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Georges Simenon
SOLITUDINI FEMMINILI CHE SI SFIORANO SENZA TOCCARSI
Adelphi ha pubblicato “La finestra dei Rouet”, un romanzo scritto nel 1942 che fa
venire in mente il celebre film di Hitchcock “La finestra sul cortile”. Qui c’è una
sottile e malinconica storia di voyeurismo, in cui una grigia zitella quarantenne si
mette a spiare una dirimpettaia bella e ricca quanto infelice, che lascia morire un
detestato marito. Si sviluppa così una trama di proiezioni immaginarie, di vaghi
ricatti, di morbosità velatamente omosessuali che, poi, si risolve in nulla.
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di Valeria Pighini
“Dominique giurerebbe che la stia fissando, ma è impossibile, le imposte sono semichiuse: lei può
vederlo, ma lui non può vedere lei. L’uomo guarda nel vuoto, aspetta, spera”.
Guardare la realtà da dietro un vetro, osservare il mondo attraverso gli occhi degli altri e sapere di
essere solo un eco lontano di quella vita meravigliosa che scorre frenetica e non si lascia afferrare,
una goccia di cui nessuno si accorge perché il mare è troppo grande per dare importanza ad una
misera lacrima d’acqua.
Questo, il destino beffardo e amaro che la sorte ha riservato a Dominique.
Dominique non è particolarmente brillante, e non è neppure particolarmente bella, ha quarant’anni e
vive sola. I più gentili la chiamano rispettosamente “signorina”, ma lei sa che per tutti è e resterà
sempre la povera zitella bigotta di cui sparlare per farsi due risate.
Ogni giorno che Dio manda sulla terra, l’orologio di Dominique scandisce il ritmo di un tempo
morto, ore e minuti che si rincorrono pigri, riempiti da poche, svogliate abitudini ormai consolidate
e perciò prive di senso.
“Le tre e dieci. Fra poco si rimetterà il vestito e ricomincerà a rammendare le calze ammucchiate
nella cesta di vimini, una cesta che era già di sua nonna e ha sempre contenuto calze da
rammendare, tanto da far pensare che siano sempre le stesse, e che si potrebbe andare avanti a
rammendare fino alla fine dei secoli senza mai riuscire a svuotarla”.
L’unica compagnia per questa donna che ancora giovane è già troppo vecchia, è la sua stessa
solitudine e il sogno irrealizzabile di una vita diversa, di una vita vera. Per questo la finestra del suo
appartamento è così importante, perché le permette di guardare fuori, di vedere cosa c’è oltre le
quattro mura che da anni la imprigionano, di identificarsi con quella quotidianità che non le
appartiene e che pure sente dannatamente sua.
Dominique è la protagonista de La finestra dei Rouet (Adelphi, Milano 2009, trad. di Federica Di
Lella e Maria Laura Vanorio, pp.168, € 18), romanzo scritto nel 1942 (ma uscito in Francia solo nel
1945) da Georges Simenon. Si tratta forse di una delle opere meno conosciute del celebre autore
belga, noto soprattutto per essere il “papà” del commissario Maigret, ma anche, allo stesso tempo,
di una delle opere più sentite e complete, un’intima esercitazione di stile che stupisce il lettore per il
cinismo e la crudeltà con cui vi si racconta il dramma della solitudine.
Dominique si rifugia nelle sue fantasie, in ciò che vede o crede di vedere dalla finestra; lo fa perché
in realtà non ha il coraggio di guardarsi dentro. E allora non le resta che guardare gli altri e
immedesimarsi in loro, nei loro piccoli-grandi problemi. E quello che inizialmente sembra solo un
vizio, un gioco, il passatempo di una casalinga annoiata, si trasforma a poco a poco in una vera e
propria ossessione, fino a diventare un potente surrogato della vita autentica, quella vita che
Dominique non ha mai vissuto, perché non ha mai saputo viverla.
