sentenza discussa

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sentenza discussa
Sent. N.__________
RCL N.___________
Cron. N. __________
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI VERONA
Sezione lavoro
Il Giudice, dott. Antonio Gesumunno, all’udienza del giorno 2.12.2012 ha
pronunciato, mediante lettura del dispositivo, la seguente
SENTENZA
nella causa di lavoro promossa con ricorso depositato il 25.5.2011
da
CONSIGLIERA
DI
PARITA’
DELLA
PROVINCIA
DI
VERONA
ANTONELLA GIOVAMPIETRO
con il patrocinio dell’avv. FANINI DONATELLA, elettivamente domiciliato
in VIA DEL CARRISTA 3, VERONA presso il difensore
Contro
FONDAZIONE
ARENA
DI
VERONA,
con
il
patrocinio
dell’avv.
BELLIGOLI GIANPIERO , elettivamente domiciliato in VOLTO SAN LUCA
29 37122 VERONA presso il difensore
CONCLUSIONI DI PARTE RICORRENTE
In totale riforma del decreto opposto:
1)In via principale: accertata la illegittimità del licenziamento comunicato il
27.08.2010 da Fondazione Arena di Verona a Giovampietro Antonella
perché privo di giusta causa e/o giustificato motivo e la sua nullità in
quanto discriminatorio perché in violazione dell’art. 30 D. Lgs. 198/06,
ordinarsi la cessazione del comportamento discriminatorio e per l’effetto:
In tesi: Condannarsi, ai sensi dell’art. 18 L. 300/1970, la Fondazione
Arena di Verona, in persona del legale rapp.te p.t., a reintegrare la sig.ra
Antonella Giovampietro nel posto di lavoro o, in alternativa, a scelta della
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medesima, al pagamento in suo favore di una indennità pari a 15 mensilità
di retribuzione globale di fatto, nonché al pagamento, a titolo di
risarcimento danni, di una indennità commisurata alla retribuzione globale
di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegra e
comunque non inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto,
oltre alla rivalutazione monetaria ed interessi legali dall’11912010 al saldo
effettivo,
in ipotesi: condannarsi Fondazione Arena di Verona, in persona del legale
rapp.te p.t., a riammettere in servizio la sig.ra Antonella Giovampietro
nonché al pagamento in suo favore di tutte le retribuzioni dal giorno del
licenziamento a quella della effettiva riammissione, con gli interessi legali
e la rivalutazione monetaria dall’1/9/2011 sino al saldo effettivo;
2) In considerazione della condotta discriminatoria posta in essere da
Fondazione Arena di l Verona, condannare quest’ultima, in persona del
suo legale rapp.te p.t., al risarcimento del : danno anche non patrimoniale
subito dalla signora Antonella Giovampietro, quantificato in € 15.000,00
ovvero di diverso importo determinato secondo giustizia;
3) Condannarsi, altresì, parte convenuta al versamento dei contributi
assistenziali e previdenziali relativi.
4) Con vittoria di spese diritti ed onorari
Conclusioni di parte convenuta
Rigettarsi le domande tutte, in via d’urgenza e nel merito ex ad verso
introdotte poiché inammissibili, improponibili e/o infondate.
Spese, diritti ed onorari di lite rifusi.
Motivi della decisione
L'opposizione è fondata e deve essere accolta nei termini di seguito
precisati.
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La Fondazione convenuta non esservi discriminazione poiché il
licenziamento della ricorrente si fonda su una chiara ed inderogabile
disposizione di legge.
L'articolo 3 comma settimo della legge n. 100/2010 dispone che i
lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e i
ballerini, l'età pensionabile è fissata per uomini e donne al compimento del
45º anno di età anagrafica, con l'impiego, per i lavoratori cui si applica
integralmente il sistema contributivo o misto, del coefficiente di
trasformazione di cui all’art. 1 comma 6, della legge 8 agosto 1995 n. 335,
relativo all'età superiore. Per i due anni successivi alla data di entrata in
vigore della presente disposizione, ai lavoratori di cui al presente comma
assunti a tempo indeterminato, che hanno raggiunto superato l'età
pensionabile,
è
data
facoltà
di
esercitare
l'opzione,
rinnovabile
annualmente per restare in servizio. Tale opzione deve essere esercitata
attraverso formale istanza da presentare all'Enpals entro due mesi dalla
data di entrata in vigore della presente disposizione o almeno tre mesi
prima del perfezionamento del diritto alla pensione, fermo restando il limite
massimo di pensionamento di vecchiaia di anni 47 per le donne e di anni
52 per gli uomini."
