Introduzione al Vol 4 della Storia dell`Iri

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Introduzione al Vol 4 della Storia dell`Iri
STORIA DELL’IRI, vol.IV: INTRODUZIONE (Roberto Artoni) Introduzione Nel 1992 l’Iri era il maggior gruppo industriale italiano con oltre 1000 imprese e 400000 addetti operanti praticamente in tutti i settori produttivi (fig.1). Dopo 8 anni, all’esito di un processo di privatizzazione o di trasferimento di quote azionarie al Ministero del Tesoro, l’Iri era ridotto a una holding cui facevano capo una società di navigazione e due holding, operanti rispettivamente nei settori dell’ingegneria e della cantieristica (Ravazzi p.43). Figura 1: Il gruppo IRI al 31.12.1992 Fonte: Ravazzi 1 L’Iri fu infine posta in liquidazione nel dicembre del 2002; dopo altri trasferimenti di partecipazioni al Ministero del Tesoro, le attività residue furono fatte confluire in Fintecna. Nel periodo 1992‐2002 gli incassi da dismissioni di imprese o finanziarie rientranti nell’IRI ammontarono complessivamente a 56 miliardi di euro, pari a circa il 40% degli incassi da dismissioni effettuate in quel periodo (tab.1). Tabella 1: I proventi delle privatizzazioni dell’IRI dal1992 al 2002 Tipologie
IRI
Cessioni di quote di controllo
Cessioni di aziende o rami di aziende
Totale privatizzazioni effettive
Cessioni di quote minoritarie
Cessioni di immobili e altri cespiti
Totale risorse reperite
Percentuale di oneri totali sostenuti
43,09
43,09
2,44
45,53
1,40
Finanziarie
Totale
4,33
0,24
4,57
5,29
1,06
10,92
4,54
47,42
0,24
47,66
7,73
1,06
56,44
2,01
Fonte: Ravazzi La liquidazione dell’Iri e le privatizzazioni che la precedettero furono il risultato di processi decisionali complessi e di modalità di realizzazione articolate, in cui possono essere riconosciute sia l’influenza di circostanze oggettive, sia la ricerca di assetti ritenuti più moderni del nostra sistema economico. Oggi può essere espresso un giudizio sufficientemente meditato di un’esperienza che ha certamente trasformato il nostro sistema produttivo. Si possono ormai cogliere sia gli aspetti positivi, sia i limiti e le omissioni in sede di realizzazione. Anticipando i temi che affronteremo in questa introduzione, fra le circostanze oggettive rientra in primo luogo la crisi valutaria che investì l’economia italiana nel primi anni ’90: la politica economica assunse allora ad obiettivo essenziale la stabilizzazione del nostro sistema finanziario attraverso la riduzione del tasso di inflazione e il riequilibrio della bilancia dei pagamenti. Furono adottati sia provvedimenti restrittivi di finanza pubblica (fra i quali rientrava anche il drastico ridimensionamento del ruolo del Tesoro nel finanziamento del sistema delle imprese pubbliche), sia rilevanti modifiche del funzionamento del mercato del lavoro. La seconda circostanza all’origine del processo di liquidazione dell’IRI traeva origine dalla difficile situazione finanziaria dell’istituto. Lo squilibrio finanziario poteva essere letto alternativamente come il riflesso di una situazione di difficoltà concentrata in alcuni settori, su cui sui era colpevolmente tardato ad intervenire, oppure come una manifestazione del superamento del modello dell’impresa pubblica nella specifica caratterizzazione italiana. Prevalse di fatto, anche per sollecitazioni provenienti dagli organi comunitari, questa seconda interpretazione. Associato alla valutazione critica della funzione e dei comportamenti dell’impresa pubblica, nell’avvio del processo di privatizzazione giocò infatti un ruolo determinante anche l’attivazione del Mercato Unico europeo. L’assimilazione di ogni conferimento dell’azionista pubblico ad aiuti di Stato precludeva di fatto qualsiasi possibilità di rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese dell’IRI. In queste circostanze, quando le perdite si rivelavano consistenti, la ricerca di strutture proprietarie alternative si imponeva, essendo praticabile come unica via alternativa il fallimento. 2 Infine, l’accettazione delle progressiva liquidazione trovò un supporto di natura culturale o ideologica, nel senso che tutte le forze politiche ritennero di fatto esaurita l’esperienza dell’Iri iniziatasi oltre 50 anni prima. Questa unanimità valutativa era non solo alimentata da alcune esperienze fallimentari di gestione delle imprese pubbliche per larga parte estranee al gruppo IRI, ma anche dalla lettura del tutto positiva del processo di privatizzazione in corso da alcuni anni in molti paesi, in particolare nel Regno Unito. Al di là delle circostanze da noi definite oggettive, la privatizzazione delle imprese pubbliche era anche considerata, in modo sostanzialmente acritico, uno strumento efficace di modernizzazione del nostro sistema economico. Gli anni ’80, pur in un contesto di elevata inflazione e di squilibri della finanza pubblica, erano stati caratterizzati da rilevanti successi della grande impresa privata italiana anche in settori tecnologicamente avanzati. Sembrava conseguente ritenere che fosse possibile, senza particolari difficoltà, trasferire le positive esperienze dell’impresa privata al settore pubblico, in preda, come già osservato, a crescenti difficoltà. Si riteneva poi che le potenzialità di sviluppo dell’economia italiana fossero compromesse dal’insufficiente spessore dei mercati finanziari, in particolare di quello azionario. Di nuovo, tentando di replicare gli esiti della privatizzazioni azionarie nel Regno Unito in termini di diffusione dell’azionariato , le dismissioni delle imprese pubbliche furono considerate uno strumento fondamentale per potenziare i listini, superando la consolidata propensione del risparmiatore italiano all’acquisto quali esclusivo di titoli di Stato. Non a caso negli anni ’90 le privatizzazioni furono associate a rilevanti innovazioni nella regolamentazione dei mercati finanziari e ad una riforma pensionistica che introduceva i fondi pensione a contribuzione definita. Affidamento del controllo delle imprese già pubbliche a imprenditori privati e diffusione dell’azionariato popolare imponevano comunque scelte riguardanti le modalità di vendita delle azioni: si oscillò fra la creazione di noccioli duri e offerte pubbliche di vendita, senza che un modello prevalesse sull’altro. D’altro canto, la privatizzazione delle imprese operanti in regime di monopolio naturale, alcune delle quali presenti nel gruppo Iri, richiedeva, anche se le realizzazioni furono solo parziali, la creazione di autorità di controllo indipendenti. Si voleva evitare che ad un monopolista pubblico obbligato a rispondere alle pubbliche autorità si sostituisse un monopolista privato non controllato nelle sue scelte e nei suoi comportamenti. Rinviando per un esame dettagliato di queste tematiche ai singoli capitoli, si possono ormai avanzare alcune ragionate valutazioni sugli esiti del processo di privatizzazione, concluso per quanto riguarda L’IRI nel 2002, ma praticamente bloccato negli anni successivi per le altre imprese di proprietà pubblica; oggi rimane il controllo pubblico, dopo privatizzazioni parziali, di Enel e Eni e Finmeccanica. In termini generali, si dovrà esaminare se l’affidamento a imprenditori privati ha corrisposto alle attese fortemente ottimistiche dei primi anni ‘90 e se i mercati finanziari si sono sviluppati così come previsto, contribuendo alla crescita sociale ed economica di lungo periodo del paese. In termini più dettagliati, dovranno essere valutati gli effetti delle privatizzazioni delle banche di interesse nazionale facenti capo all’Iri, delle imprese di telecomunicazione e della società concessionaria delle autostrade. Le conclusioni, come vedremo, sono perlomeno problematiche. 3 La crisi del 1992 Nel 1992 si scatenò in Europa una violenta crisi valutaria che portò nel settembre di quell’anno all’uscita dal Sistema Monetario Europeo dell’Italia, e dopo pochi giorni, del Regno Unito. Le nostre autorità di politica economica risposero alla crisi valutaria accettando, in primo luogo, una consistente svalutazione della lira e, in secondo luogo, varando numerosi provvedimenti che incisero fortemente nel breve e nel medio periodo sugli assetti economici e sociali del nostro paese. Si inaugurò di fatto una stagione ad evidente ispirazione neoliberista che si caratterizzò allora per significativi interventi sul mercato del lavoro, tesi ad introdurre una maggiore flessibilità, per l’introduzione di vicoli all’espansione della spesa sanitaria e di quella previdenziale e per l’avvio del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche. Al fine di inquadrare il contesto in cui maturò la crisi del ’92, si può qui sinteticamente ricordare che l’economia italiana partecipò pienamente alla lunga fase espansiva del quinquennio 1983‐88 con tassi di crescita medi superiori a quelli degli altri paesi europei. Nel 1988, il tasso di crescita in termini reali fu superiore al 4%, con margini di profitto ai massimi storici e in situazione di sostanziale equilibrio delle partite corrente e della bilancia commerciale. Gli elementi critici della nostra situazione economica erano costituiti da un differenziale d’inflazione superiore a quello degli altri paesi europei (peraltro riconducibile alle politiche svalutazionistiche adottate a partire dal 1973) e ad un debito pubblico superiore al 100% del pil. L’indebitamento, e di conseguenza la dinamica del rapporto debito prodotto, era determinato anche dall’esplosione degli oneri per interessi, in Italia decisamente superiori a quelli pur elevati vigenti a livello internazionale. Si può anche aggiungere che il disavanzo primario era alla fine del decennio in flessione rispetto agli elevati livelli dei primi anni ’80 (tab.2). Tabella 2: Indicatori di finanza pubblica (%pil) entrate totali
spese al netto interessi
interessi
avanzo primario
indebitamento
debito
1984
1988
1991
1992
1995
1998
2002
2006
2010
38,5
43
8
-3,9
12,5
76,3
40,2
43
7,9
-2,8
10,7
92,9
43,8
43,7
10,2
-0,1
10,1
100,5
46
44
2,6
2
10,7
107,6
45,6
41,7
11,5
3,9
7,6
123,7
46,5
41,3
8
5,2
2,8
116,3
44,9
41,9
5,6
3,4
2,3
106,7
45,8
44,5
4,7
1,3
3,4
106,6
46,6
46,7
4,5
-0,1
4,6
119
Fonte: Banca d’Italia L’Italia, come gli altri paesi europei, risentì della recessione, originata negli Stati Uniti, del triennio 1898‐91. Il tasso di crescita scese in media all’1% con un differenziale d’inflazione, rispetto alla media dei paesi industrializzati, superiore al 3%. In quegli anni cominciarono a manifestarsi difficoltà nei conti con l’estero del nostro paese: in particolare, peggiorò fortemente il saldo delle partite correnti, nonostante che il saldo commerciale continuasse ad essere in equilibrio. Il peggioramento del saldo corrente derivava dal forte incremento del flusso dei redditi di capitale. Si manifestarono allora in uscita gli effetti della liberalizzazione dei movimenti di capitale che spingeva i residenti italiani ad acquisire attività sull’estero. D’altro canto, l’elevato livello relativo dei nostri tassi d’interesse induceva nel nostro paese consistenti flussi di capitali a breve di origine bancaria, per loro natura fortemente volatili e facilmente reversibili al mutare delle circostanze e delle aspettative. Il 1992 fu comunque caratterizzato a livello europeo da forti turbolenze che 4 imposero ripetuti riallineamenti all’interno dello SME, investendo con forza anche un paese centrale nel contesto finanziario mondiale come il Regno Unito. Il risultato fu, come già ricordato, l’uscita anche dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo. Infatti l’esportazione di capitali di residenti e il rientro dei capitali esteri impiegati a breve nel nostro paese, movimenti determinati da aspettative di svalutazione della lira (che come insegna la storia tendevano ad autorealizzarsi), resero insostenibile il mantenimento del cambio (Devillanova). Il Governo intervenne con le misure prima sintetizzate, ottenendo come effetto immediato il rientro delle pressioni speculative ad un livello sensibilmente inferiore del cambio della lira. Positivi risultati in termini di contenimento del tasso d’inflazione relativo furono poi rapidamente raggiunti, rendendo possibile per la diminuzione dei tassi d’interesse che ne derivò una drastica diminuzione degli oneri finanziari a carico del bilancio statale e, quindi, dell’indebitamento pubblico. Con un riferimento temporale esteso al 1998, un incremento non drammatico delle entrate tributarie (3 punti di pil nel periodo 1991‐98) e un’apprezzabile riduzione delle spese pubbliche nello stesso periodo (quasi 2 punti, peraltro concentrata nelle spese in conto capitale) portarono, oltre che alla diminuzione degli oneri finanziari di 5 punti, ad un indebitamento inferiore ai 3 punti, ad un avanzo primario elevato (pari a 6 punti) e ad una moderata riduzione della consistenza del debito pubblico, circa 10 punti (tab.2). Sulla riduzione non particolarmente consistente dello stock di debito pubblico hanno influito i tassi di crescita degli anni ’90, dell’ordine del 2%, inferiori non solo a quelli del decennio precedente, ma anche a quelli registrati nella media dei paesi industrializzati (tab.3). Tabella 3: Tassi di crescita del prodotto interno lordo pro capite Stati Uniti
