In politica estera il vantaggio di Obama
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In politica estera il vantaggio di Obama
esteri In politica estera il vantaggio di Obama di Roberto Menotti Coordinatore scientifico delle attività internazionali dell’Aspen institute Italia e di Aspenia Sono almeno due i settori nei quali l’amministrazione in carica sarebbe realmente vulnerabile, se non fosse che i repubblicani lo sono ancora di più: i negoziati sulle misure contro i mutamenti climatici e i nuovi accordi sulla liberalizzazione del commercio. A questi punti deboli dell’amministrazione si potrebbero aggiungere l’assenza di progressi nei negoziati di pace israelo-palestinese e le pesanti incertezze che gravano sul disimpegno militare dall’Afghanistan. Come in altri casi, tuttavia, l’opinione pubblica è prevalentemente con il presidente, se non altro per mancanza di opzioni alternative nell’ottica di un ragionevole contenimento dei danni Un indice affidabile delle probabili differenze in politica estera tra i due candidati alla presidenza americana è la scelta compiuta da Mitt Romney su come attaccare l’amministrazione Obama. Il dilemma per lo sfidante repubblicano è che il presidente in carica non è molto vulnerabile sul terreno della politica estera, e fare grandi promesse presenta dei rischi, visto che il vincitore finisce per pagare, presto o tardi, un eccesso di aspettative di novità create durante la campagna. Questo rischio sta già emergendo, come nel caso della Cina: Romney ha accusato Obama di un atteggiamento accondiscendente soprattutto sulle questioni valutarie, impegnandosi a dichiarare il governo di Pechino un “currency manipulator”. In effetti, pur mantenendo toni pacati sulle divergenze economiche, l’amministrazione in carica ha preso misure di alto profilo sul piano della sicurezza per rispondere al crescente attivismo cinese nel Pacifico, affiancato a un vero riarmo navale e missilistico. Washington ha prestato mag54 giore attenzione all’equilibrio di potenza regionale, consolidando e ampliando la sua rete di alleanze a raggiera. Con l’avvicinarsi della scadenza di novembre, è probabile quindi che i consiglieri del candidato repubblicano gli suggeriscano una linea più cauta sull’economia e magari più chiara sulla sicurezza, moderando così gli attacchi contro Barack Obama. Questo vale, del resto, per altre questioni delicate. Sul nucleare iraniano, Romney è sembrato aggressivo nella retorica ma vago nello spiegare cosa farebbe se fosse eletto presidente. Con il recente inasprimento delle sanzioni, l’amministrazione Obama ha compattato il fronte delle sanzioni, e nessuna opzione è preclusa. Nella stessa regione, le rivolte arabe hanno posto una sfida anche intellettuale a cui Obama ha reagito con una scelta di massima prudenza e di coinvolgimento quasi soltanto indiretto. L’eccezione parziale è stata l’operazione militare della Nato in Libia, ma il test più impegnativo è la gravissima crisi siriana, tuttora in corso: la Siria è un vero crocevia geopolitico e non si presta ad alcuna semplificazione da slogan elettorale. Tra l’altro, la vicenda siriana complica un quadro regionale che era già intricato quando si incentrava sull’Iran, coinvolgendo direttamente anche la Turchia, i Paesi arabi del Golfo, e in certa misura la Cina e la Russia, la cui cooperazione rimane cruciale ai fini di quel largo consenso internazionale che può fornire legittimità politica e legale a un’eventuale azione di forza contro l’Iran (come insegna l’Iraq). Sul dossier Russia, Romney ha indicato addirittura il Paese come il “nemico geopolitico n.1” dell’America – davvero un’iperbole, pur con tutte le legittime riserve sulla lunga vicenda politica di Vladimir Putin. In realtà, formiche 73 — agosto/settembre 2012 casa dem_I papabili per il post-Hillary Si sono incrociati nella campagna presidenziale del 2004, quando uno era il candidato alla Casa Bianca per i democratici e l’altra la sua consigliera