Anteriormente all'entrata in vigore della predetta norma, l'età pensionabile
dei tersicorei e ballerini era disciplinata dall'articolo 4 comma 4, D.LG. n.
182/97, il quale prevedeva che "a decorrere dal 01/01/1998 per i lavoratori
dello spettacolo appartenenti alla categoria dei tersicorei e ballerini già
iscritti alla data del 31.12. 1995 l’età pensionabile gradualmente elevata in
ragione di un anno anagrafico ogni 30 mesi fino a raggiungere l'età di 52
anni per gli uomini e 47 per le donne".
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L’Art. 30 D.Lg 198/2006, al fine di garantire la parità di trattamento fra
donne e uomini, stabilisce, con previsioni generale applicabile anche nel
caso di specie, che le lavoratrici in possesso dei requisiti per aver diritto
alla pensione di vecchiaia hanno diritto di proseguire rapporto di lavoro
fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative
regolamentari e contrattuali.
La ricorrente, prima del compimento del 47º anno di età, ha presentato
alla Fondazione domanda per rimanere in servizio sino al 52º anno di età
in forza del combinato disposto delle due norme da ultimo citate.
In data 01/05/2010 è entrato in vigore il DL 30 aprile 2010 n. 66 convertito
con legge 100/2010, il quale ha modificato l’art. 4 comma 4 D.Lg. 182/97.
Sulla base di tale nuova disciplina, la Fondazione convenuta ha risolto il
rapporto di lavoro.
La prima questione da risolvere è se possa essere configurata una
discriminazione ai sensi del D.Lg. 198/2006 qualora il trattamento
differenziato sia la conseguenza dell’applicazione di una norma cogente di
legge.
La risposta al quesito deve essere affermativa. Infatti la tutela predisposta
dal legislatore avverso la discriminazione non richiede la prova
dell'elemento intenzionale del datore di lavoro. Ciò che rileva infatti è il
nesso di causalità fra la condotta del datore di lavoro e l'oggettivo
pregiudizio subito dal lavoratore. Pertanto è ammessa la tutela giudiziaria
avverso la discriminazione anche qualora la condotta del datore di lavoro
risulti apparentemente giustificata da una norma di legge, la quale tuttavia
venga poi dichiarata incostituzionale ovvero sia disapplicata dal giudice
nazionale per contrasto con il diritto dell'Unione Europea.
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Ciò premesso, si deve stabilire se, come dedotto dalla parte ricorrente, la
disposizione invocata dalla Fondazione sia conforme al diritto dell'Unione
europea e alla Costituzione Italiana e, in caso di esito negativo di tale
scrutinio, quali siano i provvedimenti adottabili dal giudice nazionale.
E’ utile individuare quali siano le fonti del diritto europeo in materia di
discriminazione per motivi legati al sesso nell’ambito del rapporto di lavoro
e nell’accesso ai regimi previdenziali e pensionistici.
L'articolo 157 del trattato di funzionamento dell'Unione Europea (già
articolo 141 trattato comunità europee) prevede che "ciascuno Stato
membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra
lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso
lavoro per un lavoro di pari valore"
La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea all'articolo 21 vieta
"qualsiasi forma di discriminazione fondata" su diversi fattori, tra cui il
sesso e l'età. L'articolo 23 ribadisce l'obbligo di assicurare la parità di
trattamento fra donne uomini in tutti i campi, ed in particolare, in materia di
occupazione, di lavoro e di retribuzione.
La direttiva 2006/54/Ce in materia di attuazione del principio delle pari
opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di
occupazione e impiego prevede, all'articolo 9, tra gli esempi di
discriminazione "quelle che si basano direttamente sul sesso per … F)
stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo”
Nell’ordinamento giuridico europeo sono testualmente qualificate come
fonti aventi efficacia diretta nei rapporti tra privati soltanto i regolamenti e
le norme contenute nei trattati, purché queste ultime siano idonee ad
attribuire diritti soggettivi ai singoli.
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Il principio di parità di trattamento nel collocamento a riposo dei lavoratori
non è previsto in un fonte regolamentare o in una norma del trattato.
Inoltre è dubbio, non essendovi ancora una pronuncia chiarificatrice della
Corte di Giustizia, se la Carta dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di
Nizza) sia una fonte di diritti soggettivi perfetti avente efficacia anche nei
rapporti fra i privati.
