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Dove si racconta di una festa romana, e dell’incontro di un
giovane nostalgico con una ragazza infortunata.
nella notte di natale del 1559, dopo quattro mesi di convulso conclave, fu eletto papa Giovanni Luigi Angelo de’
Medici. Prese il nome di Pio IV, quel Pio scelto per rilevare la propria mitezza rispetto al predecessore, l’intransigente Gian Pietro Carafa, Paolo IV. Ci voleva poco per far
meglio, fra l’altro Paolo IV aveva rafforzato l’Inquisizione,
dando anche nascita a quell’Index Librorum Prohibitorum
il cui principio sarebbe sopravvissuto per secoli; e con la
bolla Cum Nimis Absurdum aveva istituito a Roma e in
altre città il ghetto per gli ebrei, separandoli totalmente dai
cristiani e imponendo loro numerose restrizioni, anche l’obbligo di distinguersi da questi portando abito e copricapo
particolari. E si era pure inimicato tutte le monarchie d’Europa verso le quali aveva manifestato la propria ostilità anche
in forme ben poco diplomatiche. non c’è allora da stupirsi
se la gioia popolare per la sua morte provocò una vera rivolta, durante la quale fu incendiato il Tribunale dell’Inquisizione e venne distrutta la statua del Pontefice, del quale si impedirono addirittura i solenni funerali. E questo popolo chiese una festa, una grande festa per celebrare il nuovo papa
nell’allegrezza dovuta a sì fausto evento. Pio IV se ne compiacque e consentì.
Il futuro avrebbe confermato una certa moderazione del
nuovo papa: ristabilì la diplomazia e i rapporti con le principali monarchie europee, rifiutando anche di scomunicare
Elisabetta d’Inghilterra; ridusse la severità dell’Inquisizione e temperò le disposizioni sulla segregazione degli ebrei;
e, a seguito dei lavori del Concilio di Trento, ammorbidì
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anche la censura introducendo, in sostituzione dell’Index
Librorum esistente, il più blando Index Tridentinus. Mostrò
inoltre un certo rispetto per le donne, ad esempio investendo della propria autorità Teresa d’Avila. E, senza citare le
grandi opere pubbliche che promosse, va ricordato che alla
sua corte trovò protezione un gran numero di artisti, fra i
quali Michelangelo; e che favorì l’arte della stampa chiamando Paolo Manuzio a Roma. La ripresa del Concilio di
Trento, poi, salvò la chiesa romana almeno nei paesi latini,
se non in quelli nordici. Tuttavia, dimostrò certo lungimiranza e moderazione rispetto al predecessore, ma sempre
entro i limiti dei costumi e della barbarie del tempo.
La festa fu dunque annunciata per il giorno dell’intronizzazione del nuovo Pontefice, nonostante la difficoltà di
assicurarne l’organizzazione e ultimare i preparativi in un
tempo così breve; e il punto culminante sarebbero stati i fuochi d’artificio, due ore dopo il calar del sole. quel 6 gennaio 1, fin dal pomeriggio le strade intorno a Castel Sant’Angelo si animarono di una folla allegra e in cerca di piccoli
piaceri e trasgressioni per sfuggire alla durezza del quotidiano. La gente si accalcava intorno alle bancarelle di lupini, si spostava a sentire il flauto di un pastore venuto con
una pecora a guadagnarsi qualche soldo, o a guardare il calessino tirato da due asinelli con un pennacchio sulla testa
per divertire i bambini. E questi correvano chiassosi fra le
varie attrazioni, delle quali un orso rozzamente ammaestrato era certamente quella che richiamava il maggior numero di curiosi, sia perché inconsueta sia per la paura che
incuteva l’animale, nonostante la relativa obbedienza agli
ordini del padrone e la catena che lo teneva a debita distanza dal pubblico. In bancarelle installate soprattutto lungo il
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ponte, si vendevano poi dolcetti di miele, pani di castagne,
vino annacquato e bibite dolci. non c’era solo il popolino
romano di artigiani e bottegai, ma anche vari religiosi negli
abiti dei loro diversi ordini; e alcuni cavalieri che si facevano strada fra la folla sfoggiando gualdrappe e tenute da
festa. A pomeriggio inoltrato arrivarono anche, precedute
dallo sconquassato rumore delle ruote sul selciato, l’echeggiante scalpitio dei cavalli e le grida dei cocchieri che dovevano farsi largo, diverse carrozze, molte seguite da una
scorta di uno o anche più cavalieri armati. queste si fermavano in qualche punto meno frequentato, col finestrino
laterale rivolto al castello e dal quale i nobili occupanti
avrebbero potuto godersi lo spettacolo senza mescolarsi
alla massa. Ogni tanto delle Guardie Svizzere passavano in
piccolo plotone compatto in mezzo alla gente, che si ritirava aprendo loro un varco e ostentando dei visi distesi e allegri per non suscitare sospetti e magari mettersi nei pasticci. Insomma la festa, nonostante il freddo di quella sera
di gennaio, con il cielo terso e le prime stelle dalla luce tagliente che già s’intravvedevano, era allegra e bonaria. Con
il calar del sole l’attesa si fece impaziente. Gli sguardi si
spingevano verso le strutture di legno per il lancio dei fuochi, costruite in pochi giorni sopra al punto più alto del castello, oltre la statua di San Michele, per scoprire un movimento, un segno di quanto tempo mancasse all’inizio dello
spettacolo.