Italia
Francia
Germania
Regno Unito
1951-72
2,4
4,6 (1)
4,0
5,1
2,3
1973-82
1,3
2,8
2,1
2,0
1,4
1983-1992
2,4
2,3
1,7
1,8
2,2
1993-2002
2,0
1,4
1,5
1,1
2,3
2003-2009
1,6
0,3
1,2
1,6
1,9
Fonte: Devillanova Si deve anche aggiungere che nell’ultimo decennio del secolo scorso, si registrò un ulteriore spostamento nella distribuzione del reddito a scapito della quota di lavoro o, come scrive la Banca d’Italia, “la quota del capitale sul valore aggiunto al costo dei fattori ha raggiunto nel 2001 livelli storicamente elevati”. Non è probabilmente inappropriato associare la ridotta crescita dell’economia italiana a partire dagli anni ’90 anche alla modesta dinamica dei consumi, a sua volta largamente determinata dal processo di concentrazione nella distribuzione del reddito. La lettura a posteriori dei provvedimenti di politica economica dei primi anni ’90 deve essere scissa in due componenti, la prima delle quali porta a conclusioni positive, mentre la seconda solleva difficili problemi interpretativi. Da un lato, si deve sottolineare che gli interventi presi in una situazione di emergenza finanziaria hanno consentito di raggiungere gli obiettivi di riduzione del tasso d’inflazione interno e di contenimento dell’indebitamento pubblico collocando il nostro paese a livelli europei; sono stati cioè creati i presupposti per l’adesione dell’Italia ai processi di costruzione di importanti istituti comunitari. D’altro lato, a partire dalle scelte di quegli anni si sono manifestati fenomeni involutivi, che si sono accentuati negli ultimi anni (Devillanova). Utilizzando l’indicatore più banale, proprio a partire dagli anni ’90 5 il tasso di crescita della nostra economia è risultato inferiore a quello dei principali paesi europei. Molti fattori hanno operato in senso negativo: noi abbiamo richiamato la concentrazione del reddito, altri hanno sottolineato l’assenza di adeguati stimoli competitivi, oltre all’effetto inibente di un debito pubblico rimasto di rilevanti dimensioni, anche per la modesta crescita dell’economia (tab.3). In questa sede conviene però soffermarsi sugli effetti in termini di crescita del sistema che possono essere ragionevolmente ricondotti al processo di privatizzazione avviato a partire dal 1992. Ci dobbiamo cioè chiedere se le modificazioni degli assetti proprietari che ne seguirono furono fattori positivi per la struttura e la vitalità del nostro apparato produttivo o se invece una diversa gestione del processo avrebbe potuto portare ad esiti migliori, pur nello stesso quadro macroeconomico. La situazione finanziaria dell’IRI Al di là delle politiche di stabilizzazione varate a seguito della crisi valutaria de 1992 (in cui rientrava il ridimensionamento dei conferimenti pubblici alle partecipazioni statali) le dismissioni delle imprese pubbliche furono determinate anche dalla difficile situazione del gruppo IRI. Sotto questo profilo motivazioni interne si sovrapposero a quelle d’origine internazionale. La situazione finanziaria del gruppo IRI può essere sinteticamente descritta, considerando in primo luogo i debiti finanziari lordi, che ammontavano nel 1992 a 82000 miliardi, con un aumento rispetto all’anno precedente di 14000 miliardi (nel 1999 quando il processo di vendita delle aziende IRI era praticamente completato la consistenza del debito era scesa a 21000 miliardi). Il rendimento del capitale si collocava a livello accettabile, anche se l’entità degli oneri finanziari assorbiva larga parte dei risultati operativi, con la conseguenza che il risultato d’esercizio risultò negativo per 4000 miliardi nel 1992 (come lo era stato per un importo inferiore nel 1991). Il risultato d’esercizio tornò ad essere positivo a partire dal 1995. Possiamo ancora ricordare che la leva finanziaria netta (pari al rapporto fra debiti finanziari al netto delle attività finanziarie, e capitale di rischio) era pari all’unità nel 1992, un livello certamente elevato (Ravazzi, Appendice Statistica p.57). I risultati consolidati del gruppo IRI riflettevano andamenti profondamente differenziati dei diversi settori operativi, che a loro volta erano diversamente suscettibili di essere collocati sul mercato. Accanto ad alcune imprese immediatamente vendibili, ve ne erano altre che, essendo monopoli naturali, avrebbero potuto in linea di principio essere ceduti solo dopo la definizione di un appropriato quadro regolatorio; infine, un rilevante numero d’imprese (quelle rientranti essenzialmente nel comparto manifatturiero) avrebbero potuto essere ceduti solo dopo più o meno radicali interventi di ristrutturazione. Ma la di là delle caratteristiche specifiche dei singoli settori o imprese, tempi e modalità del processo di privatizzazioni furono determinati dagli interventi delle autorità comunitarie a seguito dell’attivazione del Mercato Unico. L’accordo Andreatta –Van Miert Un primo fattore rilevante per la posizione dell’IRI e degli altri enti pubblici di gestione nelle operazioni di finanziamento nazionali e internazionali fu la trasformazione di questi enti in società per azioni con il Tesoro azionista unico: nulla cambiava dal punto di vista sostanziale per quanto riguardava la posizione dei 6 creditori. La garanzia del rimborso di tutti i debiti contratti, prima esplicitamente a carico dello Stato, dopo la trasformazione era comunque operante in quanto lo Stato era azionista unico. Tutti i debiti contratti dall’EFIM e dalle società controllate da questo ente al 100 per cento, dopo la sua liquidazione nel corso del 1992, furono infatti riconosciuti dallo Stato senza alcuna discriminazione fra banche italiane ed estere (Cavazzuti p.35). Emergeva tuttavia il problema della compatibilità del Mercato Unico (la cui attuazione richiedeva l’abolizione di tutte le barriere non tariffarie) con l’attività d’imprese in cui l’azionista unico Stato, per legge illimitatamente responsabile, era di fatto in grado di distorcere la concorrenza attraverso il sostegno in teoria senza limiti alle imprese controllate. Di fatto, come sottolineava Romano Prodi in un intervento parlamentare, l’orientamento della Commissione era nettamente favorevole a sostenere che gli apporti al fondi di dotazione (la tipica forma di sostegno finanziario adottata in quegli anni a carico del bilancio statale) costituivano sempre ed in ogni caso aiuti di Stato (Curli p.17). A ciò si aggiungeva l’argomento avanzato dai produttori di altri paesi che nel processo di ristrutturazione europea dell’industria siderurgica gli apporti al fondo di dotazione dell’IRI, poi destinati anche alle imprese siderurgiche del gruppo, erano fattore di distorsione della concorrenza e quindi incompatibili con il Mercato Unico. Se gli apporti ai fondi di dotazione delle imprese pubbliche da parte dell’azionista Stato erano di fatto assimilati ad aiuti incompatibili con il Mercato Unico, ma se, nello stesso tempo, nel Trattato di Roma e nell’Atto Unico del 1986 non risultava alcuna preclusione di principio nei confronti delle imprese pubbliche (potenzialmente utile strumento per perseguire interessi nazionali al di fuori di pratiche distorsive della concorrenza (Curli p.15)), il problema si risolveva nella definizione delle legittime modalità di attività riconosciute alle imprese pubbliche. La soluzione del problema appariva particolarmente ardua per un paese come l’Italia, per il quale un significativo ritardo nello sviluppo rispetto a molti paesi europei era stato compensato per certi aspetti da una rilevante presenza pubblica nel settore manifatturiero, oltre che in quello bancario. L’accordo Andreatta‐Van Miert si propose di risolvere tutti i problemi riconducibili all’esistenza di società per azioni totalmente controllate dallo Stato, originate dalla trasformazione di enti pubblici economici, assimilando le regole che avrebbe dovuto seguire l’azionista Stato a quelle che avrebbe seguito un investitore privato prudente. Nello stesso tempo questo accordo varò una sanatoria per il passato, annullando le ipotesi ripetutamente ventilate negli anni precedenti di avvio di procedure per infrazione dei trattati comunitari. Conviene richiamare i punti essenziali dell’accordo Andreatta‐Van Miert, analiticamente esaminato in Curli; dalla sua applicazione derivarono infatti conseguenze importanti per l’intero processo di privatizzazione del gruppo IRI. Come primo punto, il Governo italiano, dopo aver proceduto alla quantificazione entro la fine del 1993 dell’indebitamento degli enti trasformati in società per azioni, nonché di tutte le società controllate dal Tesoro per una percentuale non inferiore al 99%, si impegnava a non autorizzare l’aumento dell’indebitamento di questi enti o imprese. Si riteneva infatti dalla Commissione che la garanzia statale implicitamente o esplicitamente concessa alle imprese pubbliche italiane avesse agevolato, rispetto agli altri operatori, il ricorso al debito, determinando distorsioni alla concorrenza; nel medesimo tempo si qualificavano come aiuti di stato i conferimenti al fondo di dotazione, precludendo la possibilità di farvi ricorso in futuro. 