Secondo la consolidata elaborazione giurisprudenziale della Corte di
Giustizia, sono considerate fonti di applicazione diretta anche le
cosiddette direttive dettagliate, cioè quelle che impongono agli Stati
membri obblighi sufficientemente chiari e precisi da poter vincolare i
destinatari a prescindere da una disposizione d'attuazione( a condizione
che sia scaduto il termine per il recepimento e lo Stato non vi abbia dato
attuazione o vi abbia dato un'attrazione non corretta). L'applicazione
immediata delle direttive in materia di discriminazione, sebbene
dettagliate, è preclusa nel caso in esame. Infatti la Corte di Giustizia ha
sempre limitato l’efficacia diretta di tali fonti soltanto ai casi in cui esse
siano invocate nei cosiddetti rapporti verticali e cioè nel contenzioso tra
privati e lo Stato inadempiente. E’ pacifico che la Fondazione, soggetto di
diritto privato, non rientra nel concetto di Stato così come definito nella
giurisprudenza della Corte di Giustizia.
La questione oggetto della presente causa può essere risolta facendo
riferimento alla nozione di principi generali o fondamentali del diritto
dell'Unione.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, i principi generali del
diritto dell'Unione hanno un valore di rango primario all'interno della
gerarchia delle fonti europee. Si tratta dei principi che emergono dallo
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spirito e dal sistema dei Trattati ovvero sono comuni agli ordinamenti
costituzionali degli Stati membri dell’Unione.
La Corte di Giustizia in più occasioni ha riconosciuto l'importanza e la
diretta applicabilità dei principi generali del diritto dell'Unione.
Si deve ricordare in particolare la sentenza "Mangold” (22/11/2005 c144/04), nella quale si è ritenuto che nell'ambito dell'ordinamento giuridico
europeo esiste un principio generale di non discriminazione per motivi
relativi all’età nell’ambito del rapporto di lavoro.
Con la successiva sentenza “Kucukdeveci” (19.1.2010, C555/07) la Corte
ha confermato tale orientamento e, superando alcune obiezioni mosse
alla sentenza Mangold, ha fornito un parametro più solido ed oggettivo per
l’individuazione della fonte dei principi generali.
La Corte, pur confermando quanto affermato nella precedente decisione
(e cioè che il principio «trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e
nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri»), ha tuttavia
precisato che esso viene consacrato nell’art. 21, n. 1 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea che, in virtù dell’art. 6, n. 1 TUE «ha lo
stesso valore giuridico dei Trattati» (punto 22).
Secondo l’opinione prevalente nella dottrina, l’orientamento espresso nella
sentenza in esame può trovare applicazione anche in presenza di altre
discriminazioni vietate dalla Carta dei diritti fondamentali. Si possono
citare in proposito le conclusioni dell’ Avvocato Generale Niilo Jääskinen
(26), nella causa C-147/08, («non esiste alcuna giustificazione per
applicare il principio della parità di trattamento in maniera meno rigorosa
nel caso delle discriminazioni in base all’orientamento sessuale che non in
quello delle discriminazioni Fondate su altri motivi indicati nell’art. 13 CE»
(punto 129) e le conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot nella causa
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C-22/09, laddove si afferma (punto 111 delle conclusioni
che,
conformemente alla sentenza Kucukdeveci, “poiché l’art. 10 della direttiva
92/85 si limita a concretizzare il principio fondamentale della parità di
trattamento tra uomini e donne vietando il licenziamento di una lavoratrice
gestante in ragione del suo stato di gravidanza, il giudice nazionale che
non disponesse, in base al suo diritto processuale interno, di mezzi
sufficienti per disapplicare la disposizione del suo diritto interno che
giustificano tale licenziamento trarrebbe siffatto potere dal primato del
principio fondamentale”.
Si può quindi affermare l’esistenza di un principio generale o
fondamentale di non discriminazione in base al sesso del lavoratore che,
in quanto appartenente al novero dei diritti fondamentali, deve essere
garantito a tutti i soggetti, nell’ambito di competenza dell’ordinamento
comunitario.
