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DANNO E RESPONSABILITA’•ANNO X
SOMMARIO
OPINIONI
CLASS ACTIONS E MERCATO FINANZIARIO: L’ESPERIENZA NORDAMERICANA
di Elisabetta Bellini
817
NORMATIVA
L’ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA DEGLI SPORTIVI DILETTANTI TRA DECRETI MINISTERIALI
E POLIZZE SPORTASS
Decreto ministeriale 17 dicembre 2004
827
commento di Giuseppe De Marzo
834
GIURISPRUDENZA
Legittimità
LA (DOPPIA) NATURA DELLA RESPONSABILITÀ DEL GESTORE DI UNA PISTA DA SCI
Cassazione civile, sez. III, 10 febbraio 2005, n. 2706
837
commento di Michele Calabrese
840
INCENDIO DI VEICOLI IN SOSTA E DANNI A TERZI: QUALE FORMA DI RESPONSABILITÀ?
Cassazione civile, sez. III, 5 agosto 2004, n. 14998
844
commento di Federica Giazzi
846
Merito
RESPONSABILITÀ CIVILE E FAMIGLIA…UN «IDILLIO» CHE CONTINUA
Tribunale di Monza, sez. IV, 5 novembre 2004
851
commento di Giulio Ramaccioni
855
RESPONSABILITÀ MEDICA DA DIFETTO DI INFORMAZIONE
Tribunale di Venezia, sez. III, 4 ottobre 2004
863
commento di Simona Cacace
866
commento di Giorgia Guerra
872
DIRITTO ALL’IMMAGINE: FRA USO NON AUTORIZZATO DEL RITRATTO E LESIONE DELLA PRIVACY
Tribunale di Roma 12 marzo 2004
879
commento di Bruno Tassone
881
Amministrativa
RITARDI NEI PAGAMENTI E CLAUSOLE IN DEROGA: PROTEZIONE OLTRE IL SEGNO?
Consiglio di Stato, sez. V, 12 aprile 2005, n. 1638
893
commento di Chiara Medici
895
Osservatorio di legittimità
a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito
908
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
815
DANNO E RESPONSABILITA’•ANNO X
Osservatorio di merito
a cura di Paolo L. Carbone
912
Osservatorio sulla giustizia amministrativa
a cura di Gina Gioia
916
INTERVENTI
IL QUANTUM DEL DANNO NON PATRIMONIALE
di Patrizia Ziviz
922
INDICI
INDICE DEGLI AUTORI
925
INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI
925
INDICE ANALITICO
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OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
Azioni collettive
Class actions e mercato finanziario:
l’esperienza nordamericana
di ELISABETTA BELLINI
Traendo spunto dalle recenti proposte di riforma del mercato finanziario, contenenti riferimenti
all’introduzione di azioni collettive nell’ordinamento nazionale, il presente intervento descrive
l’evoluzione del modello nordamericano delle SECURITIES CLASS ACTIONS, dalle riforme degli anni ‘90
agli attuali scandali finanziari.
1. SECURITIES CLASS ACTIONS
Recentemente il legislatore ha suscitato una rinnovata
attenzione allo strumento processuale delle class actions,
nate ed evolutesi unicamente negli Stati Uniti (1), al fine di introdurre un meccanismo simile nel sistema italiano (2). Tale progetto, tuttavia, non presenta portata
generale, bensì limitata ad un settore particolare in cui si
è avvertita con maggiore forza la necessità di incrementare, anche attraverso l’azione privata, l’applicazione del
diritto sostanziale. Si tratta dell’insieme di norme volte a
garantire la trasparenza dei mercati e, di conseguenza, a
favorire gli investimenti, soprattutto da parte dei piccoli
risparmiatori.
A seguito dei gravi episodi verificatisi nei mercati finanziari nazionali e globali, si è proposto di facilitare l’accesso alla giustizia da parte degli investitori attraverso un
meccanismo processuale di partecipazione collettiva.
Poiché tale sistema troverebbe esclusiva applicazione
nell’ambito della responsabilità civile, è implicito che la
riforma processuale debba costituire un miglioramento
anche con riferimento ai due principi cardine della materia sostanziale: la riparazione del danno e la deterrenza.
