (Op.I, SQU, p.82). Si pensi ad esempio anche al silenzio, alle cose lasciate implicite, tanto da poter definire SQU come il libro del silenzio. L’effetto retorico di questa reticenza è che non c’è scampo per chi legge, Levi ci chiede il nostro impegno, siamo obbligati a riflettere anche noi. Primo Levi ha creato la strada solo fino ad un certo punto. Ma questo potrebbe essere l’argomento di un’altra tesi. È interessante l’effetto che Mengaldo attribuisce al presente “storico”/ assoluto, quello di suggerire l’eternità di Auschwitz, ma Mengaldo lo intende per chi legge e chi scrive. Secondo me si potrebbe ritenere che l’effetto dell’eternità sia valido anche nel mondo interno di Auschwitz, nel mondo narrativo dunque. Torniamo ora al passo della musica infernale in Ka-Be (si veda sopra). Infatti, il passo comincia con l’uso del presente, ma cambia nell’ultimo capoverso che ripropongo: Anche quelli del Ka-Be conoscono questo uscire e rientrare dal lavoro, l’ipnosi del ritmo interminabile, che uccide il pensiero e attutisce il dolore; l’hanno provato e lo riproveranno. Ma bisognava uscire dall’incantamento, sentire la musica dal di fuori, come accadeva in Ka-Be e come ora la ripensiamo, dopo la liberazione e la rinascita, senza obbedirvi, senza subirla, per capire che cosa era; per capire per quale meditata ragione i tedeschi avevano creato questo rito mostruoso, e perché, oggi ancora, quando la memoria ci restituisce qualcuna di quelle innocenti canzoni, il sangue ci si ferma nelle vene, e siamo consci che essere ritornati da Auschwitz non è stata piccola ventura’ (Op.I, SQU, p.45). Fondamentale è la frase: ‘Ma bisognava uscire dall’incantamento, sentire la musica dal di fuori...’. Infatti, si vede come nel Ka-Be ritorna la coscienza del tempo, della storia, del passato e del futuro espressa anche nel cambiamento del tempo verbale all’imperfetto (‘bisognava’), 77 Si pensi già alla poesia con cui si apre il libro: ‘Voi che vivete sicuri/ Nelle vostre tiepide case.... Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ Stando in casa andando per via,/ Coricandovi alzandovi;/ Ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfaccia la casa,/ La malattia vi impedisca,/ I vostri nati torcano il viso da voi’. 35 quando si esce dalla ‘ipnosi del ritmo interminabile e dall’incantamento’. Infatti, la vita quotidiana ad Auschwitz è ipnosi e incantamento: ritmo interminabile. Forse l’uso del presente nel passo precedente a questo, ma anche in altri casi si potrebbe anche interpretare come presente iterativo: ogni giorno si ripete la stessa cosa. Forse la musica infernale viene descritta con il modo verbale del presente per sottolineare il ritmo interminabile, l’incantamento, l’ipnosi e la ripetitività. Auschwitz non è solo una presenza eterna, ma anche una macchina che richiede la danza eterna degli uomini spenti. L’immobilismo del tempo, l’eternità, la macchina ‘Auschwitz’ che riduce gli uomini a automi, la ripetizione meccanica, secondo questa ipotesi si impone dunque anche sul livello linguistico nell’uso del presente “storico” (assoluto). Contro questa ipotesi si potrebbe dire che anche per esempio la vita in Ka-Be venga descritta con il modo verbale del presente. L’idea di un presente con valore iterativo non è valida sempre, è forse una tendenza che vale per alcuni passi. Un argomento per la mia ipotesi si trova forse in una nota dell’articolo di Mengaldo: Fra le interpretazioni dell’invadenza del presente storico in SQU è da scartare quella che lo connetterebbe, a prima vista verosimilmente, con l’impostazione in senso lato diaristica dell’opera: infatti il capitolo finale, che come abbiamo visto è strutturato per la maggior parte come un vero diario, è saldamente attestato sui tempi passati, con un unico scarto al presente, nelle due pagine finali, a più alta temperatura emotiva 78 . Il fatto che l’ultimo capitolo ‘è saldamente attestato sui tempi passati’ segue perfettamente la linea della mia ipotesi: l’effetto dell’uso dei tempi passati nell’ultimo capitolo potrebbe essere la fine della macchina del Lager e l’inizio della vita che si riprende: la monotonia – i giorni che si assomigliano e non sembrano mai finire – è finita, dopo il caos e la fuga dei tedeschi, i malati sono rimasti e Primo Levi e i suoi compagni si sentono divenire uomini di nuovo 79 . Si noti anche una cambiata percezione del tempo: ‘Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo’ (Op.I, SQU, p.152) e il passato e il futuro che ritornano: ‘Nell’oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di molte cose passate e future’ (Op.I, SQU, p.157). Come vedremo, anche la descrizione della natura cambia: per la prima volta compare l’immagine della pianura che è una delle immagini chiave di T come tra l’altro simbolo di apertura e ripresa della vita (si vedano i capitoli 2.2 e 2.3). La linea diaristica dell’ultimo capitolo di SQU continua in T. Forse si potrebbe dire che Levi compie in T un vero viaggio in un tempo che scorre. Infatti, il titolo La tregua indica uno 78 Mengaldo (1997), nota 28, p.204. ‘Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini’ (Op.I, SQU, p.156). ‘A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini’ (Op.I, SQU, p.167). 79 36 stato temporaneo e non eterno. La discesa infernale in SQU non è un vero viaggio, perché il tempo è congelato, eterno e ripetitivo, l’unico scampo è la morte. Al contrario in T si legge: ‘Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore, lavorava nuovamente per noi...’ (Op.I, T, p.370) 80 . Questo spiegherebbe anche perché in T i tempi verbali sono in grandi linee quelli convenzionali della narrazione – l’alternanza fra passato remoto e imperfetto –, è l’uso del tempo verbale in SQU che fa eccezione. Per finire alcune osservazioni. L’uso del tempo verbale in SQU e anche in T non sembra sempre coerente, si potrebbe solo indicare una linea generale: l’uso notevole del presente ‘storico’/ assoluto in SQU – ma ci sono eccezioni – e l’alternanza tradizionale (per la narrazione) del passato remoto e l’imperfetto in T – ma figura anche qui a volte il presente ‘storico’/ assoluto. Forse per questa organicità della scrittura, conviene presumere anche un uso non omogeneo del presente in SQU. In primo luogo c’è il presente ‘storico’/ assoluto, usato sia come presente con valore iterativo nel mondo interno di Auschwitz, sia come presente con valore eterno che coinvolge autore e lettore. Inoltre c’è l’uso più tradizionale del presente storico vero e proprio come per esempio nel caso del ‘canto di Ulisse’. Il dialogo tra Primo Levi e il Pikkolo si svolge nel presente per renderlo vivace (quell’evento non è né iterativo né eterno nel senso di avvertimento dell’onnipresenza di Auschwitz, ma unico). Infine, c’è l’uso del presente come vero presente: l’autore che commenta, che riflette dietro la sua scrivania: è la voce del narratore onnisciente. 80 Si veda anche Zaccaro (2003), pp.94-95. 37 2.2 Lo spazio La metafora della barriera in SQU Rinchiusi tra i fili spinati gli Häftlinge di Auschwitz sono letteralmente separati dal mondo: Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo (Op.I, SQU, p.36). Oltre alla prigionia, l’eccezionalità dell’esperienza viene sempre messa in luce in due modi: Auschwitz è il regno dei morti e Auschwitz è un mondo anomalo ermeticamente chiuso dal mondo ‘normale’. Come osserva Segre: ‘La struttura di Se questo è un uomo può essere vista, sinteticamente, come uno schema concentrico. Il filo spinato, solo interrotto dal cancello con la scritta “Arbeit macht frei”, circonda i capitoli (II)-(XVI), così come il Lager. Fuori c’è l’umanità, dentro l’inumanità’ 81 . L’idea del regno dei morti viene sorretta soprattutto dagli innumerevoli riferimenti all’inferno dantesco – il modello letterario del libro – che caratterizzano l’esperienza di Auschwitz come una discesa infernale, una discesa nel Regno dei Morti di cui non c’è scampo 82 . Sono stati molti critici ad analizzare i paralleli e le citazioni dantesche. Cito Segre: La zona interna al filo spinato è un inferno, anzi l’inferno: “Questo è l’inferno (...); è come essere già morti”, si dice all’inizio del capitolo (II); “infernale” è la musica sconciamente allegra che accoglie i nuovi arrivi (p.44). E Levi pensa subito all’inferno dantesco. I “barbarici latrati dei tedeschi quando comandano” (cfr. con ‘una rauca voce tedesca”, p.132) sono probabilmente quelli di Cerbero, se, subito dopo, il soldato che deruba i prescelti conducendoli in autocarro al campo è il “nostro caronte”, e lo scrittore si aspetta che esclami “Guai a voi, anime prave” (p.18). In qualche modo l’”Arbeit macht frei” ripete con crudele ironia il “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”di Inferno, III, 9. Ma Levi cita anche, poco avanti, “Qui non ha luogo il Santo Volto, / qui si nuota altrimenti che nel Serchio!” di Inferno, XXI, 48-49. Il modo per indicare il raggiungimento dell’umiliazione massima è, come in Dante, topologico: uno sprofondamento: “Siamo arrivati al fondo. Più giú di cosí non si può andare” (p.23); e ancora: “Eccomi dunque sul fondo” (p.31) 83 . La strategia nazista era di far scomparire ogni traccia degli ebrei che dovevano essere considerati morti per il resto del mondo. Nel capitolo 8 viene descritto il traffico coi civili che non hanno il diritto di comunicare con i prigionieri ebrei. Si notino anche le metafore di separazione (‘breccia nel muro’ e ‘spiraglio’): ‘..se potessero comunicare con noi, ciò costituirebbe una breccia nel 81 Segre (1997), p.65. Cavaglion (2000), capitolo 1, nota 20, p.21: ‘Esteriormente il paesaggio che sta per aprirsi è quello dei gironi infernali, della discesa «in giù» che non contempla possibilità di risalita. Nei primi due capitoli Auschwitz è sempre associato al «fondo»...’. 83 Segre (1997), pp.66-67. 82 38 muro che ci rende morti al mondo, ed uno spirgalio sul mistero che regna fra gli uomini liberi intorno alla nostra condizione’. (Op.I, SQU, pp.78-79) Questo tentativo di isolare gli ebrei è parzialmente fallito, perché, infatti, come descrive Primo Levi nello stesso capitolo c’era un ampio traffico con i civili, anche se chi lo faceva era severamente punito. In quali condizioni vivono i prigionieri ebrei? Primo Levi sottolinea ripetutamente quanto estraneo e lontano dal mondo ‘normale’, sia il mondo di Auschwitz. L’anomalità della vita in Lager viene non a caso colta in termini darwinistici come ‘una gigantesca esperienza biologica e sociale’ (Op.I, SQU, p.83): Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita (Op.I, SQU, p.83). Infatti, come vedremo anche nel modo in cui lo scrittore descrive lo spazio, mette in rilievo la condizione eccezionale di questa esperienza, la lontananza dal mondo ‘normale’. Di là del filo spinato c’è il mondo dove vivono gli uomini, qui invece c’è un particolare mondo, a sé stante, dove valgono leggi particolari. In questo modo il filo spinato acquista anche una dimensione metaforica come barriera tra due mondi completamente diversi ed ermeticamente separati. Un riferimento alle leggi particolari che vigono nel Lager, lo troviamo nel capitolo 8 dove viene messo in luce il sistema economico del Lager e la sua peculiarità. Il capitolo finisce con il seguente invito al lettore: Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole «bene» e «male», «giusto» e «ingiusto»; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato (Op.I, SQU, p.82). Un altro esempio lo troviamo nel capitolo 10: il riferimento al filo spinato ci fa capire l’abisso tra il mondo di Auschwitz e quello normale: ‘...mi mostra il testo del Gattermann, a anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto anno, a casa mia’ (Op.I, SQU, p.103). Insomma quelli che vivono rinchiusi tra i fili spinati vivono in un mondo infero in quanto regno dei morti ed in un mondo ermaticamente separato e diverso da quello ‘normale’. In questo contesto, il passo nel canto di Ulisse che riferisce al mare aperto, acquista un nuovo valore. Lo stesso autore ci fornisce il commento: ... Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è 39 « je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane (Op.I, SQU, pp.108-109). Si osservino le metafore di barriera oltrepassata ‘un vincolo infranto’, ‘scagliare se stessi al di là di una barriera’. Per Ulisse l’infrazione del vincolo costituì un atto di hybris, un atto di ribellione contro Dio. Ulisse non fu umile (‘l’ardore/ ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,/ e delli vizi umani e del valore’ Inf. XXVI, 97-98), in fondo non rispettò la superiorità di Dio per cui avrebbe pagato ardendo eternamente nell’inferno. Per Primo Levi e gli altri prigionieri ebrei, il vincolo dovrebbe essere la rassegnazione, mentre l’impulso di ‘scagliare se stessi al di là di una barriera’, non solo la volontà di liberarsi, ma anche di opporsi al sistema tedesco, di non accettare la riduzione dell’uomo a bestia. Lo spazio aperto del mare si riferisce alla libertà, ai ricordi del passato, ‘dolci cose ferocemente lontane’. La chiusura si esprime anche dentro il filo spinato. Infatti, i vari riferimenti alle porte e agli spazi chiusi lasciano le impronte di un’esperienza claustrofobica. Come ha notato Cavaglion ‘la porta è uno dei simboli di SQU’ 84 . Soprattutto nel secondo capitolo la porta è un simbolo di particolare rilievo: ‘Il capitolo “Sul fondo” si è aperto con la “grande porta” e la sua scritta illuminata “Arbeit macht frei” (Op.I, SQU, p.16) 85 . Più avanti si apre una seconda porta che, come nota Cavaglion, ‘a sottolineare l’assurdità della scena’ si apre e si chiude tre volte 86 . Forse si potrebbe leggere questo passo anche come una scena teatrale, in cui la porta rappresenta l’entrata e l’uscita degli attori 87 . Alla fine ‘la sezione si chiuderà con la più simbolica delle porte letterarie di SQU: la soglia della “casa dei morti” 88 . Soprattutto l’esperienza notturna è claustrofobica per la mancanza di spazio: ... non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene (Op.I, SQU, p.26). Non lavora nel mio Kommando e viene in cuccetta solo al momento del silenzio; si avvoltola nella coperta, mi spinge da parte con un colpo delle anche ossute, mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena contro schiena, io mi adopero per conquistarmi una superficie ragionevole di pagliericcio; esercito colle reni una pressione progressiva contro le sue reni, poi mi rigiro e provo a spingere colle ginocchia, gli prendo le caviglie e cerco di 84 Cavaglion (2000), capitolo 2, nota 5, p.35 Ibidem 86 Ivi, capitolo 2, nota 7, p.36 87 Si veda il capitolo 2.4. 88 Cavaglion (2000), capitolo 2, nota 25, p.46. 85 40 sistemarle un po’ più in là in modo da non avere i suoi piedi accanto al viso: ma tutto è inutile, è molto più pesante di me e sembra pietrificato dal sonno (Op.I, SQU, p.53) 89 . In uno dei sogni/incubi descritti nel capitolo 5 non manca l’elemento claustrofobico: La processione del secchio e i tonfi dei calcagni nudi sul legno del pavimento si mutano in un’altra simbolica processione: siamo noi, grigi e identici, piccoli come formiche e grandi fino alle stelle, serrati uno contro l’altro, innumerevoli per tutta la pianura fino all’orizzonte; talora fusi in un’unica sostanza, un impasto angoscioso in cui ci sentiamo invischiati e soffocati; talora in marcia a cerchio, senza principio e senza fine, con vertigine accecante e una marea di nausea che ci sale dai precordi alla gola... (Op.I, SQU, p.56) Paradossalmente lo spazio chiuso fornisce anche protezione. In SQU lo spazio aperto costituisce una minaccia: ‘Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi’ (Op.I, SQU, p.16; ). La chiusura in sé è il modo di difesa per eccellenza in SQU. L’uomo costruisce attorno a sé una nicchia, un guscio, una barriera, un nido insomma. Fuori da questo nido lo aspetta il buio e gelo ‘dello spazio siderale’ (si noti la metafora implicita dell’utero con l’accenno al ‘neonato’ in questo passo) 90 : La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo: di piantare un chiodo sopra la cuccetta per appendervi le scarpe di notte; di stipulare taciti patti di non aggressione coi vicini; di intuire e accettare le consuetudini e le leggi del singolo Kommando e del singolo Block. In virtù di questo lavoro, dopo qualche settimana si riesce a raggiungere un certo equilibrio, un certo grado di sicurezza di fronte agli imprevisti; ci si è fatto un nido, il trauma del travasamento è superato. Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate. È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro (Op.I, SQU, pp.50-51). Anche il sonno si presenta come una stanza chiusa, una corazza dunque fuori dalla quale c’è pericolo mortale 91 : Poi, in seno ai vapori delle digestioni torpide, un nucleo doloroso si condensa, e ci punge, e cresce fino a varcare le soglie della coscienza, e ci toglie la gioia del sonno. «Es wird bald ein Uhr sein»: è quasi la una. Come un cancro rapido e vorace, fa morire il nostro sonno e ci stringe di angoscia preventiva: tendiamo l’orecchio al vento che fischia fuori e al leggero fruscio della neve contro il vetro, «es wird schnell ein Uhr sein». Mentre ognuno si 89 Ed altri riferimenti: ‘Anche qui, come dappertutto, cuccette a tre piani, in tre file per tutta la baracca, separate da due corridoi strettissimi. Le cuccette sono centocinquanta, i malati circa duecentocinquanta: due quindi in quasi tutte le cuccette. I malati delle cuccette superiori, schiacciati contro il soffitto, non possono quasi stare seduti...’ (Op.I, SQU, pp.43-44), ‘Ho due vicini di cuccetta. Giacciono tutto il giorno e tutta la notte fianco a fianco, pelle contro pelle, incrociati come i Pesci dello zodiaco, in modo che ciascuno ha i piedi dell’altro accanto al capo’. (Op.I, SQU, p.45), ‘Una tacita convenzione vuole che nessuno parli: in un minuto tutti dormono, serrati gomito a gomito, cascando improvvisi in avanti e riprendendosi con un irrigidirsi del dorso’ (Op.I, SQU, p.64). 90 Per la metafora del guscio, si vedano le varie note nel commento di Cavaglion (2000). Per il passo citato Cavaglion (2000), capitolo 5, nota 1, p.95. 91 Sulla tematica del sonno, del sogno e dell’incubo e sull’ambiguità dell’incubo come corazza protettiva, si veda Belpoliti (2000). 41 aggrappa al sonno perché non ci abbandoni, tutti i sensi sono tesi nel raccapriccio del segnale che sta per venire, che è fuori della porta, che è qui... (Op.I, SQU, p.64). Si consideri anche: ‘La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi»: l’illusoria barriera delle coperte calde, l’esile corazza del sonno.. (Op.I, SQU, p.57) 92 . Nell’ultimo capitolo invece lo spazio aperto figura per la prima volta come elemento positivo di libertà nella forma della pianura, metafora che si estende anche in T come simbolo di libertà (si vedano i capitoli 2.2 e 2.3). Molto interessante è la presenza delle metafore della finestra, del vetro e dell’acquario. Infatti, credo che anche queste metafore simboleggino la separazione dal mondo di fuori, la barriera, ma per natura una barriera a metà, perché il vetro o l’acquario non bloccano la vista: è appunto la coscienza, il ricordo di un altro mondo lontano e irraggiungibile che provoca il dolore 93 . Si confronti anche il seguente passo: ‘Conservavamo i ricordi della nostra vita anteriore, ma velati e lontani, e perciò profondamente dolci e tristi, come sono per ognuno i ricordi della prima infanzia e di tutte le cose finite...’ (Op.I, SQU, p.112). Forse sarebbe più preciso chiamare queste immagini della finestra, del vetro e dell’acquario, metafore del velo 94 . Ora le analizziamo. Il cielo bianco e il sole, elementi di calore, di vita che non appartengono al mondo di Auschwitz, di fango e di neve, si possono percepire solo attraverso la finestra e ‘le nuvole, come attraverso un vetro affumicato’: ‘Fuori dalla finestra si vede il cielo bianco, e qualche volta il sole; in questo paese lo si può guardare fisso, attraverso le nuvole, come attraverso un vetro affumicato’ (Op.I, SQU, p.42). Nel freddo polacco il sole è letteralmente un dono, ma forse le immagini del cielo bianco e del sole e anche delle nuvole si possono leggere anche come simboli, simboli di un mondo giusto ed innocente, fuori da Auschwitz, che si possono percepire solo in modo velato attraverso la finestra, il vetro o attraverso le nuvole che si presentano anche loro come barriere e dunque come presenze nemiche. Si confronti anche la seguente frase: 92 Per il sogno come elemento protettivo, si veda Belpoliti (2000), p.64: ‘Il sogno è un elemento protettivo rispetto alla realtà quotidiana del Lager. È come se ci fosse stato un rovesciamento tra parte notturna e parte diurna: il Lager è l’incubo a cui il sogno cerca di sottrarsi, dando forma ai propri desideri elementari: fame, sonno, pulizia, benessere fisico e psichico. Il sogno come continua difesa da quell’incubo diurno a occhi aperti, del tutto incomprensibile (il giovane chimico torinese lo ripete in più punti: sembra di vivere un sogno)’. 93 Cavaglion (2000), capitolo 1, nota 36, p.28, vede nella metafora dell’acquario una connessione con altre metafore acquatiche: ‘Molte metafore di SQU si fondano su immagini acquatiche («il trauma da travasamento», l’acqua torbida del Lager che non si può bere si contrappone all’acqua trasparente degli acquari e agli occhi trasparenti degli aguzzini, il mare che copre Ulisse, il ruscello che va verso il mare, nuotare contro corrente: il fatto che in Conversazioni, 62 Levi si prenda gioco degli «psicoanalisti in attesa del loro pasto», di sapere cioè «quante volte hanno usato la parola “acqua” rispettivamente Dante, Leopardi e Montale, e se questa frequenza è in correlazione con i loro « traumi natali o infantili » potrebbe essere, per un freudiano ortodosso, un lapsus molto chiaro)’. Cavaglion si chiede anche se l’immagine degli acquari sia collegata all’immagine del guscio, della corazza. Torno su questo punto nel capitolo 2.3. 94 Per la metafora del velo, si veda anche Belpoliti (2000), p.69. 42 ‘Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole...’ (Op.I, SQU, p.36). Nell’esempio qui sotto gli occhiali figurano come barriera trasparente che permettono la vista sull’altro mondo fuori da Auschwitz. ‘Dietro le gocciole di pioggia degli occhiali’ Primo Levi vede l’uomo Kraus – l’uomo ha un significato pregnante in SQU (si veda il capitolo 1.2) –, cioè quel Kraus che un tempo viveva come uomo e non come bestia o macchina: ‘Andare al passo e fare un discorso complicato in tedesco, è ben troppo, questa volta sono io che lo avverto che ha il passo sbagliato, e lo ho guardato, e ho visto i suoi occhi, dietro le gocciole di pioggia degli occhiali, e sono stati gli occhi dell’uomo Kraus’ (Op.I, SQU, p.130). Quell’osservazione induce Levi a fare un discorso a Kraus, in cui gli racconta un sogno inventato, un breve momento di umanità solo temporaneo, perché ‘per me anche lui è niente, fuorché in un breve momento’ (Op.I, SQU, p.131). Nel passo qui sotto figura la metafora dell’acquario non per rivelare in modo velato il proprio mondo da uomo libero, ma la separazione tra due mondi diversi: quello del prigioniero ebreo e quello della terza Germania. Infatti, il vetro dell’acquario rivela l’impossibilità di capire i tedeschi e la follia della terza Germania. Quando Primo Levi fa l’esame di chimica, si trova di fronte a Doktor Pannwitz che lo guarda e questo sguardo non è uno sguardo fra due uomini: ‘Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania’ (Op.I, SQU, pp.101-102). Nel primo capitolo, dopo il viaggio in treno, si arriva ad Auschwitz. Qui comincia il processo di trasformazione, di alienazione e di separazione dal mondo e dall’essere uomo. Alla luce degli altri esempi citati credo che il riferimento all’acquario sia un presagio di quella separazione dal mondo e dall’essere uomo, l’uomo che è solo attaccato con un filo fragile al mondo di allora: ‘Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni’ (Op.I, SQU, p.13). Lo spazio illimitato in T T è il libro dello spazio illimitato, come proprio dei libri di viaggio, ma qui anche in senso simbolico, come apertura dopo la chiusura di Auschwitz. Infatti, non ci sono più barriere, anche se il libro si apre ancora nell’atmosfera di Auschwitz. Straordinaria è la scelta della prima immagine nel primo capitolo che ci colloca ancora nel vecchio mondo di Auschwitz, mondo separato dall’altro mondo. L’autore sembra guidarci attraverso questa scena di vita e morte con 43 uno sguardo cinematografico: e come se guardassimo con gli occhi di Charles e Primo Levi da dietro i reticolati. La scena è costruita sottilmente attorno alla tematica di vita e morte con cui si apre il libro. Centrale in questa scena sono ‘i vivi e i morti’ (che Charles saluta) attorno ai quali posti in chiasmo (i vivi – i morti – i morti – i vivi): ‘Charles ed io’ (i vivi) – ‘il corpo di Sómogyi, il primo dei morti’ (i morti) - ‘cadaveri scomposti’ (i morti) – ‘noi pochi vivi’ (i vivi): La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo (Op.I, T, pp.205-206) Il tema dei vivi e morti si estende anche all’apparizione dei quattro soldati a cavallo, ‘coi mitragliatori imbracciati’ che fa pensare ai quattro cavalieri dell’Apocalisse che portano rovina e distruzione e la fine del mondo, ma sono ‘giovani soldati’ (si veda la citazione) ed infatti, come l’autore scrive più avanti, ‘quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo’ (Op.I, T, p.206). ‘Messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili’ e dunque l’immagine di pace e di vita (’puerili’). Anche quest’immagine si potrebbe interpretare come un ossimoro in senso lato. La morte e la vita s’intrecciano molto sottilmente in questa scena sul ponte del vecchio mondo di Auschwitz e il nuovo mondo dopo Auschwitz. Credo che il riferimento all’Apocalisse, in quanto annuncio ambiguo di rovina e distruzione da una parte, ma di speranza nella venuta di un nuovo Regno dall’altra parte, sia anche il primo indizio dell’ambiguità del messaggio profondo di T. All’idea di due mondi ermeticamente separati contribuisce anche il modo in cui vengono descritti i quattro soldati a cavallo nelle righe che seguono: sempre dalla prospettiva di Charles e Levi, quasi come una visione: ‘mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo’. Anche nel secondo capitolo troviamo immagini dello spazio chiuso che rappresenta Auschwitz: ‘la tomba del mutismo’ (Op.I, T, p.215) che il piccolo Hurbinek vuole rompere e anche la descrizione dei bambini superstiti di Auschwitz, un ‘piccolo “club”, molto chiuso e riservato, in cui l’intrusione degli adulti era visibilmente sgradita’ (Op.I, T, p.218). Il secondo capitolo è di transizione anche per quanto riguarda lo spazio. Noah è il primo personaggio del 44 ‘nuovo’ mondo: un mondo libero, senza barriere e senza limite. Infatti, è ‘uomo nomade e libero’ e si muove come ‘uccello d’alto volo’ (immagine di libertà), ‘incrociava dall’alba a notte per tutte le strade del campo...’ (Op.I, T, p.221), agli antipodi di Jadzia, descritta poco prima come personaggio che prova a liberarsi dal vecchio mondo, ma non ci riesce: ‘con passo incerto da sonnambula’ e paragonata ad ‘un mollusco di scoglio’ (Op.I, T, p.221), immagine altrettanto animalesca, ma di chiusura. Le immagini di chiusura spariscono dopo il secondo capitolo. Infatti, la terra si apre. Una delle immagini dominanti è la pianura sterminata della terra russa. Credo che dietro quest’immagine reale si riveli anche il simbolo di libertà e di possibilità infinite. Infatti, è indicativo che nell’ultimo capitolo di SQU, che descrive il periodo dopo la fuga dei tedeschi, ‘dieci giorni fuori del mondo e del tempo’ (Op.I, SQU, p.152), l’immagine della pianura appaia per la prima volta per descrivere l’ambiente di Auschwitz e ben quattro volte! Sicuramente la pianura è anche immagine del deserto, letteralmente di un vuoto, sia in Auschwitz (vuoto dopo la partenza dei tedeschi) che in Russia (paese di pianure sterminate), ma forse la pianura è anche simbolo di una vita ‘fuori del mondo e del tempo’ (Op.I, SQU, p.152), come è anche il viaggio in Russia alla fine, con possibilità illimitate e di una libertà sconosciuta. Dall’altra parte questa apertura ha anche un lato negativo. Infatti, lo spazio illimitato si rivela a volte anche come fonte di dolore: ‘A noi italiani, abituati alle quinte di montagne e colline, e alla pianura gremita di presenze umane, lo spazio russo immenso, eroico, dava la vertigine, e ci appesantiva il cuore di ricordi dolorosi’ (Op.I, T, p.316) 95 . Anche il cielo si apre. Il cielo non è basso come in SQU e come nei primi due capitoli di T 96 , ma alto: ‘... guardando un alto cielo pulito dal vento’ (Op.I, T, p.324). Appare l’arcobaleno (‘nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno’ (Op.I, T, p.222), appaiono le stelle (‘il cielo, fittamente stellato’ (Op.I, T, p.226)) e il sole non si nasconde più dietro le nuvole ‘maligne’ (‘il mite sole ebbe prosciugato il fango polacco’ (Op.I, T, p.267)), ‘il sole era già caldo e franco’ (Op.I, T, p.270)). Infatti, la nuvola ha un altro significato, soprattutto in senso metaforico, come simbolo del mistero (per descrivere il dottor Gottlieb: ‘il dottor Gottlieb era involto in una fitta nube di mistero’, ‘la sua arma segreta per farsi amici i nemici, per vanificare i divieti, per mutare i no in sí, non potei mai stabilire: anche questo faceva parte della nuvola che lo avvolgeva e che si spostava con lui’, ‘Era una nuvola quasi visibile’ (Op.I, T, pp.285-286)). C’è una sola eccezione. All’inizio del viaggio nel terzo capitolo leggiamo: ‘Il sole, appena sorto, era scomparso dietro un velo di caligine; dall’alto della scarpata ferroviaria non si 95 Per l’ambiguità della pianura come simbolo, si veda il capitolo 2.3. ‘Piovigginava, e il cielo era basso e fosco’ (Op., T, p.211), ‘Il tutto era deserto, silenzioso, schiacciato sotto il cielo basso, pieno di fango e di pioggia e di abbandono’ (Op., T, p.212). 96 45 vedeva che una sterminata campagna piatta e deserta, sepolta nella neve, senza un tetto, senza un albero. Passarono altre ore: nessuno di noi aveva un orologio’ (Op.I, T, p.227). Infatti, questo passo, con riferimento alla metafora del velo, precede il sentimento negativo un po’ più avanti sulla vita, in cui Levi vede nuove prove e non il mondo perfetto dopo Auschwitz, e conseguentemente anche sulla natura, perché la descrizione della natura rispecchia spesso la psicologia dei personaggi: ‘La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, cosí lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperare era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, alte paure’ (Op.I, T, p.230). L’apertura si ritrova anche nelle descrizioni dei personaggi. I personaggi si muovono irrefrenabilmente attraverso lo spazio. I personaggi si muovono come uccelli, abitanti del cielo: ‘Noah, uccello d’alto volo’ (Op.I, T, p.221), ‘...chiunque poteva benissimo uscire attraverso il buco nei reticolati, e andarsene in città libero come un uccello del cielo’ (Op.I, T, p.260), Sore e la sua silenziosa sorella ‘avevano imparato l’usbeco, e molte altre cose fondamentali: a prendere la vita giorno per giorno, a viaggiare per continenti con una valigetta in due, a vivere insomma come gli uccelli del cielo, che non filano e non tessono e non si curano dell’indomani’ (Op.I, T, p.303), e Vincenzo che ‘spinto da una sua selvatica fierezza, si era rifugiato nella foresta perché nessuno sapesse del suo male; o forse, davanti al male fuggiva, come gli uccelli davanti alla tempesta’ (Op.I, T, p.386). Nel capitolo Teatro i personaggi attraversano il cielo in una strana mescolanza di teatro e realtà: ‘il Tenente sparí, come se assunto in cielo’ (Op.I, T, p.364), ‘...si sentí uno schianto subitaneo, e si vide il capocannibale, vero Deus ex machina, piombare verticalmente sul palcoscenico, come se cadesse dal cielo. Si strappò la sveglia dal collo, l’anello dal naso e il casco di penne dal capo, e gridò con voce di tuono: – Domani si parte!’ (Op.I, T, p.366). Si confronti anche un passo come: ‘Il suo equilibrio era dubbio: nei momenti cruciali si afferrava al microfono, e allora il clamore del pubblico si sospendeva a un tratto, come quando un acrobata salta nel vuoto dal trapezio’ (Op.I, T, p.280). La copertina della prima edizione di La Tregua che reca un disegno di Marc Chagall in cui un ometto volando attraversa lo spazio, esprime perfettamente quest’idea dello spazio illimitato. 46 2.3 La natura Il paesaggio in SQU Come ha notato Cavaglion per descrivere il paesaggio Primo Levi aveva in mente ‘il modello del realismo dantesco’ 97 . Si potrebbe forse dire che Primo Levi abbia battuto il cammino opposto di Dante. Mentre per Dante il punto di partenza è soprattutto un viaggio spirituale e allegorico che descrive poi in termini altamente realistici per farlo apparire come un viaggio realmente fatto, Primo Levi invece parte da un’esperienza realmente vissuta per conferire poi alla descrizione realistica una dimensione che porta oltre quella semplicemente testimoniale. Per una gran parte sono state le feroci condizioni climatologiche polacche a far morire tantissimi prigionieri ad Auschwitz. Il paesaggio di fango – soprattutto capitolo 6 in cui fa da sottofondo per l’intero capitolo 98 –, di pioggia – soprattutto capitolo 14 che è costruito attorno ad una composizione anulare (frase iniziale: ‘Quando piove si vorrebbe poter piangere’ (Op.I, SQU, p.127), ultima frase: ‘...niente come tutto è niente, fuorché in un breve momento, niente come tutto è niente quaggiú, se non la fame dentro, e il freddo e la pioggia intorno’ (Op.I, SQU, p.131)) – di neve, di freddo, di gelo, dove non cresce l’erba e dove non ci sono alberi, dove si vede il sole (‘..un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide..’, (Op.I, SQU, p.66) solamente attraverso le nuvole, e dove di conseguenza non c’è colore, ma tutto è grigio, fosco e pallido, è sicuramente un paesaggio altamente reale che dipinge le atroci circostanze in cui vivevano i prigionieri. Ma credo che le scelte letterarie particolari fatte dall’autore permettano anche una lettura simbolica del paesaggio, in quanto in esso sono compresenti le due dimensioni: reale e simbolica. Prima di tutto l’uso del modello dell’inferno dantesco per descrivere il paesaggio: ‘Come il fango vi sono altre parole-chiave adoperate di continuo, come se fossero dei pro-memoria danteschi: la pioggia, la neve, il vento e la bufera, il buio (la buia notte, le nuvole «maligne»), la nudità, lo sterco: elementi esteriori del paesaggio di Auschwitz che più chiaramente rinviano a Malebolge’ 99 . Nel paesaggio infernale di Dante gli elementi paesaggistici, in quanto 97 Cavaglion (2000), capitolo 2, nota 28, p.47: ‘Anche nella definizione del paesaggio, degli esterni, vale il modello del realismo dantesco. La figura umana, in SQU, sovrasta il paesaggio, ma le diverse sezioni possiedono comunque un loro orizzonte, per quanto fisso, identico a se stesso nel suo grigiore buio, dentro il quale si muovono i personaggi. Il paesaggio è dato, di norma, dal contrasto nuvole-sole, equivalente meteorologico della dialettica chiaro-scuro (....) I vari fenomeni atmosferici, come in Dante, hanno sempre un corrispondente simbolico: l’assenza di luce, lo spirare del vento, la neve e il gelo. L’immagine paesaggistica dominante è quella di una terra ostile, «vaste aree incolte, sordide e sterili», si leggerà più avanti, immagini-simbolo dell’indifferenza della natura rispetto alle sofferenze umane’. 98 Ivi, capitolo 6, nota 5, p.113. 99 Ivi, poesia, nota 3, p.4 47 determinanti del luogo, riflettono la colpa commessa dai dannati nella vita. La crudeltà della discesa infernale ad Auschwitz consiste nel fatto che i prigionieri non hanno commesso nessuna colpa: condannati a un Regno dei Morti senza essere colpevoli. Il paesaggio di SQU come un paesaggio del Male dunque. Precisamente la ripetizione 100 di queste parole, anche in coppia (fango e neve oppure neve e vento) – sottolineata anche da parole come ‘onnipresente’, ‘monotono’ (‘A ogni passo sento le scarpe succhiate dal fango avido, da questo fango polacco onnipresente il cui orrore monotono riempie le nostre giornate, (Op.I, SQU, p.61)), o frasi come ‘...non pareva possibile che veramente esistesse un mondo e un tempo, se non il nostro mondo di fango, e il nostro tempo sterile e stagnante a cui eravamo oramai incapaci di immaginare una fine’ (Op.I, SQU, p.113)’ e ‘oggi il nostro mondo è questa buca di fango’ (Op.I, SQU, p.128) serve a delineare un paesaggio fisso, statico ed eterno, luogo dei morti, un inferno ‘moderno’, insomma. Il fango, la neve, la pioggia, le nuvole, il gelo ecc. che costituiscono gli elementi del paesaggio di Auschwitz sono elementi ostili – ‘truci nubi sanguigne’ (Op.I, SQU, p.23), ‘nuvole maligne’ (Op.I, SQU, p.36), ‘neve inesorabile’ (Op.I, SQU, p.65), ‘aree incolte, sordide e sterili’ (Op.I, SQU, p.115), ‘Dentro al suo recinto [della Buna, FdJ] non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi’ (Op.I, SQU, p.67) –, ‘immagini-simbolo dell’indifferenza della natura rispetto alle sofferenze umane’ 101 , elementi che emanano letalità, tanto da indurre Segre a parlare di ‘rintocchi funebri’ 102 . Salvo qualche eccezione su cui tornerò, altro paesaggio non c’è, se non filtrato, attraverso il velo dei ricordi e delle fantasie. Infatti, dietro le nuvole e nei ricordi e nelle fantasie sono ben presenti, come compagnia fissa, il sole, la montagna, le stagioni miti, il mare ecc., come uno spiraglio di un mondo giusto, ma ferocemente lontano. Alcuni esempi : Salirvi dentro, in un angolo, ben nascosto sotto il carbone, e stare fermo e zitto, al buio, ad ascoltare senza fine il ritmo delle rotaie, più forte della fame e della stanchezza; finché, a un certo momento, il treno si fermerebbe, e sentirei l’aria tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, come si legge nei libri: col viso nell’erba (Op.I, SQU, p.37). Gli raccontai che avevo sognato di essere a casa mia, nella casa dove ero nato, seduto con la mia famiglia, con le gambe sotto il tavolo, e sopra molta, moltissima roba da mangiare. Ed era d’estate, ed era in Italia...’ (Op.I, SQU, p.130). 100 Ivi, capitolo 14, nota 4, p.215: ‘Come si può avvertire nelle prime sezioni che aprono altri capitoli, Levi procede spesso ad una specie di riassunto; donde la monotonia, il tono generale di buon senso che gli è stato, non a torto, rimproverato [...], ma l’incomprensibilità di certe storie si regge anche sulla ripetitività di parti e di segmenti narrativi fissi. I riassunti sono solitamente intessuti di richiami a vocaboli chiave ben chiari ormai nella mente del lettore (fango, melma, schiera) o a sintagmi altrettanto consueti (per esempio «giacere sul fondo», che ritorna nel finale della precedente sezione)’. 101 Cavaglion (2000), capitolo 2, nota 28, p.47. 48 L’odore mi fa trasalire come una frustata: il debole odore aromatico dei laboratori di chimica organica. Per un attimo, evocata con violenza brutale e subito svanita, la grande sala semibuia dell’università, il quarto anno, l’aria mite del maggio in Italia (Op.I, SQU, pp.135-136). L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane (Op.I, SQU, p.109). E le montagne, quando si vedono di lontano...le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! (Op.I, SQU, p.110). Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia (Op.I, SQU, p.139). Un elemento molto interessante è quello del sole. Infatti, è forse l’unico elemento naturale presente nel mondo di Auschwitz con valore positivo, benché a volte di natura ambigua come vedremo. Prima di tutto il sole si mostra esattamente come gli altri elementi desiderati ma assenti (nei ricordi e nelle fantasie), in modo velato, attraverso il velo delle nuvole – si veda qui sopra il capitolo 2.2 –, le nuvole come barriera che ostacolano il sole e dunque come entità negative – ‘truci nubi’ (Op.I, SQU, p.23), ‘nuvole maligne’ (Op.I, SQU, p.36) –. Cavaglion parla del ‘contrasto nuvole – sole, equivalente meteorologico della dialettica chiaro – scuro’ 103 ; io direi anche della dialettica bene – male. Sembra che per quanto riguarda la descrizione del paesaggio, il mondo di Auschwitz sia ben delineato, in termini negativi, lontano da quel mondo fuori da Auschwitz. Ci sono due eccezioni. Nel capitolo 7 sta arrivando la primavera. E infatti sorge il sole, ed anche se è un ‘sole polacco’ e dunque ‘freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide’, suscita ‘un mormorio’ (Op.I, SQU, p.66), perché come commenta Segre: ‘Nel grigiore dominante [...] un raggio di sole, un preannuncio di primavera possono equivalere a una speranza’ 104 : Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori del l’orizzonte di fango. È un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il sole (Op.I, SQU, p.66). Ma di nuovo si capisce come il velo sia una sorta di protezione, perché quando si toglie il velo, quando il sole non viene più filtrato dalle nuvole, rivela non solo montagne, un campanile, ‘colline basse, verdi di foreste’, un paesaggio colorato, sconosciuto ad Auschwitz, ma anche Birkenau dove sono finite le loro donne: 102 Segre (1997), p.69: ‘Del resto il Leitmotiv delle indicazioni di stagione e di clima attraversa tutto il libro, come una serie di rintocchi funebri’. 103 Cavaglion (2000), capitolo 2, nota 28, p.47. 49 Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta del campo, il sole era discretamente alto e il cielo sereno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a ponente, familiare e incongruo, il campanile di Auschwitz (qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni frenati dello sbarramento. I fumi della Buna ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva anche una fila di colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo abituati a vederlo (Op.I, SQU, p.67). Si confronti anche nel primo capitolo (il viaggio) come il sole viene visto come traditore dopo la notte di congedo prima della partenza: ‘L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci’ (Op.I, SQU, p.10). L’unico momento davvero positivo si trova nel capitolo 11 Il canto di Ulisse, annuncio dell’altissima voce di umanità in SQU (si noti come anche qui senza velo – ‘un chiaro cielo’ – il sole sia elemento rivelatore): Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe, e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno. Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero (Op.I, SQU, p.107). Come ha osservato Segre i pensieri nel Lager sono spesso ispirati dalle condizioni climatiche 105 . Questo è il lato realistico delle descrizioni paesaggistiche. Ma credo che oltre a questo realismo, dietro le descrizioni realistiche del paesaggio, si nasconda anche un valore più profondo: quello di una spaccatura abissale tra un mondo giusto fuori dal Lager, ispirato dai ricordi di gioventù e dalle fantasie innocenti e anche dalla cultura, dall’umanesimo (il canto di Ulisse), fonte di dolore, ma anche di speranza, che si connettono alle immagini del mare, della montagna, della stagione mite, e un mondo del Male Assoluto, immobile, fisso ed eterno, delineato dalle ostili e letali immagini dantesche dell’Inferno, dentro il Lager. Si potrebbe dire però che Primo Levi anche qui si contraddica: quei due mondi accuratamente evocati dalle descrizioni paesaggistiche vengono confusi per esempio nel sogno di non essere ascoltato, sogno che si riprende in T che continua sulla linea dell’attesa di un mondo giusto che risulta poi illusorio, perché il Male si estende anche fuori dai fili spinati di Auschwitz. Si pensi anche al passo oscuro in cui Primo Levi spiega il significato del verso dantesco ‘come altrui piacque’ (Op.I, SQU, p.110) e nel suo autocommento che segue, ‘il perché del nostro destino’ che suppone forse un Dio a cui ‘piacque’ il destino degli ebrei. Il bene e il male non sono concetti ben delineati o ben separabili, una visione paradossale, implicita in SQU, di cui i lati oscuri (e pure più nascosti) sono indicativi. Credo che si riveli in SQU uno scrittore che combatte con fatica essenzialmente per ‘capire’, mettendo ordine al ‘caos’ del mondo – un mondo che dopo Auschwitz non corrisponde più a quello logico, razionale e comprensibile della 104 Segre (1997), p.71. 50 filosofia cartesiana, a cui credeva prima – e rendendosi conto che mettere ordine implichi anche accettare il disordine o come lo dice lo scrittore stesso nel suo ultimo libro, in maniera inimitabilmente semplice, il ‘desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è’ (Op.II., SES, p.1018). La faccia di questa lotta dura si rivela nel paradosso, nell’ambiguità, di cui il simbolismo apparentemente semplice del paesaggio è un esempio, in quanto altri indizi contraddicono subito l’idea di due mondi nettamente separati 106 . La natura a rovescio: la metafora animalesca Marco Belpoliti, uno dei maggiori studiosi dell’opera di Primo Levi ha pubblicato un articolo che mette in rilievo un aspetto curioso: la presenza degli animali e la frequenza con cui gli animali compaiono nell’opera leviana 107 . Ha scelto come forma il lemmario che ha come vantaggio di offrire una possibilità per farsi un’idea generale della presenza di un singolo animale nell’intera opera, ma come svantaggio di ignorare il significato delle presenze animalesche nel loro insieme in un singolo libro. Per la collana “Biblioteca degli scrittori” lo stesso Belpoliti ha scritto un’introduzione all’opera e alla persona di Primo Levi. Quest’introduzione contiene una biografia di Primo Levi, un dizionario organizzato per voci e una bibliografia. Una delle voci è dedicata agli animali. Belpoliti propone un bestiario ipotetico per l’intera opera suddiviso in quattro gruppi: 1. Animali sociali e animali individualisti 2. Animali che amano gli spazi aperti e animali che amano stare rintanati 3. Animali veri e animali inventati 4. Animali positivi e animali negativi. A questa classificazione si potrebbe forse ancora aggiungere un quinto gruppo, quello degli animali visibili e degli animali invisibili 108 . Per quanto utile possa essere una tale tassonomia, c’è sempre il rischio del metodo deduttivo – implicito in ogni tassonomia –: il rischio di trascurare gli aspetti singolari. Proprio per SQU vale la pena analizzare i riferimenti animaleschi nel loro insieme, poiché, come vedremo, il bestiario di SQU rivela molto sul funzionamento del mondo del Lager e sul comportamento dell’uomo nel Lager, tanto da poter dire che la linea animalesca sia una metafora tematica in SQU. 105 Segre (1997), p.71. Molti hanno rivelato il lato oscuro di Primo Levi – contro lo stereotipo del tono oggettivo, lo scrivere chiaro ecc. – forse l’aspetto più chiaramente messo in luce a partire dall’uscita dei due volumi (1997) dedicati allo scrittore Primo Levi. Per esempio Cases (1997), Tesio (1997), Mengaldo (1997) che vede l’espressione di questo lato oscuro soprattutto nella figura dell’ossimoro, Cavaglion (1997a), Scarpa (1997). 107 Belpoliti (1997), pp.157-209. Si veda anche Belpoliti e Gordon (2007), pp.52-57. 108 Belpoliti (1998), pp.31-33. 106 51 Si possono individuare due tipi di presenza animalesca in SQU: la presentazione dell’uomo come una bestia – la bestializzazione dell’uomo 109 – e l’uso metaforico dell’animale, o più precisamente – nelle parole di Mengaldo – ‘la frequenza con cui Levi sottopone i comportamenti umani all’analogia di quelli animali’110 . Con l’eccezione dei corvi nell’ultimo capitolo, messaggeri della morte, l’immagine dell’animale è sempre usata per delineare il comportamento dell’uomo (gruppi o individui). In SQU si potrebbe verificare una natura a rovescio, in cui l’uomo è ridotto ad una bestia, a gregge (esseri servili senza volontà o individualità) e ad animali inferiori. In questo mondo a rovescio la natura si capovolge: la natura e le persone muoiono, le cose inanimate, gli oggetti invece vivono. Ora vedremo. Nel capitolo 9 lo scrittore coglie in termini darwiniani la vita nel Lager come ‘una gigantesca esperienza biologica e sociale’, ‘per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alle lotta per la vita’ (Op.I, SQU, p.83). Che l’uomo sia chiamato ‘animale-uomo’, è per sottolineare l’atteggiamento scientifico dell’autore che vuole analizzare nel modo più oggettivo possibile l’esperienza che è stata Auschwitz, ma anche perché l’uomo è ridotto ad un animale-uomo, ad una bestia. Colpisce la frequenza della parola ‘bestia’ (e le parole derivate). La parola ‘bestia’ (e le parole derivate) si riferisce sia ai deportati che agli oppressori (individui o gruppi), la parola ‘bestializzazione’ si riferisce a quello che è stato lo scopo dei campi di annientamento: distruggere l’uomo in ogni senso, ridurre gli uomini a bestie 111 . Un’altra parola che ritorna spesso è la parola ‘gregge’ per sottolineare da una parte il comportamento servile dei deportati (anime morte) che obbediscono meccanicamente agli ordini 109 Belpoliti (1998), p.30 (Animale-uomo): ‘Dunque per Levi l’uomo è un animale? Solo in parte, perché accanto agli istinti aggressivi, alla spinta irrefrenabile alla sopravvivenza esistono “molte consuetudini e molti istinti sociali” che il Lager riduce al silenzio. Il termine con cui lo scrittore definisce la riduzione dell’uomo ad animale è “bestializzazione” (o il sostantivo “bestia” che ritorna numerose volte nei libri e negli scritti dedicati al Lager)’. Si veda anche Belpoliti (1997), pp.159-161. 110 Mengaldo (1997), pp.228-229. Mengaldo (1997, p.230) collega l’uso dei paragoni animali alla tendenza di osservare il comportamento umano con l’occhio del naturalista. 111 Op.I, SQU ‘molti, bestialmente, orinano correndo ...’ (p.33), ‘...il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare...’ (p.35), ‘Anche i Kapos lo sanno: alcuni si percuotono per pura bestialità’ (p.61), ‘... è “fressen”, il mangiare delle bestie, e non certo “essen”, il mangiare degli uomini...’ (p.71), ‘Sui prominenti non ebrei c’è meno da dire [...] Che siano stati stolidi e bestiali è naturale...’ (p.88), ‘Dalla sua persona emana un senso di vigore bestiale’ (p.92), ‘...la sola strada di salvezza conduce a Elias: alla demenza e alla bestialità subdola’ (p.94), ‘Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un bestione violento e infido ...’ (p.106), ‘Abbiamo dovuto sudare fra la polvere e le macerie roventi, e tremare come bestie ...’ (p.114), ‘...non era rassegnazione cosciente, ma il torpore opaco delle bestie domate con le percosse, a cui non dolgono più le percosse’ (pp.114-115), ‘... per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a contenderci il boccono l’uno l’altro, bestialmente e senza ritegno...’ (p.117), ‘Siamo entrati in laboratorio timidi, sospettosi e disorientati come tre bestie selvagge...’ (p.135), ‘Avevano gli occhi come le bestie impaurite’ (p.150), ‘L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti’ (pp.167-168). 52 e dall’altra parte l’uniformità dei deportati: gli individui non ci sono più e con essi è sparita anche ogni traccia di umanità 112 . Per sottolineare il loro stato inferiore, ignobile e vile, gli uomini sono anche paragonati ad animali inferiori e ripugnanti, ad animali che vivono attaccati alla terra, vermi e larve, forse in riferimento ai ‘fastidiosi vermi’ dell’Inferno (Inf. III, 69) 113 . In SQU figurano anche paragoni con i cavalli ed i cani, ma come animali servili, non come animali liberi e veloci 114 . Due volte Levi usa paragoni animaleschi che sottolineano la velocità, ma queste immagini di velocità vengono applicate a coloro che hanno saputo sopravvivere nel campo, i salvati, le eccezioni. Elias, il piccolo mostro selvaggio viene paragonato ad una scimmia, Henri, ‘scaltro e incomprensibile come il Serpente della Genesi’ 115 ad un gatto: Elias, nonostante le suole di legno, si arrampica come una scimmia su per le impalcature, e corre sicuro su travi sospese nel vuoto ... (Op.I, SQU, p.92) [Henri, FdJ] .. si muove con languida naturale eleganza (quantunque all’occorenza sappia correre e saltare come un gatto... (Op.I, SQU p.95). Un aspetto molto interessante e simile a quello descritto nel capitolo ‘lo spazio’ è la metafora animalesca per descrivere la chiusura: l’uomo che si ritira in se stesso. In genere, questa metafora della chiusura è, come spiega e analizza Cavaglion nelle sue note al testo, “la metafora ossessiva” di Levi 116 e si esprime in vari modi. Consideriamo prima in che cosa consista questa metafora della chiusura. Nel capitolo ‘lo spazio’ abbiamo considerato la metafora della chiusura come protezione: ‘la facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa...’ (Op.I, SQU, p.50). Si considerino anche questi esempi della stessa metafora per descrivere il personaggio Henri, che si è salvato proprio per il fatto che si è chiuso in sé (‘chiuso in una corazza’) rompendo ogni contatto vero e proprio : 112 Op.I, SQU ‘... noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore...’ (le pecore che sono anche animali di gregge p.32), ‘... e gli abiti di tutti, madidi di fango e di neve, fumano densi alla vampa della stufa, con odore di canile e di gregge’ (p.64), ‘Egli dedicò ogni cura al non essere confuso col gregge ...’ (p.90), ‘Il lavoro costruttivo cessò; la potenza dello sterminato gregge di schiavi fu rivolta altrove ..’ (p.113), ‘Ad allarme finito, ritornavamo da ogni parte ai nostri posti, gregge muto innumerevole...’ (p.115), ‘In campo alla sera e al mattino, nulla mi distingue dal gregge ...’ (p.137), ‘Vorrei poter raccontare che di fra noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto’ (p.145), ‘... se non mi fossi sentito cosí debole, avrei seguito l’istinto del gregge...’ (p.150). 113 Op.I, SQU ‘Oh poter piangere! Oh poter affrontare il vento come un tempo facevamo, da pari a pari, e non come qui, come vermi vuoti di anima!’ (p.64), ‘... i malati in grado dimuoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi ..’ (p.154), ‘Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve’ (p.167). 114 Op.I, SQU ‘Non possiede la rudimentale astuzia dei cavalli da traino, che smettono di tirare un po’ prima di giungere all’esaurimento..’ (p.37), ‘Mi ricorda i cani da slitta dei libri di London, che faticano fino all’ultimo respiro e muoiono sulla pista’ (p.37), ‘...accompagnando le percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi’ (p.61). 115 Per il serpente, si veda Belpoliti (1997), p.204-205. 53 Suo fratello è morto in Buna nell’ultimo inverno, e da quel giorno Henri ha reciso ogni vincolo di affetti; si è chiuso in sé come in una corazza... (Op.I, SQU, p.94) 117 Henri domanda cortesemente scusa («... j’ai quelque chose à faire», «... j’ai quelqu’un à voir»), ed eccolo di nuovo tutto alla sua caccia e alla sua lotta: duro e lontano, chiuso nella sua corazza, nemico di tutti, inumanamente scaltro e incomprensibile come il Serpente della Genesi (Op.I, SQU, p.96) 118 . Cavaglion osserva che gli aguzzini hanno un guscio, anzi «una corazza», “la corazza” è la metafora della chiusura per gli aguzzini 119 e, come si vede nell’esempio soprastante, anche per i salvati. Forse si potrebbe dire che la metafora della chiusura non esprima solo la difesa (la nicchia, il guscio, il nido), ma anche la lotta solitaria, l’isolamento, la fine dei rapporti umani, del contatto, della comunicazione (la corazza) che è un modo di sopravvivenza, ma anche la fine dell’umanità. O forse sono i due lati della stessa medaglia: l’unico modo di sopravvivenza (di difesa dunque) è infatti, la lotta solitaria. Questa metafora si estende anche in riferimento agli animali, con lo stesso significato. I deportati appena arrivati cercano subito la protezione: ‘Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte’ (Op.I, SQU, p.32). Non solo i deportati, ma anche i Kapos si sono chiusi in una corazza. Solo alcuni deportati riescono a rompere la corazza e diventano ‘salvati’ : Come l’icneumone paralizza i grossi bruchi pelosi, ferendoli nel loro unico ganglio vulnerabile, così Henri valuta con un’occhiata il soggetto, «son type»; gli parla brevemente, a ciascuno con il linguaggio appropriato, e il «type» è conquistato... (Op.I, SQU, p.95) 120 Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un bestione violento e infido, corazzato di solida e compatta ignoranza e stupidità, eccezion fatta per il suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e consumato ...... Era stata un’opera lenta cauta e sottile <affermarsi nella fiducia di Alex, il Kapo>, che l’intero Kommando aveva seguita per un mese a fiato sospeso; ma alla fine la difesa dell’istrice fu penetrata, e Pikolo confermato nella carica, con soddisfazione di tutti gli interessati (Op.I., SQU, p.106) 121 L’ultimo caso, quello della metafora dell’involucro, è molto interessante: 116 Cavaglion (2000), capitolo 4, nota 3, p.71. Cavaglion (2000), capitolo 9, nota 29, p.163: ‘Di nuovo la barriera protettiva di un guscio che diventa, in Henri, come in genere negli aguzzini, una corazza’. 