Tale principio ha trovato una solida
base giuridica
e formale
consacrazione nella Carta di Nizza la quale, all’art. 20, sancisce il principio
generale di uguaglianza di tutte le persone di fronte alla legge nell’ambito
di competenza comunitario, all’art. 21 specifica tale principio in una serie
di divieti correlati a fattori soggettivi (tra cui il sesso) e all’art. 23 ribadisce
l’obbligo di assicurare la parità tra i sessi in tutti i campi, e la possibilità di
adottare azioni positive a favore del sesso sottorappresentato. I divieti di
discriminazione trovano poi, a loro volta, specificazione e concreta
espressione in atti comunitari derivati, e in particolare, nelle direttive
antidiscriminatorie, suscettibili di attuazione negli Stati membri.
Come affermato dalla Corte nella sentenza Kucukdeveci, il principio
generale di non discriminazione è stato attuato e specificato mediante le
direttive che sono state adottate nel corso del tempo. Tali direttive, pur
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non potendosi applicare direttamente nei rapporti orizzontali tra soggetti
privati costituiscono non di meno costituiscono un valido parametro per
valutare se la norma nazionale introduca una discriminazione contrastante
con il principio generale di non discriminazione.
Giova richiamare, quale parametro di conformità al principio generale di
non discriminazione per motivi legati al sesso del lavoratore, la direttiva
2006/54/Ce in materia di attuazione del principio delle pari opportunità
della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione
impiego, la quale prevede espressamente l’applicazione del principio di
parità di trattamento anche alla situazioni analoghe a quelle oggetto di
causa. Infatti la direttiva all'articolo 9, tra gli esempi di discriminazione
vietata contempla anche "quelle che si basano direttamente sul sesso per
… stabilire limiti di età differenti per il collocamento a riposo”
Secondo l’insegnamento della Corte di Giustizia, il Giudice nazionale, una
volta individuata la fonte comunitaria che regola la fattispecie concreta,
ove ravvisi un possibile contrasto con la norma nazionale, deve
preliminarmente
verificare
se
la
disciplina
interna
possa
essere
interpretata in senso conforme al diritto europeo.
Ad avviso dello scrivente, il testo della norma nazionale oggetto di esame
non è suscettibile di una pluralità di interpretazioni, all’interno delle quali
possa essere scelta una versione conforme al principio generale di non
discriminazione per motivi legati al sesso e all'età.
Infatti la norma in discussione è sufficientemente precisa e tassativa. Essa
non consente neppure di valutare eventuali sottostanti ragioni giustificative
della diversità di trattamento tra uomini e donne nella fissazione dell’età
massima lavorativa legate alle peculiarità della prestazione lavorativa.
Infatti sia le direttive europee sulla parità di trattamento sia la normativa
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italiana che le ha attuate considerano legittima la disparità di trattamento
soltanto qualora essa sia connessa a requisiti essenziali dell’attività
lavorativa. Non appaiono decisive le osservazioni di parte convenuta sulla
asserita maggiore usura fisica a cui le donne sarebbero esposte in questo
particolare ambito lavorativo in quanto del tutto sprovviste di fondamento
statistico o scientifico.
Poiché, non è possibile adottare una interpretazione conforme al diritto
europeo, si deve percorrere la strada della disapplicazione, previo
eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Nelle citate sentenze Mangold e Kukukdveci la Corte di Giustizia ha
espressamente specificato che il giudice nazionale, in caso di contrasto
con i principi generali dell’ordinamento europeo, ha il potere e dovere di
garantire la piena efficacia del diritto sovranazionale, mediante la
disapplicazione,
ferma restando, in caso di dubbio interpretativo,
la
facoltà di investire la Corte di Giustizia della questione pregiudiziale.
Non si ritiene di utilizzare lo strumento del rinvio alla Corte di Giustizia,
poiché non vi sono dubbi nella interpretazione del diritto comunitario da
applicare nel caso concreto. Infatti appare chiara l’esistenza e la portata
del principio generale del divieto di discriminazione per ragioni legate al
sesso del lavoratore, anche alla luce delle direttive che si sono ispirate a
tale principio e ne hanno garantito l’attuazione.
Nella fattispecie in esame vi sono quindi i presupposti per procedere alla
diretta disapplicazione della norma interna. E’ possibile infatti sostituire
“sic et simpliciter” alla norma interna incompatibile, senza ulteriori
operazioni interpretative o additive, la regola desumibile dal principio
generale comunitario. L'applicazione diretta del principio, che sancisce un
divieto di trattamenti differenziati senza giustificazioni oggettive, produce,
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come effetto necessario ed automatico, l'equiparazione dei lavoratori e
delle lavoratrici per quanto concerne il limite massimo dell’età lavorativa.