7 Il Governo italiano assumeva altresì l’impegno di ridurre il debito degli enti e delle imprese controllate fino ad un livello giudicato fisiologico, “cioè a livelli accettabili per un investitore operante in condizioni di economia di mercato”. Il livello fisiologico, calcolato, al di là di altri dettagli, sulla base dell’indebitamento lordo e con consolidamenti ammessi solo con un riferimento settoriale, fu poi individuato nel 60% del capitale investito; questo livello doveva essere raggiunto nell’arco di 3 anni entro la fine del 1966. Era poi sottoscritto da parte del Governo l’impegno ad evitare che si potesse configurare in futuro la responsabilità illimitata dell’azionista unico; lo Stato doveva in altri termini ridurre la sua quota azionaria al di sotto del 100%. Sulla base dei dati elaborati in conformità all’accordo, l’indebitamento lordo dell’IRI (finanziario e commerciale) era nell’ordine dei 50000 miliardi, quello commerciale pari a 8000 e l’ammontare delle garanzie e impegni pari a 23400 miliardi. Su questi importi era riconosciuta la responsabilità finanziaria dello Stato italiano; su questi importi erano altresì calcolati gli obiettivi di riduzione del debito, riferiti sia alla riduzione per 23000 miliardi dell’indebitamento dell’IRI sia per 13600 alla dismissione o alla liquidazione di numerose imprese, sia per 2600 miliardi al recupero di risorse in particolare nel settore siderurgico (Curli p.36). Le privatizzazioni L’accordo Andreatta–Van Miert definì con notevole precisione le tappe che avrebbero dovuto essere seguite, e di fatto lo furono, nel processo di privatizzazione. Si completò in primo luogo l’uscita del gruppo IRI dal settore siderurgico, che, in presenza di una crisi da sovracapacità produttiva a livello europeo, era stata fonte di ingenti perdite cui si era fatto fronte da molti anni con il ricorso al debito a livello di gruppo e con l’utilizzo dei conferimenti al fondo di dotazione. Nel periodo compreso fra il 1992 e il 1996, con la cessione a imprese italiane ed estere degli impianti sfruttabili in condizioni di economicità e la liquidazione delle attività invendibili si chiuse la lunga storia della presenza pubblica nel settore siderurgico. E’ stato osservato che un intervento tempestivo in questo settore avrebbe consentito all’IRI di mantenere ragionevoli livelli di redditività, evitando la liquidazione dell’istituto negli anni ‘90 (Ravazzi p.17). Si deve anche ricordare che l’atteggiamento ondivago delle autorità italiane nei confronti dell’Europa (che subordinava l’erogazione degli aiuti alle imprese siderurgiche alla riduzione della capacità produttiva) fu causa di continue frizioni a livello comunitario, sfociati poi negli atteggiamenti molto severi che costituirono il presupposto dell’accordo Andreatta‐Van Miert. La riduzione del debito complessivo dell’IRI, nei tempi molto stretti previsti, richiedeva che si procedesse alla dismissione delle attività immediatamente vendibili, fra le quali si collocavano le banche d’interesse nazionale: Credito Italiano e Comit furono dimesse attraverso un’offerta pubblica di vendita a partire dal 1993, seguite nel 1997 dalla Banca di Roma. Fu anche possibile cedere alcune imprese operanti nel settore delle telecomunicazioni e delle costruzioni oltre che in quello alimentare; in queste operazioni di cessioni di singole imprese intervennero ripetutamente grandi gruppi esteri. Le esigenze di ristrutturazione di Finmeccanica (che aveva fra l’altro assorbito numerose imprese del’EFIM) impedirono di fatto privatizzazioni anche parziali, fino all’offerta pubblica di vendita nel 2000 del 50% del capitale sociale: ancora oggi circa il 30% del capitale sociale è detenuto dal Ministero dell’Economia. In modo del tutto analogo risultò impossibile la privatizzazione delle attività connesse alle costruzioni navali, mentre furono realizzate a partire dal 1997 significative privatizzazioni nel campo del trasporto marittimo e aeroportuale 8 (non dell’Alitalia nel periodo da noi esaminato) Una dettagliata descrizione delle operazioni di privatizzazione è contenuta nella tab. 4. Tabella 4: Privatizzazioni dell’IRI dal 1992 al 2002 Settori produttivi
Eventi e realizzazioni
Bancario
1993: Cessione del Credito Italiano mediante offerta pubblica di vendita con un incasso di 930 milioni di
euro correnti
1994: Cessione della Banca Commerciale Italiana mediante offerta pubblica di vendita con un incasso di
quasi 1,5 miliardi di euro correnti
1997: Cessione della Banca di Roma mediante offerta pubblica di vendita con un incasso di circa un
miliardo di euro (per 2/3 derivante da un prestito obbligazionario convertibile)
2001: Vendita tramite trattativa diretta dell’intero pacchetto azionario (100%) posseduto da IRI con un
incasso di oltre 0,5 miliardi di euro correnti
1992: Cessione delle Acciaierie di Piombino per circa 190 milioni di euro al gruppo Lucchini e
conferimento delle attività dell’ILVA a due nuove società: Acciai Speciali Terni (AST) e Ilva
Laminati Piani (ILP) con lo scopo di ristrutturare le attività per poi privatizzarle
1993: Liquidazione dell’ILVA e delle attività siderurgiche non conferite all’AST e alla ILP
1994: Vendita della AST a una joint-venture tedesco-italiana di operatori siderurgici, controllata dal
gruppo Krupp
1995: Cessione della ILP al gruppo italiano Riva per un controvalore di 1,2 miliardi di euro
1996: Vendita della Dalmine al gruppo italo-argentino Rocca per oltre 150 milioni di euro
1992: Cessione della Cementir al gruppo Caltagirone (circa 250 milioni di euro correnti)
1992: Scioglimento dell’EFIM e conseguente acquisizione delle società Agusta, Oto Melara, Breda
Meccanica Bresciana, Officine Galileo e SMA
1992: Trasformazione in S.p.A. e fusione con la controllata Sifa, al fine di quotarsi in borsa
1993: Incorporazione delle controllate Alenia, Elsag Bailey e Ansaldo
1996: Acquisizione di Breda Costruzioni Ferroviarie, integrata con Ansaldo Trasporti
1997: Definizione del piano industriale e di riassetto del gruppo
1998: Cessione della Elsag Bailey Process Automation
2000: Cessione di una rilevante quota del capitale sociale (54,2%) mediante OPV, mantenendo però il
controllo pubblico (golden share e 32,4% delle azioni possedute dal Ministero del Tesoro);
l’incasso complessivo è stato di 5,5 miliardi di euro
1998: Piano di ristrutturazione
2000: Aumento di capitale sociale di Fincantieri e coinvolgimento di nove importanti istituzioni
finanziarie, che consente all’IRI di portare la partecipazione dal 100% all’85% in vista dell’obiettivo di
privatizzare completamente il settore
1993: Costituzione di Fintecna, che incorpora le attività da valorizzare di Iritecna
1994: Liquidazione di Iritecna, proprietaria delle residue attività non recuperabili
1995: Vendita di Italimpianti a Mannesmann/Techint/Fiat
1997: Proroga di 20 anni (fino al 2038) della concessione alla società Autostrade con possibilità di
operare nel settore dei servizi telematici; scorporo della medesima da Fintecna e trasferimento
all’IRI (87% del capitale)
1997: Fusione per incorporazione dell’ILVA in liquidazione nell’Iritecna in liquidazione
1998: Cessione di Condotte Acqua a Ferrocemento, Italstrade a Astaldi, Garboli a Conicos
1999: Trasferimento da IRI a Fintecna di Sofinpar e delle residue società in liquidazione (Ifap-IRI, Isai,
MMP e Finmare), allo scopo di razionalizzare le procedure liquidatorie; cessione di un gruppo di
società (Ponteggi Dalmine a Marcegaglia, Italinpa a Saba, Coinfra a Ares Holding, Sovigest a una
cordata di immobiliari) e vendita di Nuova Portello (immobili posseduti nell’area milanese del
Portello) alla società Cristallo
1999: Vendita della prima tranche della società Autostrade (56,6%) al mercato mediante offerta pubblica di
vendita con un incasso che ha sfiorato i 4,2 miliardi di euro
2000: Vendita del pacchetto di controllo della società Autostrade (30%) a una cordata formata da
Edizione Holding S.p.A., da istituzioni bancarie (Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e
UniCredito Italiano S.p.A.) e assicurative (INA S.p.A.) e da operatori esteri del settore (Autopistas
Concesionaria Espanola S.A. e Brisa Autostradas de Portugal S.A.)
2001: Vendita della SVEI, operante nel campo dell’ingegneria civile, allo Studio Altieri
2002: Cessione del controllo delle società Bonifica e Idrotecna
1997: Vendita delle società di linea Lloyd Triestino a Evergreen e Italia di Navigazione alla società privata
D’Amico SA e riassetto del comparto cabotiero mediante costituzione della nuova capogruppo
Tirrenia e apporto delle partecipazioni di Finmare in Adriatica, Caremar, Siremar e Toremar
1998: Trasferimento di Tirrenia a IRI (60%) e Cofiri (40%)
1999: Messa in liquidazione di Finmare e trasferimento della società a Fintecna
2000: Cessione a Mediobanca del 15% del capitale sociale di Tirrenia a fronte di un prestito
obbligazionario convertibile; cessione della società Almare, ancora posseduta da Finmare
2002: Alienazione di cespiti smobilizzati da Tirrenia
Finanziario (Cofiri)
Siderurgico (ex ILVA)
Cementiero (Cementir)
Meccanico:
aerospaziale,
difesa e alta
tecnologia
(Finmeccanica)
Cantieristico
(Fincantieri)
Costruzioni,
impianti e
autostrade
(Iritecna Fintecna)
Trasporto
marittimo
(Finmare)
9 Trasporto
aereo (Alitalia)
e servizi
aeroportuali
Alimentare
(SME)
Telecomunicazioni
(STET)
Radiotelevisivo
(RAI)
Fonte: Ravazzi 10 1995: Costituzione di Aeroporti di Roma Holding, che acquisisce da Fintecna e da Alitalia le azioni della
società Aeroporti di Roma (ADR)
1997: Collocamento sul mercato a risparmiatori e investitori istituzionali – tramite COFIRI – di una quota
minoritaria (45%) della ADR per un controvalore di oltre 300 milioni di euro
2000: Cessione mediante trattativa diretta della residua quota (54%) del capitale di ADR alla cordata
Leonardo (51%) e a enti regionali (3%) con un incasso di oltre 1,3 miliardi di euro
2000: Trasferimento al Ministero del Tesoro della partecipazione in Alitalia
1993: Scissione del gruppo SME in tre società: SME S.p.A. per la distribuzione e la ristorazione; Italgel,
finanziaria di settore del freddo, ceduta alla Nestlé per oltre 220 milioni di euro; Cirio-Bertolli-De
Rica per il comparto alimentare, vendita per oltre 160 milioni di euro alla Società Agroalimentare
Italiana (Sagrit), che successivamente cederà il comparto oleario Bertolli alla multinazionale
olandese Unilever
1994: Cessione di una prima tranche delle azioni SME per oltre 370 milioni di euro
1996: Completamento della cessione delle partecipazioni residue della SME a Schemaventi S.p.A. e
Crediop; la vendita di tutte le partecipazioni SME fruttò all’IRI un introito di oltre un miliardo di euro
1993: Trasformazione dell’ASST in Iritel per la successiva fusione con la SIP
1994: Incorporazione nella SIP di Iritel, Italcable, Telespazio e Sirm e modifica della denominazione
sociale in Telecom Italia
1995: Scorporo da Telecom Italia dei servizi di telecomunicazione mobile e contemporanea costituzione
della TIM (Telecom Italia Mobile), che viene quotata nella Borsa di Milano;
Vendita di Italtel per un controvalore di oltre 0,5 miliardi di euro
1996: Scorporo di Seat S.p.A. (editoria tradizionale ed elettronica) e quotazione della medesima presso
la Borsa Valori di Milano, per la successiva cessione;
1996: Trasferimento di STET (61,3% del capitale sociale) da IRI al Ministero del Tesoro a un valore di
quasi 12,7 miliardi di euro correnti, consentendo il drastico abbattimento del debito dell’IRI e il
conseguente riequilibrio economico-finanziario
1997: Cessione della Seat per un controvalore di circa 850 milioni di euro
1997: Incorporazione di STET in Telecom Italia e vendita da parte del Ministero del 39,5% del capitale
sociale, per una quota minoritaria (6,6%) a un nucleo di controllo, presunto stabile, e mediante
OPV per il residuo, incassando oltre 11,8 miliardi di euro
2002: Cessione del residuo 3,5% di azioni Telecom Italia, con un incasso di 1,4 miliardi di euro
2000: Costituzione della RAI Holding con successivo trasferimento della partecipazioni IRI (99,5%) in
RAI, la cui privatizzazione dipende dalla normativa sul nuovo assetto dell’emittenza televisiva