In tema di risparmio, pur da cause simili: i crack finanziari e l’andamento dei mercati (3), hanno preso le mosse,
in Italia e negli Stati Uniti, proposte di riforma dai differenti contenuti. Ciò è naturale conseguenza del fatto
che, mentre negli USA le class actions sono uno strumento storicamente affermato, nell’ordinamento italiano si renderebbe necessario un trapianto ex nihilo. Per
questo, prescindendo dalla possibilità e dall’opportunità
di un simile innesto, si vuole qui descrivere l’evoluzione
del meccanismo processuale nordamericano che funge
da modello, con particolare riferimento alla materia
d’interesse nazionale. Per far ciò è necessario dar conto,
innanzitutto, delle azioni collettive quale modalità generale di promozione dell’azione processuale, per poi
considerare l’evoluzione delle c.d. Securities Class Actions.
Con questa espressione si indicano le azioni collettive
esercitate da soggetti lesi a seguito dell’acquisto di titoli nel mercato finanziario. Nel sistema nordamericano,
le fonti di responsabilità in questo ambito sono assolutamente varie: è possibile, infatti, far ricorso ai rimedi
generali di common law, sia contrattuali (breach of warranty e rescission) che extracontrattuali (tort of deceit),
oppure a specifiche fattispecie statutarie. Queste ultime sono previste, espressamente o implicitamente, dalle leggi statali c.d. blue sky e dalle leggi federali a disciplina del risparmio. Tra i due sistemi, quello statale e
quello federale, non sussiste alcun pericolo di conflitto,
stante l’uniformità e il coordinamento imposto dal
Congresso. Tuttavia, le norme che assumono maggior
rilievo, soprattutto in correlazione con lo strumento
delle class actions, sono quelle federali (4). È facile, del
resto, capire il perché della necessità di regolare unitariamente, a livello federale, e con norme apposite questo settore dai caratteri e dalle esigenze peculiari. Il
mercato finanziario, infatti, non è confinato nei singoli stati, né gli scambi che in esso avvengono pongono
problematiche che possano dirsi sufficientemente regolate da norme generali.
In particolare, all’interno delle leggi federali, veicolo priNote:
(1) R.B. Cappalli - C. Consolo, Class actions for continental Europe? A preliminary inquiry, in 6 Temple International and Comparative Law Journal,
1993, 218.
(2) Si vedano le proposte di legge C. 4639, C. 4747, C. 4971 e C. 4705,
nell’ambito degli interventi a tutela del risparmio, vagliate delle Commissioni parlamentari riunite Finanze e Attività Produttive, ai fini della
redazione di un testo unificato, ora approvato dalla Camera e all’esame
del Senato.
(3) Circa la stretta correlazione tra i due fattori, si veda: J. C. Coffee, Understanding Enron: «It’s about the gatekeepers, stupid», in 57 The Business
Lawyer, 2002, 1416.
(4) L. Loss, Fundamentals of Securities Regulations, Boston, Little Brown,
1986, 1007 ss.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
mario (5) per intraprendere un’azione collettiva è il disposto del paragrafo 10(b) del 1934 Securities Exchange
Act e della correlata regola 10b-5. La fattispecie ivi descritta è quella della «frode nel mercato», la quale si sostanzia nell’impiego diretto o indiretto, in relazione all’acquisto o alla vendita di titoli, di meccanismi fraudolenti volti ad aggirare la regolamentazione imposta dalla
competente Autorità di controllo. Conseguenza di tale
condotta è la specifica sanzione imposta in caso di emissione di false informazioni su «fatti materiali» inerenti lo
scambio dei titoli, o di omissione delle dovute correzioni
in grado di annullarne il carattere decettivo (6).
Inoltre, strettamente connesse alle prescrizioni in materia di quotazione, sono le ipotesi di responsabilità civile
previste dal 1933 Securities Act (paragrafi 11; 12(1) e
12(2)), nei confronti di coloro che hanno venduto titoli sulla base di informazioni inesatte (7).
Le disposizioni qui elencate possono essere fatte valere
tanto in via individuale, che collettiva; l’impiego del
meccanismo della class action nell’ambito finanziario,
tuttavia, ha delineato uno sviluppo di tali azioni per
molti aspetti peculiare. Al tempo stesso, alcuni dei tratti
propri di questa particolare litigation sono comuni alle
azioni collettive in generale, di cui è necessaria, perciò,
la descrizione in termini più ampi.
