Berta - Pellatinizza.it
Transcript
Berta - Pellatinizza.it
Una questione privata non è il primo romanzo di Beppe Fenoglio (è stato pubblicato postumo nel 1963: in vita lo scrittore aveva pubblicato vari altri scritti, tra cui I ventitrè giorni della città di Alba, nel 1952) e non è nemmeno il primo romanzo sulla Resistenza: come scrive Calvino nella prefazione de Il sentiero dei nidi di Ragno, infatti, “L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare”. Il Dopoguerra costituisce un’epoca d’oro per la letteratura europea, in particolare per quella ebrea da una parte, italiana dall’altra: dall’Olocausto alla Resistenza, tutti i sopravvissuti hanno visto cose terribili e di una violenza inaudita, cose che premono per essere raccontate e scritte: la scrittura diventa così per i sopravvissuti alla guerra insieme terapia e forma di ricordo, la voglia di raccontare spinge anche persone che non avevano mai scritto a prendere in mano la penna e a parlare di sé e delle loro storie, storie vissute sulla propria pelle o raccontate da altri che quelle storie le hanno vissute; e in particolare, parlando della Resistenza, queste storie spesso si condiscono con una certa qual civetteria, una gloria che è la gloria dei vincitori: i romanzi del primo Dopoguerra sono quindi incentrati su partigiani-eroi in contrasto con fascisti-antieroi, con il partigiano che incarna appieno un novello Enea coraggioso e leale. Il partigiano, nella maggior parte della letteratura italiana del dopoguerra, diventa il personaggio-partigiano, ottenuto limando i difetti di questa figura e invece esaltandone i pregi, perdendo un po’ di veridicità a vantaggio di una celebrazione che, se pensiamo alla situazione in cui questa è nata, è del tutto comprensibile e lecita. Ma proprio se confrontato con gli altri romanzi partigiani Una questione privata mostra tutta la sua carica innovativa, partendo dal protagonista. Milton è infatti uno “studioso”, un laureato, un “brutto”, come brutti sono la maggior parte degli antieroi novecenteschi (partendo da Mattia Pascal strabico o Zeno zoppo e calvo); Milton è anche un partigiano, un “azzurro” Badogliano; ma Milton è soprattutto un giovane uomo tormentato da un dubbio: Fulvia, la ragazza che lui ha amato e ama ancora, l’ha tradito con Giorgio, il suo migliore amico? È proprio questa domanda, che insegue Milton per tutto il romanzo, che lo classifica come un partigiano “atipico” nella letteratura del dopoguerra: siamo nel ’43, la lotta ai fascisti dovrebbe essere il primo pensiero per ogni partigiano, eppure lui non esita a prendere dei giorni di licenza per andare a cercare Giorgio e poi, apprendendo che Giorgio è stato rapito, a correre alla ricerca di un fascista da scambiare per l’amico: un gesto che non è di lealtà o affetto per Giorgio, ma semplice egoismo, avidità di sapere, disperato bisogno di placare il suo cuore scosso dai dubbi. Sicuramente, un protagonista così drammaticamente “antieroico” non può che essere accompagnato da personaggi altrettanto antieroici: abbiamo così Giorgio, personaggio non agente direttamente, ma solo raccontato dai ricordi di Milton e dalle voci sprezzanti dei suoi compagni di brigata, di bell’aspetto e appartenente alla classe agiata di Alba, viziato e solitario, tanto vincente nella vita prima della guerra quanto poi perdente nella vita partigiana, abbiamo il comandante dei Rossi Hombre, abbiamo Leo e Jack e Meo e Pascal, abbiamo un colorato mosaico di persone che, prima ancora di essere partigiani, o fascisti, sono uomini: e così, le loro vicende sono dolorosamente o poeticamente umane, e nei loro racconti convivono il sublime e l’infimo, ed è soprattutto nelle loro morti che emerge l’eterna battaglia umana tra il finito e l’infinito, tra l’animale e l’idea. Per capire come questi personaggi siano fondamentalmente esseri umani, capaci sì di azioni nobili, ma né eroi classici né tantomeno metafisiche rappresentazioni di idee contrapposte, è importante analizzare i momenti in cui la penna di Fenoglio indaga nel momento più intimo e vero di ognuno di noi: la nostra morte. La morte, essendo un romanzo di guerra partigiana, è presente sia in uno schieramento che nell’altro: morte onorevole, morte insensata, morte per sbaglio, fino alla morte solo probabile di Milton. Ed è interessante notare il rovesciamento che crea Fenoglio: la morte più onorevole, più sensata, se così possiamo definire la morte, è quella di un fascista, di un caporale della Littorio. La sua morte, raccontata dal partigiano rosso Paco, sebbene caricata di sommo disprezzo (un po’ fazioso, ma di una faziosità comprensibile in guerra) appare onorevole e romantica, la morte di un uomo che si è sacrificato per i suoi ideali, anche se sbagliati, e che per quegli ideali ha lottato, un uomo che è, come la maggior parte dei partigiani, solo, senza famiglia, che si autodefinisce “figlio di una puttana e del più lesto”, un uomo perduto come erano perduti la maggior parte degli uomini in quel periodo, ma un uomo che nella miseria della morte imminente ha ancora la forza e il coraggio di difendere i suoi ideali, che ha il coraggio di dire al partigiano che deve accompagnarlo al patibolo che morrà gridando “Viva il Duce!”