Ma il raggiungimento degli obiettivi di riduzione del debito previsti dall’accordo stipulato dal Governo italiano con la Commissione europea poteva essere ottenuto solo con la privatizzazione dei due monopoli naturali o quasi‐naturali facenti capo all’IRI: Stet (poi incorporata in Telecom) e Autostrade. Per quanto riguarda la Telecom il processo di privatizzazione non poté essere attuato entro la fine del 1996 per il ritardo con cui venne approvata l’istituzione dell’autorità di regolamentazione del settore. Il rispetto formale dell’accordo Andreatta‐Van Miert fu tuttavia ottenuto con il trasferimento del 61% del capitale sociale dall’IRI al Tesoro, con conseguente abbattimento del debito dell’Iri; dopo questa operazione il gruppo aveva raggiunto il pieno rispetto degli accordi assunti in sede comunitaria. Anche per quanto riguardava le società operative l’indebitamento si attestava a 12700 miliardi contro un impegno originario di 16300. Van Miert nel 1997 non poteva che esprimere, dal suo punto di vista, vivo apprezzamento (Curli p.43). Se considerata sotto il profilo puramente finanziario, la vicenda della liquidazione dell’IRI presenta alcuni aspetti peculiari. Ripercorrendo le tappe essenziali, il problema ebbe origine con le travagliate vicende dell’EFIM, per il quale si pose in dubbio da parte delle stesse autorità comunitarie l’obbligo dello Stato italiano di soddisfare tutti i debiti delle imprese coinvolte nel dissesto (fra i finanziatori comparivano per importi cospicui banche estere). La vicenda EFIM, associata alle turbolenze valutarie del 1992, fu prodromica ad uno spostamento dell’attenzione sull’IRI, dove ad un rilevante indebitamento corrispondeva una posizione reddituale certamente non drammatica (Ravazzi p.15). Il timore dei grandi operatori finanziari internazionali che si potesse ipotizzare un default per importi consistenti (e comunque su scala molto più grande di quella che si sarebbe verificata per l’EFIM) è probabilmente all’origine dell’atteggiamento della commissione che impose, come abbiamo visto, una drastica riduzione del debito del gruppo IRI, a prescindere dalle attività dello stesso gruppo e delle prospettive reddituali. Un’ulteriore osservazione può essere avanzata. L‘obiettivo di riduzione del debito al 60% del rapporto fra debito e capitale investito coincideva con il valore del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo assunto, in modo fondamentalmente arbitrario, nel Trattato di Maastricht come indicatore di equilibrio finanziario dei singoli stati. Rimane il fatto che l’accordo Andreatta‐Van Miert costituì il viatico per un processo di dismissione delle imprese pubbliche facenti capo all’IRI al di fuori di ogni disegno complessivo di ragionata tutela di settori industriali potenzialmente determinanti per lo sviluppo economico del paese (come avremo modo di vedere in altre parti di questa introduzione). L’unico imperativo sembra essere stato quello di vendere al fine di soddisfare l’obiettivo molto ravvicinato nel tempo di ridurre la consistenza del debito lordo. Sulla base di quell’accordo, pienamente rispettato salvo il ritardo nelle cessione della Stet, gli investitori internazionali non ebbero più ragione di temere un possibile default del gruppo IRI. Nello stesso tempo, oltre per la concomitante cessione di importanti imprese manifatturiere a concorrenti stranieri, non si può escludere, come ha osservato De Cecco, l’impressione che la vendita di imprese pubbliche sia servita a guadagnare credibilità nei confronti dei mercati finanziari internazionali, adottando procedure di vendita a loro ben accette (Devillanova p.15) Questo guadagno di credibilità può essere in primo luogo desunto dal peso delle privatizzazioni in termini di prodotto lordo particolarmente elevato in alcuni anni (tab 5). Alternativamente, si può fare riferimento allo spread fra i bund e i btp decennali, che dopo essere rimasto a livello elevato, superiore ai 500 punti fino a tutto il ‘95 (quando si verificò l’ennesima crisi valutaria che portò ad un forte deprezzamento nei confronti del marco) scese negli anni successivi fino a collocarsi nel triennio 1998‐2000 al di sotto dei 50 punti base (Cavazzuti p.15). 11 Tabella 5: Peso delle privatizzazioni sul Pil Anno
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001 (3)
Tesoro
Gruppo IRI (2)
Totale
% PIL
3,267
4,596
7,010
19,685
10,175
18,609
585
2,721
396
2,000
3,472
3,085
1,835
1,445
2,147
5,723
10,268
508
396
2,000
6,739
7,681
8,845
21,130
12,322
24,332
10,853
3,229
0,04%
0,24%
0,78%
0,92%
0,91%
2,05%
1,16%
2,21%
0,94%
0,27%
Fonte: Libro Bianco sulle Privatizzazioni (2001) Ad integrazione delle precedenti osservazioni possiamo qui ricordare che la riduzione dei tassi d’interesse reali (oltre che di quelli nominali per effetto della riduzione dell’inflazione) associata alla formazione di un consistente avanzo primario è stata la causa della riduzione del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno dell’ordine di 7 punti (da 118 a 111) nel periodo 1993‐2000 (tab.4). Il risultato è stato certamente apprezzabile, ma nell’ultimo decennio del secolo scorso non si ripeté il miracolo del periodo giolittiano, quando pur partendo da un elevato debito pubblico e da una situazione finanziaria fortemente perturbata, la stabilizzazione dell’economia fu associata ad una fortissima ripresa dell’economia reale. Allora l’Italia si collocò pienamente nel ciclo di crescita dell’economia mondiale; a partire dal 1992, come abbiamo già osservato, lo sviluppo dell’economia italiana è stato modesto in termini assoluti e relativi, impedendo quella caduta del rapporto debito prodotto che in un contesto di più forte crescita sarebbe stato possibile. Tutto ciò si verificò, nonostante che si fossero create all’inizio del 2000 le condizioni propizie per una forte ripresa del processo di crescita. Anche in relazione a questo insoddisfacente andamento dell’economia reale deve essere letta l’esperienza delle privatizzazioni nel nostro paese. I presupposti politici e culturali delle privatizzazioni All’origine del processo di privatizzazione, e della velocità con cui è stato realizzato, si possono riconoscere fattori genericamente definibili politici e culturali. Deve essere preliminarmente sottolineato che era diffusa una valutazione negativa del ruolo svolto dalle partecipazioni statali a partire dagli anni ’80. Era emersa, con manifestazioni sempre più evidenti, la debolezza del management nei confronti delle autorità politiche, in grado di imporre scelte non coerenti con una gestione economicamente corretta delle imprese. Non a caso osservatori stranieri parlavano di rapporti incestuosi fra politici e management (Curli p.14). Questa valutazione ampiamente condivisa, e nella sua genericità per molti aspetti lontana dalla realtà, può spiegare perché nessuna delle maggiori forze politiche nei primi anni ’90 si schierò apertamente a difesa del sistema di imprese pubbliche. In pratica solo i massimi dirigenti dell’IRI tentarono di arginare il processo di privatizzazione con iniziative di fatto velleitarie nel loro tentativo di conservare l’esistente (Cavazzuti p.45). Solo quando il processo risultò 12 irreversibile, le resistenze cessarono, come risulta chiaramente dal rispetto dell’accordo Andreatta‐Van Miert. Se risulta palese l’intenzione politica di chiudere l’esperienza dell’impresa pubblica come si era configurata nel nostro paese, le esperienze che maturavano nel mondo occidentale spingevano nello stesso senso. In particolare il governo della Thatcher era caratterizzato da una robusta politica di privatizzazione (con la connessa drastica riduzione del potere dei sindacati) e dalla diffusione della proprietà azionaria fra i piccoli risparmiatori grazie al collocamento in borsa delle azioni delle società privatizzate. Per effetto di queste scelte governative l’economia britannica sembrava aver ripreso vitalità e, anche se qualche incrinatura cominciò a manifestarsi con la crisi valutaria del 1992 che ebbe il suo epicentro nel Regno Unito, il modello inglese divenne il riferimento fondamentale di politica economica e sociale per larga parte dei partiti del nostro paese. Ulteriori stimoli all’adozione di una politica di tipo britannico vennero anche dai risultati giudicati brillanti ottenuti dalla grande imprenditoria privata italiana nel corso degli anni ’80, che era giudicata del tutto idonea a svolgere il ruolo propulsivo che aveva caratterizzato le partecipazioni statali nei decenni precedenti. Nella Relazione della Banca d’Italia del 1989 si sottolineava con compiacimento che le ristrutturazioni dell’industria manifatturiera a partire dalla fine degli anni ’70 avevano riguardato essenzialmente le grandi imprese operanti anche in settori tecnologicamente avanzati e si erano risolte in forti recuperi di efficienza (ricordiamo che alla fine del 1989 il livello dei profitti era ai massimi storici). Contrariamente alle aspettative nel volgere di pochi anni il quadro complessivo cambiò radicalmente:come scrive Giuseppe Berta, la posizione economica delle imprese maggiori conobbe dunque un deterioramento che non venne più arrestato, al punto da porre in discussione la stessa capacitò di alcune fra le più importanti società italiane (Montecatini e Olivetti). E ancora, in quegli anni cambiò la morfologia del sistema imprenditoriale…spostando definitivamente il baricentro in direzione delle imprese minori e dei distretti industriali (in Devillanova p.18). In altri termini, il fatto che i brillanti risultati dell’imprenditoria italiana negli anni ’80 siano risultati fugaci e che l’imprenditoria pubblica non sia stata adeguatamente sostituita è stato una delle cause che ha portato ad un esito problematico del processo di privatizzazione se giudicato in relazione alla crescita del sistema (come abbiamo visto) o in termini di rafforzamento della base produttiva (come vedremo). In questo quadro si deve sottolineare che era comunque presente la consapevolezza che l’IRI dovesse riposizionarsi nel nuovo contesto economico mondiale. In un’audizione alla Camera del 1988 l’allora presidente dell’IRI, Romano Prodi, affermava che l’istituto doveva riconsiderare le proprie aree di presenza in coerenza con lo spirito originario della “formula IRI”. I settori da privilegiare si riferivano essenzialmente al sistema di telecomunicazioni, alle infrastrutture di trasporto e ai sistemi connessi, allo sviluppo di “software di sistema”, alle attività manifatturiere fortemente innovative dal punto di vista tecnologico, alle attività impiantistiche (Curli p.10). Rimane il fatto che la liquidazione dell’IRI portò al totale abbandono degli aspetti positivi della formula delle partecipazioni statali, senza che altri attori subentrassero in misura e secondo modalità adeguate. Gli obiettivi delle privatizzazioni Dalle nostre precedenti osservazioni emerge che con le privatizzazioni una molteplicità di obiettivi era perseguita. Era stato posto come obiettivo il contenimento degli squilibri di finanza pubblica, ma già allora il 13 Ministro del Tesoro osservò che non poteva essere quello l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni, per l’inadeguatezza dal punto di vista macroeconomico dello strumento (Cavazzuti p.11). Si voleva sollecitare l’interesse delle grandi case finanziarie internazionali, oltre che dei potenziali investitori nelle nostre imprese. In questo senso operò, come abbiamo visto, la riduzione della consistenza del debito del gruppo IRI, che nell’interpretazione degli operatori finanziari allontanò ogni ipotesi di default, anche per il ruolo che le grandi banche d’affari straniere ebbero nella collocazione delle azioni delle imprese privatizzate all’interno e all’estero. Si poneva anche, e alla luce dell’esperienza successiva forse soprattutto, un problema di adeguamento delle nostre strutture produttive nei termini puramente programmatici enunciati nel 1988 e per il quale, scartata l’ipotesi di ripetere l’esperienza delle imprese pubbliche, dovevano essere individuati gli attori, tendenzialmente identificabili con le grandi imprese private. Per l’adeguamento della nostra struttura produttiva potevano essere seguite due vie, per larga parte alternative: una linea attivista, che potremmo definire di politica industriale, e una linea non interventista o regolatoria degli assetti di mercato con lo scopo di realizzare un quadro entro cui potesse svilupparsi una salutare concorrenza fra gli operatori. La linea attivista non è mai stata oggetto di esplicita formulazione per la difficoltà di individuare interlocutori validi. L’unica eccezione, sul piano dell’enunciazione dei principi, può essere riconosciuta nella proposta del ministro Guarino di creare due superholding, una finanziaria e una industriale, cui, sotto la direzione del Ministero dell’Industria, sarebbe stato affidato il compito di gestire sia il processo di dismissione, presumibilmente parziale, delle partecipazioni statali, sia la gestione delle proprietà pubbliche residue. Ipotesi di politica industriale trovarono poi manifestazione in alcuni documenti ufficiali. Nel programma di riordino delle partecipazioni statali del 1992 si affermava fra l’altro che il processo di privatizzazione doveva “compiersi entro il quadro del nostro sistema industriale” (Cavazzuti p.16). Oppure, in una relazione della Commissione industria del Senato si affermava che tra gli elementi fondamentali da considerare e approfondire in un efficiente processo di privatizzazione figurassero le condizioni di difesa degli interessi nazionali; la costituzione di poli produttivi tecnologici nazionali, con partecipazioni pubbliche e private, capaci di competere nel mercato globale (Cavazzuti p.17). Il richiamo all’italianità, inteso come una sorta di caratterizzazione di qualsiasi politica industriale nazionale, come osserva lo stesso Cavazzuti, si sarebbe riverberato in forma più o meno larvata e non esplicita su tutto il processo delle privatizzazioni, sia pure in un quadro di accettazione delle finalità concorrenziali. In termine di difesa dell’italianità può anche essere spiegato, e non necessariamente condannato, l’arresto delle privatizzazioni quando si è profilata l’eventualità della perdita del controllo pubblico o nazionale di ENI, ENEL e Finmeccanica. Se l’opzione di una politica industriale integrata nelle scelte di dismissione non trovò mai effettiva realizzazione, tutto il processo è stato costruito, almeno nelle intenzioni, con il fine di creare situazioni concorrenziali, attraverso un vasto piano di liberalizzazioni peraltro inquadrato in un efficace sistema di regolazione. Ad esclusione della liberalizzazione delle telecomunicazioni, imposta dall’Unione europea, non sembra peraltro che le liberalizzazioni dei mercati nazionali e locali siano state ad oggi particolarmente significative (Cavazzuti 16). 