di politica estera: nel 2013, in caso di vittoria di Obama, John F. Kerry, presidente della commissione Esteri del Senato, e Susan Rice, ambasciatrice Usa alle Nazioni unite, potrebbero contendersi il dipartimento di Stato (la Clinton ha infatti preannunciato il suo ritiro dopo le elezioni). Entrambi espressione dell’area atlantica del Paese, da cui tradizionalmente emergono i maggiori esperti, strateghi ed interpreti della diplomazia americana non va dimenticata l’acquiescenza di Mosca sul voto all’Onu per la Libia (un mandato che la Nato interpretò in modo estensivo), che ha poi reso più difficile la collaborazione russa sulla vicenda siriana. Dopo l’accordo Start 2 sulle armi nucleari strategiche, non si intravedono ricette semplici per aumentare rapidamente il grado di cooperazione bilaterale, soprattutto alla luce del persistente potere negoziale che la Russia deriva dalle rendite energetiche. Sullo sfondo rimane infine la questione complessiva del contenimento delle spese per la difesa: qui Romney è schiacciato dalle divisioni nel suo partito tra “conservatori fiscali” e fautori della priorità assoluta della sicurezza nazionale. Sarebbe arduo, anche per una squadra presidenziale repubblicana, sostenere che la difesa sia esentata da un’attenta valutazione di bilancio in una fase economicamente delicata come quella che si prospetta nei prossimi quattro anni, tra il cosiddetto “baratro fiscale” e un tasso di disoccupazione sopra l’8%. Sono almeno due i settori di policy nei quali l’amministrazione in carica sarebbe realmente vulnerabile, se non fosse che i repubblicani lo sono ancora di più: i negoziati sulle misure contro i mutamenti climatici, e i nuovi accordi sulla liberalizzazione del commercio. Il primo è un tema sul quale Obama ha suscitato grandi aspettative, puntando alla trasformazione “verde” dell’economia americana: il problema è che qualunque misura efficace dipende dal consenso dei maggiori consumatori di energia come Cina e India. Il fallimento del vertice di Copenhagen di fine 2009 e la crisi economica globale hanno inferto un colpo durissimo alle prospettive di un accordo multilaterale, e Obama ha intanto ridimensionato le ambizioni a livello nazionale. In ogni caso, i repubblicani non sono in grado di attaccare il presidente per scarso impegno su un obiettivo che essi stessi non condividono, visto il loro radicato scetticismo su strategie dirette e costose per contrastare il degrado ambientale. In secondo luogo, Obama ha deluso alcuni dei suoi stessi sostenitori per aver di fatto rinunciato a rilanciare il Doha Round sul commercio internazionale: anche questo settore, però, è politicamente “radioattivo” per Mitt Romney, visto che la concorrenza delle economie a basso costo del lavoro è un tema ricorrente della politica economica conservatrice e preoccupa molti elettori. A questi punti deboli dell’amministrazione si potrebbe aggiungere l’assenza di progressi nei negoziati di pace israelo-palestinese (con un tentativo maldestro solo nel 2009-10) e le pesanti incertezze che gravano sul disimpegno militare dall’Afghanistan. Come in altri casi, tuttavia, l’opinione pubblica è prevalentemente con il presidente, se non altro per mancanza di opzioni alternative nell’ottica di un ragionevole contenimenti dei danni. In sostanza, Obama non è inattaccabile sul piano della politica estera, ma l’accusa di scarsa fermezza non basterà a spostare voti a favore di Romney: la sistematica cautela che ha caratterizzato l’azione internazionale dell’America negli ultimi quattro anni sembra essere apprezzata dagli elettori centristi. Tranne che per qualche concessione retorica al multilateralismo e all’ambientalismo, Obama ha fatto scelte che possono essere condivise da un presidente repubblicano moderato. Ciò suggerisce, in ultima analisi, che le differenze tra i due candidati tenderanno a ridursi a ridosso del 6 novembre, e che comunque saranno assai limitate alla prova dei fatti. 55