Fra la folla passeggiava anche Marco, un giovane che
non aveva ancora diciotto anni, dall’aspetto un po’ spilungone più per la corporatura asciutta che per statura. Vestiva modestamente, tuttavia l’impeccabile mantello bruno
che portava, i capelli sciolti quasi di ugual colore ma luccicanti che vi si appoggiavano, e le calzature di cuoio bruno
tanto ben pulite da richiamare i riflessi della capigliatura,
lasciavano intendere una incontestabile cura e risultavano
in una certa riservata eleganza. Era solo, si muoveva con
qualche incertezza, si guardava intorno con curiosità più
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che con sorpresa, senza sentirsi partecipe di quella confusione. Si vedeva alla prima occhiata che veniva da fuori.
Al grande momento dei fuochi non doveva ormai mancare che un’ora, forse meno. Marco pensò che avrebbe
avuto tutto il tempo di allontanarsi e riposare per un po’. Si
avviò così verso la discesa al fiume, quella più vicina al castello per la messa in acqua delle barche, a poche centinaia
di metri dal ponte. I fuochi d’artificio li conosceva bene,
nella sua città ne aveva visti varie volte, senza mai celare
un piccolo orgoglio per il concittadino e omonimo che quei
fuochi li aveva fatti conoscere in occidente. Se era venuto
a questa festa, era proprio per vedere la dimensione che i
romani ne avrebbero data, annunciata come “la più grande
mai vista”, e confrontare con quanto a Venezia si faceva.
In realtà, Marco aveva sì passato la gran parte della sua
giovane vita a Venezia, ma i genitori vi erano venuti dall’entroterra quando era bambino. Vi erano venuti attratti dalle
opportunità di lavoro, e ancor più dalla bellezza della città
e dalla prospettiva di educare i tre figli, di cui Marco era
quello di mezzo, in un ambiente favorevole, illuminato e
tollerante. A Venezia, il padre di nome Francesco ebbe un
lavoro all’Arsenale come fonditore, si distinse per impegno
e abilità, diventò capomastro e guadagnò di che dare una
buona istruzione ai figli; e quando il ragazzo compì quindici anni, trovò per lui un posto di apprendista alla “Tana” 2, o
“Casa del Canevo”, cioè alla corderia dell’Arsenale. questo poteva aprirgli la strada a una carriera piena di prospettive: gli “arsenalotti”, infatti, cioè gli artigiani dell’Arsenale, godevano di diversi vantaggi e privilegi, meritati non
solo per il ruolo che avevano avuto nell’estensione del potere della città grazie ad una capacità di costruzione marittima ineguagliata, ma anche per il loro contributo alla vita
2 “TAnA” VEnIVA DA TAnAI, AnTICO nOME DEL FIuME DOn, DALLE CuI
FOCI S’IMPORTAVA LA CAnAPA PER LA FABBRICAzIOnE DEL CORDAME.
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civile e le realizzazioni al di fuori di quelle del cantiere navale. Per la loro abilità erano, infatti, chiamati a realizzare
la costruzione di carpenterie di chiese e palazzi, come lo
splendido soffitto di Palazzo Ducale. Erano inoltre i guardiani della zecca, ed erano loro a scortare il doge. Marco
iniziò così il suo apprendistato, interessato a imparare i segreti del lavoro, coccolato dalle donne che lavoravano
negli atelier delle corderie e in quelli attigui dove si fabbricavano e riparavano le vele, e stimolato dalla vita del quartiere. Era pieno di colore, popolato da gente di ogni provenienza impegnata in varie attività, fra le quali dominava
ovviamente il commercio.