118 Ivi, capitolo 9, nota 32, p.166: ‘Ecco la consueta immagine difensiva. Henri è riuscito a mettere una barriera fra sé e il mondo incandescente del Lager. La sua è una vera, funzionale corazza ignifuga, Henri non esplode mai’. 119 Ivi, capitolo 4, nota 3, pp.71-72. 120 Ivi, capitolo 9, nota 31, p.165: ‘La nota esplicativa fornita da Levi per gli studenti [Gli icneumoni sono insetti dell’ordine degli imenotteri: non solo paralizzano i bruchi, ma nel loro corpo ormai indifeso depongono le uova; le larve che poi ne scaturiscono si nutrono a spese dell’ospite] legittima l’inserzione dell’icneumone, o meglio delle larve che si nutrono dentro il suo corpo, nell’elenco simbolico delle immagini di animali che si costruiscono un guscio protettivo’. 121 Ivi, capitolo 11, nota 5, p.182: ‘Ulteriore variazione sul tema della protezione, dello schermo protettivo, del guscio, della corazza (anche di Alex poco sopra si è detto «corazzato di solida e compatta ignoranza e stupidità»). Gli Häftlinge sono i vermi senz’anima, gli aguzzini, o i Kapos, sono corazzati ma non invulnerabili, icneumoni come Henri. Adesso è il turno dell’istrice la cui difesa è penetrata da Pikolo’. 117 54 ....Null Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote (Op.I, SQU, p.36) Come spiega Cavaglion questo è un esempio della protezione negata, perché l’uomo dietro la barriera protettiva – che doveva essere difeso – è distrutto: ‘l’immagine sta a indicare che la barriera protettiva non è servita a nulla, l’esplosione è già avvenuta (....) e non rimangono da vedere che le spoglie, i gusci abbandonati’ 122 . Cavaglion si chiede se l’immagine degli acquari (si veda il capitolo ‘lo spazio’) sia collegata all’immagine del guscio, della corazza 123 . Secondo me gli acquari e anche il vetro simboleggiano come la corazza e il guscio l’isolamento, ma in un modo leggermente diverso. Mentre il guscio e la corazza simboleggiano l’uomo chiuso in se stesso e la sua lotta solitaria, la separazione dagli altri che vivono in Lager dunque, gli acquari ed il vetro simboleggiano la separazione dal mondo ‘normale’, dal mondo in cui vivono gli uomini. Il punto in comune è comunque l’isolamento, nel suo insieme, l’isolamento totale, senza contatti con gli altri e fuori dal mondo. Di particolare rilievo è il fatto che gli oggetti inanimati vengono spesso presentati come se fossero vivi, come se fossero persone o animali. Secondo me questo non è un caso, ma sottolinea un mondo permeato dalla presenza della morte, un mondo rovesciato in cui la natura e le persone muoiono e – simbolicamente – gli oggetti vivono. Il passo fondamentale lo troviamo in capitolo 7: La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bellezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi disumani e Sinistri. Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi (Op.I, SQU, p.67). Alcuni altri esempi : A ogni passo sento le scarpe succhiate dal fango avido, da questo fango polacco onnipresente il cui orrore monotono riempie le nostre giornate (Op.I, SQU, p.61) Nessun tedesco poteva ormai dimenticare che noi eravamo dall’altra parte: dalla parte dei terribili seminatori che solcavano il cielo tedesco da padroni, al di sopra di ogni sbarramento, e torcevano il ferro vivo delle loro opere, portando ogni giorno la strage fin dentro alle loro case, nelle case mai prima violate del popolo tedesco (Op.I, SQU, p.114). 122 123 Cavaglion (2000), capitolo 4, nota 3, pp.71-72. Ibidem 55 La Buna è silenziosa adesso (Op.I, SQU, p.133) .... La Buna dilaniata giace sotto la prima neve, silenziosa e rigida come uno smisurato cadavere; ogni giorno abbaiano le sirene del Fliegeralarm ... (Op.I, SQU, p.135) Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo (Op.I, SQU, p.36). Curioso è il passo in cui la draga viene rappresentata come un animale che mangia: Ma come si potrebbe pensare di non aver fame? il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente. Al di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida, e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave, e ricomincia. Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle floscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga (Op.I, SQU, p.69). La spiegazione si trova nel meccanismo psicologico della proiezione. La fame è una sensazione talmente dolorosa e penosa per i deportati, che non si può pensare ad altro. La descrizione della draga è dunque un curioso caso di focalizzazione interna 124 . In questo mondo rovesciato gli uomini invece si comportano come automi, come macchine – infatti il Lager viene spesso descritto come una macchina –, perché ‘le loro anime sono morte’. Alcuni esempi : Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. I tedeschi sono riusciti a questo. Sono diecimila, e sono una sola grigia macchina; sono esattamente determinati; non pensano e non vogliono, camminano (Op.I, SQU, p.45). Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola (Op.I, SQU, pp.166167). Dopo aver esaminato l’immagine dell’animale in SQU possiamo chiederci qual è il significato della figura dell’animale in SQU. Dietro i paragoni animaleschi si nasconde una visione sul mondo di Auschwitz: comportamento bestiale, schiavitù, disumanizzazione, isolamento e lotta solitaria, un mondo rovesciato in cui vivono gli oggetti e muoiono la gente e la natura. Mi sembra che la metafora animalesca rafforzi l’idea della fine dell’umanità e di un mondo 124 Non mi sembra logico distinguere un aspetto disneyano in questo frammento, come fa Cavaglion (2000), capitolo 7, nota 13, pp.126-127: ‘si nota altresì un aspetto vagamente cinematografico, quasi disneyano più che dantesco (sebbene sia chiaro il rinvio al «fiero pasto» di Ugolino). L’anima degli oggetti: fiori che ridono, alberi che parlano, macchine che comunicano sensazioni’. Secondo me in SQU la presentazione degli oggetti come elementi vivi ed animati ha tutto un altro senso: Auschwitz è un mondo capovolto. 56 permeato dall’onnipresenza della morte. In T invece non c’è una linea animalesca così consistentemente tematizzata. Come abbiamo notato però – si veda il capitolo 2.2 – in T figura spesso l’uccello, simbolo della libertà. Nei passi in cui ritorna Auschwitz o l’atmosfera di Auschwitz, ritroviamo anche alcune delle immagini animalesche simili a quelle citate. Seguono alcuni esempi . Primo Levi non si è ancora liberato dal comportamento che si impara in Auschwitz: ‘Entrai, guardingo come un cane randagio, pronto a sparire al primo gesto di minaccia, ma nessuno badò a me’ (Op.I, T, p.231). Delle donne ucraine che erano andate a lavorare ‘volontariamente’ in Germania, il rimpatrio è ‘senza gioia e senza speranza’: Corpi giovanili, ancora solidi e sani, ma visi chiusi ed acri, occhi fuggitivi, una conturbante, animalesca umiliazione e rassegnazione... Di animali umiliati e domati erano la loro inerzia, il loro appartarsi, la loro dolente mancanza di pudore. Noi soli assistevamo con pietà e tristezza al loro passaggio, nuova testimonianza e nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l’Europa (Op.I, T, p.310). Primo Levi racconta l’incontro con Flora, la prostituta in Auschwitz ed il pettine che Alberto e lui le avevano allora regalato: ‘Alberto, che sapeva trovare le cose più strane perché girava tutto il giorno con gli occhi al suolo come un segugio, trovò chissà dove un pettine, e lo regalammo solennemente a Flora...’ (Op.I, T, p.352). Queste tracce che si adattano perfettamente alle immagini animalesche incontrate in SQU, ci fanno capire che la linea di SQU continua anche in T. La natura in T Primo Levi configura il suo secondo libro come un viaggio attraverso la Russia e altri paesi meravigliosi. Durante il suo viaggio incontra figure straordinarie e altrettanto straordinari sono i paesaggi descritti, scenari maestosi e monotoni: la pianura sterminata della Russia, foreste dense e selvagge, steppe deserte, villaggi sperduti, le paludi del Pripet ecc. Anche se queste descrizioni sono profondamente realistiche e veritiere, predomina quasi sempre il valore simbolico. Vale soprattutto per l’immagine del vento – una delle immagini predominanti in T – che ha quasi esclusivamente un significato metaforico. I primi due capitoli si svolgono ancora ad Auschwitz. Le immagini scelte dall’autore corrispondono a questo luogo: sono le immagini che abbiamo incontrato in SQU, quelle della natura morta, immobile e nemica. Allo stesso tempo si verifica un mutamento che corrisponde alla ripresa della vita dopo la morte ad Auschwitz e l’inizio del lungo viaggio verso casa. Il punto di partenza per questo mutamento lo troviamo nel secondo capitolo. Nel secondo capitolo il vecchio mondo di Auschwitz e il nuovo mondo post-Auschwitz si alternano e si scontrano. Per questo si potrebbe interpretare questo capitolo come capitolo di 57 transizione. Da qui in poi cambia anche il paesaggio e le immagini naturali. Predominano tre immagini: il vento, il bosco e la pianura. Gli animali scelti sono soprattutto animali vivaci e veloci e liberi. È anche vero che Auschwitz è sempre presente, anche nelle immagini naturali. Ora vedremo in dettaglio. La rottura con SQU Nei primi due capitoli il paesaggio è identico a quello descritto in SQU: grigio, immobile, minaccioso, pieno di fango, neve e pioggia : A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo (Op.I, T, p.206). Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose... (Op.I, T, p.210) Piovigginava, e il cielo era basso e fosco (Op.I, T, p.211). Il tutto era deserto, silenzioso, schiacciato sotto il cielo basso, pieno di fango e di pioggia e di abbandono (Op.I, T, p.212) Anche i paragoni animaleschi si inseriscono facilmente nell’atmosfera del libro precedente. La parola ‘bestia’ è fortemente legata alla realtà del Lager, soprattutto alla ‘bestializzazione dell’uomo’, sia l’oppressore che il deportato (si veda la natura in SQU). Infatti, la parola ‘bestia’ (e le parole derivate) non compare più in T a partire dal terzo capitolo (se non per indicare animali veri e propri). Troviamo nel secondo capitolo ancora due esempi legati ad Auschwitz : Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle (Op.I, T, p.210). Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito (Op.I, T, p.216). Sempre nel secondo capitolo, attorno al personaggio Jadzia troviamo la metafora della corazza nella figura del ‘mollusco di scoglio’ (simbolo di protezione e isolamento, si veda ‘la natura in SQU’): Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall’interno, sconvolto da una segreta continua tempesta. 58 Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l’uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l’uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio ... la tenue Jadzia si limitava a tendere intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio... (Op.I, T, p.221). Si noti anche un’altra espressione della chiusura – ‘...ma il suo involucro di carne anemica ... ‘ – che è un’eco di un brano in SQU che abbiamo incontrato prima: la parola ‘involucro’ a proposito di Null Achtzehn, il mussulmano per eccellenza: ‘Quando parla, quando guarda, dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote’ (Op.I. SQU, p.36, si veda anche la natura in SQU). Infatti, Jadzia è un personaggio intermedio tra il vecchio e il nuovo mondo. Da una parte la sua spinta sessuale la posiziona nel nuovo mondo in cui la vita riprende: è il suo tentativo di superare la sua ‘inerzia’ (una parola chiave in T per indicare la ferita che ha lasciato Auschwitz e l’impossibilità di riprendere la vita che ne risulta). Infatti, la sessualità è pressoché assente in SQU, mentre nel secondo capitolo di T la sessualità è una delle tematiche predominanti, come espressione di ripresa della vita. Dall’altra parte Jadzia non riesce veramente a superare la sua inerzia, perché è troppo ferita da Auschwitz: risponde a questo impulso in modo meccanico, ‘come la calamita attira il ferro’, in modo passivo senza predominio su se stessa ‘con occhi incantati e attoniti’, ‘con passo incerto da sonnambula’, con il linguaggio verbale e non-verbale del Lager ‘in silenzio’, ‘con gli occhi bassi’. Predomina alla fine la chiusura: ‘si limitava a tendere intorno a sé le su reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio’. Già a partire dal secondo capitolo si verifica un mutamento, una ripresa della vita, che inizia con le parole: ‘Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l’ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente’ (Op.I, T, p.215). In questo senso il secondo capitolo si legge come capitolo di transizione: accanto alla morte (la chiusura dei conti) ricomincia la vita. Questa ripresa della vita si esprime anche nella scelta delle immagini della natura, che in questo capitolo, come vedremo, sono tutte immagini metaforiche. Esaminiamo ora queste immagini che costituiscono una rottura con le immagini predominanti in SQU e soprattutto con la visione sulla natura e sul mondo che ne derivano. 59 Il vento e il Caos primigenio Come abbiamo visto, l’immagine della natura in SQU è legata alla morte, immagine perversa di un mondo a rovescio in cui gli oggetti sono più vivi degli esseri ‘animati’ (gli uomini e la natura). In T si verifica un mutamento, una rottura con questo mondo a rovescio a partire dal secondo/ terzo capitolo (il secondo capitolo funziona come capitolo di transizione). Infatti, la vita riprende e la natura, che anche in T – e forse ancora più che in SQU in cui realismo e simbolismo sono legati in un rapporto di simbiosi – rispecchia soprattutto simbolicamente i sentimenti dei personaggi, torna ad essere la fonte della vita. Come vedremo una delle immagini predominanti in T è il vento (e altre parole nello stesso campo semantico come tempesta, turbine e uragano). Questo vento è quasi sempre usato in senso metaforico 125 come simbolo di un mutamento, di una rottura con il mondo corrotto e perverso di SQU, portatore di una metamorfosi e una rinascita che è alla base di un nuovo mondo. Analizziamo ora quest’immagine del vento. Il passaggio chiave si trova nel terzo capitolo: In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi (Op.I, T, p.226). Che questo passaggio sia tanto importante per il significato del intero libro risulta dal fatto che Primo Levi si era ispirato proprio a questo brano per il primo titolo del libro: Vento alto 126 . È interessante l’osservazione di Belpoliti che ‘questo titolo avrebbe d’altro canto suggerito una lettura differente dell’intero volume, forse stabilendo una maggior rottura rispetto alla precedente opera; è probabile che la stessa pagina finale del libro, quella con il sogno del risveglio che riporta tutta la storia alla terribile realtà del Lager, sia stata aggiunta successivamente, quasi a siglare la continuità tra le due prime opere (nel quaderno manoscritto della Tregua, in possesso di Giovanni Tesio, mancano gli ultimi capitoli del libro)’ 127 . L’ipotesi dell’aggiunta successiva mi sembra plausibile, soprattutto visto la preferenza leviana per la composizione anulare, espressione anche della sua preferenza per la simmetria. Ancora più importante sarebbero le conseguenze per il messaggio del libro. Infatti, il titolo La Tregua suggerisce una lettura molto ambigua: il libro si apre con la liberazione del Campo e la libertà che ne consegue. Ma questa 125 Immagini del vento in senso letterale (Op.I, T): ‘vento umido minaccioso di disgelo’ (p.206), ‘vento selvaggio’ (p.241), ‘guardando un alto cielo pulito dal vento’ (p.324). Le immagini del vento in senso metaforico le esaminerò tutte. 126 Belpoliti (1998), p.186 127 Ibidem 60 speranza risulta illusoria e solo temporanea, infatti una tregua, perchè alla fine ritorna Auschwitz e ‘nulla era vero all’infuori del Lager’ (Op.I, T, p.395). Secondo la mia ipotesi (si veda l’introduzione) questo primo titolo Vento alto, per quanto dia un’enfasi diversa all’opera, più ottimista come vedremo, non significherebbe di per sè una rottura fra SQU e T. In effetti il vento come immagine di movimento e portatore di una metamorfosi ed una rinascita (T) e l’immagine contrastante della natura morta (SQU) costituiscono simboli del rapporto speculare tra vita e morte. Ora vedremo. Cosa significa Vento alto? Perché Primo Levi voleva proprio intitolare il suo secondo libro cosí? Come ho già detto il vento (e altre parole simili) è quasi sempre usato in senso metaforico, spesso legato ai personaggi. Nel secondo capitolo, capitolo di transizione, troviamo i primi esempi: Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall’interno, sconvolto da una segreta continua tempesta. Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l’uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l’uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio (Op.I, T, p.221). Come abbiamo già detto, Jadzia è un personaggio intermedio. Da una parte si mette in movimento per superare la sua ‘inerzia’ (la malattia di Auschwitz), spinta da un immediato bisogno sessuale. Infatti, come tale il bisogno sessuale è espressione di vitalità, rafforzata dalla metafora della tempesta come simbolo di movimento. Dall’altra parte si chiude in sé e risponde passivamente alle sue esigenze ‘come un mollusco di scoglio’ (si veda sopra). Essenziale è la scelta dell’aggettivo ‘segreta’: la sua tempesta è segreta, parola densa di significato in cui si legge inerzia, passività, ma soprattutto introversione, insomma chiusura in sé. Il personaggio Jadzia fiancheggia Noah, personaggio opposto: ‘ciò che nell’una è annullamento, istinto in cui sesso e morte alla fine si identificano, nell’altro diviene vitalità...’ 128 . Mentre Jadzia si chiude in se stessa e si muove come un fantasma, Noah è estroverso, aperto ed irrefrenabile. I suoi convegni d’amore sembrano ‘uragani’, espressione di vitalità e libertà: Noah non abitava nella nostra camerata, anzi, non abitava in nessun luogo e in tutti. Era un uomo nomade e libero, lieto dell’aria che respirava e della terra che calcava. Era il Scheissminister di Auschwitz libera, il Ministro delle latrine e pozzi neri: ma nonostante questo suo incarico da monatto (che d’altronde egli aveva assunto volontariamente) non c’era nulla di turpe in lui, o se qualcosa c’era, era sopraffatto e cancellato dall’impeto del suo vigore vitale. Noah era un giovanissimo pantagruele, forte come un cavallo, vorace e salace. Come Jadzia voleva tutti gli uomini, cosí Noah voleva tutte le donne: ma mentre la tenue Jadzia si limitava a tendere 128 Grassano (1981), p.47 61 intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio, Noah, uccello d’alto volo, incrociava dall’alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all’ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d’oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d’amore sembravano uragani. Era l’amico di tutti gli uomini e l’amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare (Op.I, T, pp.221-222). Il passo è molto interessante in quanto Noah è il primo personaggio ‘nuovo’ che popola il mondo ‘nuovo’, post-Auschwitz. Infatti, è un personaggio libero (‘un uomo nomade e libero’, ‘uccello d’alto volo’), in contatto con la natura (‘lieto dell’aria che respirava e della terra che calcava’), pieno di vitalità (‘vigore vitale’), sano (‘forte come un cavallo’), un personaggio anomalo, variopinto e un po’ teatrale (‘un principe d’oriente’ anche se ‘vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e die alamari’). Ritroviamo molte di queste cose anche in altri personaggi che popolano il mondo di T. Di particolare interesse è l’ultima frase, di nuovo espressione metaforica: ‘Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare’. Molti personaggi che figurano in SQU e in T hanno nomi diversi nella realtà. Per quanto io sappia, non c’è uno studio sistematico sui personaggi e sulle persone reali che figurano in SQU e in T. Di Noah non so se sia il suo nome vero o no. Comunque sia, il legame tra Noah e la metafora del diluvio non può essere casuale: riferisce alla storia biblica dell’Arca di Noè. Lo afferma anche Levi stesso in una nota all’edizione scolastica di T: ‘Allusione biblica, suggerita dal nome del personaggio: Noah è infatti la forma ebraica di Noè’ 129 . È difficile stabilire se c’è forse anche una dimensione veramente religiosa in questo riferimento biblico, nonostante lo stereotipo dello scrittore razionalista e empirista, o solo un topos letterario: il mondo ‘peccaminoso’ di Auschwitz (‘cielo nero’) è crollato e ricomincia la vita nella creazione di un nuovo mondo. Qui abbiamo una prima indicazione per l’immagine che lo scrittore elaborerà nel terzo capitolo con la metafora della cosmogonia, come vedremo. Nel terzo capitolo, subito dopo il passo chiave del ‘vento alto’, si legge: ‘Travolto anch’io dal turbine, in una gelida notte, dopo una copiosa nevicata, molte ore prima dell’alba, mi trovai dunque caricato su di una carretta militare a cavalli, insieme con una decina di compagni che non conoscevo’ (Op.I, T, p.226). Credo che il ‘turbine’ si colleghi direttamente al ‘vento alto’ in senso metaforico. Anche Primo Levi personaggio cerca la ripresa della vita. Infatti, il libro si può anche leggere come una specie di Bildungsroman in cui Primo Levi ristabilisce il legame con la vita attraverso i contatti umani ed i contatti con la natura. Ed infatti, c’è uno sviluppo (anche se il libro finisce con la nota molto cupa sul ritorno eterno di Auschwitz nel sogno evocato sull’ultima 129 Primo Levi (1965), La tregua, capitolo 2, nota 3, p.36. 62 pagina del libro). Quando Levi incontra Flora, una prostituta del Lager, si rende conto della sua metamorfosi, espressa nella figura della farfalla: Di fronte a quei fantasmi, al me stesso di Buna, alla donna del ricordo ed alla sua reincarnazione, mi sentivo cambiato, intensamente «altro», come una farfalla davanti a un bruco. Nel limbo di Staryje Doroghi mi sentivo sporco, stracciato, stanco, greve, estenuato dall’attesa, eppure giovane e pieno di potenze e rivolto verso l’avvenire: Flora, invece, non era cambiata (Op.I, T, p.353). I personaggi più importanti per questo sviluppo personale sono il Greco e Cesare a cui sono dedicati due capitoli interi. Soprattutto nel rapporto con Cesare si vede come il contatto umano sia salutare: ‘assistere alle imprese di Cesare, anche alle più modeste e triviali, costituiva una esperienza unica, uno spettacolo vivo e corroborante, che mi riconciliava col mondo, e riaccendeva in me la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta’ (Op.I, T, p.270). Il contatto con la natura che Primo Levi cerca, spiega la mancanza di essa in Auschwitz. Anche un rapporto armonioso con la natura fa parte dell’essere uomini 130 . Nel capitolo I sognatori la metafora della tempesta esprime piuttosto l’aspetto selvaggio del Moro, della sua collera senza tregua, una sorta di forza primordiale: ‘... e il suo petto profondo si sollevava come il mare quando gonfia in tempesta, e il meccanismo del vituperio si rimetteva in movimento’ (Op.I, T, p.288). Di ‘Sore e la sua silenziosa sorella’ la metafora si usa per la vita randagia, una vita di improvvisazione: Loro due avevano imparato l’usbeco, e molte altre cose fondamentali: a prendere la vita giorno per giorno, a viaggiare per continenti con una valigetta in due, a vivere insomma come gli uccelli del cielo, che non filano e non tessono e non si curano dell’indomani. Tali erano, Sore e la sua silenziosa sorella. Erano, come noi, sulla strada del ritorno. Avevano lasciato Samarcanda in marzo, e si erano messe in via come una piuma si abbandona al vento (Op.I, T, p.303). Ci sono poi altri casi in cui non figurano i personaggi, ma il significato della metafora è identico. La città di Katowice rivive dopo l’uragano del passaggio del fronte - si noti il parallelismo con il passo chiave del vento alto nel terzo capitolo: ‘In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra’: Eppure la città viveva, dopo gli anni di incubo della occupazione nazista e l’uragano del passaggio del fronte. Molte botteghe e caffè erano aperti; addirittura proliferante il mercato libero; in funzione i tram, i pozzi di carbone, le scuole, i cinematografi (Op.I, T, pp. 268-269). L’uragano che esplode esprime (di nuovo) la forza primordiale che rasenta l’idea di vitalità: 130 Op. I, T, p.295: ‘Avevo camminato per ore nell’aria meravigliosa del mattino, aspirandola come una medicina fino in fondo ai miei polmoni malconci. Non ero molto solido sulle gambe, ma sentivo un bisogno imperioso di riprendere possesso del mio corpo, di ristabilire il contatto, rotto da ormai quasi due anni, con gli alberi e con l’erba, 63 Esplose un uragano di risa selvagge (Op.I, T, p.273) Il giorno seguente era il 1° maggio; il 3 maggio ricorreva non so quale importante solennità polacca; l’8 maggio la guerra finí. La notizia, per quanto attesa, esplose come un uragano: per otto giorni, il campo, la Kommandantur, Bogucice, Katowice, l’intera Polonia e l’intera Armata Rossa si scatenarono in un parossismo di entusiasmo delirante (Op.I, T, p.278). Il vento si unisce alla vitalità: ..ancor pieno del gran vento di vitalità e di forza comica della sera avanti (Op.I, T, p.282) Quali conclusioni possiamo trarre da quest’analisi del simbolo del vento? Prima di tutto che il vento è quasi sempre usato in senso metaforico, come riferimento soprattutto alle persone, ma anche alla città per esempio. È metafora del movimento, dell’esplosione e della metamorfosi: personaggi che ricominciano a vivere, le città che cominciano a brulicare, a volte con una forza primordiale quasi selvaggia. E come tale, e soprattutto nell’ombra di Auschwitz, la metafora è espressione di una nuova creazione, di un mondo che ricomincia a vivere: un Caos primigenio in una cosmogonia insomma (si veda il brano del terzo capitolo). Infatti, il titolo rifiutato Vento alto, il brano del terzo capitolo in cui ci si riferisce anche al Caos primigenio ed alle cosmogonie degli antichi (si veda sopra), fa pensare al soffio rigeneratore, allo pneuma della filosofia stoica, che indica il soffio che anima tutte le cose, la grande forza che muove il mondo 131 . Interessante è come osserva Ferrero, soprattutto il parallello con il racconto Quaestio de Centauris apparso nelle stesse settimane della stesura del terzo capitolo 132 . Infatti, il racconto Quaestio de Centauris spiega tra l’altro la nascita del centauro che avviene nel momento di una seconda creazione dopo il diluvio, giorni in cui ‘ogni nozza era feconda’, ‘anche fra specie diverse’ (Op.I, SN, p.506). Nel racconto Quaestio de Centauris il vento è però assente. Molto interessante trovo il tema dell’impurezza – le specie diverse che si mescolano – in questo racconto che possiamo forse anche legare a T. Nel racconto Quaestio de Centauris l’impurezza è fonte della creazione, della nascita. Troviamo un parallello interessante in SP (nel capitolo Zinco) 133 : Primo Levi prova una profonda sfiducia verso l’idea della ‘purezza’, come ideata con la terra pesante e bruna in cui si sentivano fremere i semi, con l’oceano d’aria che convogliava il polline degli abeti, onda su onda, dai Carpazi fino alle vie nere della città mineraria’. 131 Ho trovato un solo accenno a quest’idea del pneuma nel libro introduttivo a Primo Levi di Ferrero (2007), p.43. Belpoliti Note ai testi, Op.I, p.1421, sottolinea ‘l’interdipendenza tra il vento alto e il Caos Primigenio’. Secondo lui il vento alto è ‘..una sorta di spirito rigeneratore, come la pioggia manzoniana che segna la fine della peste’. 