14 Gli strumenti collaterali alle privatizzazioni La creazione di situazioni concorrenziali dopo le privatizzazioni richiedeva che si compissero alcuni passi, riguardanti le modalità di vendita, la regolamentazione dei mercati finanziari, la creazione per alcuni settori di autorità di controllo indipendenti ed, infine, l’eventuale attribuzione di poteri speciali alle pubbliche autorità in casi particolari. Per quanto riguarda le modalità di vendita, le opzioni fondamentali erano due: l’offerta pubblica di vendita a prezzo fisso (con una quota eventualmente riservata a investitori istituzionali) o il collocamento diretto mediante o asta pubblica o trattativa diretta. L’offerta pubblica di vendita era compatibile con un azionariato diffuso, riconducibile al modello della public company anglosassone, oltre che ad un ruolo attivo degli investitori istituzionali (il cui sviluppo era prefigurato dalla riforma pensionistica approvata nel 1995). A favore di questa modalità di collocamento, almeno nella fase iniziale delle privatizzazioni, stava la considerazione che la forte concentrazione del controllo societario nel nostro paese avrebbe reso difficile un’effettiva apertura o democratizzazione del mercato mobiliare; in altri termini, una sana contendibilità sarebbe stata resa molto ardua da un’assegnazione delle azioni delle società privatizzande per trattativa diretta (Cavazzuti p.30). Il modello alternativo della trattativa diretta, sostanzialmente riconducibile al nocciolo o nucleo duro adottato in Francia, richiedeva l’individuazione di azionisti disposti a condividere una strategia comune (oltre ad impegnare risorse finanziarie) in una logica di medio periodo. La vitalità di questo modello richiedeva, in altri termini, una certa idea di politica industriale (da cui sembravano rifuggire i governi dell’epoca, lontani dall’accettare i suggerimenti di Prodi) e grandi imprese imprenditorialmente capaci (cosa di cui si poteva dubitare a metà degli anni’90). Per le privatizzazioni delle banche d’interesse nazionale, le prime ad essere realizzate, fu seguito il metodo dell’offerta pubblica di vendita a prezzo fisso: risparmiatori privati e investitori istituzionali sottoscrissero l’offerta. Le singole imprese del settore alimentare, di quello siderurgico e di quello delle costruzioni furono dismesse a trattativa diretta. Per Finmeccanica fu collocato sul mercato con offerta pubblica di vendita il 50% del capitale sociale, pur mantenendo il controllo pubblico con il 32% del capitale sociale in capo al Ministero dell’Economia. I due casi più rilevanti furono quelli della dismissione dei due monopoli naturali, Telecom e Autostrade. Per entrambi si seguì un sistema misto. Insieme alla cessione di larga parte del capitale sociale con un’offerta pubblica di vendita a prezzo fisso furono individuati due noccioli duri. Era di dimensioni limitate (coprendo circa il 6% del capitale sociale, nonostante l’elevato numero dei sottoscrittori) il nocciolo che intervenne nella cessione di Telecom. Molto più consistente, assorbendo il 30% del capitale sociale, il nocciolo che acquisì il controllo di Autostrade (tab.4). Ci soffermeremo in seguito sugli effetti della privatizzazione di questi due settori. Sulla base della successiva evoluzione non si può dire che il tentativo di creazione delle public company abbia avuto successo. Nel settore finanziario le banche d’interesse nazionale confluirono dopo processi di aggregazione fra banche di diversa origine in gruppi di grandi dimensioni, in cui gli azionisti di controllo sono oggi essenzialmente le fondazioni di origine bancaria. Il nocciolo duro preposto al settore delle telecomunicazioni si rivelò estremamente fragile e certamente incapace di formulare e perseguire adeguate strategie. Anche perché protetto da un’ampia base azionaria, è rimasto invece sostanzialmente stabile il gruppo di controllo di Autostrade, impresa comunque non operante in un contesto concorrenziale. 15 Nel modello inglese le privatizzazioni non erano solo strumento di efficienza sulla base dell’assunto, non sempre verificato, che le gestioni private sono sempre e comunque più efficienti di quelle pubbliche, ma erano anche viste come presupposto per lo sviluppo dell’azionariato popolare e, quindi, di un gusto per il capitalismo che avrebbe consentito il superamento di ideologie, nella visione dei conservatori inglesi,non solo anacronistiche ma anche nocive per lo sviluppo economico di un paese. Lo sviluppo di questo gusto per il capitalismo richiedeva tuttavia che fossero verificate due condizioni essenziali. I mercati finanziari dovevano essere trasparenti, garantendo una ragionevole protezione di tutti gli investitori che operassero sia direttamente sia attraverso intermediari specializzati. Non doveva poi accadere che le privatizzazione diventassero occasione di formazioni di rendite oggetto di appropriazione da parte dei privati, soprattutto nei settori in cui gli stimoli competitivi erano limitati per la presenza di rilevanti componenti di monopolio naturale. Non a caso a queste due aspetti collaterali al trasferimento della proprietà pubblica furono dedicati notevoli interventi legislativi, commendevoli nelle intenzioni, anche se non sempre efficaci nelle concrete realizzazioni. Per quel che riguarda i mercati finanziari, il Testo Unico Bancario del 1993 cui fece seguito il Testo Unico di Finanza del 1998 portò alla despecializzazione del sistema bancario e creditizio ed alla creazione della banca universale, cui furono attribuite anche le funzioni delle banche di investimento (Barucci p.9). Alle banche fu anche consentito di partecipare al capitale sociale delle imprese; furono inoltre aboliti gli ostacoli alla presenza di banche estere. Come scrive Cavazzuti (p.43), i due testi unici ambivano anche in previsione delle privatizzazioni a riportare la fiducia dei risparmiatori sui mercati finanziari e consentire loro di fare scelte informate e consapevoli sulle combinazioni di rischio e rendimento dei titoli che volessero collocare nei loro portafogli. Non più sottoposto a non necessari vincoli di natura amministrativa, l’intermediario poteva svolgere la sua attività al meglio nel rispetto di un quadro di regole ben definite e di requisiti sul patrimonio e sull’esposizione al rischio (Barucci p.10). La seconda classe di provvedimenti riguardava la predisposizione di strumenti che , da un lato, garantissero la preservazione di assetti concorrenziali, là dove la concorrenza era in linea di principio praticabile, e, dall’altro, evitassero abusi nei settori in cui esistevano ineliminabili elementi di monopolio naturale. Già nel 1990, prima dunque che iniziasse la stagione delle privatizzazioni, fu istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Più complicato fu invece il processo che portò (o non portò) all’istituzione delle autorità indipendenti nei servizi di pubblica utilità o in quei settori in cui vigono condizioni di monopolio naturale, per i quali una norma approvata nel 1994 stabiliva che la dismissione delle partecipazioni dello Stato dovevano essere subordinate alla creazione di organismi indipendenti per la regolarizzazione delle tariffe e controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico (Cavazzuti p.57). Solo nel 1997 fu creata l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, rendendo a partire da quella data possibile l’avvio delle privatizzazione di Telecom, in cui erano confluite le imprese del settore ormai controllate dal Tesoro. Nulla di specifico è stato al contrario fatto per il settore autostradale, almeno fino a tempi recentissimi. Infine, alla tutela degli interessi nazionali, in assenza di una esplicita politica industriale, furono indirizzate le clausole relative ai poteri speciali. Negli statuti di Finmeccanica, ENEL, ENI e Telecom furono introdotte norme che prevedevano (o prevedono) sia limiti al possesso azionario, sia clausole di gradimento per l’ingresso di nuovi soci e contemplavano potere di veto attribuito al Tesoro per alcune decisioni fondamentali. Anche se per la loro genericità queste norme sono state dichiarate nel 2009 incompatibili con i trattati europei e anche se norme con analoghe implicazioni sono state utilizzate in altri paesi, appare evidente che le esigenze di politica industriale si sono di fatto in larga misura trasformate in norme antiscalate (Cavazzuti p.56). 16 Gli effetti delle privatizzazioni. Il settore finanziario Negli anni ’80 una larghissima parte del sistema bancario e una buona parte di quello assicurativo erano sotto il controllo pubblico; a partire dai primi anni 2000 la diretta proprietà pubblica è stata completamente azzerata. Gli introiti dalle privatizzazioni di questo comparto hanno prodotto introiti per 30 miliardi, con un importante quota afferente alle dismissioni delle banche d’interesse nazionale facenti parte del gruppo IRI (Barucci p.2). Come sottolinea Barucci, alla base del processo di privatizzazione stava l’obiettivo di sviluppare i mercati finanziari, allargando la partecipazione dei risparmiatori, che dovevano essere adeguatamente protetti, e attribuendo un importante ruolo di indirizzo e di monitoraggio agli investitori istituzionali. Il sistema finanziario, per riprendere un terminologia allora in voga e che rifletteva una lettura non sempre adeguata delle esperienze straniere (come hanno dimostrato i crolli del 2000 e del 2008), doveva diventare più mercatocentrico e meno bancocentrico. Questi orientamenti, associati all’apparente ineluttabilità di una progressiva integrazione dei mercati finanziari internazionali, portavano, da un lato, alla riforma delle regole di funzionamento dei mercati finanziari e, dall’altro, alla privatizzazione degli intermediari di proprietà pubblica, stante l’assunta superiore capacità allocativa degli operatori privati. Sui contenuti essenziali del Testo Unico Bancario e del Testo Unico della Finanza ci siamo già soffermati. Rinviando al saggio di Barucci per un più dettagliato esame, qui ci possiamo semplicemente chiedere se le riforme regolamentari degli anni ’90 hanno portato ai risultati attesi. Una prima osservazione riguarda l’evoluzione degli assetti proprietari dopo le privatizzazioni, che in teoria avrebbero dovuto essere fortemente concorrenziali. Abbiamo già osservato che le prime banche d’interesse nazionale (Comit e Credito italiano) sono state