Due anni dopo e con l’aiuto dello zio Giacomo, uomo
vicino alla chiesa, con tante conoscenze e qualche influenza nella curia romana, e ormai stabilitosi nella città pontificia da molti anni, Messer Francesco mandò il giovane
Marco a Roma per un anno. Chiese allo zio di ospitarlo almeno in un primo tempo, e di trovargli un impiego che gli
lasciasse però del tempo per visitare e conoscere la città. Il
padre si assicurò anche che al suo ritorno Marco ritrovasse
il lavoro all’Arsenale, non più come apprendista ma come
maestranza regolare.
A Roma il ragazzo si mostrò degno della fiducia che in
lui si era riposta, lavorò con disciplina come copista nel laboratorio di un libraio geografo, e prese a girare la città appena aveva qualche ora libera, scoprendone l’architettura,
le statue e i quadri delle chiese, le fontane e le piazze, e sviluppando una buona comprensione delle epoche e degli
stili. La sera, prima che facesse buio, studiava la storia di
Roma sui libri dello zio, che a volte gli consentiva anche di
continuare per un po’ al lume di una lampada a olio; e ben
presto fu in grado di discutere e dialogare con lui di cose e
fatti recenti e dell’antichità. Così, appena arrivato in vista del
castello quel pomeriggio, il suo pensiero andò naturalmente
indietro nel tempo, fantasticando sul mausoleo di Adriano e
sul Pons Aelius, costruito già allora per raggiungere facilmente il monumento dalla riva sinistra. Sapeva anche che le
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due statue dei Santi Pietro e Paolo erano state poste all’estremità del ponte da pochi anni, e da chi 3.
Lo zio Giacomo, infatti, se gli parlava poco del proprio
lavoro nella politica anche per ragioni di riservatezza, conversava con lui moltissimo della storia e dell’arte della città.
Spesso Marco lo trovava noioso per quanti dettagli metteva in ogni suo racconto, ma alla fine era grato di poter apprendere tanto da una persona paziente e di tali conoscenze. ne era così affinata anche la sua sensibilità, e non c’è
dunque da stupirsi se il ragazzo, guardando ora quel ponte,
si stesse dicendo che se altre statue, oltre a quelle dei Santissimi Pietro e Paolo, fossero state poste lungo il ponte
stesso, belle statue di marmo chiaro scolpite da qualcuno
che sapesse dare loro armonia e movimento, queste avrebbero ingentilito la durezza del castello e, per contrasto, reso
ancora più magico quel luogo. A volergli fare un complimento, si sarebbe potuto dire che era in avanti di cent’anni
su Clemente IX 4. Paradossalmente, fu durante questo soggiorno che Marco assimilò in modo più compiuto anche
l’architettura di Venezia, per confronto e per la capacità di
analisi sviluppata.
Per meglio capire la natura del ragazzo, va detto che
quel giorno, più di ogni altra cosa lo aveva incantato soffermare lo sguardo sull’ombra lunga del ponte che il sole
calante proiettava sul fiume, vedere animarsi i parapetti e
le arcate riflessi nell’acqua con guizzi improvvisi al cambia3 LE STATuE DI SAn PIETRO E DI SAn PAOLO FuROnO FATTE COLLOCA1535, DA CLEMEnTE VII, In unO SPIAzzO ChE ERA STATO APERTO
ALL’ESTREMITà DEL POnTE PER COnSEnTIRE IL DEFLuSSO DEI FEDELI. LA
BALAuSTRA, InFATTI, AVEVA CEDuTO E PROVOCATO MOLTE VITTIME GIà
DuRAnTE IL GIuBILEO DEL 1450. ALL’InGRESSO DEL POnTE, quESTO PAPA
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AVEVA AnChE FATTO PORRE LE STATuE DEI quATTRO EVAnGELISTI E DEI
PATRIARChI ADAMO,
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nOè, ABRAMO E MOSè, SuCCESSIVAMEnTE TOLTE.
RICORDATO ChE LE STATuE DEGLI AnGELI LunGO IL POnTE nOn
FuROnO SCOLPITE DAL
GuIDA DEL MAESTRO.
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MA DA SuOI ALLIEVI, BEnChé SOTTO LA
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