132 Ferrero (2007),p.43. Per un’analisi del racconto, si veda Borioni (1993), p.31-50. Interessante è anche l’osservazione di Mengaldo (1989), p.92: ‘la quasi lucreziana Quaestio de centauris’. Si veda il seguito. 133 Nel capitolo Zinco si rispecchia questa preferenza per l’impurezza e la collega alla forza procreatrice e la vita stessa: ‘Sulle dispense stava scritto un dettaglio che alla prima lettura mi era sfuggito, e cioè che il cosi tenero e delicato zinco, cosi arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando e multo puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze 64 nell’ideologia fascista e nazista che esclude ogni elemento estraneo, diverso e si esprime soprattutto nella teoria razziale. Questo spiega perché Primo Levi ha sviluppato una preferenza per l’impurezza, per l’alterità, per l’asimmetria e ancora più tardi per gli elementi contrastanti nell’essere umano stesso (l’ibridismo). Questa lode dell’impurezza, ritorna sempre sia nella sua opera che nelle interviste e si potrebbe considerare come una concezione di vita, in cui si esprime implicitamente la repulsione per il fascismo, il nazismo e sistemi totalitari in genere. Forse anche in T c’è questo tema dell’impurezza. Nel passo citato del ‘vento alto’ figurano ‘esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi’. Infatti, tutto il libro è pervaso da personaggi come quelli. Ci si potrebbe chiedere se in quella preferenza per gli ‘esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi’, si possa rintracciare una prima indicazione per quella filosofia dell’impurezza. Sono infatti gli incontri con quegli ‘esemplari umani, scaleni, difettivi, abnormi’ che riportano Primo Levi (personaggio) all’umanità e la civiltà e sono dunque loro alla base della vita e della rinascita dopo la morte dell’anima in Auschwitz 134 . Torniamo alla cosmogonia e allo pneuma della filosofia stoica. Secondo me in T e più precisamente nel passaggio chiave del terzo capitolo Primo Levi unisce due concezioni filosofiche: l’idea stoica dello pneuma che porta la vita alle cose (‘il vento alto’) e la cosmogonia degli antichi, dottrina che spiega l’origine e la formazione del mondo – il termine Caos si riferisce allo stato primordiale che precede la creazione del mondo nelle cosmogonie –, più probabilmente quella di Lucrezio, visto il riferimento alle ‘particelle’ (la teoria atomica) dei quattro elementi 135 ’ di cui si narra ‘poeticamente’ 136 . Infatti, Primo Levi aveva scelto un brano di questo amato poeta-ricercatore (come lo definisce lui) per la sua antologia personale (La Ricerca delle radici) 137 . Forse Primo Levi riprende liberamente la descrizione dell’origine del mondo filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo: l’elogio dell’impurezza, che da adito ai mutamenti, cioe alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era piu congeniale. Perche la ruota giri, perche la vita viva, ci vogliono le impurezza, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come e noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale’, (Op.I, SP p.768). La stessa idea della forza procreatrice dell’impurezza che è all’origine stessa della vita la troviamo anche per esempio nel saggio L’asimmetria e la vita. 134 Si osservi che in Se non ora, quando? la Russia venga paragonata ad una madre: ‘Anche noi siamo stati partoriti .... Partoriti, espulsi. La Russia ci ha concepiti, ci ha nutriti, ci ha fatti crescere nel suo buio, come in una matrice; poi ha avuto le doglie, si è contratta e ci ha gettati fuori, e adesso eccoci qui, nudi e nuovi, come bambini appena nati. Non è cosí anche per te?’ (Op.II, SNOQ, p.508). Ma quest’immagine è anche presente in SQU: ‘Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate. È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro’ (Op.I, SQU, p.51). 135 L’idea che il mondo sia costituito da quattro elementi (acqua, terra, aria e fuoco) risale alla dottrina dei filosofi greci Empedocle ed i presocratici che cercavano ‘l’archè’, e cioè l’elemento primario di tutte le cose. 136 Si veda anche Biasin (1997), p.258. che cita Lucrezio ma senza riferimento specifico. 137 Anche in altre occasioni Primo Levi cita Lucrezio. Per esempio Inventare un animale in: L’altrui mestiere e il saggio La cosmogonia di Queneau. 65 come raccontata nel quinto libro del De rerum natura (si notino la tempesta, gli elementi diversi/ discordi e il movimento): ...sed nova tempesta quaedam molesque coorta omnigenis de principiis, discordia quorum intervalla, vias, conexus, pondera, plagas, concursus, motus turbabat proelia miscens, propter dissimilis formas variasque figuras, quod non omnia sic poterant coniuncta manere nec motus inter sese dare convenientis. C’era, all’inizio, soltanto una congerie in tempesta di molti elementi diversi, tutti discordi tra loro, che confondevano tutto – le distanze ed i moti, i pesi, gli urti e gli incontri – in una mischia violenta fra tante sostanze dissimili e in apparenze diverse. In questo moto nessuno riusciva ad unirsi ad un altro né a subire o trasmettere gli incontri più convenienti 138 . Il Caos primigenio trova la sua espressione biblica nel diluvio (come fasi precedenti ad una nova creazione, un nuovo inizio del mondo), a cui ci si riferisce nel secondo capitolo. Dopo questo diluvio Noah – il nome non potrebbe essere casuale – il primo abitante del nuovo mondo vede ‘splendere l’arcobaleno’: ‘Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare’ (Op.I, T, p.222). Ricapitolando, si potrebbe stabilire che il passo del terzo capitolo sia il nucleo tematico di T. Cito di nuovo: In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi (Op.I, T, p.226). In questo passo troviamo un mondo che rinascerà dopo la morte in Auschwitz (il mondo ritornato al Caos primigenio), lo pneuma, la forza procreatrice (il vento alto) ed i nuovi abitanti di questo mondo (esemplari ‘scaleni, difettivi, abnormi’). Il riferimento al movimento di questi nuovi abitanti (‘ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi’) è l’effetto del vento procreatore che li muove, che li anima insomma. Secondo me ritroviamo quest’immagine del Caos primigenio, del movimento (lo pneuma) e la metamorfosi legata ad essi dappertutto in T. Il movimento si esprime letteralmente 138 Lucrezio, La natura delle cose, De rerum natura, a cura di Vizioli, F. (2000), libro V, p.269 (traduzione di Francesco Vizioli). Anche Biasin, Contagio, p.258 suggerisce Lucrezio come fonte, ma senza riferimento esplicito. 66 in spostamenti e moti, ma anche in suoni, grida, canzoni per esempio. Infatti, sembra che anche la lingua morta ad Auschwitz (SQU è il libro del silenzio e della confusione delle lingue), venga rianimata dal vento e rinasca in un’esplosione di suoni, grida, canzoni ecc.. Alcuni esempi. Nel secondo capitolo, la vita si riprende (‘un mutamento vistoso’) e tutto comincia a muoversi ‘tumultuosamente’: Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l’ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni (Op.I, T, p.215). Noah, il primo abitante del nuovo mondo non si ferma mai: Noah, uccello d’alto volo, incrociava dall’alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all’ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d’oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d’amore sembravano uragani. Era l’amico di tutti gli uomini e l’amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare (Op.I, T, pp.221-222). Frau Vita, un personaggio intermedio tra il vecchio mondo ed il nuovo mondo è ‘ferita profondamente’ e prova ad esorcizzare quello che ha visto: Infatti era stata «comandata» al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa. Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera, quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario (Op.I, T, p.222). A Cracovia, tutto trabocca di gente e le strade cominciano a ‘brulicare’. Si noti in questo passo anche la metamorfosi: Il convoglio su cui ci trovavamo era in viaggio verso Cracovia: su Cracovia i russi avevano smistato fino a pochi giorni prima un numero enorme di ex prigionieri, ed ora tutte le caserme, le scuole, gli ospedali, i conventi traboccavano di gente in stato di bisogno acuto. Le stesse strade di Cracovia, a detta delle nostre informatrici, brulicavano di uomini e donne di tutte le razze, che in batter d’occhio si erano trasformati in contrabbandieri, in mercanti clandestini, o addirittura in ladri e banditi (Op.I, T, p.229). Il campo di Katowice sembra in uno stato di Caos primordiale: Di fatto, l’organizzazione del campo era largamente affidata alle iniziative singole o di gruppo: ma nominalmente 67 il campo sottostava ad una Kommandantur sovietica, che era il più pittoresco esemplare di accampamento zingaro che si possa immaginare. C’era un capitano, Ivan Antonovi. Egorov, un ometto non più giovane, dall’aria rustica e scostante; tre «tenenti anziani»; un sergente, atletico e gioviale; una dozzina di territoriali (fra cui la sentinella baffuta sopra descritta); un furiere; una «doktorka»; un medico, Pjotr Grigorjevi. Dancenko, giovanissimo, gran bevitore, fumatore, amatore e pococurante; una infermiera, Marja Fjodorovna Prima, che divenne presto mia amica; ed un nugolo indefinito di ragazze solide come querce, non si capiva se militari o militarizzate o ausiliarie o civili o dilettanti. Queste avevano mansioni varie e vaghe: lavandaie, cuoche, dattilografe, segretarie, cameriere, amorose pro tempore di questo e di quello, fidanzate intermittenti, mogli, figlie. L’intera carovana viveva in buona armonia, senza orario né regole, nelle adiacenze del campo, accampata nei locali di una scuola elementare abbandonata. L’unico che si curasse di noi era il furiere, che pareva essere il più elevato in autorità, se non in grado, dell’intero comando. D’altronde, tutti i loro rapporti gerarchici erano indecifrabili: si intrattenevano fra di loro per lo più con semplicità amichevole, come una grossa famiglia provvisoria, senza formalismi militareschi; scoppiavano talvolta litigi furibondi e pugilati, anche fra ufficiali e soldati, ma si concludevano rapidamente senza conseguenze disciplinari e senza rancori, come se nulla fosse stato (Op.I, T, pp.249-250). La città di Katowice vive: Eppure la città viveva, dopo gli anni di incubo della occupazione nazista e l’uragano del passaggio del fronte. Molte botteghe e caffè erano aperti; addirittura proliferante il mercato libero; in funzione i tram, i pozzi di carbone, le scuole, i cinematografi (Op.I, T, pp.268-269). In queste immagini di movimento, metamorfosi, di ripresa della vita insomma, ritornano sempre le stesse parole, come per esempio: brulicare, traboccare, scatenare, furibondo, folle, tumultuoso, frenetico, furore ecc.. La natura: fonte di vita, di nostalgia, solitudine e dolore In T la natura ritorna con tutta la sua forza dopo la morte ad Auschwitz. Infatti, come ho osservato nel capitolo 2.2, appaiono le stelle, il sole, l’arcobaleno, entità assenti ad Auschwitz. L’atmosfera cambia completamente da immagini ostili, minacciose, chiuse, angosciose ed opprimenti in SQU ad una serenità ed una pacatezza sconosciuta in Auschwitz. Si osservino passi come questi: La luce del giorno svaniva con estrema lentezza, prima rosea, poi viola, poi grigia; seguí lo splendore argenteo di un tiepido plenilunio (Op.I, T, p.335). Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d’armi e di carriaggi (Op.I, T, p.311). Avevo camminato per ore nell’aria meravigliosa del mattino, aspirandola come una medicina fino in fondo ai miei polmoni malconci. Non ero molto solido sulle gambe, ma sentivo un bisogno imperioso di riprendere possesso del mio corpo, di ristabilire il contatto, rotto da ormai quasi due anni, con gli alberi e con l’erba, con la terra pesante e bruna in cui si sentivano fremere i semi, con l’oceano d’aria che convogliava il polline degli abeti, onda su onda, dai Carpazi fino alle vie nere della città mineraria (Op.I, T, p.295). Mi chiedo se queste descrizioni paesaggistiche di serenità siano concettualmente basate sulla Divina Commedia, perché una simile trasformazione del paesaggio si potrebbe notare anche nel 68 passaggio dall’Inferno al Purgatorio 139 . E poi mi chiedo quanto queste immagini si possano interpretare come immagini simboliche che rispecchiano l’anima – come in Dante –. In senso più lato si può conferire anche un valore archetipico alla rappresentazione del paesaggio, presente in tanta parte della tradizione culturale occidentale. Credo che ci sia questo valore simbolico ed archetipico nelle immagini naturali e credo che l’analisi che segue rafforzi questa ipotesi sul valore simbolico della natura. La natura riprende in T la sua funzione di fonte della vita 140 . E come tale è anche ‘medicina’ (Op.I, T, p.295) per i sopravvissuti, medicina per ritrovare la vita. Chi vive bene in questo nuovo mondo, vive in un rapporto armonioso con la natura. Si pensi al primo personaggio del nuovo mondo, Noah, che era ‘lieto dell’aria che respirava e della terra che cavalcava’ (Op.I, T, p.221). Si pensi anche a Cesare, ‘figlio del sole’, ‘vario come il cielo’ (Op.I, T, p.270) oppure a Galina che ‘cantava come un’allodola’, ‘una ragazza di campagna’ che ha ‘la vita davanti’, che ‘scomparve, risucchiata dalla vacuità dello spazio russo, per i cammini del suo paese sconfinato, lasciando dietro di sé un profumo aspro di terra, di giovinezza e di gioia’ (Op.I, T, p.256) oppure a Marja Fjodorovna che era ‘simile a un gatto di bosco per gli occhi obliqui e selvatici, il naso breve dalle narici frontali, e le movenze agili e silenziose. Del resto, dai boschi veniva: era nata nel cuore della Siberia’ (Op.I, T, p.252). Pare che in questo ‘nuovo’ mondo, gli abitanti vivano in un rapporto di osmosi, altrettanto vivaci e vitali e sereni come la natura stessa. In retrospettiva la natura scomparsa o morta in SQU rispecchia altrettanto bene la condizione dei suoi abitanti destinati a morire o restare per sempre in quel mondo letale. Sembra che il paesaggio sia lo specchio dello stato d’animo dei personaggi. La natura come fonte di vita trova forse la sua più alta espressione nell’immagine del bosco, una delle tre immagini (il vento, la pianura e il bosco) predominanti in T. Il bosco e gli alberi sono completamente assenti in SQU. T apre con l’immagine straziante del piccolo Hurbinek, ‘che forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero’ (Op.I, T, p.216). 139 Attilio Momigliano (1965), p.58 scrive per esempio: ‘La fine dell’“Inferno” e il principio del “Purgatorio”, anche come motivo paesistico, sono una cosa sola. Dal ruscelletto all’agile ascesa su per le ultime viscere della nera terra, a quel pezzo di cielo – “le cose belle” – che si chiude sul tenebroso foro, alla tranquilla immensità della volta stellata e del mare, il tema è uno, solenne come un sorger di sole. La serenità si allarga via via, nella rappresentazione della notte che tramonta, dell’alba che fa tremolar di lontano la marina, del sole che saetta oramai da tutte le parti il giorno. Quella solitudine sconfinata e indisturbata sale come una musica sommessa su dalle pagine del poema, canta e dipinge la serenità nuova dell’anima, che muove fiduciosa verso una nuova vita’. Forse anche l’idea della ‘solitudine sconfinata’, espressa soprattutto nell’immagine della pianura, come vedremo, e la ‘vastità nuova in confronto con l’angustia dell’inferno’ (Momigliano, p.58) è stata fonte di ispirazione per Primo Levi. 140 Mauro (2009), p.92: ‘Il bene e il male, il bello e il brutto, l’adatto e l’inadatto, allora non sembrano tanto appartenere propriamente alla natura in sé ma alla condizione in cui questa si trova a mostrarsi: l’uomo può deformare, torcere fino all’inverosimile, anche le forme neutre del mondo naturale circostante, fino a renderle, a sé stesso, nemiche, ostili. Questa condizione anche se non la cogliamo direttamente, esplicitamente espressa, la sentiamo attraversare la narazione, e per contrasto apparire invece ben diversa, riumanizzata, a distanza, in altri luoghi: sarà nel viaggio di ritorno, di riemersione da Auschwitz che la natura riprenderà il suo posto, ripopolando, insieme ad altri uomini, altri volti, altri oggetti, la vita...’. 69 L’albero è simbolo anticipato di vita e di libertà – irraggiungibili per Hurbinek – che si inserisce come simbolo nella tragica tematica dello scontro tra la vita e la morte nella figura del bambino con gli occhi che ‘saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo’ che ‘morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento’ (Op.I, T, pp.215-216). Questa metafora dell’albero e della natura in generale si dipana lungo l’asse della ripresa della vita dei superstiti che guariscono ristabilendo il contatto con la natura: A Bogugice, Cesare rifioriva, visibilmente, di giorno in giorno, come un albero in cui monta la linfa di primavera (Op.I, T, p.275) Era triste stare fra quattro muri, mentre fuori l’aria era piena di primavera e di vittoria, e dai boschi non lontani il vento portava odori stimulanti, di muschio, di erba nuova di funghi... (Op.I, T, p.287) Avevo camminato per ore nell’aria meravigliosa del mattino, aspirandola come una medicina fino in fondo ai miei polmoni malconci. Non ero molto solido sulle gambe, ma sentivo un bisogno imperioso di riprendere possesso del mio corpo, di ristabilire il contatto, rotto da ormai quasi due anni, con gli alberi e con l’erba, con la terra pesante e bruna in cui si sentivano fremere i semi, con l’oceano d’aria che convogliava il polline degli abeti, onda su onda, dai Carpazi fino alle vie nere della città mineraria (Op.I, T, p.295). Eravamo contenti perché c’era il sole, perché ci sentivamo liberi, per il buon odore che veniva dalla terra, e anche un poco perché a due chilometri c’era gente non malevola, anzi arguta e disposta al riso, che ci avevano bensí sparato, ma poi ci avevano accolti bene e ci avevano perfino venduto un pollo. Eravamo contenti perché quel giorno (domani non sapevamo: ma non sempre ha importanza ciò che può accadere l’indomani) potevamo fare cose che da troppo tempo non facevamo: bere l’acqua di un pozzo, stendersi al sole in mezzo all’erba alta e vigorosa, odorare l’aria dell’estate, accendere un fuoco e cucinare, andare nel bosco per fragole e funghi, fumare una sigaretta guardando un alto cielo pulito dal vento (Op.I. T, p.324). Il bosco ha anche un’altra connotazione: è anche luogo selvatico, luogo del mistero, dell’istinto, dell’irrazionale, e del fiabesco in cui ci si smarrisce facilmente. Forse come tale il bosco rispecchia anche la mentalità del popolo russo, lontana da quella tedesca. Allo stesso tempo è anche luogo di solitudine, di nostalgia e di rifugio: Il treno percorreva pianure coltivate, città e villaggi foschi, foreste dense e selvagge che credevo scomparse da millenni dal cuore dell’Europa: conifere e betulle talmente fitte che, per attingere la luce del sole, dalla reciproca concorrenza erano costrette a spingersi disperatamente all’insú, in una verticalità opprimente. Il treno si faceva strada come in galleria, in una penombra verdenera, frammezzo ai tronchi nudi e lisci, sotto la volta altissima e continua dei rami fittamente intralciati. Rzeszów, Przemyoel dalle truci fortificazioni, Leopoli (Op.I, T, p.301). Furono mesi d’ozio e di relativo benessere, e perciò pieni di nostalgia penetrante. La nostalgia è una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più infima, più umana delle altre pene che avevamo sostenuto fino a quel tempo: percosse, freddo, fame, terrore, destituzione, malattia. È un dolore limpido e pulito, ma urgente: pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri, e spinge alle evasioni. Forse per questo, la foresta intorno al campo esercitava su di noi un’attrazione profonda. Forse perché offriva, a ognuno che lo ricercasse, il dono inestimabile della solitudine: e da quanto tempo ne eravamo privi! Forse perché ci ricordava altri boschi, altre solitudini della nostra esistenza precedente; o forse invece, al contrario, perché era solenne e austera e intatta come nessun altro scenario a noi noto (Op.I, T, p.334) 141 . 141 Gran parte del capitolo 12 Il bosco e la via è dedicato alla descrizione del bosco. 70 Vincenzo, spinto da una sua selvatica fierezza, si era rifugiato nella foresta perché nessuno sapesse del suo male; o forse, davanti al male fuggiva, come gli uccelli davanti alla tempesta (Op.I, T, p.386). Altrettanto ambigua è la terza immagine ricorrente della natura, quella della pianura sterminata e deserta della Russia. Come abbiamo visto, anche se mai detto esplicitamente, quest’immagine esprime l’apertura a partire dall’ultimo capitolo di SQU – si veda il capitolo ‘lo spazio’ –. Dall’altra parte la pianura, ‘spietata’ e ‘sterminata’ è anche simbolo di libertà illusoria e dunque di dolore: .... era avvenuto qualcosa che solo pochissimi savi tra noi avevano previsto. La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, cosí lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperare era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, alte paure. Io ero digiuno ormai da ventiquattro ore. Sedevamo sul pavimento di legno del vagone, addossati l’uno contro l’altro per proteggerci dal freddo; i binari erano sconnessi, e ad ogni sobbalzo le nostre teste, malferme sui colli, urtavano contro le tavole del parete. Mi sentivo stremato, non solo corporalmente: come un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo; e che arrivi alla meta e che nell’atto in cui si abbandona esausto al suolo venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano. Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e cosí il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dai grossi schemi della natura; e quale conquista rappresenti nella storia del pensiero umano, il giungere a vedere nella natura non più un modello da seguire, ma un blocco informe da scolpire, o un nemico a cui opporsi (Op.I, T, p.230). 71 2.4 Il teatro Introduzione Luca Scarlini ha dedicato un articolo agli aspetti teatrali nell’opera di Primo Levi 142 . In questo articolo sottolinea ‘la linea drammaturgica’ nell’opera di Primo Levi, che secondo lui è stata trascurata dalla critica 143 . Fa due osservazioni generiche che sono interessanti per la mia ricerca. La prima è che Primo Levi prende la posizione di osservatore da Levi stesso chiamato con un termine yiddisch ‘kibitzer’: ‘Primo Levi, intervistato sui suoi rapporti con il teatro afferma perentoriamente: “Sono un kibitzer, come dicono in America con un termine yiddisch entrato nell’uso corrente: uno che si diverte osservando i giocatori durante le partite di carte”’ 144 . Infatti, questa posizione da osservatore, da kibitzer, possiamo vederla sia in SQU che in T: ‘il mondo si mostra a Levi sotto forma di un continuo “spettacolo” a cui egli assiste curioso; si pensi infatti alle performance comiche e cialtronesche di Cesare in La Tregua (1963), ma questa teatralità è presente persino nel suo libro più testimoniale’ 145 . Possiamo aggiungere che quest’idea dello spettacolo di un mondo incomprensibilmente irreale che si mostra agli occhi di chi osserva, è stata forse anche ispirata dalla Divina Commedia, perché anche a Dante spetta il ruolo di osservatore dello spettacolo del mondo, quello dell’Oltretomba: ‘O mente che scrivesti ciò ch’io vidi’ (Inf. II.8). La seconda osservazione generica riguarda la forma del dialogo come indicativa di un interesse teatrale ed una teatralità implicita nelle sue opere narrative: ‘La forma-dialogo risulta [...] spesso praticata nelle opere narrative di Levi come vettore principale della comunicazione di emozioni e talvolta anche come spia di drammaturgie implicite’. Per continuare poi: Ciò appare evidente in Se questo è un uomo nel deciso ricorso al plurilinguismo, necessario a rendere l’atmosfera di reciproca incomprensione voluta e creata dai nazisti e, per citare solo un esempio notissimo, nella struggente pagina della “educazione” dantesca di Pikolo, ma è fondamentale ne La Tregua. Il resoconto dell’odissea del ritorno degli ebrei dal campo di sterminio diviene infatti occasione per la tessitura di un affresco complesso e polifonico in cui, fuori dall’universo concentrazionario del Lager, rientra in gioco la volontà di mettersi in scena nella collettività in forme dirette e riflessive, che trova nel dialogo multilingue, non più ostacolo insormontabile, il proprio veicolo di comunicazione 146 . 142 Scarlini (1997). Si veda anche Belpoliti (1998), pp.165-168, che si basa sull’articolo di Scarlini. Baldasso (2007), pp.95-110 ha accennato nel suo libro all’aspetto dello ‘spettacolo’, soprattutto in T. Si veda anche Carpi (1998). 143 Scarlini (1997). 144 Scarlini (1997), p.485. Si veda anche Baldasso (2007), pp.95-110 e pp.121-149. 145 Belpoliti (1998), p.165 che non elabora poi quest’affermazione. 146 Scarlini (1997), p.487. 72 Nel suo articolo Scarlini analizza le opere propriamente teatrali di Primo Levi e gli aspetti teatrali più espliciti nelle opere narrative, soprattutto in T, che prenderò in considerazione nell’analisi sottostante. Ma secondo me SQU e soprattutto T sono molto più profondamente permeati da presenze teatrali di quanto non risulti dalla sua analisi. Per quanto io sappia, le presenze teatrali in SQU e T non sono ancora state analizzate sistematicamente 147 . Analizziamo prima quelle presenze per vedere poi quale sia il rapporto tra SQU e T a questo riguardo. Aspetti teatrali in SQU Già in SQU ci sono allusioni teatrali esplicite. Teatralità in SQU è sempre connessa all’asse realtà-irrealtà e crea un effetto di alienazione: quello che sta succedendo ad Auschwitz è tanto incomprensibile che non potrebbe essere vero. Il narratore non vuole credere a quello che sta succedendo e si immagina di essere coinvolto in un dramma. Allusioni teatrali le troviamo sempre in situazioni di grande tensione o grande delusione. Le prime due allusioni si inseriscono nella descrizione dello shock che provano i deportati quando arrivano ad Auschwitz e trovano un mondo del tutto incomprensibile – momento di grande tensione –: 1. Nel primo capitolo (il viaggio), quando il treno arriva in Auschwitz: ‘Venne a un tratto lo scioglimento’ (Op.I, SQU, p.13). 2. Nel secondo capitolo (sul fondo), appena arrivati a Buna-Monowitz, quando gli Häftlinge stanno aspettando il bagno: ‘Adesso è il secondo atto’ (Op.I, SQU, p.17) e più avanti: ‘Oramai stiamo stanchi di stupirci. Ci pare assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio’ (Op.I, SQU, p.19). Questi primi esempi di allusioni teatrali si inseriscono alla fine del primo capitolo e nel secondo capitolo. Credo che proprio il brano che inizia con “Venne a un tratto lo scioglimento ... (Op.I, SQU, primo capitolo p.13) fino a ‘... sulla soglia della casa dei morti’ (Op.I, SQU, secondo capitolo, p.25), lo possiamo considerare caratterizzato non solo come trasformazione dal mondo ‘normale’ al mondo di Auschwitz – ‘antinferno’ nelle parole dello scrittore (Op.I, SQU, p.23) –, ma anche come un vero rito di passaggio con riti di congedo nella notte precedente e un segno fisico – il tatuaggio – per marcare il passaggio. Si noti come soprattutto l’aggiunta del 1958 148 confermi questa trasformazione come un vero rito di passaggio : 147 Baldasso (2007), pp.95-110 riconosce in T un importante ruolo per lo spettacolo e per il rapporto l’attorespettatore. 148 Si veda l’appendice. 73 L’operazione è stata lievemente dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo. Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo «mostrando il numero» si riceve il pane e la zuppa (Op.I, SQU, p.21). Questo processo si svolge, come afferma lo stesso autore ‘in chiave grottesca’: ‘l’intero processo di inserimento in questo ordine per noi avviene in chiave grottesca e sarcastica’ (Op.I, SQU, p.22) 149 . Vediamo prima che cosa è il grottesco in SQU e poi come possiamo legare il grottesco alle allusioni teatrali citate. Il grottesco implica deformazione all’estremo, stravolgimento della realtà che si muove tra tragico e comico 150 . Come ha mostrato il grande teorico russo Michail Bachtin nei suoi studi sullo scrittore François Rabelais, scrittore del grottesco, il grottesco si trova sulla soglia del ciclo di vita-morte, dell’idea del decadimento e della rinascita, tipico anche per il carnevale per esempio che lo esprime come rovesciamento dell’armonia in quanto festa che celebra il rinnovamento della vita. È notevole proprio la scelta del grottesco per descrivere il rito di passaggio dal mondo normale al mondo di Auschwitz. In realtà si tratta in questo caso di un passaggio dalla vita alla morte, per cui il grottesco assume un valore tragico e demonico e non comico 151 . Il grottesco nel brano che costituisce il passaggio all’altro mondo si esprime nell’incomprensibilità di quello che succede, del nuovo mondo che si presenta come deforme da quello normale. Segre cita alcuni esempi: Già le prima misure vessatorie fanno pensare a Levi: “tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci” (pp.20-21); oppure: “ci pare di assistere a qualche dramma pazzo” (p.21), mentre sembra “una colossale buffonata di gusto teutonico” (p.26) la fanfara che suona Rosamunda e altre marcette. Ciò che stupisce di più, e prefigura l’avvenire dei nuovi arrivati, sono i “drappelli di strani individui” che camminano “inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide”, un “buffo berrettino” in capo e “una lunga palandrana a righe, che [...] si indovinava sudicia e stracciata” (p.18). Presto anche i nuovi saranno “trasformati nei fantasmi intravisti” la sera prima (p.23) 152 . 149 Si potrebbe dire anche a partire dal secondo capitolo, ma credo che la fine del primo capitolo, quando arrivano i vagoni ad Auschwitz forma un’unità con la prima parte del secondo capitolo, si pensi non solo al grottesco in cui si svolge tutta l’azione, ma anche ad esempio ai drappelli di strani individui che appaiono alla fine del primo capitolo, ma anche nella prima parte del secondo capitolo. Si veda anche Segre (1997), p.67: ‘il passaggio alla tragedia permanente avviene attraverso la soglia del grottesco (“in chiave grottesca e sarcastica”, p.24)’. Senza indicare un brano preciso, dagli esempi citati, si capisce che anche lui include la fine del primo capitolo. 150 Ferroni (1992) p.xli, definisce il grottesco in questo modo: ‘un modo di rappresentazione capriccioso e bizzarro, che mette a contatto le forme più eterogenee, irregolari, marginali della realtà, deformandole e stravolgendole all’estremo, confrontando stili e generi diversi, fino a far coesistere esplosivamente il riso e il pianto, la fascinazione e l’orrore, il comico e il tragico’. 151 La scelta del grottesco esprime anche una preferenza personale: Primo Levi era già prima del soggiorno ad Auschwitz, quando frequentava l’università, appassionato dello scrittore francese Rabelais, uno scritttore noto per il grottesco, che ha poi molto più tardi scelto come uno degli autori per la sua antologia personale RR. 152 Segre (1997), p.67. 74 Si noti che i tedeschi qui non abbiano volto – gli altri prigionieri presenti nel Lager invece sì –, vengono solamente presentati come ‘un tedesco’, ‘uno’, ‘una SS’ e si caratterizzano solo attraverso le loro parole e il loro comportamento, forse uno dei modi in cui si presenta il disumano in SQU. Credo che l’effetto di alienazione che crea questo mondo grottesco si esprima linguisticamente nella figura dell’antitesi e dell’ossimoro 153 . Alcuni esempi: Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante (Op.I, SQU, pp.13-14). Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva (Op.I, SQU, p.15). invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente (Op.I, SQU, p.15) l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia. Non siamo morti.... (Op.I, SQU, p.16) Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio (Op.I, SQU, p.19). In quale senso questo rito di passaggio si configura come teatrale? Abbiamo citato sopra le allusioni esplicitamente teatrali che suggeriscono un dramma in atti a cui assistono i deportati. Forse anche nella citazione dantesca ‘...Qui non ha luogo il Santo Volto,/ qui si nuota altrimenti che nel Serchio’ (Inf.XXI, 48-49) (Op.I, SQU, p.23) troviamo qualche indicazione. Perché Primo Levi cita proprio questi versi? Infatti, il canto da cui provengono questi versi è, insieme con il canto XXII, uno dei canti comici, grotteschi e teatrali della Commedia, canto di azione e movimento in cui figurano i diavoli (si confronti Primo Levi che si riferisce prima a drammi in cui figurano ‘streghe, lo Spirito Santo e il demonio’ (Op.I, SQU, p.19)). Anche nel passo leviano predominano l’azione e il movimento. Si pensi alle porte che si aprono e si chiudono sempre (nel capitolo secondo), quasi per delineare uno scenario e si pensi al rapido svolgersi degli eventi. Ma si pensi anche al passo: ‘Ci pare assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio’ (Op.I, SQU, p.19). Infatti, è fondamentale quel ‘ci pare assistere a qualche dramma...’. I deportati sono spettatori (quello che vediamo è solo teatro) o coinvolti nel dramma (noi siamo i personaggi in un dramma)? Infatti, il modo in cui la storia si presenta qui, crea quell’effetto di assistere a un dramma come spettatore – si veda l’introduzione a questo capitolo –, in quanto vediamo lo svolgersi degli eventi attraverso gli occhi dei deportati. Due esempi: 153 Per l’ossimoro come espressione tra caos e ordine, si veda Mengaldo (1997), pp.233-242. 75 ... la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta, chiede: – Wer kann Deutsch? Si fa avanti uno fra noi che non ho mai visto, si chiama Flesch; sarà lui il nostro interprete. La SS fa un lungo discorso pacato: l’interprete traduce. Bisogna mettersi in fila per cinque, a intervalli di due metri fra uomo e uomo; poi bisogna spogliarsi e fare un fagotto degli abiti in un certo modo, gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto dall’altra, togliersi le scarpe ma far molta attenzione di non farcele rubare. Rubare da chi? perché ci dovrebbero rubare le scarpe? (Op.I, SQU, pp.16-17) Finalmente si apre un’altra porta: eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell’acqua, è una sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parliamo, e tutti domandano e nessuno risponde. Se siamo nudi in una sala di docce, vuol dire che faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora. E allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci dànno da bere, e nessuno ci spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure sederci (Op.I, SQU, pp.17-18). È un caso di focalizzazione interna, vediamo soltanto quello che vede il personaggio. Oltre all’effetto di uno spettattore che assiste a qualche dramma e viene sempre confuso e sorpreso, lo spettatore è anche coinvolto nel dramma come personaggio. Ecco la confusione tra realtà ed irrealtà. L’eterogeneità di SQU risulta fra l’altro dall’alternanza della voce narrante – a volte il narratore onnisciente, a volte Primo Levi personaggio (‘io’ oppure ‘noi’) – e dall’alternanza di brani di azione e brani più descrittivi. Si osservi in questo passo (e anche nel resto del libro) un movimento da brani più drammatici (di azione) che prendono il punto di vista solo del personaggio (come per esempio le due citazioni sopra) ad altri brani più descrittivi (per esempio nel primo capitolo in cui si racconta il destino del secondo gruppo che la notte inghiottì oppure nel secondo capitolo sul significato dei numeri) o più riflessivi (per esempio nel secondo capitolo la riflessione su cosa vuol dire giacere sul fondo) che interrompono la tensione drammatica per poi riprenderla di nuovo. Per finire un’osservazione sulle aggiunte del ’58 alla fine del primo capitolo e nella prima parte del secondo capitolo 154 . È chiaro che le aggiunte del ’58 rafforzano sia l’aspetto grottesco che iniziatico di questo passo. Infatti, Primo Levi ha aggiunto la figura di Caronte, figura grottesca – si veda l’analisi qui sotto – che nella sua veste mitica di traghettatore dell’Ade e psicopompo, rafforza l’idea di un passaggio e ha aggiunto anche l’operazione del tatuaggio, il segno fisico per marcare l’iniziazione vera e propria, la frase sull’inserimento nel nuovo ordine ‘in chiave grottesca e sarcastica’, la citazione dantesca dal canto XXI, la seconda apparizione dei drappelli e l’accoglienza ‘sulla soglia della casa dei morti’ con cui finisce simbolicamente il rito di passaggio. 3. Nel quarto capitolo (Ka-Be), aspettando l’entrata in Ka-Be, Primo Levi deve rispondere a delle domande assurde: ‘a che cosa possono mai servire, questa è una complicata messinscena 76 per farsi beffe di noi. Sarebbe questo l’ospedale? Ci fanno stare nudi in piedi e ci fanno delle domande’ (Op.I, SQU, p.43) Il significato di quest’allusione è simile a quelle precedenti. Infatti, l’entrata in Ka-Be (chiamato da Levi ‘limbo’ (Op.I, SQU, p.44)) si presenta anche quella come un minirito di passaggio di stile grottesco. Le tre allusioni finora citate fanno capire che in SQU teatralità è fortemente legata al grottesco: il mondo di Auschwitz come si presenta al deportato sembra tanto assurdo ed irreale che gli viene in mente l’idea di assistere ad un ‘dramma pazzo’. Solo che Auschwitz non è un ‘dramma pazzo’, ma la realtà. Si potrebbe dunque dire che anche la presentazione stessa di Auschwitz come un ‘dramma pazzo’ è grottesco. Il grottesco si rivela su due livelli: quello dentro il mondo narrativo, quello che prova il deportato a cui si rivela il mondo di Auschwitz e quello del libro stesso che presenta il mondo di Auschwitz come un mondo irrealmente reale. Forse si può dire che anche il grottesco – un mondo irrealmente reale – in SQU sia una sorta di ossimoro in senso lato. 4. Nel quindicesimo capitolo, quando Primo Levi si disillude e non crede più ad una via di scampo: ‘Adesso basta, adesso è finito. È l’ultimo atto: l’inverno è incominciato, e con lui la nostra ultima battaglia’ (Op.I, SQU, p.133). Quest’allusione si inserisce in un momento di disperazione, quando l’inverno – presenza mortale – è incominciato. Sembra qui piuttosto un’allusione di carattere tragico. 5. Interessante per il parallelismo con il sogno, è il momento in cui Primo Levi sta sognando ad occhi aperti, mentre passa un treno. Lo stile che si trova solo raramente in SQU, è quello del flusso di coscienza che evoca il delirio del sogno ad occhi aperti: ... Deutsche Reichsbahn. Deutsche Reichsbahn. SNCF. Due giganteschi vagoni russi, con la falce e il martello mal cancellati. Deutsche Reichsbahn. Poi, Cavalli 8, Uomini 40, Tara, Portata: un vagone italiano. .... Salirvi dentro, in un angolo, ben nascosto sotto il carbone, e stare fermo e zitto, al buio, ad ascoltare senza fine il ritmo delle rotaie, più forte della fame e della stanchezza; finché, a un certo momento, il treno si fermerebbe, e sentirei l’aria tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, come si legge nei libri: col viso nell’erba. E passerebbe una donna, e mi chiederebbe «Chi sei?» in italiano, e io le racconterei, in italiano, e lei capirebbe, e mi darebbe da mangiare e da dormire. E non crederebbe alle cose che io dico, e io le farei vedere il numero che ho sul braccio, e allora crederebbe... … È finito. L’ultimo vagone è passato, e, come al sollevarsi di un sipario, ci sta davanti agli occhi la catasta dei supporti di ghisa, il Kapo in piedi sulla catasta con una verga in mano, i compagni sparuti, a coppie, che vengono e vanno. Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche (Op.I, SQU, p.37-38) 154 Si veda l’appendice. 77 È interessante questo brano per la confusione tra realtà e immaginario, creata dall’alternanza tra realtà-sogno e teatro-realtà. La realtà di Auschwitz è il palcoscenico (‘al sollevarsi di un sipario, ci sta davanti agli occhi la catasta dei supporti di ghisa, il Kapo in piedi sulla catasta, con una verga in mano, i compagni sparuti, a coppie, che vengono e vanno’) e se Auschwitz si presenta come teatro, che cosa è il sogno allora? La realtà? Anche qui realtà e irrealtà si sovrappongono. In tutte queste allusioni al teatro realtà (noi siamo coinvolti nel ‘dramma’ di Auschwitz) e irrealtà (Auschwitz è solo un dramma teatrale) tendono a fondersi. Forse nel ultimo senso – Auschwitz si rivela come irrealtà, come un dramma teatrale a cui assistiamo, un dramma che ci dovrebbe riportare, dopo l’alzarsi del sipario, alla realtà – il teatro si presenta anche come difesa: proprio ai momenti di grande tensione o grande delusione il teatro si offre come via di scampo: quello che succede è solo un dramma. È interessante notare che nell’ultimo esempio questa corazza contro la delusione si rovescia: la realtà di Auschwitz si presenta come un pezzo teatrale, mentre il sogno si offre come elemento protettivo contro la crudele realtà di Auschwitz. Proprio questo parallelismo tra sogno e teatro è interessante da esaminare più in dettaglio. Forse il teatro svolge per una gran parte lo stesso ruolo che il sogno in SQU. In un articolo su sogni, incubi e risvegli nell’opera di Primo Levi, Marco Belpoliti, considera come in SQU la realtà di Auschwitz si presenti come un sogno e dunque come irrealtà: La Ragione pare pressoché assente in Se questo è un uomo: è dormiente, sopita, tutto pare svolgersi in una realtà di sogno, in una sospensione. L’arrivo stesso sulla banchina di Auschwitz avviene in questa atmosfera: “Tutto era silenzioso come in un acquario, e come certe scene di sogni”. La scena successiva che apre Sul fondo è altrettanto irreale. Prima di essere trasformato in Häftling, Primo Levi attraversa questo inferno dei “nostri giorni”, una grande stanza vuota dove il tempo sembra non trascorra mai 155 . Non mi sembra casuale che proprio in questi due primi capitoli menzionati da Belpoliti in cui la realtà si presenta come irrealtà, come un sogno, troviamo anche le allusioni sopracitate al teatro (‘Venne a un tratto lo scioglimento’ (Op.I, SQU, p.13), ‘Adesso è il secondo atto’ (Op.I, SQU, p.17), ‘Oramai stiamo stanchi di stupirci. Ci pare assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio’ (Op.I, SQU, p.19)). La discesa nel Regno dei Morti è tanto sconcertante che pare totalmente irreale. Questa impressione di irrealtà si trasforma in metafore di sogno e di teatro nella scrittura di Primo Levi. Belpoliti esamina anche l’aspetto protettivo del sogno contro la realtà del campo. Anche se in un altro modo 156 , anche il teatro si potrebbe interpretare come evasione dalla realtà, evasione che 155 Belpoliti (2000), p.60 Belpoliti (2000), p.64: ‘Il sogno è un elemento protettivo rispetto alla realtà quotidiana del Lager. È come se ci fosse stato un rovesciamento tra parte notturna e parte diurna: il Lager è l’incubo a cui il sogno cerca di sottrarsi, dando forma ai propri desideri elementari: fame, sonno, pulizia, benessere fisico e psichico. Il sogno come continua difesa da quell’incubo diurno a occhi aperti, del tutto incomprensibile (il giovane chimico torinese lo ripete in più 156 78 resta però illusoria. Vedremo come la linea teatrale continua in T, ma in un modo completamente diverso, lontano dalla corazza illusoria in SQU. Personaggi teatrali in SQU Secondo me due personaggi in SQU si presentano come personaggi teatrali per ragioni diverse. Il primo è il Caronte alla fine del primo capitolo e il secondo è Elias, il nano del Lager. Sono tutti e due personaggi grotteschi. Il Caronte perché nonostante la sua funzione da psicopompo, si presenta come umano: ...e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo (Op.I, SQU, p.15). L’iniziativa privata, l’individualità insomma, è lontana dal rigido schematismo (‘comando’, ‘regolamento’) che Primo Levi attribuisce ai tedeschi. Anche la cortesia è estranea ai tedeschi che abbaiano quando comandano. Si osservi anche l‘uso del possessivo ‘nostro’ che sembra forse avere un valore affettivo 157 , una rarità in SQU, perché non c’è nessun altro ritratto comico e, si può dire, quasi positivo di un nemico. Il grottesco gioca dunque sull’inaspettato: la deformità consiste nella rappresentazione di due aspetti difformi (un ossimoro in senso lato): l’umanità e la disumanità – è comunque un soldato tedesco –, forse la prima raffigurazione della figura ‘doppia’, poi molto cara a Primo Levi, del centauro. Elias più semplicemente è un mostro, una belva, un essere deforme, l’archetipo del grottesco insomma. Secondo me il Caronte è un personaggio teatrale per il suo effetto tragicomico (anche noto come ‘rilievo comico’): si inserisce un elemento comico nel mezzo di una vicenda tragica per stabilire un effetto di sollievo. Questo fenomeno è ben noto nel teatro e nello spettacolo in generale. Si pensi alla trilogia di tragedie nella Grecia antica che vengono seguite da un dramma satiresco per risollevare l’animo degli spettatori, si pensi anche all’opera buffa rappresentata negli intervalli dell’opera seria prima di divenire un genere a sé stante. Si pensi anche alle tragedie di Shakespeare. Nelle tragedie di Shakespeare, l’elemento comico, inserito nel mezzo del contesto tragico, spesso al culmine drammatico, fornisce un intervallo inaspettato e grottesco che rafforza per via di contrasto la cupezza della tragedia. Un esempio è la scena del portiere nel Macbeth, in cui subito dopo l’omicidio del re (il culmine drammatico) entra in scena un portiere punti: sembra di vivere un sogno)’. Più avanti, basandosi su un passo in Dante, spiega che il sogno si presenta come ‘realtà raddoppiata’. 157 Si confronti ‘il mio greco’ in T (Op.I, T, p.226). 79 che fa un discorso da ubriacone. La stessa funzione assume, secondo me, la figura del Caronte in SQU. Al culmine drammatico – si entra nel mondo di Auschwitz – entra in scena un soldato tedesco, che non si presenta come il terribile Caronte dell’inferno, ma come un essere umano che chiede in tedesco e in lingua franca danaro ed orologi. È interessante notare che l’effetto – esattamente quello che abbiamo descritto sopra – della sua apparizione ci fornisce lo scrittore stesso, perché infatti scrive: ‘La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo’ (Op.I, SQU, p.15). Anche qui si vede la doppia funzione dei personaggi: sono spettatori che assistono ad un dramma pazzo e allo stesso tempo sono anche personaggi coinvolti. La figura del Caronte è figura grottesca di per sé, ma anche nella sua funzione sul livello testuale, come presenza comica in un contesto altamente tragico. Resta da osservare, che la figura del Caronte è stata aggiunta nel ’58. Nello stesso capitolo troviamo un altro esempio di una scena tragicomica – anche questa aggiunta nel ’58 – ma capovolta. La scena sembra provocare – ma non lo farà – un effetto di sollievo (‘nasce in noi un’ombra di sollievo’), perché forse ‘non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico: Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l’un l’altro sogghignando; nasce in noi un’ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l’altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un’andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara (Op.I, SQU, pp.23-24). Abbiamo analizzato come il grottesco – il deforme, l’anormalità che si muove tra tragico e assurdo, persino comico – accompagni il rito di passaggio dal mondo normale al mondo di Auschwitz, abbiamo visto come i personaggi si muovano tra personaggi coinvolti in un dramma pazzo e spettatori ad un dramma pazzo, sull’asse reale-irreale dunque, un divario da cui nasce un effetto che possiamo chiamare: alienazione. È interessante da notare che lo stesso autore in un’intervista afferma quest’idea, quando parla della polca Rosamunda : Quando sono stato deportato ad Auschwitz, lo sbarco in questo universo spaventoso e ignoto del Lager è stato accompagnato da marce, da motivetti musicali suonati dall’orchestra di Auschwitz. Non sapevamo allora che l’orchestra suonava tutte le mattine e tutte le sere, quando partivano e ritornavano le squadre del lavoro. E quindi era del tutto incomprensibile come su questo scenario tragico, un tramonto sanguigno, il gelo di un paese per noi sconosciuto, gli ordini urlati in lingue che non sapevamo che lingue fossero, erano ordini urlati in polacco o in tedesco da caserma, fosse accompagnato, fra gli altri, da questo motivo, Rosamunda, che a noi era noto; in Italia lo si cantava, era una canzone da balera, lo si ballava; ed era veramente un effetto, quello che si chiama estraniamento, di alienazione: il non capire più, non capire perché l’ingresso, il varcare le porte degli Inferi fosse accompagnato da un ballabile» 158 . 80 La figura di Elias ricorda le figure teatrali in T per le sue arti mimetiche. Elias, nominato nel capitolo 9 come un esempio di un ‘salvato’ (Op.I, SQU, pp.91-94), è grottesco di per sé: un nano, un personaggio deforme, un mostro che assomiglia per natura più ad una bestia – si osservino i molteplici rimandi: ‘un animale a sé stante’, vigore bestiale’, ‘come una scimmia’,’una belva’, ‘con la sua piccola zampa’, ‘l’istintiva astuzia degli animali selvaggi’ – che ad un uomo. Sembra l’incarnazione del Lager, ‘il prodotto del Lager’ come Levi suggerisce. Infatti, se il Lager è un mondo grottesco, lui grottesco come è, ci ha trovato il suo habitat naturale: ‘Elias era verosimilmente un individuo felice’ (Op.I, SQU, p.94) dichiara Levi. È l’unico personaggio veramente ‘in movimento’: mentre gli altri cercano sempre di sottrarsi al lavoro e si caratterizzano per il loro immobilismo e inerzia, per Elias niente è impossibile. Il modo in cui lavora è ‘uno spettacolo’: Veder lavorare Elias è uno spettacolo sconcertante; i Meister polacchi, i tedeschi stessi talvolta si soffermano ad ammirare Elias all’opera. Pare che a lui nulla sia impossibile. Mentre noi portiamo a stento un sacco di cemento, Elias ne porta due, poi tre, poi quattro, mantenendoli in equilibrio non si sa come, e mentre cammina fitto fitto sulle gambe corte e tozze, fa smorfie di sotto il carico, ride, impreca, urla e canta senza requie, come se avesse polmoni di bronzo. Elias, nonostante le suole di legno, si arrampica come una scimmia su per le impalcature, e corre sicuro su travi sospese nel vuoto; porta sei mattoni per volta in bilico sul capo; sa farsi un cucchiaio con un pezzo di lamiera, e un coltello con un rottame di acciaio; trova ovunque carta, legna e carbone asciutti e sa accendere in pochi istanti un fuoco anche sotto la pioggia. Sa fare il sarto, il falegname, il ciabattino, il barbiere; sputa a distanze incredibili; canta, con voce di basso non sgradevole, canzoni polacche e yiddisch mai prima sentite; può ingerire sei, otto, dieci litri di zuppa senza vomitare e senza avere diarrea, e riprendere il lavoro subito dopo. Sa farsi uscire fra le spalle una grossa gobba, e va attorno per la baracca sbilenco e contraffatto, strillando e declamando incomprensibile, fra la gioia dei potenti del campo. L’ho visto lottare con un polacco più alto di lui di tutto il capo, e atterrarlo con un colpo del cranio nello stomaco, potente e preciso come una catapulta. Non l’ho mai visto riposare, non l’ho mai visto zitto o fermo, non l’ho mai saputo ferito o ammalato (Op.I, SQU, p.92). Infatti, tutto attorno a lui è spettacolare. Già il modo in cui Levi lo introduce : ‘Elias Lindzin, 141 565, piovve un giorno inesplicabilmente nel Kommando Chimico’ (Op.I, SQU, p.91). La sua teatralità è naturale, in quanto figura grottesca di per sé. È il buffone sempre attorniato dal pubblico: Parla continuamente, degli argomenti più disparati; sempre con voce tonante, con accento oratorio, con una mimica violenta da dissociato. Come se sempre si rivolgesse a un folto pubblico: e, come è naturale, il pubblico non gli manca mai. Quelli che capiscono il suo linguaggio bevono le sue declamazioni torcendosi dalle risa, gli battono le spalle dure entusiasti, lo stimolano a proseguire; mentre lui, feroce e aggrondato, si rigira come una belva entro la cerchia degli ascoltatori, apostrofando ora questo ora quello; a un tratto ghermisce uno per il petto con la sua piccola zappa adunca, lo attrae a sé irresistibile, gli vomita sul viso attonito una incomprensibile invettiva, poi lo scaglia indietro come un fuscello, e, fra gli applausi e le risa, le braccia tese al cielo come un piccolo mostro profetante, prosegue nel suo dire furibondo e dissennato (Op.I, SQU, pp.92-93). 158 AA. VV. (1997) Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, pp.9-10. 81 Come quasi tutti gli altri personaggi, anche Elias svolge una funzione esemplare 159 . È notevole che Primo Levi si trattiene dal giudicare Elias, mentre esprime un giudizio forte sugli altri tre esempi di sopravvivenza. La ragione è evidente. Si può giudicare uno che si adatta alle condizioni del Lager in una feroce lotta per la vita, uno che dimentica di essere un uomo, ma uno che non è mai stato un uomo? Aspetti teatrali in T In SQU il ruolo che svolge il teatro è quello di presentare Auschwitz come se fosse un mondo irreale. In T il teatro è un fenomeno reale e presente. Durante il viaggio di ritorno vengono organizzati vari spettacoli e rappresentazioni teatrali. C’è un intero capitolo dedicato alle rappresentazioni teatrali che si organizzano durante il soggiorno a Starye Dorogi (capitolo 14 Teatro). Anche prima nel campo di Bogucice, i russi, per celebrare la fine della guerra organizzano una rappresentazione teatrale (capitolo 6). Che in Russia il teatro sia un fenomeno ben presente, lo dimostrano anche i teatri che si trovano nei luoghi descritti: Sorse un giorno splendido. Uscimmo all’aperto, e solo allora a accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro... (Op.I, T, p.312) Ma intorno a questo si trovava di tutto: una sala per conferenze o riunioni, una serie di aule scolastiche, cucine, lavatoi, un teatro con almeno mille posti... (Op.I, T, p.328) 160 . C’è Marja che dopo le rappresentazioni teatrali nel campo di Bogucice (capitolo 6), spiega a Primo Levi come il teatro faccia parte dell’educazione collettiva in Russia, parole che lo infastidiscono, perché nel teatro Primo Levi vede piuttosto un’espressione di vitalità: Mi rispose con serietà didascalica. Mi ringraziò doviziosamente delle lodi, e mi assicurò che ne avrebbe fatto parte a tutto il comando; poi mi notificò con molto sussiego che la danza e il canto sono in Unione Sovietica materie di insegnamento scolastico, e cosí pure la recitazione; che è del buon cittadino cercare di perfezionarsi in ogni sua abilità o talento naturale; che il teatro è uno degli strumenti più preziosi di educazione collettiva; ed altre piattitudini pedagogiche, le quali suonavano assurde e vagamente irritanti al mio orecchio, ancor pieno del gran vento di vitalità e di forza comica della sera avanti (Op. I, T, p.282). 159 Si veda Segre (1997), p.60. Si consideri anche il vagone-orchestra che parte da Starye Doroghi a Iasi: ‘Vistoso fra tutti era il vagoneorchestra: vi risiedeva, al completo, la compagnia teatrale del «Salone Pendente», con tutti i loro strumenti (compreso un pianoforte), graziosamente donati dai russi al momento della partenza’ (Op.I, T, p.369). 