La letteratura e il cinema del resto, pullulano da sempre di storie come questa. Basti citare La
finestra sul cortile di Alfred Hitchcock, l’esempio forse più calzante del genere, in cui uno
stralunato James Stewart, immobilizzato a letto in seguito ad un incidente, si dilettava ad osservare i
vicini con un binocolo e scopriva così involontariamente l’uxoricidio perpetrato dal suo ambiguo
dirimpettaio.
E il voyeurismo, in fondo, è innato nell’uomo, ed è un richiamo irresistibile, capace di corrompere
anche l’anima più irreprensibile. Ma si accompagna il più delle volte a situazioni scomode, a
conseguenze imprevedibili, ad epiloghi tragici.
Dominique ha imparato a conoscere chi le sta attorno e ha perfino imparato a tollerare i Caille, gli
sposini ai quali ha affittato una parte della casa. I Caille, ma loro questo non lo sanno, con la loro
presenza-assenza la aiutano a riempire le giornate e quella dimensione ovattata di illusioni che si è
cucita addosso per non cedere allo sconforto.
I Caille non sanno quasi nulla di lei, né si preoccupano di sapere. Si limitano a recitare la parte dei
bravi inquilini, comunicando eventuali ritardi nei pagamenti, saldando l’affitto e salutandola con
rispetto quelle rare volte in cui la incontrano. Dominique, invece, conosce alla perfezione le loro
abitudini, perfino quelle più intime, conosce i loro gemiti, i loro sospiri di piacere mentre si
abbandonano l’uno all’altra e ne è turbata perché la vitalità che trasuda dai corpi caldi dei due
giovani, dalle loro voci timide e gentili, le ricorda quanto lei sia inadeguata e quanto sia inutile.
Dominique li sente mentre litigano, mentre chiacchierano, mentre fanno l’amore: “hanno rimesso il
disco. Tra un po’ li sentirà andare su e giù, l’uomo si metterà a cantare, canta quasi sempre, dopo,
poi aprirà rumorosamente la porta del bagno, la sua voce giungerà più lontana”.
Li invidia e li detesta perché i Caille rappresentano l’emblema del suo fallimento, di quello che
sarebbe potuta diventare e che non è diventata per rimanere fedele al sogno di un amore perduto e
mai dimenticato.
Eppure non può fare a meno di loro, perché loro, insieme a quella finestra aperta sul mondo, lente di
ingrandimento puntata su una realtà che da sempre la rifiuta, sono il suo unico contatto con la vita,
il suo unico punto di riferimento.
Loro e Antoinette Rouet naturalmente, la vicina del palazzo di fronte.
Antoinette è bella, ricca, ben vestita e Dominique passa le ore a contemplarla, a studiare i suoi
movimenti.
“Un clacson che conosce bene. Non ha bisogno di sporgersi a guardare. Sa che è quello della
piccola decappottabile della signora Rouet. L’ha vista uscire dopo pranzo, verso le due, con
indosso un tailleur bianco, una sciarpa di organdis verde chiaro e un cappello intonato, scarpe e
borsa dello stesso verde. Mai e poi mai Antoinette Rouet uscirebbe se il suo abbigliamento non
fosse impeccabile in ogni dettaglio”.
Anche Antoinette è infelice e Dominique questo lo sa bene, perchè la conosce meglio di chiunque
altro, meglio anche di quanto Antoinette non conosca se stessa. Ad esempio, sa che detesta il marito
e sa che la suocera non la può vedere, sa che Antoinette è prigioniera nella sua bella gabbia dorata e
che tutti i suoi gesti in quella maledetta casa sono dettati esclusivamente da obblighi e ipocrisie.
E il giorno in cui Antoinette si ribella, il giorno in cui lascia morire il consorte senza soccorrerlo,
Dominique, che dalla finestra ha visto tutto, si convince che anche per lei sia arrivato il momento di
un nuovo inizio. Comincia così a tessere la trama di un legame immaginario con la vicina, tanto
ossessivo quanto impossibile. Antoinette diventa una malattia, la droga di cui non riesce a fare a
meno, lo stimolo per andare avanti, l’imput per una nuova esistenza.