2. Class actions
L’azione collettiva è un meccanismo processuale che
permette ad uno o più individui di agire in giudizio per
conto di un’intera categoria di soggetti (8), i quali vantano questioni di diritto comuni nei confronti del medesimo convenuto (9).
L’attore assume la qualità di «rappresentante» della classe (lead plaintiff) semplicemente in virtù dell’esercizio del
proprio diritto ad agire secondo le regole della class action, ovvero, poiché egli è stato il primo a far valere l’interesse della categoria e a presentarsi come portavoce
della stessa (10). Non deve essere accertata alcuna autorità o posizione particolare del soggetto in questione rispetto alla classe. Diversamente da quanto avviene in altri ordinamenti (11), il sistema nordamericano non richiede l’esistenza di un ente esponenziale titolare di un
interesse collettivo, superindividuale e solo eventualmente coincidente con gli interessi dei singoli (12). L’azione collettiva non trae legittimazione dal fatto che chi
si attiva rappresenti un gruppo non occasionale, e sia dotato «di sufficiente forza e consistenza organizzativa»
(13), tale da renderlo un autonomo centro d’imputazione di interessi. Al contrario, nel caso delle class actions, si
assiste alla mera aggregazione di causae petendi individuali nei confronti del medesimo convenuto; per cui l’azione non si carica di alcuna valenza vagamente pubblicistica, ma rimane come puro «private enforcement of individuated private rights» (14).
La ratio di questo meccanismo risiede in ragioni di «economia processuale e di uniformità di giudicato» (15). Infatti, trattare congiuntamente casi identici, nelle que-
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stioni di fatto e di diritto essenziali, significa ridurre i costi della litigation e, quindi, aumentare l’efficienza del
procedimento giudiziale. Inoltre, considerazioni di policy
hanno convinto il Congresso a creare uno strumento
che permetta anche ai soggetti e ai casi economicamente più deboli di trovare tutela in via processuale (16).
Ma, non solo l’unione di più azioni simili favorisce l’accesso alla giustizia riducendone i relativi costi, essa conferisce anche un potere (negoziale e di impatto sulla giuria) che il singolo attore non avrebbe (17). Tale effetto
in termini di access to justice, soprattutto con riferimento
alla responsabilità civile, fa sì che la regola processuale
costituisca di fatto un mezzo di redistribuzione della ricNote:
(5) R. M. Phillips - G. C. Miller, The Private Securities Litigation Reform
Act of 1995: rebalancing litigation risks and rewards for class action plaintiffs,
defendants and lawyers, in 51 The Business Lawyer, 1996, 1031.
(6) Section 10, Securities Exchange Act of 1934: ´It shall be unlawful for any
person, directly or indirectly, by the use of any means or instrumentality of interstate commerce or of the mails, or of any facility of any national securities exchange—[..]b. To use or employ, in connection with the purchase or sale of any
security registered on a national securities exchange or any security not so registered, or any securities-based swap agreement (as defined in section 206B of
the Gramm-Leach-Bliley Act), any manipulative or deceptive device or contrivance in contravention of such rules and regulations as the Commission may
prescribe as necessary or appropriate in the public interest or for the protection
of investors».
Rule 10b-5: «It shall be unlawful for any person, directly or indirectly, by the
use of any means or instrumentality of interstate commerce, or of the mails or
of any facility of any national securities exchange, (a). to employ any device,
scheme, or artifice to defraud, (b) to make any untrue statement of a material
fact or to omit to state a material fact necessary in order to make the statements
made, in the light of the circumstances under which they were made, not misleading, or (c) to engage in any act, practice, or course of business which operates or would operate as a fraud or deceit upon any person, in connection with
the purchase or sale of any security».
(7) L. Loss, Fundamentals of Securities Regulations, cit., 1016 ss.; T. L. Hazen, The Law of Securities Regulations, St. Paul, West Publishing, 1985,
181 ss.
(8) R. B. Cappalli - C. Consolo, Class actions for continental Europe?, cit.,
224.
(9) P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della class action e i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it.,
2000, II, 2224.
(10) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 235-236.
(11) Cfr. legge 30 luglio 1998, n. 281, circa le azioni che possono essere
promosse dalle associazioni dei consumatori o degli utenti di un servizio
(P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della class action e
i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, cit., 2224); oppure,
legge 8 luglio 1986, n. 349, con cui si è attribuita la legittimazione ad agire alle associazioni a tutela dell’ambiente (P. Virga, Diritto Amministrativo,
Milano, 1999, 176).