160 82 Primo Levi ha una visione molto personale e molto consistente in T su come interpretare le rappresentazioni teatrali: queste sono sempre legate ad espressioni primordiali di vitalità, di gioia, di spontaneità e di libertà. In capitolo 6 questa visione si fa esplicita : L’Unione Sovietica è un gigantesco paese, e alberga nel suo cuore fermenti giganteschi: fra questi, una omerica capacità di gioia e di abbandono, una vitalità primordiale, un talento pagano, incontaminato, per le manifestazioni, le sagre, le baldorie corali (Op.I, T, p.278). Uscimmo dal teatro leggermente intronati, ma quasi commossi. Lo spettacolo ci aveva soddisfatti nell’intimo: era stato improvvisato in pochi giorni, e si vedeva; era stato uno spettacolo casalingo, senza pretese, puritano, spesso puerile. Ma presupponeva qualcosa di non improvvisato, anzi antico e robusto: una giovanile, nativa, intensa capacità di gioia e di espressione, una amorevole ed amichevole famigliarità con la scena e col pubblico, lontana dalla esibizione vuota e dalla astrazione cerebrale, dalla convenzione e dalla pigra ripetizione di modelli. Perciò era stato, nei suoi limiti, uno spettacolo caldo, vivo, non volgare, non qualunque, ricco di libertà e di asserzione (Op.I, T, p.281). La scelta degli aggettivi nell’ultima citazione ‘puerile, giovanile, nativa, vivo’ unisce il teatro alla vita. Infatti, ‘l’esibizione vuota, l’astrazione cerebrale, la ripetizione’ fanno subito pensare ad Auschwitz, alla rigidità tedesca, alla loro logica astratta, al loro sistema, alla mentalità tedesca insomma, lontana da quella russa di spontaneità e improvvisazione. Quando Primo Levi parla del popolo tedesco e del popolo russo, ha in mente un’immagine stereotipata dietro la quale si nasconde anche una visione: rigidità e logica astratta, purezza (nel senso fascista di ostilità verso tutto quello che è diverso) è connessa alla fine della civiltà e dell’umanità, alla morte dunque; spontaneità, improvvisazione, caos, impurezza (nel senso di diversità) si manifestano come espressione di vita e vitalità e come rinascita dopo la morte di Auschwitz. Nel teatro si rispecchia e si esprime questa mentalità russa e in questo senso possiamo interpretare il teatro anche come un’espressione di ripresa della vita dopo Auschwitz. Vale la pena soffermarsi su un altro aspetto teatrale o forse anche cinematografico (si veda anche il ruolo importante del cinema in capitolo 13, in cui vengono descritti in modo molto dettagliato alcuni film che si proiettano a Starye Dorogi), quello della predominanza visiva, quello dello spettacolo, nel senso etimologico della parola ‘spettacolo’: dal latino ‘spectare’ (guardare) 161 . Si potrebbe leggere T anche come un ritorno dei colori in senso letterale e in senso figurato. In senso letterale il mondo di Auschwitz si presenta essenzialmente come un film in bianco-nero e T come un film in technicolor, come anche Primo Levi era solito dire 162 . In SQU i colori erano quasi spariti, il mondo era bianco-nero-grigio e soprattutto grigio. Grigi sono i personaggi, il paesaggio, il tempo, i luoghi. Solo alcuni esempi : 161 Si vedano anche Baldasso (2007), pp.95-110 e Carpi (1998). Thomson (2002), p.299: ‘Levi liked to say that while If this is a man inhabits a monochrome world, The truce gives the impression of a rainbow radiance, a world in Technicolor’. 162 83 Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è più volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. I tedeschi sono riusciti a questo. Sono diecimila, e sono una sola grigia macchina; sono esattamente determinati; non pensano e non vogliono, camminano (Op.I, SQU, p.45). La processione del secchio e i tonfi dei calcagni nudi sul legno del pavimento si mutano in un’altra simbolica processione: siamo noi, grigi e identici, piccoli come formiche... (Op.I, SQU, p.56) La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bellezza (Op.I, SQU, p.67). I primi due capitoli di T si inseriscono perfettamente in questa atmosfera di SQU, anche per quanto riguarda il colore. L’arrivo dei russi si svolge in un paesaggio dominato dal colore grigio: ‘A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo’ (Op.I, T, p.206). In T torna il colore a partire dal secondo capitolo, che anche in questo rispetto si presenta come capitolo di transizione: ‘Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare’ (Op.I, T, p.222). Alcuni altri esempi: Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d’armi e di carriaggi (Op.I, T, p.311). Fu il colpo di grazia: per me tutto naufragò celestialmente in una calda nebbia purpurea (Op.I, T, p.236). In un senso figurato il ritorno ai colori, vuol dire un ritorno ad un mondo policromo, variopinto, ricco di persone diverse fra di loro, di paesaggi diversi, di cose, di oggetti, di situazioni, una preferenza per descrivere i mercati che sono variopinti per natura, tutto in contrapposizione all’uniformità del mondo di Auschwitz. Ad Auschwitz gli uomini erano stati spogliati di tutto (persone, casa, abiti, possesso, ma anche abitudini, nome ecc.), come spiega lo scrittore nel secondo capitolo di SQU: Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Op.I, SQU, p.21). 84 T si potrebbe dunque anche leggere come un libro di ritorno da questo vuoto. Da qui si spiega, secondo me, l’attenzione per i dettagli visivi, soprattutto quelli, che si esprime per esempio nella preferenza per l’elenco. Solo alcuni esempi: Il mercato di Cracovia era fiorito spontaneo, subito dopo il passaggio del fronte, e in pochi giorni aveva invaso un intero quartiere. Vi si vendeva e comperava di tutto, e tutta la città vi faceva capo: borghesi vendevano mobili, libri, quadri, abiti e argenteria; contadine imbottite come materassi offrivano carne, polli, uova, formaggio; bambini e bambine, naso e gote rubicondi per il vento gelato, cercavano amatori per le razioni di tabacco che l’amministrazione militare sovietica distribuiva con stravagante munificenza (trecento grammi al mese a tutti, anche ai lattanti) (Op.I, T, p.238-239). A Sluzk, nel luglio 1945, sostavano diecimila persone; dico persone, perché ogni termine più restrittivo sarebbe improprio. C’erano uomini, ed anche un buon numero di donne e di bambini. C’erano cattolici, ebrei, ortodossi e mussulmani; c’erano bianchi e gialli e diversi negri in divisa americana; tedeschi, polacchi, francesi, greci, olandesi, italiani ed altri; ed inoltre, tedeschi che si pretendevano austriaci, austriaci che si dichiaravano svizzeri, russi che si dichiaravano italiani, una donna travestita da uomo, e perfino, cospicuo in mezzo alla folla cenciosa, un generale magiaro in alta uniforme, litigioso e variopinto e stupido come un gallo (Op.I, T, p.315). Figura anche spesso la parola ‘spettacolo’ in T. La descrizione dell’Armata Rossa in rimpatrio viene chiamata uno spettacolo. Infatti, questo rimpatrio si rivela ai nostri occhi come una grande scenografia che fa pensare alla policromia ed esuberanza dei grandi film spettacolari hollywoodiani appena usciti come Ben Hur (1959) e Spartacus (1960). Forse Primo Levi (si veda anche il brano dedicato al cinema nel capitolo 13) si è ispirato a questi o altri film spettacolari per alcune delle parti descrittive in T (1963): D’altronde, metteva conto di passare qualche ora alla stazione anche al di fuori di ogni fine utilitario, ma solo per assistere allo straordinario spettacolo dell’Armata Rossa in rimpatrio: spettacolo ad un tempo corale e solenne come una migrazione biblica, e ramingo e variopinto come una trasferta di saltimbanchi. Sostavano a Katowice lunghissimi convogli di carri merci adibiti a tradotta: erano attrezzati per viaggiare mesi, forse fino al Pacifico, ed ospitavano alla rinfusa, a migliaia, militari e civili, uomini e donne, ex prigionieri, tedeschi a loro volta prigionieri; e inoltre merci, mobilia, bestiame, impianti industriali smobilitati, viveri, materiale bellico, rottami. Erano villaggi ambulanti: alcuni carri contenevano quanto appariva un nucleo familiare, una o due paia di letti matrimoniali, un armadio a specchi, una stufa, una radio, sedie e tavoli. Fra un vagone e l’altro erano tesi fili elettrici di fortuna, provenienti dal primo vagone che conteneva un generatore; servivano per l’illuminazione, e in pari tempo a stendervi la biancheria ad asciugare (e a sporcarsi di fuliggine). Quando al mattino si aprivano le porte scorrevoli, sullo sfondo di quegli interni domestici apparivano uomini e donne vestiti a mezzo, dalle larghe faccie assonnate: si guardavano intorno frastornati, senza saper bene in quale punto del mondo si trovavano, poi scendevano a lavarsi all’acqua gelida degli idranti, e offrivano in giro tabacco e fogli della «Pravda» per arrotolare sigarette (Op.I, T, p.271). E più avanti di nuovo: Lo spettacolo della smobilitazione russa, che già avevamo ammirato alla stazione di Katowice proseguiva ora in altra forma sotto i nostri occhi, giorno per giorno; non più per ferrovia, ma lungo la strada davanti alla Casa Rossa, passavano brandelli dell’esercito vincitore, da ovest verso est, in drappelli chiusi o sparsi, a tutte le ore del giorno e della notte. Passavano uomini a piedi, spesso scalzi e con le scarpe in spalla per risparmiare le suole, perché il cammino era lungo: in divisa o no, armati o disarmati, alcuni cantando baldanzosamente, altri terrei e sfiniti. Alcuni portavano a spalle sacchi o valige; altri, gli arnesi più disparati, una sedia imbottita, una lampada a piede, pentole di rame, una radio, un orologio a pendolo. 85 Altri passavano su carretti, o a cavallo; altri ancora, in motocicletta, a stormi, ebbri di velocità, con fragore infernale. Passavano autocarri Dodge di fabbricazione americana, gremiti di uomini fin sul cofano e sui parafanghi; alcuni trascinavano un rimorchio altrettanto gremito. Vedemmo uno di questi rimorchi viaggiare su tre ruote: al posto della quarta era stato assicurato alla meglio un pino, in posizione obliqua, in modo che una estremità appoggiasse sul suolo strisciandovi. A mano a mano che questa si consumava per l’attrito, il tronco veniva spinto più in basso, cosí da mantenere il veicolo in equilibrio. Quasi davanti alla Casa Rossa, una delle tre gomme superstiti si afflosciò; gli occupanti, una ventina, scesero, ribaltarono il rimorchio fuori di strada, e si cacciarono a loro volta sull’autocarro già zeppo, che ripartí in un nugolo di polvere mentre tutti gridavano «Hurrà». Passavano anche, tutti sovraccarichi, altri insoliti veicoli: trattori agricoli, furgoni postali, autobus tedeschi già addetti alle linee urbane, che ancora portavano le targhe coi nomi dei capilinea di Berlino: alcuni già in avaria, e trainati da altri automezzi o da cavalli (Op.I, T, 342-343). Gli esempi di spettacoli visivi sono innumerevoli. Ancora un esempio si trova alla fine del capitolo 15, quando il treno arriva in Romania: Fu infatti una drammatica rivelazione. Quando al primo mattino spalancammo le porte, si aprí ai nostri sguardi uno scenario sorprendentemente domestico: non più la steppa deserta, geologica, ma le colline verdeggianti della Moldavia, con case coloniche, pagliai, filari di viti; non più enigmatiche iscrizioni cirilliche, ma, proprio di fronte al nostro vagone, una casupola sbilenca, celeste di verderame, con su scritto ben chiaro: «Paine, Lapte, Vin, Carnaciuri de Purcel». E infatti, davanti alla casupola stava una donna, e traeva a bracciate da un canestro ai suoi piedi una lunghissima salsiccia, misurandola a tese come si misura lo spago. Si vedevano contadini come i nostri, dal viso adusto e dalla fronte pallida, vestiti di nero, colla giacca e il panciotto e la catena dell’orologio sul ventre; ragazze a piedi o in bicicletta, vestite quasi come da noi, che si sarebbero potute scambiare per venete o abruzzesi. Capre, pecore, vacche, maiali, galline: ma, freno ad ogni precoce illusione casalinga, ecco fermo a un passaggio a livello un cammello, a ricacciarci nell’altrove: un cammello consunto, grigio, lanoso, carico di sacchi, spirante alterigia e solennità sciocca dal preistorico muso leporino. Altrettanto duplice suonava ai nostri orecchi il linguaggio del luogo: radici e desinenze note, ma aggrovigliate e contaminate, in millenario concrescimento, con altre di suono straniero e selvaggio: un parlare familiare nella musica, ermetico nel senso (Op.I, T, pp.375-376). Come interpretare la predominanza visiva in T? Secondo la mia ipotesi che si debbano leggere SQU e T come libri gemellati, la chiave di interpretazione si trova in SQU. Come abbiamo detto qui sopra, in T il mondo si rivela come un grande spettacolo, variopinto e ricco di dettagli. La scelta dello scrittore per questa rappresentazione del mondo come spettacolo variopinto si può interpretare in chiave simbolica: come un ritorno dal grigio, dall’uniformità, dal nulla di Auschwitz, come l’aprirsi degli occhi alla vita, al mondo in tutte le sue apparenze. Per questo si può caratterizzare T anche come libro dell‘esuberanza’, come ha fatto Philip Roth in un’intervista con Primo Levi 163 . Allo stesso tempo la presentazione del mondo come spettacolo conferisce a T anche la sua dimensione mitica ed epica: ci si può leggere anche la rappresentazione di valori collettivi, del popolo russo, nel suo insieme. 163 AA. VV. (1997) Primo Levi. Conversazioni e interviste,, p.89 86 Personaggi teatrali in T Nel capitolo 6 (Victory Day) e nel capitolo 14 (Teatro) vengono descritte rappresentazioni teatrali, tutte rappresentazioni improvvisate e senza pretese, in cui Levi vede – lo scrive a proposito dello spettacolo descritto nel capitolo 6 – ‘una giovanile, nativa, intensa capacità di gioia e di espressione, una amorevole ed amichevole famigliarità con la scena e col pubblico, lontana dalla esibizione vuota e dalla astrazione cerebrale, dalla convenzione e dalla pigra ripetizione di modelli’ (Op.I, T, p.281). Come ho affermato anche qui sopra, la teatralità si deve vedere come espressione del Volksgeist e come affermazione della vita, un elogio dell’istinto, delle passioni irrazionali e vitali e dell’improvvisazione, l’antitesi del sistema tedesco e della loro rigidità fredda portata all’estremo. Scarlini nomina alcuni momenti teatrali in T: Come segnalato acutamente da Pier Vincenzo Mengaldo è infatti una forma di spettacolo ciò che realizza Cesare con le sue ciarlatanesche vendite di fortuna al mercato nero e attiene allo stesso territorio il patetico personaggio di Tramonto che, avendo passato la propria vita diviso tra teatro e prigione non riesce più a ridefinire una propria identità al di fuori di una continua (e sempre mutevole) rappresentazione di se stesso e delle proprie vicissitudini 164 . Molto interessante trovo il fatto che Primo Levi stesso, nell’appendice per l’edizione scolastica di SQU, a proposito di Cesare dichiara : Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subíte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente (Op.I, app.SQU, p.189). Nel capitolo intitolato Teatro Scarlini individua varie forme di spettacolo, sketches che vanno ‘dal canto corale, all’improvvisazione comica, fino alla realizzazione di un vero e proprio musical’ 165 . Tra tutti questi numeri spicca, per il suo significato più profondo e legame con i temi del libro, soprattutto quello intitolato ‘Il cappello a tre punte’, ‘una filastrocca senza senso’ che diviene ‘una lugubre e ossessiva liturgia del nulla’, in cui vede una reminiscenza beckettiana166 . Oltre a questi momenti teatrali messi in luce da Scarlini, credo che la portata del teatro in T sia molto più ampia. In T il mondo si presenta al narratore come un teatro, uno spettacolo di cui lui è sempre lo spettatore. Ma a differenza con SQU in cui la presentazione del mondo come un teatro sottolinea l’assurdità e l’irrealtà del mondo di Auschwitz – ‘questo non può essere vero, deve essere un pezzo teatrale’, pensiero che equivale all’effetto di alienazione, al grottesco –, in 164 165 Scarlini (1997), p.487. Ibidem. Si veda anche Baldasso (2007), pp.95-110. 87 T teatro e mondo coincidono pacatamente. In SQU il mondo si presenta come se fosse un teatro, in T il mondo è il teatro. Nel capitolo intitolato Teatro teatro e mondo coincidono letteralmente. L’annuncio del viaggio di ritorno viene alla fine ‘in teatro e attraverso il teatro’ (Op.I, T, p.365). Stanno rappresentando per l’ennesima volta lo stesso sketch quando alla fine dello sketch il personaggio diventa ‘il messaggero’ (da personaggio a persona nella rappresentazione teatrale) che annuncia il viaggio di ritorno: Ora, proprio mentre il decano fra loro, canuto e curvo ormai per l’interminabile attesa, tendeva il dito verso il mare e gridava: – Una nave! – e mentre tutti noi, con un nodo alla gola, ci preparavamo al lieto fine di maniera dell’ultima scena, e a ritirarci ancora una volta nei nostri covili, si sentí uno schianto subitaneo, e si vide il capocannibale, vero Deus ex machina, piombare verticalmente sul palcoscenico, come se cadesse dal cielo. Si strappò la sveglia dal collo, l’anello dal naso e il casco di penne dal capo, e gridò con voce di tuono: – Domani si parte! (Op.I, T, p.366). Proprio come gli sketches teatrali rappresentati nei capitoli 6 e 14, anche il mondo reale si presenta sotto la forma di brevi sketches teatrali. In questi sketches nel mondo reale spiccano i seguenti elementi: una situazione comica/ burlesca, personaggi spesso esageratamente comici o grotteschi, un’enfasi messa sui gesti, la mimica e le azioni – direi la ‘psicologia esteriore’ del personaggio, più che la psicologia interiore del personaggio (la riflessione, i pensieri) – e, in alcuni casi, il dialogo – strumento della mimesi teatrale per eccellenza e anche mezzo per caratterizzare il personaggio –. T è permeato da questo tipo di piccoli sketches comici o grotteschi che mi fanno pensare ai racconti più ‘teatrali’ di Pirandello. Si pensi al famoso racconto La Giara per esempio – che è poi stato rielaborato come pezzo teatrale –, in cui si ritrovano tutti questi elementi. Consideriamo ora alcuni di questi sketches. Si osservino anche i riferimenti espliciti al teatro (si riferisce spesso alle qualità da attore o mimo e al pubblico che viene a guardare lo spettacolo) e l’attenzione per l’interazione con il pubblico. Questa attenzione si ritrova anche nelle descrizioni delle rappresentazioni teatrali vere e proprie e credo che questo abbia molto a che fare con la ripresa del contatto con il mondo dopo l’esperienza nel Lager, un urgente bisogno di contatti umani e di comunicazione che si rispecchia anche nella forma del dialogo e dell’interazione. Cito solo alcuni passi di questi sketches per dare un’idea. Troviamo il primo sketch nel capitolo 5 nel ‘pubblico spettacolo’ della ‘cerimonia della ispezione’: L’ispettore fece la sua prima ispezione con molta dignità e serietà, prendendo appunti su un libretto. Era un ebreo sulla trentina, lunghissimo e dinoccolato, con un bel volto ascetico da Don Chisciotte. Ma il secondo giorno aveva scovato chissà dove una motocicletta, e fu folgorato da un cosí ardente amore, che da allora in poi non furono più visti disgiunti mai. 166 Scarlini (1997), p.488 88 La cerimonia della ispezione divenne un pubblico spettacolo, a cui assistevano sempre più numerosi i borghesi di Katowice. L’ispettore arrivava verso le undici come una tromba d’aria: frenava di colpo con stridore orribile, e facendo perno sulla ruota anteriore faceva sbandare quella posteriore di un quarto di cerchio. Senza arrestarsi, puntava verso la cucina a testa bassa, come un toro che carichi; superava i due gradini con paurosi sobbalzi; descriveva due 8 frettolosi, con tutto lo scappamento aperto, intorno alle marmitte; volava nuovamente gli scalini all’ingiú, salutava militarmente il pubblico con un sorriso radioso, si curvava sul manubrio, e spariva in una nuvola di fumo glauco e di fracasso (Op. I, T, p.267). Cesare, ‘un mimo di gran classe’ mostra le sue arti da ciarlatano al mercato di Katowice. Si osservi anche il discorso diretto e l’uso del dialetto romano per caratterizzare il personaggio, anche tipico del teatro popolare: L’arte del ciarlatano non è cosí diffusa come io pensavo: il pubblico polacco pareva la ignorasse, e ne era affascinato. Cesare poi era un mimo di gran classe: sventolava la camicia nel sole, tenendola ben stretta per il colletto (sotto il colletto c’era un buco, ma Cesare la teneva in mano proprio nel punto dove c’era il buco), e ne proclamava le lodi con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni inedite ed insulse, apostrofando a tratti questo o quello fra il pubblico con nomignoli osceni che si inventava sul momento. Si interruppe bruscamente (conosceva per istinto il valore oratorio delle pause), baciò la camicia con affetto, e poi, con voce risoluta e insieme commossa, come se gli piangesse il cuore a separarsene, e vi si inducesse solo per amore del suo prossimo, – Tu, panzone, – disse: – quanto mi daresti per ‘sta cosciuletta? Il panzone rimase interdetto. Guardava la «cosciuletta» con desiderio, e con la coda dell’occhio si sbirciava ai fianchi, mezzo sperando e mezzo temendo che qualcun altro facesse la prima offerta. Poi avanzò esitando, tese una mano incerta e borbottò qualcosa come «pingísci ». Cesare ritirò la camicia al seno come se avesse visto un aspide. – Che ha detto, quello? – mi chiese, come se sospettasse di aver ricevuto una offesa mortale; ma era una domanda retorica, poiché riconosceva (o indovinava) i numerali polacchi molto più prontamente di me. – Tu sei matto, – disse poi perentorio, puntandosi un indice alla tempia e girandolo come un trapano. Il pubblico rumoreggiava e rideva, parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico, venuto dai confini del mondo a far portenti sulle loro piazze (Op.I,T, p.272). Di nuovo appare l’ispettore sulla scena, questa volta come arbitro di una partita di calcio, in cui si mostra ‘un comico di gran scuola’: La partita si svolgeva su di un campo di periferia piuttosto lontano da Bogucice, e i russi, per l’occasione, avevano concesso libera uscita all’intero campo. Fu accanitamente disputata non solo fra le due squadre contendenti, ma fra entrambe queste e l’arbitro: poiché arbitro, ospite d’onore, titolare del palco delle Autorità, direttore di gara e segnalinee a un tempo era il capitano della NKVD, l’inconcreto ispettore delle cucine. Ormai guarito alla perfezione della frattura, sembrava seguisse il gioco con interesse intenso, ma non di natura sportiva: con un interesse di natura misteriosa, forse estetico, forse metafisico. Il suo comportamento era irritante, anzi estenuante, se giudicato col metro dei molti competenti presenti fra il pubblico; per altro verso, esilarante, e degno di un comico di gran scuola. Interrompeva il gioco continuamente, a casaccio, con sibili prepotenti, e con una sadica predilezione per i momenti in cui erano in corso azioni sotto porta; se i giocatori non gli davano retta (e smisero ben presto di dargli retta, perché le interruzioni erano troppo frequenti), scavalcava il parapetto del palco con le sue lunghe gambe stivalate, si cacciava nella mischia fischiando come un treno, e tanto faceva finché non riusciva a impadronirsi del pallone. Allora, a volte lo prendeva in mano, rigirandolo da tutte le parti con aria sospettosa, come se fosse stato una bomba inesplosa; altre volte, con gesti imperiosi, lo faceva mettere a terra in un determinato punto del terreno, poi si avvicinava poco soddisfatto, lo spostava di qualche centimetro, gli girava intorno a lungo meditabondo, e infine, come convinto di chissà che, faceva cenno di riprendere il gioco. Altre volte ancora, quando gli riusciva di avere il pallone fra i piedi, faceva allontanare tutti, e lo calciava in porta con tutta la forza che aveva: poi si volgeva radioso al pubblico che mugghiava di rabbia, e salutava a lungo stringendosi le mani al di sopra del capo come un pugile vittorioso. Era peraltro rigorosamente imparziale (Op.I, T,283-284). Si osservi la scena grottesca del soldato ubriaco che entra ed esce: 89 Sulla soglia apparve un soldato russo, giovanissimo, ubriaco: si guardò intorno con occhi vaghi, poi partí davanti a sé a testa bassa, con paurose bordate, come se a un tratto il pavimento si fosse fortemente inclinato sotto di lui. Nel corridoio stavano in piedi tre ufficiali sovietici, assorti in colloquio. Il soldatino, giunto alla loro altezza, frenò, si irrigidí sull’attenti, salutò militarmente, e i tre risposero dignitosamente al saluto. Poi ripartí a semicerchi come un pattinatore, infilò di precisione la porta che dava all’esterno, e lo si udí vomitare e singultare rumorosamente sulla banchina. Rientrò con passo un po’ meno incerto, salutò di nuovo i tre ufficiali impassibili, e sparí. Dopo un quarto d’ora, la scena si ripeté identica, come in un incubo: ingresso drammatico, pausa, saluto, frettoloso percorso sghembo fra le gambe dei dormienti verso l’aria aperta, scarico, ritorno, saluto; e cosí di seguito per infinite volte, a intervalli regolari, senza che mai i tre gli dedicassero altro che una distratta occhiata e un corretto saluto colla mano alla visiera (Op. I, T, p.304). Un bell’esempio di arte mimetica, lo troviamo anche nel capitolo 10 Una curizetta, in cui Cesare prova ad avere una gallina per la cena: Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo «coccodé»: e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibí in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l’altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l’altra, faceva anche «coccodé»: ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove. Perciò il risultato fu nullo. Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l’uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo cosí anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salí di un’ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato (Op.I.,T, pp. 322-323). Si consideri anche la coppia di comici, Cesare ed Irina, al mercato, osservata da Primo Levi che assiste ‘alle loro interessanti contrattazioni’ (Op.I.p.339): Ecco Cesare, che di buon mattino si presenta al mercato con un pesce. Cerca e trova la Irina, sua coetanea ed amica, le cui simpatie si è conquistato tempo addietro battezzandola «Greta Garbo» e regalandole una matita: Irina ha una mucca e vende latte, «molokò»; anzi, spesso, alla sera, tornando dal pascolo, si ferma davanti alla Casa Rossa e munge il latte direttamente nei recipienti della sua clientela. Questa mattina si tratta di concordare quanto latte valga il pesce di Cesare: Cesare mostra una pentola da due litri (è di quelle di Cantarella, e Cesare la ha rilevata da un «ménage» scioltosi per incompatibilità), e fa segno colla mano tesa, palmo all’ingiú, che la intende piena. Irina ride, e risponde con parole vivaci e armoniose, probabilmente contumelie; allontana con uno schiaffo la mano di Cesare, e segna con due dita la parete della pentola a metà altezza. Ora tocca a Cesare indignarsi: brandisce il pesce (non manomesso), lo libra in aria per la coda con enorme sforzo, come se pesasse venti chili, dice: – Questa è una ribbona! – poi lo fa scorrere sotto il naso di Irina per tutta la sua lunghezza, e cosí facendo chiude gli occhi e inspira lungamente aria, come inebriato dal profumo. Profittando dell’attimo in cui Cesare ha gli occhi chiusi, rapida come un gatto Irina gli strappa il pesce, ne stacca netta la testa coi denti candidi, e sbatte il corpo flaccido e mutilato in faccia a Cesare, con tutta la notevole forza di cui dispone. Poi, per non rovinare l’amicizia e la trattativa, tocca la pentola a tre quarti di altezza; un litro e mezzo. Cesare, mezzo stordito dal colpo, brontola con voce cavernosa: – Séeee: e come te metti? – e aggiunge altre galanterie oscene idonee a restaurare il suo onore virile; poi però accetta l’ultima offerta di Irina, e le lascia il pesce, che quella divora seduta stante (Op.I, T, p.340). Alla fine – ma abbiamo soltanto accennato agli esempi più ovvi di sketches teatrali – cito il passo del marinaio russo che prova a raccontare una storia di guerra senza linguaggio, solo in modo mimetico: 90 Un altro giorno, ma alla stessa ora e nello stesso luogo, mi imbatto in uno spettacolo inconsueto. C’è un capannello di italiani attorno a un marinaio russo, giovanissimo, alto, dalle movenze rapide e pronte. Sta «raccontando» un episodio di guerra; e poiché sa che la sua lingua non è compresa, si esprime come può, in un modo che gli è evidentemente spontaneo quanto e più della parola: si esprime con tutti i muscoli, con le rughe precoci che gli segnano il viso, col lampo degli occhi e dei denti, coi balzi e coi gesti, e ne nasce una danza solitaria piena di fascino e di impeto. È notte, «noè»: gira intorno a sé piano piano le mani col palmo rivolto in giú. Tutto è silenzio: pronuncia un lungo «sst» coll’indice parallelo al naso. Strizza gli occhi e indica l’orizzonte: laggiú, lontano lontano, sono i tedeschi, «niemtzy». Quanti? Cinque, fa segno con le dita; «finef», aggiunge poi in yiddisch a maggior chiarimento. Scava colla mano una piccola fossa rotonda nella sabbia, e vi pone cinque stecchi coricati, sono i tedeschi; e poi un sesto stecco piantato obliquo, è la «maä.na», la mitragliatrice. Cosa fanno i tedeschi? Qui i suoi occhi si accendono di allegria selvaggia: «spats», dormono (e russa quieto lui stesso per un attimo); dormono, gli insensati, e non sanno cosa li aspetta. Che ha fatto? Ecco che ha fatto: si è avvicinato, cauto, sottovento, come un leopardo. Poi, di scatto, è balzato dentro il nido estraendo il coltello: e ripete, ormai tutto perduto nella estasi scenica, i suoi atti di allora. L’agguato, e la mischia fulminea e atroce, eccole ripetersi sotto i nostri occhi: l’uomo, dal volto trasfigurato da un riso teso e sinistro, si tramuta in un turbine: salta avanti e indietro, colpisce davanti a sé, ai bianchi, alto, basso, in una esplosione di energia mortifera; ma è un furore lucido, la sua arma (che esiste, un lungo coltello che ha cavato dallo stivale) penetra, fende, squarcia con ferocia e insieme con tremenda perizia, un metro davanti alle nostre facce. A un tratto il marinaio si ferma, si raddrizza lentamente, il coltello gli cade di mano: il suo petto ansima, il suo sguardo si è spento. Guarda a terra, come stupito di non scorgervi i cadaveri e il sangue; si guarda intorno smarrito, svuotato; si accorge di noi e ci rivolge un timido sorriso infantile. – Konieèno, – dice: è finito; e si allontana con passo lento (Op.I. T, pp. 348-349). Come interpretare questi sketches nel contesto dell’intero libro? Sono semplicemente indizi di un libro di avventure, di storie fantastiche o c’è anche un significato nascosto, legato ai temi più profondi del libro, legato al libro precedente? Credo di sì. Prima di tutto come ha affermato l’autore esplicitamente, il teatro è legato alla Russia e come tale espressione di vitalità, di gioia e di libertà. Anche il mondo stesso si presenta agli occhi di Primo Levi come uno spettacolo, un teatro. Le rappresentazioni teatrali (quelle vere e proprie) incontrate nei capitoli 6 (Victory Day) e 14 (Teatro) si possono dunque leggere come teatro nel teatro e dunque come una specie di mise en abyme 167 . Infatti, tale rapporto speculare permette secondo me di leggere gran parte del libro – le parti che presentano il mondo come un teatro, come in questi sketches – come espressione di vitalità, di gioia e di libertà. Il commento esplicito alle rappresentazioni teatrali vere e proprie si applica all’intero mondo teatrale che circonda Primo Levi durante il suo viaggio di ritorno. Come tale il significato del teatro è opposto a quello in SQU, perché in T teatro e mondo coincidono in un rapporto di armonia ed allegria e non dimostrano un rapporto quasi schizofrenico e angosciante come in SQU dove il teatro si sovrappone al mondo irrealmente reale. Il mondo come si presenta in T, assurdo, comico e grottesco come è, lo possiamo chiamare al contrario realmente irreale. La linea tematica si trova già in SQU e continua in T in un rapporto di simmetria asimmetrica. Si noti inoltre come i temi incontrati prima, indizi della vita che si riprende – il movimento (gesti, mimica e azione), la rinascita della lingua, del linguaggio e della comunicazione (il dialogo, l’interazione) – confluiscano come sintesi naturale in questa teatralità del mondo. 