privatizzate con offerta pubblica di vendita cui hanno partecipato sia piccoli risparmiatori sia investitori istituzionali, con la preferenza riservata ai primi. Ma la preferenza iniziale per la public company, implicita nella modalità di vendita adottata, si è scontrata con l’evoluzione successiva che ha portato all’acquisizione del controllo da parte di gruppi bancari di grandi dimensioni o alla formazione per aggregazioni successive di banche di grandi dimensioni. All’esito di un processo più che decennale oggi gli azionisti di riferimento per le banche d’interesse nazionale di origine IRI sono le fondazioni di origine bancaria. Allo stesso esito di confluenza in un grande gruppo portò anche l’esperienza della privatizzazione del Banco di Roma per il quale fu creato all’origine un nocciolo duro (l’unica eccezione rilevante fra le banche d’interesse nazionale è costituita da BNL). Emerge il sostanziale fallimento del tentativo di pilotare l’evoluzione degli assetti proprietari delle società tramite le privatizzazioni. In termini generali il mercato finanziario è oggi più concentrato in termini di attivi che nel passato, con effetti potenzialmente dirompenti sulla stabilità del sistema (Barucci p.14)). Né le banche privatizzate, o i gruppi bancari di cui sono entrate a far parte, sono mai diventate investitori istituzionali di lungo periodo in imprese industriali. Le loro partecipazioni sono sistematicamente state collegate a situazioni di difficoltà delle imprese partecipate. D’altro canto, le privatizzazioni sono sempre state considerate come strumento per migliorare l’efficienza delle imprese. L’analisi effettuate da Barucci sul complesso delle società finanziarie privatizzate sembra confermare questa tesi. Oltre che indicare un forte incremento del ROE (Return on Equity) l’analisi dei bilanci pre e post privatizzazioni fa emergere la diminuzione del peso delle retribuzioni sul totale dei costi, associato ad un forte aumento dei ricavi. Come era logico attendersi, è peraltro aumentata la 17 remunerazione degli azionisti (il pay out è passato dal 35% al 56%) con una corrispondente diminuzione della patrimonializzazione delle società finanziarie privatizzate (Barucci p.19). La privatizzazione delle banche di proprietà pubblica e le connesse riforme regolamentari dovevano poi portare anche ad un significativo irrobustimento dei mercati finanziari del nostro paese, che avrebbe dovuto trasformarsi da bancocentrico a mercatocentrico. La conclusione che si trae dall’esame dei dati dell’ultime decennio è che le imprese italiane continuano ad essere sottocapitalizzate e dipendenti dal credito bancario, senza modifiche sostanziali rispetto al periodo precedente. Da un lato, l’attività delle banche, privatizzate e non, si è ampliata nei comparti tradizionali di concessione dei crediti alle imprese con un ruolo limitato nello sviluppo dei mercati finanziari; dall’altro, ha assunto particolare rilievo, sulla base degli ultimi dati disponibili, la raccolta tramite l’emissione di obbligazioni bancarie collocate per circa 2/3 presso le famiglie e per1/3 presso gli investitori istituzionali (Barucci p.34). Se le precedenti considerazioni permettono di delineare il ruolo svolto da quelle che erano le banche d’interesse nazionale nel più vasto quadro del sistema bancario nazionale, possiamo qui accennare anche alle caratteristiche assunte dal nostro sistema finanziario dopo le profonde trasformazioni, regolamentari e proprietarie, degli anni ’90. E’ mutata in primo la composizione della ricchezza finanziarie delle famiglie italiane. Confrontando il 1995 con il 2010 ad una diminuzione di circolante e depositi e di obbligazioni e titoli di stato ha corrisposto un aumento dell’incidenza di azioni e di risparmio previdenziale assicurativo. Devono essere sottolineate due peculiarità: l’elevata incidenza delle obbligazioni bancarie, come effetto delle modalità di raccolta seguita dalle banche italiane negli ultimi anni, e il possesso diretto (non intermediato d fondi comuni) di azioni quotate e non quotate (come espressione del controllo famigliare di larga parte del nostro sistema produttivo). Prescindendo dai titoli del debito pubblico, la domanda di attività finanziarie si rivolge in primo luogo al mercato delle obbligazioni a medio e lungo termine. La consistenza delle obbligazioni emesse era pari nel 2010 a 1200 miliardi di euro, originanti per il 92% da banche e società finanziarie e per l’8% da società non finanziarie. In quest’ambito, sottolinea la Banca d’Italia nell’ultima relazione (p.188), circa la metà delle emissioni lorde complessive è riconducibile unicamente a quattro grandi gruppi (ENEL, ENI, Autostrade e Telecom), mentre la quota delle imprese di non grande dimensioni è rimasta contenuta. Se si tiene presente che anche il settore finanziario è di origine essenzialmente pubblica, non si può non sottolineare l’assenza delle imprese originariamente private da uno dei due comparti fondamentali del sistema finanziario; come già osservato, l’indebitamento avviene essenzialmente attraverso il canale bancario, finanziato ormai in misura consistente con obbligazioni, che dovranno essere evidentemente rinnovate alla scadenza. Il secondo mercato rilevante è quello borsistico, al cui sviluppo le riforme degli anni ’90 attribuivano grande importanza. Questo mercato si è sviluppato negli ultimi venti anni, anche se violente oscillazioni dei corsi ne hanno fortemente ridotto le dimensioni in termini del rapporto fra capitalizzazione delle società quotate e pil: partendo dal 13%, un valore decisamente esiguo, del 1991 si è saliti al 70% nel 2000, il massimo, per poi ridiscendere al 27% del 2010, prima dell’ulteriore caduta nel 2011 (Barucci p.42). A ciò ha corrisposto un modesto aumento del numero delle società quotate (da 266 nel 1990 a 297 nel 2010). Pur in vicende caratterizzate da violente oscillazioni, lo sviluppo del mercato azionario italiano ha tratto essenziale alimento dalle privatizzazioni. In termini di capitalizzazione della borsa italiana a fine 2010 oltre il 18 61% era rappresentato da società privatizzate, comprendendo anche le imprese esterne al gruppo IRI (Barucci p.42). In questo quadro deve essere infine ricordato che le privatizzazioni hanno significativamente contribuito alla diffusione del possesso azionario fra i risparmiatori italiani, come implicitamente dimostrato dai dati relativi ai mutamenti nella composizione delle attività finanziarie verificatisi negli ultimi due decenni (Barucci p.48). A conclusione di questo paragrafo, si deve sottolineare che ogni valutazione degli effetti della privatizzazione delle banche d’interesse nazionale deve essere inserita nel più vasto quadro delle trasformazioni, non solo riferite agli assetti proprietari, verificatisi nel nostro sistema finanziario, che a loro volta riflettevano quanto era già avvenuto nei paesi più avanzati. A ciò si aggiunga che nel momento in cui veniva impostato il programma di trasformazione, esisteva una sorta di consenso universale sulle caratteristiche di un sistema finanziario ottimale, che doveva essere despecializzato e regolato in maniera certamente non rigida. L’Italia ha adottato quel modello con cautela e con i tempi necessari per introdurre modifiche radicali in assetti consolidati; oggi si sarebbe probabilmente più cauti nell’imitazione e meno acritici nell’interpretazione delle esperienze altrui. Guardando ai risultati, è stato innescato un processo di concentrazione di banche, forse superiore a quello che era atteso. E’ stato registrato anche un significativo recupero di efficienza, come implicito nella scelta di privatizzazione. I problemi che oggi deve affrontare il sistema bancario, certamente ardui, non sono riconducibili al processo di privatizzazione in quanto tale, ma riflettono difficoltà di carattere generale, nazionali e internazionali Non si può negare tuttavia che alcuni degli obiettivi delle riforme degli anni ’90 non sono stati raggiunti, soprattutto sul fronte dello sviluppo dei mercati finanziari e del coinvolgimento di imprese che non venissero dalla proprietà pubblica. Nell’opinione di Barucci (p.4) l’azione combinata di privatizzazioni e liberalizzazioni ha portato ad un’espansione dell’attività bancaria senza lo sviluppo dei mercati finanziari che ci si attendeva: il ruolo del mercato (azionario e del debito), degli investitori istituzionali rimane limitato mentre cresce notevolmente –in controtendenza con ciò che avviene in Europa‐ il peso del debito bancari e delle obbligazioni bancarie nei bilanci delle aziende e delle famiglie, rispettivamente. Gli effetti delle privatizzazioni. Il settore delle telecomunicazioni. Il settore delle telecomunicazioni merita particolare attenzione, sia perché ha rappresentato la più consistente fonte d’introiti nel’ambito delle dismissioni del gruppo IRI, sia perché costituisce una componente di grande rilievo nella struttura industriale di un paese. Infatti Telecom Italia, l’impresa oggetto dopo numerose aggregazioni di privatizzazione integrale, copriva e copre un’area di attività che include grandi infrastrutture di rete ad alto contenuto innovativo e un manifatturiero di alta tecnologia. Si aggiunga che in questo settore,a differenza di altri, il nostro Paese ha accumulato nella sua storia un patrimonio tecnologico non trascurabile (Mariotti p.7). Il processo di privatizzazione di Telecom è derivato sia da una sollecitazione di carattere generale della Commissione Europea (che riteneva correttamente che la telefonia vocale fosse un comparto suscettibile di liberalizzazione) sia dall’accordo Andreatta–Van Miert che, imponendo un drastico ridimensionamento del debito del gruppo IRI, di fatto richiedeva la dismissione di Telecom. 19 Riflettendo l’opinione allora largamente diffusa che i gruppi industriali privati fossero in grado di subentrare senza particolari difficoltà al management pubblico, si procedette alla dismissione, da parte del Ministero del Tesoro, con un’offerta pubblica di vendita integrata dalla formazione di un nocciolo duro aperto ai maggiori esponenti del capitalismo privato e da una golden share attribuita al Governo. Di fatto il nocciolo duro risultò essere di dimensioni a dir poco esigue, essendo pari a meno del 7% del capitale. Questa situazione di strutturale instabilità fu la premessa per quattro cambi del gruppo di controllo nel giro di pochi anni. A partire dal 2007 il controllo fa capo ad alcune società finanziarie e assicurative italiane e straniere e all’operatore telefonico spagnolo. Ad ulteriore dimostrazione del fatto che in Italia le privatizzazioni e le vicende che ne seguirono sono avvenute al di fuori di ogni disegno di politica industriale, possiamo qui ricordare che anche in presenza di comportamenti non del tutto trasparenti il Governo non esercitò mai i poteri riconducibili alla golden share (Mariotti p.9). L’esito fondamentale di questi passaggi di proprietà è stato, come sottolinea Mariotti, la formazione di un grosso debito in capo alla società, che ha condizionato fortemente le strategie di Telecom. Rinviando per un’analisi dettagliata a Mariotti, per la straordinaria evoluzione tecnologica degli ultimi decenni e per i processi di liberalizzazione che ne sono conseguiti, i mercati dei singoli paesi si sono aperti inducendo, anche per l’effetto dell’ingresso di nuove imprese, da parte dei vecchi monopolisti nazionali o la ricerca di una diversa composizioni dei ricavi o l’espansione su nuovi mercati, sorretta da forti investimenti in ricerca. Per quanto riguarda il primo punto, con una quota di mercato pari al 36%, i ricavi della Telecom da telefonia mobile, particolarmente diffusa in Italia, sono aumentati progressivamente fino a superare nel 2003 quelli da telefonia fissa, dove peraltro la quota di mercato dell’impresa nazionale, pari al 64%, è più difficile da erodere; sono invece inferiori alla media europea le connessioni in