(12) P. Rescigno, op. cit., 2226; P. Petrelli, Interessi collettivi e responsabilità
civile, Padova, 2003, 1 ss.
(13) Così P. Petrelli, Interessi collettivi e responsabilità civile, cit., 10.
(14) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 240.
(15) P. Rescigno, op. cit., 2224.
(16) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 225.
(17) G. L. Priest, Procedural versus substantive controls of mass tort class actions, in 26 Journal of Legal Studies, 1997, 521-523.
OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
chezza (18). Non a caso l’azione collettiva, nei suoi tratti moderni e più significativi in termini di politica del diritto, nasce direttamente dall’idea di great society promossa negli Stati Uniti durante gli anni ’60 (19).
L’originaria formulazione della Federal Equity Rule 38 del
1912, che disciplinava le azioni collettive, era in effetti
piuttosto restrittiva e aveva avuto scarsa applicazione
(20). In particolare, il vincolo richiesto tra i membri della classe era particolarmente stringente, sia per il grado
di coincidenza dell’interesse individuale (21), sia a causa del necessario intervento nel processo (22). Dopo un
primo temperamento con la Moore Rule del 1938, il legislatore ha operato una sostanziale riforma dell’istituto
nel 1966, con la stesura dell’attuale Federal Rule of Civil
Procedure 23 (23).
Ai fini della presente analisi, la figura di class action di
maggiore importanza è certamente quella descritta nel
paragrafo b(3) della norma, che fissa i requisiti in presenza dei quali le Corti possono accettare l’azione collettiva. I giudici, infatti, sono dotati di una certa discrezionalità nel valutare l’opportunità dell’aggregazione di più
causae petendi, ma sono guidati da due principi concorrenti: (i) il carattere similare dei punti di fatto e di diritto deve prevalere su eventuali questioni prettamente individuali; (ii) la gestione collettiva della controversia
deve essere più giusta (fair) ed efficiente di quella individuale (24).
La verifica della sussistenza di tali requisiti è essenziale ai
fini della c.d. certification dell’azione esercitata dal lead
plaintiff (25), e si svolge in una fase preliminare, in contraddittorio con le parti che abbiano eventualmente presentato opposizione (26). Concessa la propria autorizzazione, la Corte fa sì che l’avvenuto esercizio dell’azione
sia notificato a coloro che fanno parte della classe, utilizzando i mezzi più efficaci secondo le concrete circostanze. La notifica serve ad informare degli elementi oggettivi e soggettivi che compongono l’azione, nonché della
possibilità d’intervenire nel procedimento o di sottrarsi,
entro i termini stabiliti, all’efficacia vincolante del giudicato (27). Solo un sistema di opt-out permette, quindi, di
far sì che la propria sfera giuridica non sia modificata a
seguito della sentenza e di esercitare, nel caso, un’azione
individuale. Con le class actions, infatti, si verifica un’estensione dei limiti della res iudicata, il che costituisce l’aspetto certamente più problematico di tale meccanismo
processuale. La sentenza o qualsiasi altra soluzione stragiudiziale, la quale richiede pur sempre il consenso della
corte, vincolano tanto coloro che hanno effettivamente
preso parte al procedimento, quanto gli altri soggetti appartenenti alla medesima classe, e che non si sono volontariamente chiamati fuori dal giudizio. Anche nell’ipotesi in cui un individuo non sia materialmente pervenuto a conoscenza del procedimento in corso, nonostante la notifica, la decisione definitiva è comunque
produttiva di effetti sui suoi rapporti giuridici (28).
Visto dall’esterno con gli occhi di un civil lawyer, tale
aspetto stride con i confini tradizionali del giudicato (29)
e con l’inscindibile legame tra attore ed interesse fatto
valere in giudizio (30). Mentre, per il giurista nordamericano (31), vi è la necessità di rintracciare un adeguato
bilanciamento con il fondamentale principio di garanzia
della due process (32), nella sua specifica portata processuale (33). In tal senso il Congresso ha ritenuto di raggiungere un equilibrio inserendo, a tutela dei soggetti appartenenti alla categoria, gli standard e gli steps procedurali precedentemente descritti (34). Resta, però, del tutto aperta la questione circa l’efficacia di tali sistemi e l’adeguatezza, a fronte dei moderni sviluppi del sistema giudiziale e dell’attività legale, della soluzione prospettata
dal legislatore del 1966.