. Il fascista, nella sua definitiva e totale adesione al Duce anche in punto di morte, è l’unico tra tutti a morire con onore, è in punto di morte veramente e pienamente la sua idea, l’idea per cui si muore. E lo stesso Paco ne riconosce il valore, un valore sprecato per un ideale sbagliato, tanto che gli dice “Puoi gridare quello che ti pare, ma ti ripeto che secondo me ti sprechi. Io sono sicuro che tu morirai molto meglio di come saprà fare lui quando sarà la sua ora”. Se la morte del fascista è quasi una consacrazione, una morte vissuta come onorevole, come pieno sacrificio al proprio ideale, lo stesso non si può dire della morte di Riccio e Bellini. Riccio e Bellini, due partigianini, due ragazzi, uccisi per vendicare il fascista ucciso da Milton, in nome della regola di sangue che imponeva due partigiani per ciascun fascista morto, una morte crudele, terribile e tragica, una morte di cui persino i fascisti che devono eseguire l’ordine capiscono l’insensatezza, una morte ingiusta. E Riccio, il primo a ricevere la notizia, non riesce a essere l’ideale. Non riesce a morire da uomo come il fascista, perché lui uomo non lo è. Riccio ha quattordici anni, è appena uscito dall’infanzia, Riccio si è lasciato convincere a fare la staffetta per i messaggi tra partigiani, Riccio è troppo giovane per avere un’idea così propria e definitiva da morire per essa. Riccio, e Bellini, sono le vere vittime della guerra, non abbastanza grandi da essersi lanciati nella furia della battaglia consapevolmente, animati dal desiderio di aiutare i grandi, di sentirsi grandi, finiti in mezzo a questioni grandi senza esserlo. E l’umanità si percepisce anche tra i fascisti, costretti a eseguire un ordine terribile senza condividerlo, ma solo perché l’Idea esige questo, perché se il comandante dà un ordine va rispettato, e se il comandante dice due partigiani ogni fascista ucciso due partigiani e ogni fascista ucciso deve essere, e disertare è impossibile. Non c’è gloria nella morte di Riccio, non c’è onore nel fucile imbracciato dai tre soldati, c’è solo la desolata consapevolezza dell’abisso a cui si è giunti, dell’insensatezza di una guerra che condanna alla morte dei bambini, consapevolezza che per i fascisti è resa più dolorosa dal fatto che molti di loro già capiscono che la storia consegnerà a loro il fardello del torto, e che le morti partigiane saranno onorate e quelle fasciste disprezzate, anche se la morte è uguale per tutti, anche se il dolore è uguale per tutti, come pensa un soldato incaricato di giustiziare i due ragazzini: “Ma, e noi? Noi soldati del Duce nasciamo forse dalle pietre o dalle piante?” Ma non c’è spazio per i proclami eroici e per gli ultimi inni alla propria idea: c’è solo spazio per lo smarrimento e il dolore e per quella torta, l’ultima eredità di Riccio, la torta di sua madre che con le sue ultime parole egli consegna al primo partigiano che entrerà in quella prigione, che con lui condividerà il destino. E non sappiamo se effettivamente i fascisti lasceranno la torta intera per il prossimo, sfortunato partigiano, ma abbiamo tutte le ragioni di credere che lo faranno: come i monatti scoprono la pietà alla vista della madre di Cecilia, i fascisti, questi uomini induriti dalla guerra, scoprono e riscoprono la loro umanità, si scoprono padri e si scoprono figli grazie alla morte insensata di due bambini, due ragazzini innocenti in contrasto con un’umanità irrimediabilmente macchiata. Altro nodo dell’opera, anzi, forse il nodo principale attorno al quale si articola la storia, è l’amore. Un amore, quello tra Milton e Fulvia, mai dichiarato, ma presente e assolutamente importante per il ragazzo, tanto da spingerlo per tutto il Piemonte solo per poter chiedere a Giorgio se Fulvia l’aveva tradito: un amore che ci viene raccontato dalla stessa voce commossa dei ricordi di Milton, un amore vissuto nella casa di Fulvia tra traduzioni di Poe e di Deep Purple, un amore che come colonna sonora aveva Somewhere over the rainbow. Lui, impacciato, goffo, brutto, lei bellissima e allegra: e trovavano la perfetta unione dei loro mondi nel mondo scritto. Lui le scriveva lettere, lei le leggeva e si emozionava: la scrittura e la traduzione di opere inglesi e americane erano le rotaie su cui far viaggiare il loro amore. Ma poi era iniziata la guerra civile e le campagne delle Langhe erano troppo pericolose per una ragazzina di sedici anni: Fulvia era tornata a Torino, e così le speranze di Milton di vedersi concretizzare il suo amore. Il triangolo Milton-Fulvia-Giorgio