banda larga. Con la presenza sul mercato e la struttura dei ricavi prima descritta, nel 2009, la redditività operativa di Telecom è stata ampiamente soddisfacente (Mariotti p.16) in termini assoluti e relativi, anche e forse soprattutto per una forte riduzione del numero dei dipendenti (da 126000 nel 1997 a 74000 nel 2009). Venendo agli aspetti problematici della situazione della Telecom, se paragonata a quella dei competitori europei, la crescita è stata tuttavia molto modesta; tutti i competitori sono al contrario cresciuti, là dove i dati sono comparabili, a tassi significativamente superiori. Nelle parole di Mariotti la spiegazione, della mancata crescita di Telecom relativamente agli altri competitors e della drastica riduzione dell’occupazione, oltre che dalla forte dipendenza dalla telefonia fissa nella struttura dei ricavi, deve essere ricercata nell’evoluzione della sua struttura finanziaria, modificata profondamente dai leveraged buyouts e dai cambi di proprietà avvenuti in pochi anni. Il debito è cresciuto significativamente, determinando scelte di disinvestimento e di razionalizzazione nella struttura dei costi (p.18). I dati dimostrano altresì che è stato fatto un uso del debito diverso da quello degli altri operatori, per questi ultimi strumento di finanziamento della crescita, per Telecom vincolo. A ciò si è aggiunto il fatto che le spese in conto capitale sono state depresse, oltre che dall’alto livello del debito, anche dall’elevata quota di utili distribuiti sotto forma di dividendi: in tutto il periodo successivo alla privatizzazione la percentuale di utile netto reinvestito, dopo la distribuzione dei dividendi, è stato pari alla modesta percentuale del 20%. Indebitamento e alto livello dei dividendi, assieme all’instabilità proprietaria e gestionale, hanno così imposto scelte che hanno segnato profondamente l’evoluzione della società in molte componenti del suo patrimonio industriale e tecnologico. 20 E’ stata infatti ridimensionata la presenza internazionale della società, rinunciando all’ambizione di conquistare un ruolo di operatore globale, assunto ad obiettivo nel periodo pre‐privatizzazione. Oggi Telecom è significativamente presente solo in Sud America, dove peraltro opera il suo maggiore azionista. L’incidenza del mercato domestico sul fatturato netto per i grandi operatori europei dei servizi di telecomunicazione sintetizza la situazione. Telecom ottiene dal mercato domestico l’80% del suo fatturato contro una percentuale del 45% di Deutsche e France Telecom (Mariotti p.21). Sempre per effetto di una struttura finanziaria fortemente squilibrata, Telecom ha ridotto negli ultimi anni i suoi investimenti nella telefonia mobile, pur rimanendo stabile quelli nella telefonia fissa per effetto della diffusione di Internet. In questo quadro sono stati sospesi due ambiziosi progetti d’investimento avviati prima della privatizzazione che avrebbero collocato Telecom in una posizione di potenziale rilievo a livello internazionale nelle nuove infrastrutture di telecomunicazione, sia nella banda larga che nella connettività senza cavi (Mariotti 24). Nello stesso tempo è stata drasticamente ridimensionata l’attività di Ricerca e Sviluppo all’interno del gruppo. Oltre al ridimensionamento degli organici, si è verificato uno spostamento delle risorse verso la ricerca ad orientamento più applicato, centrata sugli aspetti industriali. I brevetti depositati sono fortemente diminuiti negli ultimi anni. Dopo vicende che a prima vista non depongono a favore della lungimiranza della classe imprenditoriale italiana, si è poi proceduto al sostanziale smantellamento o al trasferimento ad operatori esteri delle attività di Italtel, un produttore manifatturiero di apparati e sistemi di telecomunicazione. A questo punto non possiamo che riprendere le conclusioni di Mariotti. L’esperienza della privatizzazione di Telecom ha mostrato come una coalizione fondata sulla composizione di interessi industriali, finanziari e del management non ha prodotto gli effetti benefici, in genere attribuiti al mutamento dell’assetto proprietario. In particolare i gruppi di controllo che si sono succeduti all’inizio di questo secolo sembravano più interessati al conseguimento di vantaggi finanziari di breve periodo più che alla realizzazioni di obiettivi strategici di un settore fondamentale per lo sviluppo del paese (Mariotti p.30) . D’altro canto il recupero di efficienza aziendale degli ultimi anni non sembra preludere alla ripresa di un ruolo lato sensu propulsivo di Telecom. Le conseguenze negative di questa vicenda si riflettono in primo luogo nella contrazione degli investimenti , che ha fortemente danneggiato l’industria nazionale degli apparati e dei sistemi di telecomunicazione. Si deve ancora una volta sottolineare che alla riduzione degli investimenti ha fortemente contribuito la crescita dell’indebitamento anche per vicende non collegate all’andamento aziendale. In secondo luogo, l’Italia ha accumulato, con effetti che si produrranno nel tempo, ritardi nella creazione di un’adeguata infrastruttura di rete: qui riemergono responsabilità pubbliche riconducibili al fondo all’assenza di ogni visione di politica industriale. Inoltre, sono stati ridimensionate strutture di ricerca di altissima qualificazione anche a livello internazionale. Più in generale le grandi imprese come Telecom Italia sono stati poli strategici attorno cui si sono condensate e sviluppate competenze di alto livello sotto il profilo tecnologico e gestionale….Le privatizzazioni in questi settori avrebbero richiesto che si tenesse in considerazione il rilievo che l’interesse collettivo manteneva nell’impresa collocata a investitori privati, rappresentato dalla necessità di tutelarle competenze stratificatesi nel tempo, le quali, per il potenziale intrinseco di esternalità positive, costituivano un patrimonio collettivo, e non della singola impresa (Mariotti p.32). 21 Al contrario, il punto di avvio della privatizzazione di Telecom è stata la definizione sostanzialmente arbitraria di un obiettivo di riduzione dell’indebitamento dell’IRI (prescindendo da ogni altra considerazione di natura vagamente strutturale), cui è seguito un atteggiamento di benign neglect da parte del detentore della golden share nei confronti di autentiche scorribande finanziarie. Gli effetti delle privatizzazioni. Le autostrade L’ultimo caso di privatizzazione meritevole di esame è costituito dalla Società Autostrade, operante in un settore in cui la natura di monopolio naturale è del tutto dominante, non risultando in linea generale opportuna dal punto di vista economico la duplicazione degli investimenti infrastrutturali nella stessa area geografica. Costituita dall’IRI nel 1983 come Gruppo Autostrade, la società era stata oggetto di parziale privatizzazione per il 13% del capitale, e successiva quotazione in borsa, già nel 1986. Dopo alcune importanti modifiche del regime giuridico delle società concessionaria (con cui si cancellava la garanzia statale sulle obbligazioni contratte e l’obbligo di trasferire allo stato l’utile eccedente un certo limite, sostituendolo con un canone di concessione proporzionale ai ricavi), l’abrogazione dell’obbligo di mantenere in capo all’IRI la maggioranza delle azioni aprì la strada alla privatizzazione totale di Autostrade (in conformità fra l’altro ad una delle clausole dell’accordo Andreatta‐Van Miert). La privatizzazione avvenne a fine 1999, con la collocazione sul mercato dell’87% del capitale azionario sulla base di una procedura mista: il 56% fu sottoscritto da risparmiatori individuale e da investitori istituzionali ad un prezzo per azione di 6,75 euro, mentre il restante 29,7% fu attribuito, sulla base del pagamento di un premio di controllo pari al 5% del prezzo, ad un investitore privato destinato a diventare l’azionista di controllo. Si noti che all’esito di questa operazione il gruppo Autostrade ha la gestione di circa il 50% della rete, mentre il 18% è sotto il diretto controllo dell’Anas, ormai trasformata in società per azioni; la parte residua è in capo o ad altri privati o ad enti locali (D’Antoni p.21). Quando si attribuisce ai privati la gestione di un monopolio naturale devono essere definite le condizioni operative, riguardanti in particolare le modalità di determinazione e di variazione delle tariffe (con la connessa durata della concessione), gli impegni riguardanti gli investimenti e l’individuazione o la creazione dell’autorità preposta al controllo del rispetto degli impegni assunti dal monopolista privato. Per quanto riguarda la modalità di determinazione delle tariffe la letteratura tende a privilegiare il metodo del price cap. Sulla base di questa modalità di determinazione delle tariffe, in un arco di tempo pluriennale, nel nostro caso 5 anni, la variazione applicata all’insieme dei servizi delle imprese (ponderate per le rispettive quantità) non avrebbe dovuto superare il tasso di inflazione programmato, corretto per un valore che avrebbe dovuto incorporare le previsioni di riduzione del costo medio unitario di fornitura dei servizi per effetto di fattori non dipendenti dall’attività del gestore e aumentato di una componente che avrebbe dovuto quantificare gli incrementi di qualità realizzati nel periodo di riferimento (D’Antoni). Com’è dettagliatamente spiegato nel saggio di D’Antoni, il price cap è una forma di regolamentazione incentivante; infatti, il livello medio dei prezzi o dei ricavi evolve nel tempo secondo una formula predeterminata, senza che intervengano modifiche discrezionali del regolatore, per un periodo sufficientemente lungo, così da trasferire sull’impresa regolata gli effetti delle decisioni di gestione e incentivare aumenti di efficienza produttiva (D’Antoni 11). In altri termini. gli incrementi di efficienza tendono a trasformarsi in incrementi di profitto dell’impresa regolamentata. Nel quinquennio 1998‐2002 i tassi di incremento annuale delle tariffe sono stati sistematicamente superiori al tasso d’inflazione programmato per due motivi. L’elemento che avrebbe dovuto sintetizzare l’influenza 22 dei fattori esogeni è stato posto pari a 0 per tutto il periodo. Se si tiene presente che per le reti autostradali l’elemento per larga parte esogeno alle scelte del gestore è costituito dal volume del traffico e che in quegli anni il traffico autostradale è risultato essere superiore a quello atteso e incorporato nelle concessioni, l’azzeramento di questo elemento ha fatto sì che gli incrementi tariffari ammessi non siano stati corretti dai fattori che avrebbero dovuto operare in senso riduttivo (fra i quali appunto il volume del traffico superiore alle attese). E’ stato peraltro riconosciuto un miglioramento della qualità del servizio, misurata da un indice che prende in considerazione lo stato di pavimentazione delle strade e il numero di incidenti rapportato al volume del traffico. Non è sorprendente che i risultati di bilancio siano stati nel periodo da noi esaminato decisamente brillanti: nel 2002, ma anche per gli altri anni valgono le stesse considerazioni, il rapporto fra margine operativo lordo e ricavi totali è stato superiore al 50%, con un utile netto intorno al 25% (D’Antoni p.26). Nel tentativo di migliorare il sistema di regolazione, alla fine del primo periodo regolatorio nel 2002, si procedette ad una revisione dei criteri di determinazione delle tariffe. Più precisamente, si voleva e doveva, sulla base dei principi ispiratori del price cap correggere divergenze ingiustificate fra l’andamento tariffario e l’evoluzione dei costi al fine di riportare i profitti al livello normale o, se si preferisce, di riassorbire parte delle rendite da monopolio. Nonostante le modifiche introdotte nei criteri di determinazione delle tariffe attraverso la riformulazione del price cap, gli utili del gruppo si mantennero sugli stessi livelli assoluti del periodo precedente (D’Antoni p.27). A testimonianza