Per effetto della disapplicazione della norma interna la ricorrente, che ha
tempestivamente esercitato l’opzione, ha diritto di proseguire l’attività
lavorativa sino al limite massimo previsto in via transitoria per i colleghi
uomini (52 anni).
Da ciò consegue che il licenziamento comunicato dalla Fondazione prima
di tale termine ha contenuto ed effetti discriminatori per motivi legati al
sesso del lavoratore.
Il Giudice, in accoglimento dell’opposizione, deve pertanto disporre la
cessazione della condotta discriminatoria e la rimozione degli effetti. Deve
pertanto
essere
accolta
l’impugnazione
del
licenziamento
e
la
Fondazione, deve essere condannata a reintegrare la ricorrente nel posto
di lavoro ed a risarcire il danno ai sensi dell’art. 18 L. 300/70. Il
risarcimento per il periodo anteriore alla reintegrazione deve però essere
limitato nel minimo di legge pari a cinque mensilità. Infatti il recesso fu
comunicato in attuazione di una disposizione inderogabile di legge e
quindi, la parte convenuta ha dimostrato la mancanza di colpa rispetto
all’inadempimento dell’obbligo retributivo.. Si deve citare a tale proposito
la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo la quale “la
dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell'art. 18 della
legge n. 300 del 1970 non comporta automaticamente la condanna del
datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilita dal quarto
comma, con esclusione di ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa
nel comportamento del recedente, e cioè per una forma di responsabilità
oggettiva, atteso che l'irrilevanza degli elementi soggettivi è configurabile,
per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa, solo
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limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità. La questione
relativa alla sussistenza della responsabilità risarcitoria deve ritenersi
invece regolata dalle norme del codice civile in tema di risarcimento del
danno
conseguente
ad
inadempimento
delle
obbligazioni,
non
introducendo l'art. 18 dello statuto dei lavoratori elementi distintivi. Ne
consegue l'applicabilità dell'art. 1218 cod. civ., secondo cui il debitore non
è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che
l'inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non
imputabile” (Cass. 3114/04). Tale principio è stato applicato dalla S.C.
anche in fattispecie simili a quella in esame e cioè al caso del lavoratore
licenziato sulla base di una norma successivamente dichiarata illegittima
dalla Corte Costituzionale (Cass. 13731/04).
La Fondazione convenuta deve invece essere condannata a versare i
contributi previdenziali dal momento del licenziamento, in ossequio al
principio stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione 15143/07 secondo
il quale, in caso di licenziamento di cui sia stata accertata l'illegittimità ai
sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, sussiste l’obbligo del datore di
lavoro di versare i contributi dell'assicurazione obbligatoria per l'intero
periodo
decorrente
dalla
data
del licenziamento
a
quella
della
reintegrazione nel posto di lavoro, anche quando con la sentenza di
annullamento del licenziamento il risarcimento del danno sia stato stabilito
in misura corrispondente alla retribuzione spettante per un periodo
minore.
Le domande di risarcimento del danno non patrimoniale formulate dalla
ricorrente devono essere rigettate poiché è mancata l’allegazione e prova
di tale tipo di pregiudizio.
La spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo
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P.Q.M.
Il Tribunale di Verona in funzione di giudice del lavoro, definitivamente
pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione rigettata
1) In parziale accoglimento del ricorso, dichiara l'illegittimità del
licenziamento intimato dalla parte convenuta alla ricorrente
convenuta e, per l'effetto, ordina alla convenuta, in persona del
legale rappresentante pro tempore, di reintegrare la ricorrente nel
posto di lavoro;
2) condanna la società convenuta a corrispondere alla ricorrente
a
titolo risarcitorio, una indennità commisurata a cinque mensilità
della ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi sulle somme annualmente via via rivalutate
dalle singole scadenze al saldo, nonché al versamento dei
contributi previdenziali ed assistenziali dalla data di licenziamento
sino al ripristino del rapporto;
3) Condanna la parte convenuta alla rifusione delle spese di lite in
favore della parte ricorrente che liquida in € 2.000 per diritti ed
onorari oltre Iva e Cpa e rimb. forf.
4) Fissa termine di gg. 60 per il deposito della sentenza
Verona, 2.12.2011
IL GIUDICE
dott. Antonio Gesumunno
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