ricorda un po’ i triangoli costruiti da Svevo nelle sue opere Inetto-Ragazza amataCombattente, e diciamo che per certi versi la vicenda ricorda un po’ quella di Aldo Nitti di Una vita: come Aldo torna a casa dalla madre mentre Annetta ancora lo ama, quando Milton deve lasciare Fulvia e andare a combattere la sua guerra, i segnali di un loro legame affettivo sono evidenti: ma poi Aldo torna e scopre che Annetta è promessa sposa di Macario, e Milton parla con la vecchia governante di Fulvia e scopre che lei e Giorgio nel periodo in cui lui è stato lontano sono diventati sospettosamente intimi. Quella che per Aldo è una dolorosa certezza, per Milton è un terribile dubbio: roso dalla gelosia e dal dubbio, accecato dall’amore, cercherà in ogni modo di scoprire la verità. E, cercandola, troverà la morte. In questo Milton ricorda molto anche un Ulisse dantesco, un moderno Ulisse che trova la morte cercando quella conoscenza in più, quella verità in più. Ma la ricerca di Milton non ha niente di quell’illuminista ricerca di conoscenza, né di quel romantico andare oltre al limite che ha reso l’Ulisse l’eroe universale della conoscenza: è una ricerca che non si interessa della virtute e dell’intelletto umano, è una ricerca ossessiva e annullante in nome dell’amore e della gelosia che lo corrode, che lo ha “passato da parte a parte come un bambino nudo e inerme”. Mai amore e morte, amore e angoscia, sono stati così intrecciati e così drammaticamente vicini come in questa ricerca, la drammatica ricerca di un uomo innamorato e tradito. La ricerca di Milton, sebbene intimamente privata come suggerisce il titolo, si muove all’interno di un ambiente particolare, il Piemonte dei partigiani e dei fascisti, il Piemonte della guerra civile. E Fenoglio realizza in quest’opera qualcosa che a molti non è riuscito: lui non ci parla della guerra, ma lascia che i suoi personaggi ce ne parlino. E’ questa la cosa più sorprendente e emozionante del romanzo: la guerra che non ci viene descritta, ma viene vissuta. La guerra non è la protagonista della storia, ma esce da ogni pagina più vera che mai: esce dalle parole dei partigiani che si vantano di non avere prigionieri fascisti in custodia perché “Noi li perdiamo nell’istante stesso che li facciamo”, dalle descrizioni dei tracciati e dei ponti che sono sicuramente minati, dal racconto della battaglia di Verduno, dalle lacrime della maestra assaltata a casa dei suoi genitori e rasata dai partigiani perché aveva detto che i nemici del Duce avrebbero dovuto essere uccisi con il lanciafiamme. Questa guerra il cui enorme costo non viene enunciato tramite pesanti descrizioni di battaglie e sterili elenchi di caduti, di nomi letti e subito dimenticati, ma che trapela da una nuova durezza negli uomini e nelle donne, una durezza di cuore e di spirito che in un altro tempo sarebbe scambiato per crudeltà. E così Ivan, compagno di brigata di Milton, dice che “Le ragazze! Oggi! Fanno ridere. Fanno schifo e pietà.”. E così Milton ammette che “Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi.”. Ma il personaggio che, nella sua marginalità, mostra di più l’effetto devastante della guerra anche nei civili, in coloro che vivevano e non combattevano, e cioè l’aver generato l’odio, quell’odio puro, senza pietà, senza distinzioni, è un contadino, un uomo della collina, un uomo troppo anziano per essere partigiano eppure non fascista. E soprattutto sono le sue parole a suonare terribili, senza ritorno, come una sentenza: “Verrà pure quel giorno. […] e allora, non ne perdonerete nemmeno uno, voglio sperare. […] Tutti, tutti li dovete ammazzare, perché non uno di essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più mite per il meno cattivo di loro. […] Con tutti voglio dire proprio tutti. Anche gli infermieri, anche i cucinieri, anche i cappellani. […] Quando verrà quel giorno glorioso, se ne ammazzerete solo una parte, se vi lascerete prendere dalla pietà o dalla stessa nausea del sangue, farete peccato mortale, sarà un vero tradimento.” E’ in queste parole che emerge il vero motore della Resistenza, non gli ideali, non la nobiltà d’animo, ma l’odio. Ed è in queste parole che emerge la vera condanna del Fascismo, il motivo per cui è crollato: l’aver generato questa furia, aver trasformato persone normali, persone con dei valori e il rispetto della vita, in disperati pieni di furore e voglia di sangue e vendetta. E grazie a Fenoglio, che non voleva parlare di una storia di guerra ma di una storia d’amore, abbiamo una vera fotografia della guerra che ha segnato la nostra storia nel bene e nel male. Per questo, grazie Milton, grazie Fulvia, grazie Giorgio, grazie Bellini e grazie Riccio, e grazie a ogni partigiano, ogni donna, ogni contadino e ogni fascista di questo romanzo. E soprattutto, grazie Beppe per averli creati, trascritti, consegnati alla memoria, consegnati a noi.