91 Ma anche in T si presenta l’altra faccia della medaglia e la linea di SQU continua ambiguamente accanto a quella allegra, ‘nuova’ della ripresa della vita. L’ombra di Auschwitz si rivela anche nella tematica teatrale. Prima di tutto nella rappresentazione della canzone del “Cappello a tre punte”, ‘pantomina sinistra, oscuramente allegorica, piena di risonanze simboliche ed inquietanti’, numero che ‘toglieva il respiro, e veniva accolto ogni sera con un silenzio più eloquente degli applausi’ (Op.I, T, p.362). Scarlini ci vede un’eco di Beckett (Aspettando Godot) 168 , Primo Levi commenta il silenzio con cui viene accolto il numero in questo modo: Perché? Forse perché vi si percepiva, sotto l’apparato grottesco, il fiato pesante di un sogno collettivo, del sogno che vapora dall’esilio e dall’ozio, quando cessano il lavoro e la pena, e nulla pone riparo fra l’uomo e se stesso; forse perché vi si ravvisava l’impotenza e la nullità della nostra vita e della vita, e il profilo gobbo e sghembo dei mostri generati dal sonno della ragione (Op.I, T, p.362). Forse questa rappresentazione è anche allegoria di Auschwitz, in quanto allegoria del silenzio, della fine della comunicazione (in SQU la comunicazione è segno di umanità per eccellenza) e come tale la fine della vita, resta l’uomo vuoto. Infatti, le figure che ‘avvolti in mantelli neri, con cappucci neri sul capo’, con ‘volti di un pallore cadaverico e decrepito, segnati da profonde rughe livide’ (Op.I, T, p.362), simboleggiano la Morte: Cantavano: e ad ogni ripetizione, con l’accumularsi dei buchi sostituiti dai gesti malcerti, sembrava che la vita, insieme con la voce, fuggisse da loro. Scandita dalla pulsazione ipnotica di un solo tamburo in sordina, la paralisi progrediva lenta e irreparabile. L’ultima ripetizione, nel silenzio assoluto dell’orchestra, dei cantori e del pubblico, era una straziante agonia, un conato moribondo (Op.I, T, p.362). L’altro esempio ambiguo di teatralità che stona con gli altri esempi di tonalità comica, è quello (anche nominato da Scarlini) di Trovati, detto Tramonto, prigioniero delle proprie invenzioni, ‘che avendo passato la propria vita diviso tra teatro e prigione non riesce più a ridefinire una propria identità al di fuori di una continua (e sempre mutevole) rappresentazione di se stesso e delle proprie vicissitudini’ 169 . La tematica del capitolo in cui si trova la storia di Trovati è quella dei ‘sogni insensati’: È questo il frutto più immediato dell’esilio, dello sradicamento: il prevalere dell’irreale sul reale. Tutti sognavano sogni passati e futuri di schiavitú e di redenzione, di paradisi inverosimili, di altrettanto mitici e inverosimili nemici: nemici cosmici, perversi e sottili, che tutto pervadono come l’aria (Op.I, T, pp.293-294). 167 Sul concetto della mise en abyme, si veda Dällenbach (1977). Scarlini (1997), p.488 169 Ivi, p.487 168 92 Credo che nei suoi ‘fantasiosi espedienti’ (Op.I, T, p.289) si possano rintracciare tematiche simili a quelle di Pirandello 170 (‘Raccontava della prigione e del tribunale come di un teatro, in cui nessuno è veramente se stesso, ma gioca, dimostra la sua abilità, entra nella pelle di un altro, recita una parte’ ed anche per il riferimento alla tematica della maschera (Op.I, T, p.289)), di Faust (‘Erano venuti due messaggeri a tentarlo, a fargli la satanica proposta di vendere la bottega e darsi all’arte’ (Op.I, T, p.289)) e soprattutto di Kafka (‘Questa setta è la Società: il gran nemico, contro cui lui Tramonto aveva combattuto da sempre, e sempre era stato sopraffatto, ma ogni volta era eroicamente risorto. Era la Società che era discesa a cercarlo, a sfidarlo. Lui viveva nell’innocenza, nel paradiso terrestre: era barbiere, padrone di bottega, ed era stato visitato’ (Op.I, T, p.289) e forse anche il riferimento ai ‘due messaggeri’ che fa pensare ai due uomini che si presentano all’inizio di Il Processo, solo che il tema si capovolge alla fine, perché Tramonto viene assolto): Nei suoi discorsi, il vero, il possibile e il fantastico erano intrecciati in un groviglio vario e inestricabile. Raccontava della prigione e del tribunale come di un teatro, in cui nessuno è veramente se stesso, ma gioca, dimostra la sua abilità, entra nella pelle di un altro, recita una parte; e il teatro, a sua volta, era un gran simbolo oscuro, uno strumento tenebroso di perdizione, la manifestazione esterna di una setta sotterranea, malvagia e onnipresente, che impera a danno di tutti, e che viene a casa tua, ti prende, ti mette una maschera, ti fa diventare quello che non sei e fare quello che non vuoi. Questa setta è la Società: il gran nemico, contro cui lui Tramonto aveva combattuto da sempre, e sempre era stato sopraffatto, ma ogni volta era eroicamente risorto. Era la Società che era discesa a cercarlo, a sfidarlo. Lui viveva nell’innocenza, nel paradiso terrestre: era barbiere, padrone di bottega, ed era stato visitato. Erano venuti due messaggeri a tentarlo, a fargli la satanica proposta di vendere la bottega e darsi all’arte. Conoscevano bene il suo punto debole: lo avevano adulato, avevano lodato le forme del suo corpo, la sua voce, l’espressione e la mobilità del suo viso. Lui aveva resistito due, tre volte poi aveva ceduto, e con in mano l’indirizzo del teatro di posa si era messo a girare per Milano. Ma l’indirizzo era falso, da ogni porta lo rimandavano a un’altra porta; finché si era accorto della congiura. I due messaggeri, nell’ombra, lo avevano seguito con la macchina da presa puntata, avevano rubato tutte le sue parole e i suoi gesti di disappunto, e cosí lo avevano fatto diventare attore a sua insaputa. Gli avevano rubato l’immagine, l’ombra, l’anima. Eran stati loro a farlo tramontare, e a battezzarlo «Tramonto». Cosí era finita per lui: era nelle loro mani. Il negozio venduto, contratti niente, soldi pochi, qualche particina ogni tanto, qualche furto per tirare avanti. Fino alla sua grande epopea, l’omicidio polposo. Aveva incontrato per strada uno dei suoi seduttori, e l’aveva accoltellato: si era reso reo di omicidio polposo, e per questo suo delitto era stato trascinato in tribunale. Ma non aveva voluto avvocati, perché il mondo intero, fino all’ultimo uomo, era contro di lui, e lui lo sapeva. E tuttavia era stato cosí eloquente e aveva esposto cosí bene le sue ragioni, che la Corte lo aveva assolto su due piedi con una grande ovazione, e tutti piangevano (Op. I, T, p.289-290). 170 Usher (2007), p.180 nomina Pirandello come una fonte importante per Primo Levi, ma non cita questo passo. 93 Conclusione Ho dedicato questa tesi di laurea alle linee di continuità e alle opposizioni tematiche nei primi due libri di Primo Levi. Ho provato a mostrare come questi due libri siano legati non solo dalle linee di continuità, ma anche appunto dalle opposizioni: spesso Primo Levi riprende un tema del primo libro e lo capovolge nel secondo. Abbiamo visto che lo scrittore non si è solo limitato ai temi capovolti: alcuni dei temi analizzati confluiscono in una rappresentazione di due mondi diversi, un inferno e un Caos primordiale, un regno di morte e un mondo che rinasce. Credo che in quest’ultima opposizione si possa individuare una linea simbolica che unisce i due libri in un movimento, in un ciclo organico di vita e morte. Cominciamo però dal punto più semplice: le linee di continuità. La prima parte di questa tesi copre soprattutto la prima metà del sottotitolo: le linee di continuità sia sul livello tematico che sul livello strutturale. Queste linee di continuità consistono in simmetrie (temi ripresi oppure temi e personaggi introdotti allo stesso punto nel testo dei due libri) o simmetrie parziali (temi ripresi nel secondo libro ma solo parzialmente oppure capovolti). Si pensi alla tematica del sogno che viene ripresa nel secondo libro ma solo parzialmente simmetrica. Si pensi alla tematica del linguaggio che viene capovolto nel secondo libro, tanto da poter definire il primo: il libro del silenzio e il secondo: il libro degli incontri. La confusione delle lingue, minaccia continua per i deportati, diventa un gioco nel secondo libro. Ho esaminato in più la storia della stesura dei due libri e soprattutto del primo libro, di cui esistono due edizioni: del 1947 e del 1958. Abbiamo visto come lo scrittore nella nuova edizione del ’58 fosse molto attento alla simmetria tra i due libri. Sia sul livello strutturale che sul livello tematico e perfino sul livello del tono ho individuato un avvicinamento tra l’edizione del ’58 di SQU e T, tanto da poter ipotizzare che lo scrittore avesse già in mente T, quando stava revisionando il primo libro. Il confronto tra T e l’edizione del ’58 di SQU fa vedere delle linee simmetriche molto forti (e in buona parte assenti nell’edizione del ’47): un identico numero di capitoli (17 capitoli) in entrambi i libri; una continua oscillazione tra ottimismo e pessimismo nei due libri, anche se in un modo diverso: tra disumanizzazione e umanità in SQU e tra la ripresa della vita e il ritorno di Auschwitz in T; l’ampliamento dell’importantissimo motivo dell’interazione umana, del dialogo e del riconoscimento dell’uomo nell’altro; la tematica della confusione linguistica (minaccia in SQU, gioco in T); l’introduzione della figura ‘guida’ (Steinlauf e Mordo Nahum) che permette un’interpretazione verso il Bildunsgsroman in entrambi i libri; una linea dantesca rafforzata; un tono che oscilla tra leggero e cupo e rispecchia l’ambiguità del contenuto; ed alla fine alcuni temi come la morte del bimbo emblematico in apertura come denuncia patetica, la 94 tematica delle scarpe come essenziale modo di sopravvivenza e l’introduzione della tematica caos – ordine, Leitmotiv poi in tutta la sua opera, attraverso la rappresentazione dei popoli: italiani e russi (caos, valore positivo) e i tedeschi (ordine, valore negativo). La seconda parte di questa tesi è interamente dedicata alla seconda metà del sottotitolo: le opposizioni tematiche. Con opposizione tematica si intende nel caso di SQU e T: una tematica presente in entrambi i libri, ma capovolta, rovesciata. Allo stesso tempo questa rottura è solo apparenza, perché nell’opposizione c’è anche unità. Ho esaminato alcuni temi per dimostrare la mia ipotesi. Seguendo l’ordine dei capitoli, si parte dal tema del tempo. Ho individuato che il tempo in SQU è fortemente tematizzato: la rappresentazione del tempo in SQU è anomala, in quanto fa vedere una tendenza all’eliminazione del passato e del futuro a favore del presente, che diventa di conseguenza ‘presente eterno’. Questa tendenza si rispecchia anche linguisticamente nell’uso del ‘presente’, che non conviene chiamare ‘presente storico’, ma ‘presente assoluto’. Il significato della rappresentazione del ‘presente eterno’ è un mondo che è immobile, un inferno eterno da cui non c’è scampo, ma anche per noi lettori, un’ammonizione della presenza eterna di Auschwitz. Ho detto tendenza, perché l’uso verbale non è molto coerente in SQU. Ho accennato al lato ambiguo dello scrittore, perché l’eliminazione del passato e del futuro è anche una corazza contro il dolore. Allo stesso tempo però i pensieri al mondo ‘normale’ costituiscono anche i momenti di speranza e di umanità. In T invece il tempo ricomincia a scorrere, il che si rispecchia anche linguisticamente nella ripresa in gran parte dei modi verbali comuni per rendere un evento passato: il passato remoto e l’imperfetto. Solo contrapposto alla rappresentazione del tempo in SQU, il tempo ‘normale’ in T acquista un significato pregnante: di una ripresa della vita. Possiamo sintetizzare la rappresentazione del tempo in SQU e T nell’opposizione immobilismo – mobilità. La rappresentazione dello spazio in SQU si caratterizza da una chiusura dal mondo ‘normale’ associata alla discesa infernale senza via di scampo, ed una chiusura nel Lager stesso, percepito come esperienza claustrofobica: angosciante da una parte, ma dall’altra parte anche rassicurante, perché la chiusura fornisce una sorta di protezione. Questa chiusura si esprime soprattutto attraverso l’uso fittissimo di metafore di chiusura. Ciò nonostante i prigionieri non sono completamente separati dal mondo ‘normale’, ma solo a metà. La separazione a metà viene espressa dalle metafore della finestra, del vetro e dell’acquario, per natura barriere a metà che evocano un mondo ‘normale’ ancora visibile, ma filtrato (metafore del velo dunque). Proprio quella separazione a metà – ‘dolci cose ferocemente lontane’ (Op.I, SQU, p.109) – provoca il dolore. 95 In T invece il mondo si apre, tanto da poter caratterizzare T come il libro dello spazio illimitato: la terra e il cielo si aprono, rivelano lo spazio russo immenso, l’arcobaleno, il sole ed altri elementi naturali non più filtrati o velati come in SQU. I personaggi si muovono liberamente attraverso lo spazio, come uccelli, volano persino. Tutto questo sembra il preludio di gioia, di illimitate possibilità, ma anche qui la scrittura leviana mostra il suo lato ambiguo, perché a volte lo spazio aperto si rivela invece come fonte di dolore e di nostalgia. Possiamo sintetizzare la rappresentazione dello spazio in SQU e T nell’opposizione chiusura – apertura. L’immagine della natura in SQU è quella di un paesaggio del Male assoluto, evocato dai richiami danteschi di elementi paesaggistici dell’inferno. È un paesaggio letale ben lontano da quello del mondo ‘normale’ delle miti stagioni, del mare aperto, delle montagne, che si rivelano solo nei pensieri e nei ricordi. Forse l’unica immagine di speranza è quella del sole, ma anche il sole si rivela a volte come traditore, come presenza nemica dunque. Credo che oltre al realismo della descrizione paesaggistica si nasconda un significato simbolico di due mondi diversi: quello giusto (delle miti stagioni, del mare aperto, delle montagne) e quello del Male assoluto evocato dagli elementi paesaggistici dell’inferno dantesco. Questa linea simbolica della natura come immagine del Bene e del Male, cosí ben separati, viene anche subito contraddetta da altre indicazioni nel testo che confondono il mondo ‘normale’ con quello di Auschwitz. Di particolare interesse in SQU è la presenza della metafora animalesca. Infatti, si possono rintracciare varie linee: la riduzione dell’uomo ad una bestia, le metafore degli animali scelti che rivelano il comportamento servile e docile nel Lager, i riferimenti ad animali danteschi che rivelano lo stato inferiore, mentre le metafore di animali veloci sono solo riservate ai salvati. Alla fine figura la metafora animalesca che indica la chiusura e come tale, metafora vicina a quelle che rendono lo spazio. Possiamo dire che SQU si caratterizza attraverso una chiusura su ogni livello: non solo una separazione dal mondo ‘normale’ ed una chiusura nel Lager stesso, ma anche una separazione dall’altro prigioniero che vive nel Lager e persino da se stesso. La corazza che si costruisce attorno a sé fornisce una sorta di protezione sia per i deportati che per i Kapos. A volte i deportati riescono a spezzare la corazza del Kapo, a volte la corazza eretta attorno a sé non è servita ed è esplosa, come nel caso di Null Achtzehn, che non è più un uomo, ma vuoto, ‘un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote’ (Op.I, SQU, p.36). Alla fine l’immagine della natura in SQU è anche quella di una natura perversa, una natura a rovescio in cui gli oggetti inanimati vivono e gli uomini muoiono. In T l’immagine della natura è opposta rispetto a quella di SQU. Infatti, la natura ritrova la sua forza originale come fonte di vita. Come tale è anche medicina per il deportato che ricerca 96 la vita anche attraverso un contatto ristabilito con la natura. La serenità della descrizione paesaggistica sembra avere un modello dantesco, perché il passaggio dall’Inferno al Purgatorio è segnato da una simile trasformazione simbolica del paesaggio. L’immagine predominante in T è quella del vento, che equivale allo pneuma che anima tutte le cose e che è fonte di vita. Collegato all’immagine del Caos primordiale, il vento si presenta come pneuma di un mondo che rinasce dopo Auschwitz, un mondo nuovo, pieno di vitalità. L’immagine del vento, presente a partire dal terzo capitolo, si estende a tutto il libro, non solo attraverso questa metafora, ma anche in un continuo movimento in tutto il libro (spostamenti, moti, ma anche suoni, grida, canzoni ecc.). Di nuovo si rivela il lato ambiguo dello scrittore, perché nonostante la ripresa della vita espressa tra l’altro nell’immagine della natura, la natura manifesta anche un lato ambiguo nell’immagine del bosco, simbolo di irrazionalità da una parte e immagine di solitudine e nostalgia dall’altra parte. Lo stesso vale per la pianura, che da una parte si rivela come spazio aperto e immagine di libertà, ma dall’altra parte anche come espressione di dolore, di nuove prove, di una vita che non è la Terra Promessa. Possiamo dire che la descrizione della natura nei primi due libri di Primo Levi fa vedere anche un valore archetipico della rappresentazione del paesaggio, presente in tanta parte della tradizione culturale occidentale: un paesaggio del Bene e del Male, un paesaggio che rispecchia lo stato d’animo dell’uomo: la natura morta per l’uomo morto in SQU, la natura viva per l’uomo che rivive in T. E perciò nella descrizione del paesaggio, anche se profondamente realistico e veritiero, predomina sempre il valore simbolico. Possiamo sintetizzare la rappresentazione della natura in SQU e T in gran parte nell’opposizione morte – vita. Il tema del teatro è un po’ diverso dagli altri. Comunque la stessa tendenza di un’opposizione tematica si potrebbe verificare. Abbiamo visto come in SQU il teatro si presenti soprattutto nel secondo capitolo sulla soglia del nuovo mondo di Auschwitz, per rendere un mondo talmente incredibile da non poter essere vero. Il teatro si muove dunque sull’asse della realtà – irrealtà e si caratterizza come teatro grottesco proprio per il suo effetto estraniante. Abbiamo ipotizzato anche nella rappresentazione del teatro in SQU, un modo di difesa, una corazza, proprio simile a quello del sogno. Infine abbiamo esaminato i due personaggi teatrali in SQU: Elias, il nano grottesco che coincide con il mondo grottesco di Auschwitz e alla fine la figura di Caronte (aggiunta del ’58) che secondo me crea, come elemento comico in un mondo tragico, l’effetto di rilievo comico, tipico nel teatro e lo spettacolo in generale. Anche in T il teatro si muove sull’asse realtà – irrealtà, ma ben diverso, appunto perché teatro e vita coincidono, si confondono. Il teatro in T è espressione della vitalità: spettacolo equivale la ripresa della vita, un ritorno anche al mondo visivo, al mondo policromo lontano da quello bianco-nero di Auschwitz. Il commento che Levi stesso dà sugli spettacoli a cui ha 97 assistito, si applica anche al mondo intero di T, in quanto le rappresentazioni teatrali vere e proprie si presentano come teatro nel teatro, come mise en abyme: come espressione di gioia, spontaneità e vitalità. Mentre in SQU il teatro si presenta come elemento grottesco, in T si presenta come elemento comico. Infatti, molti personaggi che popolano T sembrano attori comici nel teatro del mondo. I brani si leggono come piccoli sketches teatrali a sé stanti. Molti degli elementi già discussi culminano nella rappresentazione teatrale: i personaggi si muovono ed agiscono (il vento, simbolo di movimento e di rinascita), interagiscono con il pubblico (il dialogo, l’interazione umana che equivale al riconoscimento dell’uomo nell’altro). Ma anche nel tema del teatro ci si rivela il lato ambiguo, perché nonostante quel tono leggero delle rappresentazioni comiche, quel teatro comico viene contrapposto ad un teatro più cupo come quello del personaggio Trovati che non sembra più poter distinguere tra teatro e realtà, vivendo in uno spettacolo eternamente ripetuto, teatro di ascendenza pirandelliana, faustiana e kafkiana. L’altro spettacolo più ambiguo è quello del “Cappello a tre punte” che forse evoca il silenzio di Auschwitz e la morte, perché senza lingua e senza comunicazione l’uomo diventa un essere vuoto e muore in questo senso. Possiamo sintetizzare la rappresentazione del teatro in SQU e T nell’opposizione grottesco – comico, del mondo irrealmente reale (SQU) e del mondo realmente irreale (T). In più il teatro comico in T rappresenta la vitalità e come tale la rinascita dopo Auschwitz. Prima di riprendere insieme questi vari temi per rintracciarne delle linee che uniscono i libri ad un livello più profondo, ci vuole ancora un’altra osservazione. Qui sopra abbiamo sempre discusso i temi presenti in SQU e T. In realtà i libri non si inseriscono in una tale idea schematica. Trovo ancora più convincente per la mia teoria dell’unità organica dei due libri, la rottura che ho rintracciato in T, a partire dal secondo capitolo che funge da capitolo di transizione. Un’attenta analisi dei primi due capitoli rileva la continuità del lessico e delle immagini utilizzati in SQU. Questo coincide con la storia della stesura del testo. Infatti, i primi due capitoli sono già scritti nel 1947-1948 e quindi subito dopo SQU. Lo stesso vale per l’ultimo capitolo di SQU che sembra già aprire la strada per T. Infatti, il tempo ritorna (e con esso i modi verbali ‘normali’) e lo spazio si apre (figura ben quattro volte l’immagine della pianura, predominante poi in T). Finisco questa tesi con un’ultima considerazione. Come ho sottolineato varie volte credo che in SQU e T realismo e simbolismo coesistano. Nella rappresentazione del tempo, dello spazio e della natura e in misura minore anche del teatro, si rivela un valore più profondo, una linea simbolica che pervade entrambi i libri e li unisce. Seguendo questa linea simbolica, credo che dietro le immagini e la rappresentazione del tempo, dello spazio, della natura e del teatro in 98 SQU e T si riveli un ciclo che comincia con la vita (il periodo in Italia prima della deportazione) seguita dalla morte (la deportazione ad Auschwitz) dopo la quale ricomincia la vita (la rinascita subito dopo Auschwitz), ma finisce poi con la morte (il sogno finale) dopo la quale si potrebbe rinnovare il ciclo. Che anche Primo Levi stesso forse non sarebbe troppo sfavorevole a un’interpretazione come questa, risulta dalla nota all’edizione scolastica in cui spiega che nel sogno finale ‘il Lager si dilata ad un significato universale, è divenuto il simbolo della condizione umana stessa (“nulla era vero all’infuori del Lager”), e si identifica con la morte a cui nessuno si sottrae’. E questo spiega anche il titolo del libro: ‘Esistono remissioni, “tregue”, come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal “comando dell’alba” temuto ma non inatteso, dalla voce straniera (“wstawać” significa “alzarsi”, in polacco) che pure tutti intendono e obbediscono. Questa voce comanda, anzi invita, alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio, nelle gelide albe di Auschwitz’ 171 . Forse quest’affermazione potrebbe sorprendere in un testimone che è cosí attento alla chiarezza, alla rappresentazione della verità, ma credo che le due interpretazioni – quella letterale e quella simbolica – coesistano: da una parte i libri si devono leggere come testimonianze che raccontano una delle più orrende tragedie della storia umana, dall’altra parte SQU e T non si limitano ad essere testimonianze, ma oltrepassano il genere della testimonianza, in quanto libri fortemente letterari. 171 Primo Levi (1965), La tregua, capitolo 17, nota 1, pp.269-270. 99 Bibliografia Opere di Primo Levi Le opere di Primo Levi sono citate secondo l’edizione Einaudi in due volumi (Opere I-II), a cura di Belpoliti, M., Torino 1997 con le seguenti sigle: SQU: Se questo è un uomo T: La tregua CS: La chiave a stella SP: Il sistema periodico SES: I sommersi e i salvati SN: Storie naturali SNOQ: Se non ora, quando? RR: La ricerca delle radici Altre opere citate Primo Levi (1947), Se questo è un uomo, De Silva, Torino. Primo Levi (1965), La tregua, Letture per la scuola media, presentazione e note a cura dell’autore, Einaudi, Torino. AA. VV. (1997) Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Belpoliti, M., Einaudi, Torino. Scritti su Primo Levi Indispensabili per lo studio di Primo Levi sono due studi dedicati all’opera di Primo Levi, usciti nel 1997: Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di Ferrero, E., Einaudi, Torino, e Primo Levi, “Riga” 13, a cura di Belpoliti, M., Marcos y Marcos, Milano. Un buon punto di partenza è il ‘dizionario’ di Belpoliti, uscito nel 1998: Primo Levi, Edizioni Bruno Mondadori, Milano. Utilissimo per lo studio di SQU è il commento di Cavaglion: Cavaglion, A. (2000) Commento a Se questo è un uomo nel cd rom numero 10 della Letteratura italiana Einaudi, Torino 172 . Molto utile anche per una ricerca bibliografica è il sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, fondato nel 2008, con un catologo in linea: www.primolevi.it. AA.VV. 2007: AA. VV. (2007), The Cambridge Companion to Primo Levi, edited by Gordon, Robert S.C., Cambridge University Press. AA. VV. 2001: AA. VV. (2001), Memory and Mastery, Primo Levi as writer and witness, edited by Kremer, R.S., State University of New York press. AA.VV. 2000: AA.VV. (2000), Al di qua del bene e del male, La visione del mondo di Primo Levi, Atti del convegno internazionale Torino, Consiglio regionale del Piemonte Aned, a cura di Mattioda, E. FrancoAngeli, Milano. AA. VV. 1998: AA. VV. (1998), Primo Levi, il mestiere di raccontare, il dovere di ricordare, Atti del Convegno Trento, a cura di Neiger, A., Metauro edizioni, Fossombrone. 