del fatto che è difficile trovare una soluzione stabile a problemi difficili (qual è il controllo dei monopoli naturali dati in gestione ai privati) attraverso l’applicazione di formule apparentemente semplici, il quadro regolamentare ha subito ulteriori modifiche negli ultimi anni: attualmente si applica una convenzione stipulata fra Autostrade ed Anas, che prevede incrementi tariffari pari al 70% dell’inflazione effettiva cui si aggiungono incrementi per nuove infrastrutture legati all’effettivo avanzamento dei lavori. L’ultimo riferimento porta al secondo problema emerso nell’esperienza di privatizzazione di Autostrade riguardante la realizzazione degli investimenti. A fine 2009 gli investimenti effettuati risultavano essere 3,1 miliardi a fronte dei 6,5 previsti dal piano 1997 e successivamente aggiornati. Per quanto riguarda i nuovi investimenti previsti dall’accordo del 2002, a fine 2009 erano stati realizzati investimenti per 964 euro, a fronte di una previsione iniziale di 4,5 miliardi, successivamente aggiornata a 7,1 miliardi. (D’Antoni p.31). Come sottolinea lo stesso D’Antoni, inerzie burocratiche e ritardi nella concessione delle autorizzazioni sono causa determinante del ritardo nelle realizzazioni infrastrutturali, ma la letteratura sottolinea anche che in assenza di un adeguato quadro regolatorio (effettivamente applicato) può risultare molto attenuato l’incentivo dei monopoli naturali privati ad effettuare gli investimenti nella misura appropriata; le vicende tariffarie prima descritte, che hanno comunque garantito adeguati profitti, sembrano confermare questa ipotesi. Risultati coerenti con le aspettative della collettività possono essere ottenuti attribuendo un ruolo pregnante di command and control alle pubbliche autorità, uscendo peraltro per questa via dalla logica che ha indotto a privatizzare anche monopoli naturali. Non si deve poi dimenticare che la privatizzazione di Autostrade e la sua successiva attività nell’ambito di un grande gruppo privato è avvenuto senza che fosse istituita una specifica autorità di controllo (almeno fino all’approvazione dei provvedimenti Salva Italia del dicembre 2011): al termine di lunghe diatribe, il compito di definire le tariffe autostradali è stato affidato all’Anas; in questo modo è stato peraltro creato un evidente conflitto d’interessi, essendo l’Anas stessa gestore di una rilevante quota della nostra rete autostradale. 23 Nella parte conclusiva del suo saggio D’Antoni tenta, con tutte le necessarie cautele, di valutare gli effetti della privatizzazione di Autostrade sul bilancio pubblico, confrontando gli utili ottenuti dalla società privatizzata con i minori oneri a carico del bilancio dello Stato derivanti dalla diminuzione del debito. L’ipotesi, o il giudizio di valore, retrostante è che, prima di ogni ulteriore considerazione, la privatizzazione si giustifica solo se il prezzo di vendita (da cui derivano i minori oneri finanziari) è superiore al flusso di profitti attualizzati o, in modo equivalente, se i minori oneri per interessi sono più elevati del flusso di profitti cui si rinuncia per effetto della dismissione dell’impresa pubblica. Nel caso di Autostrade gli utili di bilancio sono risultati sistematicamente superiori ai minori oneri per interessi (D’Antoni p.36). Tutto ciò chiama in causa l’efficacia del meccanismo regolatorio prima descritto che non ha impedito la formazione di extraprofitti tratti dalla gestione privata di un monopolio naturale. Più precisamente, in un settore in cui sembra difficile ipotizzare grandi guadagni di efficienza per effetti di innovazioni tecnologiche o di riorganizzazione del lavoro, sarebbe stato più opportuno introdurre schemi di remunerazione fondati sul capitale effettivamente impiegato, incentivando per questa via la realizzazione di investimenti in un paese caratterizzato da un rilevante deficit infrastrutturale (secondo il modello ampiamente utilizzato negli Stati Uniti); le ultime modifiche regolamentari sembrano muoversi in questo senso con un apprezzabile effetto di accelerazione degli investimenti. E’ banale osservare che nelle privatizzazioni dovrebbe essere perseguito anche l’obiettivo di evitare ingiustificati aumenti di oneri per l’utenza. Si tratterebbe di una forma di tassazione non trasparente, doppiamente ingiustificata se non si trasformasse in una maggiore dotazione infrastrutturale. Conclusioni Qualsiasi tentativo di valutazione del processo di privatizzazione dell’IRI e della sua successiva liquidazione deve essere adeguatamente articolato: da un lato, appariva evidente all’inizio degli anni ’90 l’esigenza di una profonda riorganizzazione dell’istituto, dall’altro, ci sembra di poter affermare che il processo stesso non sia stato sempre condotto con la necessaria consapevolezza. Il processo di privatizzazione era necessario per i colpevoli ritardi accumulati nella gestione di alcune crisi settoriali, come quella siderurgica, che avevano gravemente minato la struttura patrimoniale dell’istituto. Il processo era necessario perché comportamenti inappropriati, essenzialmente in enti pubblici esterni all’IRI, avevano di fatto coinvolto l’istituto stesso, soprattutto in termini di acquiescenza al potere politico. Il processo era necessario perché l’integrazione economica internazionale, reale e finanziaria, imponeva il superamento di alcune rigidità tendenzialmente riconoscibili nelle imprese pubbliche. Se l’obiettivo di riorganizzazione e di riqualificazione dell’istituto era sia improrogabile, sia ampiamente condivisibile, non necessariamente l’esito finale avrebbe dovuto essere quello che si è in concreto realizzato. E’ evidente che la crisi del 1992, al di là della sua effettiva gravità (forse sopravvalutata) è stata l’occasione per affermare una linea di politica economica non solo tendente alla stabilizzazione finanziaria, ma anche foriera di distorsioni di lungo periodo nel funzionamento del nostro sistema economico. E’ poi evidente che, venendo all’oggetto di questo volume, allora (e non sarebbe stata né la prima, né l’ultima volta nella nostra storia) si dovevano tranquillizzare i mercati finanziari internazionali, che paventavano un nostro default per i debiti delle imprese pubbliche. Di qui nasce il peculiare accordo Andreatta‐Van Miert che ha costituito di fatto una sorta di commissariamento del nostro paese, non solo per i vincoli che poneva ma 24 anche per le modalità con cui questi vincoli avrebbero dovuto essere soddisfatti. Al riguardo, Cavazzuti a conclusione del suo saggio (p.66) scrive che oggi appare verosimile che l’IRI abbia svolto il ruolo sacrificale sull’altare dei mercati finanziari per consentire l’obiettivo dell’entrata dell’Italia nella Unione Monetaria Europea. In questo contesto, in cui le motivazioni di ordine finanziario (più o meno correttamente interpretate) precludevano ogni altra considerazione, venne a mancare ogni discorso di politica industriale o, se si vuole, di diverso orientamento dell’impresa pubblica, che pure era stato prefigurato da Prodi nel 1988. Di fatto tutto il problema delle privatizzazioni fu ricondotto alle pretese virtù salvifiche del mutamento degli assetti proprietari, prescindendo dalla definizione di un appropriato quadro regolatorio e dall’individuazione dei settori portanti per la competitività del paese. Gli effetti di questo atteggiamento fideistico furono poi aggravati, nell’intero arco temporale da noi considerato, dalla debolezza propositiva e operativa della grande impresa privata che, come non aveva valorizzato le conseguenze finanziarie della nazionalizzazione dell’industria elettrica, così non è riuscita a cogliere le potenzialità implicite nel processo di privatizzazione del gruppo IRI. Ulteriori elementi di riflessione sono emersi dall’analisi di tre settori cruciali coinvolti nelle privatizzazioni. Il settore finanziario nella sua totalità, e per quel che riguarda l’IRI nella componente bancaria, è stato oggetto di una profonda trasformazione tendente ad introdurre nel nostro paese un modello, che sulla base delle esperienze degli altri paesi sembrava ottimale. Da questo punto di vista le privatizzazioni del settore, pur essendo state fra le imprese importanti le prime, sono state inquadrate in un disegno coerente. E’ vero che le successive vicende hanno dimostrato che il cosiddetto modello ottimale non era poi così robusto e che certi apparenti ritardi italiani nel finanziamento dei privati hanno evitato eccessive turbolenze, almeno fino al 2009, ma tutto ciò non può essere attribuito alle privatizzazioni in quanto tali. Piuttosto ci si dovrebbe interrogare sulle cause della presenza in ultima analisi solo transitoria di grandi operatori internazionali nei nostri maggiori istituti e sul fatto che il controllo azionario delle nostre maggiori banche sia garantito dalla presenza di entità di dubbia natura privata quali sono le fondazioni bancarie. Paradossalmente, si potrebbe sostenere che un processo di privatizzazione pur condotto con oculatezza, oltre a determinare una forte concentrazione di mercato e una presenza solo temporanea di operatori esteri nelle banche già IRI, ha portato ad assetti di controllo per certi versi pubblici. La privatizzazione del settore delle telecomunicazioni costituisce un caso probabilmente esemplare di comportamenti in ultima analisi lesivi dell’interesse nazionale. L’assenza di ogni strategia, se non quella di rispettare gli accordi Andreatta‐Van Miert, l’incapacità pubblica e privata di valutare le esternalità prodotte da una grande impresa operante in un settore cruciale, l’indifferenza della pubblica autorità di fronte a radicali indebolimenti patrimoniali dell’impresa ormai privatizzata ma ancora soggetta a golden share, costituiscono gli elementi determinanti di un processo che ha portato ad attribuire il ruolo di azionista di riferimento al concorrente spagnolo. Se i grandi istituti stranieri sono prima entrati e poi usciti dai gruppi di cui fanno parte le banche ex IRI, nel caso delle Telecom è stato ottenuto il risultato al momento opposto con l’attribuzione di un ruolo essenziale ad un potenziale concorrente straniero. Infine, la privatizzazione di Autostrade rappresenta un esempio non frequente di affidamento a privati della gestione di una grande rete infrastrutturale già esistente, ma di cui si prevede lo sviluppo. Al di là di pur rilevanti carenze regolamentari, la vicenda dimostra la difficoltà da parte dell’operatore pubblico di evitare la formazione di rendite di monopolio privato e di indurre investimenti in conto capitale secondo i tempi e le modalità concordate. Un’analisi storica delle ragioni che hanno portato a cavallo fra il XIX e il XX secolo al superamento del regime della concessione a privati per le grandi infrastrutture e all’adozione del modello 25 di gestione pubblica non sarebbe stato inutile in questo contesto. A ciò si aggiunga che l’applicazione di criteri di remunerazione che hanno senso solo in settori caratterizzati da rilevanti progressi tecnologici, traducibili in riduzioni di costi, può portare a risultanti socialmente perversi. L’alternativa alla privatizzazione totale delle imprese in sostanziale monopolio naturale, come di quelle cruciali nel panorama industriale di un paese, è indicata da Mariotti (p.35), le cui parole possono essere assunte a conclusione di questa introduzione: qualora si guardi alla privatizzazione degli ex‐settori pubblici non in termini di destino delle singole imprese, ma di effetti sulla competitività di Paese, è dunque che i percorsi più efficaci sono stati quelli in cui alla privatizzazione si sono affiancate azioni di accompagnamento da parte dello Stato con un commitment ‐esplicito o implicito, poco rileva‐ verso la crescita e l’affermazione internazionale dell’impresa. Al di fuori di questa prospettiva, le privatizzazioni, lasciate al mercato, hanno spesso finito per indebolire il sistema economico nazionale. 26