Le vite delle due donne si intrecciano, si sfiorano, ma non si incontrano mai. Dominique segue
Antoinette in punta di piedi, ovunque vada; la spia, la aspetta fuori dai locali che frequenta, prova
perfino a ricattarla salvo poi vergognarsi del suo gesto, ride e soffre con lei, osservandola e
amandola da lontano. Ormai sa di non poter più prescindere da Antoinette, perché lei e Antoinette
sono una cosa sola, unite dallo stesso destino di donne a metà.
Antoinette è la sua croce e la sua rivincita, e con i suoi atteggiamenti libertini le dà la forza di
abbandonarsi a sensazioni mai provate e il coraggio di uscire dal guscio, dalla sua bolla di sapone.
Ma è tutta un’illusione purtroppo: gli sguardi complici che Dominique crede di scambiare con la
vicina mentre i loro occhi s’incrociano, divisi solo dai vetri delle rispettive finestre, probabilmente
sono solo il frutto di un crudele abbaglio della mente. E quel rapporto così intimo, così unico, così
speciale, non è altro che una chimera, un vagheggiamento, l’utopica speranza che Dominique ha
cullato per mesi credendo di poter allontanare i fantasmi della sua solitudine.
Quando capisce, quando la verità si manifesta in tutta la sua durezza, quando Antoinette lascia la
casa di fronte e anche i Caille se ne vanno in cerca di un futuro migliore, Dominique ripiomba di
colpo nel nulla e non le resta che soccombere a se stessa.
Il ritratto che Simenon traccia di questa donna è meraviglioso e spietato e, se si considerano le
allusioni omosessuali neppure troppo velate che avvolgono il rapporto tra Dominique e Antoinette,
anche piuttosto azzardato per l’epoca in cui è stato scritto.
Una donna che ha paura della propria femminilità, che guarda il suo corpo ancora giovane
percependolo come estraneo, una donna che si appropria delle vite degli altri perché non sa che
farsene della sua, una donna che ha bisogno di crearsi un alter ego da incolpare quando le cose
vanno male e da invidiare quando le cose vanno bene.
La finestra dei Rouet è una storia di solitudini che si sfiorano senza toccarsi, di rapporti interrotti
bruscamente prima ancora di iniziare, di parole strozzate che muoiono in gola, di silenzi e segreti
inconfessabili, di ricordi e rimorsi che avvelenano l’anima.
E Dominique è una figura tragica che da sola domina la scena.
Il romanzo è scritto infatti come un lungo monologo interiore in terza persona, poche descrizioni,
solo impressioni e immagini confuse che si mischiano a brandelli di realtà e sensazioni appena
accennate.
Il punto di vista è distorto e il linguaggio si frantuma al servizio delle elucubrazioni mentali della
protagonista, delineando un flusso di coscienza che è continuo e inarrestabile. Le parole viaggiano
piegandosi ai diversi stati d’animo di Dominique e così il lettore vede ciò che vede lei e sa ciò che
sa lei. Parigi è un dedalo di strade anonime, luci e colori dai toni grigiastri che si fondono con lo
scalpiccio dei clacson in lontananza. La città viva, frenetica, i locali, i negozi, la gente, tutto questo
è solo un riflesso, perché Dominique lo percepisce come tale.
Simenon crea dunque un rapporto di profonda empatia tra il suo pubblico e la sua protagonista, di
simbiosi e di reciproca comprensione.
Non si saprà mai se Antoinette si fosse davvero accorta degli sguardi di Dominique, o se i Caille la
prendessero realmente in giro quando lei non poteva ascoltarli, perchè quello che conta è
l’impressione del momento, ciò che sembra e non ciò che è.
E la verità resta sullo sfondo, immersa nella nebbia come un concetto relativo senza nessuna
importanza.