172 Questo commento è stato scritto per la versione in CD-rom della "Letteratura Italiana Einaudi". Non ne esiste ancora una versione a stampa, ma il commento si trova sul sito www.scribd.com. 100 AA. VV. 1997a: AA. VV. (1997a), Primo Levi, “Riga” 13, a cura di Belpoliti, M., Marcos y Marcos, Milano. AA. VV. 1997b: AA. VV. (1997b), Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di Ferrero, E., Einaudi, Torino. AA. VV. 1993: AA. VV. (1993), Primo Levi, “Narrativa”, Université Paris X, Centre de recherches italiennes C.R.I.X. ; No. 3, Etudes réunies par Caspar, M-H., Nanterre. AA. VV. 1989: AA. VV. (1989), Tre narratori Calvino, Primo Levi, Parise, a cura di Folena, G., Liviana Editrice, Padova. Amsallem 1993: Amsallem, D. (1993), ‘Primo Levi e i tedeschi’, in Primo Levi, “Narrativa”, Université Paris X, Centre de recherches italiennes C.R.I.X. ; No. 3, Etudes réunies par Caspar, MH., Nanterre, p.115-134. Angier 2002: Angier, C., (2002) The double bond, Primo Levi, a biography, Farrar, Straus and Giroux, New York. Anissimov 1998: Anissimov, M. 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Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione. Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a «Giustizia e Libertà». Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe. A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta. Negli interrogatori che seguirono, preferii dichiarare la mia condizione di «cittadino italiano di razza ebraica», poiché ritenevo che non sarei riuscito a giustificare altrimenti la mia presenza in quei luoghi troppo appartati anche per uno «sfollato», e stimavo (a torto, come si vide poi) che l’ammettere la mia attività politica avrebbe comportato torture e morte certa. Come ebreo, venni inviato a Fossoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento, già destinato ai prigionieri di guerra inglesi e americani, andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano. Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento. Si trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni pochi si erano consegnati spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, o perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente, per «mettersi in ordine con la legge». V’erano inoltre un centinaio di militari jugoslavi internati, e alcuni altri stranieri considerati politicamente sospetti. 1947: Alla metà del febbraio ’44, gli ebrei italiani nel campo di Fossoli erano circa seicento; v’erano inoltre un centinaio di militari jugoslavi internati, ed alcuni altri stranieri considerati politicamente sospetti. Op.I, SQU, p.12: ...ma le notti erano incubi senza fine. Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti. Pochi sanno tacere, e rispettare il silenzio altrui. Il nostro sonno inquieto era interrotto sovente da liti rumorose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati alla cieca come difesa contro qualche contatto molesto e inevitabile. Allora qualcuno accendeva la lugubre fiammella di una candela, e rivelava, prono sul pavimento, un brulichio fosco, una materia umana confusa e continua, torpida e dolorosa, sollevata qua e là da convulsioni improvvise subito spente dalla stanchezza. Op.I, SQU, p.14: Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte. 173 Considero solo gli interventi maggiori che riguardano frasi intere. Per le correzioni minori, si vedano le note ai testi (Opere, vol. I-II, a cura di Belpoliti, 1997). 104 Op.I, SQU, p.15: Eravamo senza scorta? ...buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giù». D’altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo. Capitolo 2 Sul fondo Op.I, SQU, pp.21-25: L’operazione è stata lievemente dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo. Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo «mostrando il numero» si riceve il pane e la zuppa. Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni, perché ci abituassimo a mostrare il numero prontamente, in modo da non intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci son voluti settimane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua tedesca. E per molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide. Solo molto più tardi, e a poco a poco, alcuni di noi hanno poi imparato qualcosa della funerea scienza dei numeri di Auschwitz, in cui si compendiano le tappe della distruzione dell’ebraismo d’Europa. Ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l’epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità. Ognuno tratterà con rispetto i numeri dal 30.000 all’80.000: non sono più che qualche centinaio, e contrassegnano i pochi superstiti dei ghetti polacchi. Conviene aprire bene gli occhi quando si entra in relazioni commerciali con un 116.000 o 117.000: sono ridotti ormai a una quarantina, ma si tratta dei greci di Salonicco, non bisogna lasciarsi mettere nel sacco. Quanto ai numeri grossi, essi comportano una nota di essenziale comicità, come avviene per i termini «matricola » o «coscritto» nella vita normale: il grosso numero tipico è un individuo panciuto, docile e scemo, a cui puoi far credere che all’infermeria distribuiscono scarpe di cuoio per individui dai piedi delicati, e convincerlo a corrervi e a lasciarti la sua gamella di zuppa «in custodia»; gli puoi vendere un cucchiaio per tre razioni di pane; lo puoi mandare dal più feroce dei Kapos, a chiedergli (è successo a me!) se è vero che il suo è il Kartoffelschälkommando, il Kommando Pelatura Patate, e se è possibile esservi arruolati. D’altronde, l’intero processo di inserimento in questo ordine per noi nuovo avviene in chiave grottesca e sarcastica. Finita l’operazione di tatuaggio, ci hanno chiusi in una baracca dove non c’è nessuno. Le cuccette sono rifatte, ma ci hanno severamente proibito di toccarle e di sedervi sopra: così ci aggiriamo senza scopo per metà della giornata nel breve spazio disponibile, ancora tormentati dalla sete furiosa del viaggio. Poi la porta si è aperta, ed è entrato un ragazzo dal vestito a righe, dall’aria abbastanza civile, piccolo, magro e biondo. Questo parla francese, e gli siamo addosso in molti, tempestandolo di tutte le domande che finora ci siamo rivolti l’un l’altro inutilmente. Ma non parla volentieri: nessuno qui parla volentieri. Siamo nuovi, non abbiamo niente e non sappiamo niente; a che scopo perdere tempo con noi? Ci spiega di malavoglia che tutti gli altri sono fuori a lavorare, e torneranno a sera. Lui è uscito stamane dall’infermeria, per oggi è esente dal lavoro. Io gli ho chiesto (con un’ingenuità che solo pochi giorni dopo già doveva parermi favolosa) se ci avrebbero restituito almeno gli spazzolini da denti; lui non ha riso, ma col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: – Vous n’êtes pas à la maison –. Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (cosa vorrà dire? lo impareremo bene più tardi). E infatti: spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein warum, – (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone. La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vorremo viverci, bisognerà capirlo presto e bene: ... Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Ora dopo ora, questa prima lunghissima giornata di antinferno volge al termine. Mentre il sole tramonta in un vortice di truci nubi sanguigne, ci fanno finalmente uscire dalla baracca. Ci daranno da bere? No, ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un altra ora: sembra che si aspetti qualcuno. 105 Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta bisentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l’un l’altro sogghignando; nasce in noi un’ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l’altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un’andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara. Anche loro si dispongono come noi, secondo un ordine minuzioso, nella vasta piazza; quando l’ultimo drappello è rientrato, ci contano e ci ricontano per più di un’ora, avvengono lunghi controlli che sembrano tutti fare capo a un tale vestito a righe, il quale ne rende conto a un gruppetto di SS in pieno assetto di guerra. Finalmente (è ormai buio, ma il campo è fortemente illuminato da fanali e riflettori) si sente gridare «Absperre!», al che tutte le squadre si disfano in un viavai confuso e turbolento. Adesso non camminano più rigidi e impettiti come prima: ciascuno si trascina con sforzo evidente. Noto che tutti portano in mano o appesa alla cintura una scodella di lamiera grande quasi come un catino. Anche noi nuovi arrivati ci aggiriamo tra la folla, alla ricerca di una voce, di un viso amico, di una guida. Contro la parete di legno di una baracca stanno seduti a terra due ragazzi: sembrano giovanissimi, sui sedici anni al massimo, tutti e due hanno il viso e le mani sporche di fuliggine. Uno dei due, mentre passiamo, mi chiama, e mi pone in tedesco alcune domande che non capisco; poi mi chiede da dove veniamo. – Italien, – rispondo; vorrei domandargli molte cose, ma il mio frasario tedesco è limitatissimo. – Sei ebreo? – gli chiedo. – Sì, ebreo polacco. – Da quanto sei in Lager? – Tre anni, – e leva tre dita. Deve essere entrato bambino, penso con orrore; d’altronde, questo significa che almeno qualcuno qui può vivere. – Qual è il tuo lavoro? – Schlosser, – risponde. Non capisco: – Eisen; Feuer, – (ferro, fuoco) insiste lui, e fa cenno colle mani come di chi batta col martello su di un’incudine. È un fabbro, dunque. – Ich Chemiker, – dichiaro io; e lui accenna gravemente col capo, – Chemiker gut –. Ma tutto questo riguarda il futuro lontano: ciò che mi tormenta, in questo momento, è la sete. – Bere, acqua. Noi niente acqua, – gli dico. Lui mi guarda con un viso serio, quasi severo, e scandisce: – Non bere acqua, compagno, – e poi altre parole che non capisco – Warum? – Geschwollen, – risponde lui telegraficamente: io crollo il capo, non ho capito. – Gonfio, – mi fa capire, enfiando le gote e abbozzando colle mani una mostruosa tumescenza del viso e del ventre. – Warten bis heute abend –. «Aspettare fino oggi sera», traduco io parola per parola. Poi mi dice: – Ich Schlome. Du? – Gli dico il mio nome, e lui mi chiede: – Dove tua madre? – In Italia –. Schlome si stupisce: – Ebrea in Italia? – Sì, – spiego io del mio meglio, – nascosta, nessuno conosce, scappare, non parlare, nessuno vedere –. Ha capito; ora si alza, mi si avvicina e mi abbraccia timidamente. L’avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia. Non ho più rivisto Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti. Op.I, SQU, pp.28-29: Né si creda che le scarpe, nella vita del Lager, costituiscano un fattore d’importanza secondaria. La morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatalmente si infettavano. Chi ne è colpito, è costretto a camminare come se avesse una palla al piede (ecco il perché della strana andatura dell’esercito di larve che ogni sera rientra in parata); arriva ultimo dappertutto, e dappertutto riceve botte; non può scappare se lo inseguono; i suoi piedi si gonfiano, e più si gonfiano, più l’attrito con il legno e la tela delle scarpe diventa insopportabile. Allora non resta che l’ospedale: ma entrare in ospedale con la diagnosi di «dicke Füsse» (piedi gonfi) è estremamente pericoloso, perché è ben noto a tutti, ed alle SS in ispecie, che di questo male, qui, non si può guarire. Capitolo 3 Iniziazione Op. I, SQU, pp.32-35: Dopo i primi giorni di capricciosi trasferimenti da blocco a blocco e da Kommando a Kommando, a sera tarda, sono stato assegnato al Block 30, e mi viene indicata una cuccetta in cui già dorme Diena. Diena si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve amichevolmente. Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è mascherato da uno stato di tensione e di ansia da cui non sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo. Ho troppe cose da chiedere. Ho fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza cucchiaio? e come si può avere un cucchiaio? e dove mi manderanno a lavorare? Diena ne sa quanto me, 106 naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e iraconde mi gridano: – Ruhe, Ruhe! Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte. Rinuncio dunque a fare domande, e in breve scivolo in un sonno amaro e teso. Ma non è riposo: mi sento minacciato, insidiato, ad ogni istante sono pronto a contrarmi in uno spasimo di difesa. Sogno, e mi pare di dormire su una strada, su un ponte, per traverso di una porta per cui va e viene molta gente. Ed ecco giunge, ahi quanto presto, la sveglia. L’intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono, tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica: scuotono le coperte suscitando nembi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile, corrono fuori nel gelo dell’aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso le latrine e il lavatoio; molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, del pane-Brot-Broit-chleb-painlechem-kenyér, del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua. È una allucinazione quotidiana, a cui si finisce col fare l’abitudine: ma nei primi tempi è così irresistibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a coppie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata fortuna altrui, si scambiano infine le razioni, al che l’illusione si ripristina invertita lasciando tutti scontenti e frustrati. Il pane è anche la nostra sola moneta: nei pochi minuti che intercorrono fra la distribuzione e la consumazione, il Block risuona di richiami, di liti e di fughe. Sono i creditori di ieri che pretendono il pagamento, nei brevi istanti in cui il debitore è solvibile. Dopo di che, subentra una relativa quiete, e molti ne approfittano per recarsi nuovamente alle latrine a fumare mezza sigaretta, o al lavatoio per lavarsi veramente. Il lavatoio è un locale poco invitante. È male illuminato, pieno di correnti d’aria, e il pavimento di mattoni è coperto da uno strato di fanghiglia; l’acqua non è potabile, ha un odore disgustoso e spesso manca per molte ore. Le pareti sono decorate da curiosi affreschi didascalici: vi si vede ad esempio lo Häftling buono, effigiato nudo fino alla cintola, in atto di insaponarsi diligentemente il cranio ben tosato e roseo, e lo Häftling cattivo, dal naso fortemente semitico e dal colorito verdastro, il quale, tutto infagottato negli abiti vistosamente macchiati, e col berretto in testa, immerge cautamente un dito nell’acqua del lavandino. Sotto al primo sta scritto: «So bist du rein» (così sei pulito), e sotto al secondo: «So gehst du ein» (così vai in rovina); e più in basso, in dubbio francese ma in caratteri gotici: «La propreté, c’est la santé». Sulla parete opposta campeggia un enorme pidocchio bianco rosso e nero, con la scritta: «Eine Laus, dein Tod» (un pidocchio è la tua morte), e il distico ispirato: Nach dem Abort, vor dem Essen Hände waschen, nicht vergessen (dopo la latrina, prima di mangiare, làvati le mani, non dimenticare). Per molte settimane, ho considerato questi ammonimenti all’igiene come puri tratti di spirito teutonico, nello stile del dialogo relativo al cinto erniario con cui eravamo stati accolti al nostro ingresso in Lager. Ma ho poi capito che i loro ignoti autori, forse inconsciamente, non erano lontani da alcune importanti verità. In questo luogo, lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale. Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigionia, in me l’istinto della pulizia è sparito. Mi aggiro ciondolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il mio amico quasi cinquantenne, a torso nudo, che si strofina collo e spalle con scarso esito (non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? starei forse meglio di quanto sto? piacerei di più a qualcuno? Vivrei un giorno, un’ora di più? Vivrei anzi di meno, perché lavarsi è un lavoro, uno spreco di energia e di calore. Non sa Steinlauf che dopo mezz’ora ai sacchi di carbone ogni differenza fra lui e me sarà scomparsa? Più ci penso, e più mi pare che lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti, stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a concedermi il lusso di un minuscolo ozio. Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha terminato di lavarsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che prima teneva arrotolata fra le ginocchia e che poi infilerà, e senza interrompere l’operazione mi somministra una lezione in piena regola. Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell’esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra ‘14-18. Me ne duole, perché dovrò tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma questo ne era il senso, non 107 dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire. Queste cose mi disse Steinlauf, uomo di volontà buona: strane cose al mio orecchio dissueto, intese e accettate solo in parte, e mitigate in una più facile, duttile e blanda dottrina, quella che da secoli si respira al di qua delle Alpi, e secondo la quale, fra l’altro non c’è maggior vanità che sforzarsi di inghiottire interi i sistemi morali elaborati da altri, sotto altro cielo. No, la saggezza e la virtù di Steinlauf, buone certamente per lui, a me non bastano. Di fronte a questo complicato mondo infero, le mie idee sono confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema e praticarlo? o non sarà più salutare prendere coscienza di non avere sistema? Capitolo 4 Ka-Be Op.I, SQU, p.40: Chi fa rispettare il divieto è un gigantesco Häftling francese, il quale risiede nella guardiola che sta fra le porte dei due ambulatori. È uno dei pochi funzionari francesi del campo: né si pensi che il passare la propria giornata fra le scarpe fangose e sbrindellate costituisca un piccolo privilegio. Basta pensare a quanti entrano in Ka-Be colle scarpe, e ne escono senza averne più bisogno... Op.I. SQU, p.41: Chajim è il mio compagno di letto, ed io ho in lui una fiducia cieca. È un polacco, ebreo pio, studioso della Legge. Ha press’a poco la mia età, è di mestiere orologiaio, e qui in Buna fa il meccanico di precisione; è perciò fra i pochi che conservino la dignità e la sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati. Capitolo 5 Le nostre notti Op.I, SQU, pp.50-51: Dopo venti giorni di Ka-Be, essendosi la mia ferita praticamente rimarginata, con mio vivo dispiacere sono stato messo in uscita. La cerimonia è semplice, ma comporta un doloroso e pericoloso periodo di riassestamento. Chi non dispone di particolari appoggi, all’uscita dal Ka-Be non viene restituito al suo Block e al suo Kommando di prima, ma è arruolato, in base a criteri a me sconosciuti, in una qualsiasi altra baracca e avviato a un qualsiasi altro lavoro. Di più, dal Ka-Be si esce nudi; si ricevono vestiti e scarpe «nuovi» (intendo dire, non quelli lasciati all’ingresso), intorno a cui bisogna adoperarsi con rapidità e diligenza per adattarli alla propria persona, il che comporta fatica e spese. Occorre procurarsi daccapo cucchiaio e coltello; infine, e questa è la circostanza più grave, ci si trova intrusi in un ambiente sconosciuto, fra compagni mai visti e ostili, con capi di cui non si conosce il carattere e da cui quindi è difficile guardarsi. La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo: di piantare un chiodo sopra la cuccetta per appendervi le scarpe di notte; di stipulare taciti patti di non aggressione coi vicini; di intuire e accettare le consuetudini e le leggi del singolo Kommando e del singolo Block. In virtù di questo lavoro, dopo qualche settimana si riesce a raggiungere un certo equilibrio, un certo grado di sicurezza di fronte agli imprevisti; ci si è fatto un nido, il trauma del travasamento è superato. Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate. È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro. In queste condizioni mi trovo io quando l’infermiere, dopo i vari riti amministrativi prescritti, mi ha affidato alle cure del Blockältester del Block 45. Ma subito un pensiero mi colma di gioia: ho avuto fortuna, questo è il Block di Alberto! Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidueanni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza 108 e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. «Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte. Non sono però riuscito a ottenere di dormire in cuccetta con lui, e neppure Alberto ci è riuscito, quantunque nel Block 45 egli goda ormai di una certa popolarità. È peccato, perché avere un compagno di letto di cui fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è un inestimabile vantaggio; e inoltre, adesso è inverno, e le notti sono lunghe, e dal momento che siamo costretti a scambiare sudore, odore e calore con qualcuno, sotto la stessa coperta e in settanta centimetri di larghezza, è assai desiderabile che si tratti di un amico. Capitolo 6 Il Lavoro Capitolo 7 Una buona giornata Capitolo 8 Al di qua del bene e del male Capitolo 9 I sommersi e i salvati Capitolo 10 Esame di chimica Op.I, SQU, p.101: Le mie idee sono chiare, e mi rendo conto anche in questo momento che la posta in gioco è grossa; eppure provo un folle impulso a scomparire, a sottrarmi alla prova. 1947, p.116: avrei anche spiegato perché nascono le guerre. 1958, Op.I, SQU, p.102: avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania. Capitolo 11 Il canto di Ulisse 1947, p.122: Sua madre è finita a Birkenau. 1958 – Op.I, SQU, p.110: O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Capitolo 12 I fatti dell’estate Op.I, SQU, pp.116-117: C’è anche chi si specializza in complesse e pazienti campagne di spionaggio, per individuare qual è il civile o il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca poi in vari modi di soppiantarlo. Ne nascono interminabili controversie di priorità, rese più amare per il perdente dal fatto che un civile già «sgrossato» è quasi sempre più redditizio, e soprattutto più sicuro, di un civile al suo primo contatto con noi. È un civile che vale molto di più, per evidenti ragioni sentimentali e tecniche: conosce già i fondamenti dell’«organizzazione», le sue regole e i suoi pericoli, e inoltre ha dimostrato di essere in grado di superare la barriera di casta. Capitolo 13 ottobre 1944 Op.I, SQU, pp.124-125: René è passato davanti alla commissione immediatamente prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno scambio di schede. Ci ripenso, ne parlo con Alberto, e conveniamo che l’ipotesi è verosimile: non so cosa ne penserò domani e poi; oggi essa non desta in me alcuna emozione precisa. Capitolo 14 Kraus Capitolo 15 Die drei Leute vom Labor Op.I, SQU, pp.134-135: Molti compagni si congratulano; primo fra tutti Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia. Alberto non trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è toccata, e ne è anzi ben lieto, sia per amicizia, sia perché ne trarrà lui pure 109 dei vantaggi: infatti noi due siamo ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza, per cui ogni boccone «organizzato» viene diviso in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rientrava né nelle sue speranze, né pure nei suoi desideri. Il sangue delle sue vene è troppo libero perché Alberto, il mio amico non domato, pensi di adagiarsi in un sistema; il suo istinto lo porta altrove, verso altre soluzioni, verso l’imprevisto, l’estemporaneo, il nuovo. A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare gli incerti e le battaglie della «libera professione». Capitolo 16 L’ultimo Op.I, SQU, p.142-144: Parliamo di tre nuovissime nostre imprese, e ci troviamo d’accordo nel deplorare che evidenti ragioni di segreto professionale sconsiglino di spiattellarle in giro: peccato, il nostro prestigio personale ne trarrebbe un grande vantaggio. Della prima, è mia la paternità. Ho saputo che il Blockältester del 44 è a corto di scope, e ne ho rubata una in cantiere: e fin qui non c’è nulla di straordinario. La difficoltà era quella di contrabbandare la scopa in Lager durante la marcia di ritorno, e io l’ho risolta in un modo che credo inedito, smembrando la refurtiva in saggina e manico, segando quest’ultimo in due pezzi, portando in campo i vari articoli separatamente (i due tronconi di manico legati alle cosce, dentro i pantaloni), e ricostituendo il tutto in Lager, per il che ho dovuto trovare un pezzo di lamiera, martello e chiodi per risaldare i due legni. Il travaso ha richiesto quattro soli giorni. Contrariamente a quanto temevo, il committente non solo non ha svalutata la mia scopa, ma l’ha mostrata come una curiosità a parecchi suoi amici, i quali mi hanno passato regolare ordinazione per altre due scope «dello stesso modello». Ma Alberto ha ben altro in pentola. In primo luogo, ha messo a punto l’«operazione lima», e l’ha già eseguita due volte con successo. Alberto si presenta al magazzino attrezzi, chiede una lima, e ne sceglie una piuttosto grossa. Il magazziniere scrive «una lima» accanto al suo numero di matricola, e Alberto se ne va. Va di filato da un civile sicuro (un fior di furfante triestino, che ne sa una più del diavolo e aiuta Alberto più per amor dell’arte che per interesse o per filantropia), il quale non ha difficoltà a cambiare sul libero mercato la lima grossa contro due piccole di valore uguale o minore. Alberto rende «una lima» al magazzino e vende l’altra. E infine, ha coronato in questi giorni il suo capolavoro, una combinazione audace, nuova, e di singolare eleganza. Bisogna sapere che da qualche settimana ad Alberto è stata affidata una mansione speciale: al mattino, in cantiere, gli viene consegnato un secchio con pinze, cacciavite, e parecchie centinaia di targhette di celluloide di colori diversi, le quali egli deve montare mediante appositi supportini per contraddistinguere le numerose e lunghe tubazioni di acqua fredda e calda, vapore, aria compressa, gas, nafta, vuoto ecc. che percorrono in tutti i sensi il Reparto Polimerizzazione. Bisogna sapere inoltre (e sembra che non c’entri affatto: ma l’ingegno non consiste forse nel trovare o creare relazioni fra ordini di idee apparentemente estranei?) che per tutti noi Häftlinge la doccia è una faccenda assai sgradevole per molte ragioni (l’acqua è scarsa e fredda, o addirittura bollente, non c’è spogliatoio, non abbiamo asciugamani, non abbiamo sapone, e durante la forzata assenza è facile essere derubati). Poiché la doccia è obbligatoria, occorre ai Blockälteste un sistema di controllo che permetta di applicare sanzioni a chi vi si sottrae: per lo più, un fiduciario del Block si installa sulla porta, e tasta come Polifemo chi esce per sentire se è bagnato; chi lo è, riceve uno scontrino, chi è asciutto riceve cinque nerbate. Solo presentando lo scontrino si può riscuotere il pane al mattino seguente. L’attenzione di Alberto si è appuntata sugli scontrini. In genere, non sono altro che miseri biglietti di carta, che vengono riconsegnati umidi, spiegazzati e irriconoscibili. Alberto conosce i tedeschi, e i Blockälteste sono tutti tedeschi o di scuola tedesca: amano l’ordine, il sistema, la burocrazia; inoltre, pur essendo dei tangheri maneschi e iracondi, nutrono un amore infantile per gli oggetti luccicanti e variopinti. Così impostato il tema, eccone il brillante svolgimento. Alberto ha sottratto sistematicamente una serie di targhette dello stesso colore; da ognuna, ha ricavato tre dischetti (lo strumento necessario, un foratappi, l’ho organizzato io in Laboratorio): quando sono stati pronti duecento dischetti, sufficienti per un Block, si è presentato al Blockältester, e gli ha offerto la «Spezialität» per la folle quotazione di dieci razioni di pane, a consegna scalare. Il cliente ha accettato con entusiasmo, e ora Alberto dispone di un portentoso articolo di moda da offrire a colpo sicuro in tutte le baracche, un colore per baracca (nessun Blockältester vorrà passare per taccagno o misoneista), e, quel che più conta, non ha da temere concorrenti, perché lui solo ha accesso alla materia prima. Non è ben studiato? Capitolo 17 Storia di dieci giorni - 110