Note:
(18) G. L. Priest, Procedural versus substantive controls of mass tort class actions, cit., 522; R. B. Cappalli e C. Consolo, op. cit., 221.
(19) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 227.
(20) P. Rescigno, op. cit., 2224.
(21) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 226.
(22) J. C. Coffee, Class action accountability: reconciling exit, voice, and
loyalty in representative litigation, in 100 Columbia Law Review, 2000, 401.
(23) La riforma si deve ad un advisory commitee guidato dal Prof. Kaplan
(cfr. C. Consolo, Class Actions dagli USA?, in Diritto Civile, I, 1993, 623
ss.; J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 401; P. Rescigno, op. cit.,
2224).
La regola si riferisce alle azioni promosse nell’ambito della giurisdizione
federale, ma ben presto anche i singoli Stati l’hanno recepita nei propri
ordinamenti (R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 257).
(24) Federal Rule 23(b)(3): «the court finds that the questions of law or fact
common to the members of the class predominate over any questions affecting
only individual members, and that a class action is superior to other available
methods for the fair and efficient adjudication of the controversy. The matters
pertinent to the findings include: (A) the interest of members of the class in individually controlling the prosecution or defense of separate actions; (B) the extent and nature of any litigation concerning the controversy already commenced by or against members of the class; (C) the desirability or undesirability of
concentrating the litigation of the claims in the particular forum; (D) the difficulties likely to be encountered in the management of a class action».
(25) Federal Rule 23(c).
(26) P. Petrelli, op. cit., 43-44.
(27) Federal Rule 23(c)(B).
(28) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 227.
(29) Cfr. art. 2909 c.c., che limita gli effetti della sentenza passata in giudicato alle parti, ai loro eredi o agli aventi causa.
(30) P. Rescigno, op. cit., 2226 ss.; C. Consolo, Class Actions fuori dagli
USA?, cit., 632-633.
Nonostante la contrarietà a principi dell’ordinamento nazionale, non
mancano autori che hanno sostenuto l’introduzione nel diritto processuale italiano delle azioni collettive, o comunque di strumenti che tengano conto della ormai diffusa dimensione «sociale» delle situazioni giuridiche, (ad esempio: M. Cappelletti, Formazioni sociali e interessi di gruppo
davanti alla giustizia civile, in Riv. dir. proc., 1975, 361; M. Cappelletti, Ordinamento giudiziario: quale riforma?, in Foro it., II, 1984, 130; R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 261 ss.).
(31) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 401-402.
(32) V° Emendamento del Bill of Rights.
(33) U. Mattei, Common Law, Torino, 1992, 150-151.
(34) R. B. Cappalli - C. Consolo, op. cit., 235-237.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
3. Aspetti problematici delle class actions
L’aggregazione di azioni individuali realizzata attraverso
la class action non costituisce un’unione che rappresenti
naturalmente gli interessi di categoria; si tratta, piuttosto, di una fictio, introdotta nel sistema per i vantaggi
procedurali e di policy ch’essa è in grado di produrre (35).
Di fatto, nonostante le cautele inserite nella Federal Rule 23, essa fa sì che un soggetto possa essere vincolato da
una sentenza senza aver espresso in alcun modo la propria volontà per un simile cambiamento.
In realtà, nella dottrina americana, non sono mancati
pareri che abbiano cercato di qualificare in maniera differente la classe, al fine di rintracciarvi una più forte legittimazione a rappresentare l’interesse dei vari soggetti
che ne fanno parte. Per questo, la categoria è stata considerata una legal entity autonoma (36); tuttavia, diversi
fattori fanno dubitare della possibilità di considerarla come soggetto giuridico. Manca, innanzitutto, la richiesta
di un consenso espresso (che si avrebbe solo con un sistema di opt-in), così come una disciplina della possibile
organizzazione interna alla classe, basata per esempio sul
principio maggioritario (37) (le regole di procedura prevedono solamente la creazione di un comitato esecutivo
per i difensori delle parti) e, soprattutto, non vi è un interesse superiore ed autonomo.
Nel corso del tempo, l’applicazione della Federal Rule 23
ha evidenziato, semmai, una serie di interessi contrastanti, che vanno al di là del conflitto tra attore e convenuto, coinvolgendo direttamente altre parti attive del
procedimento: i giudici, ma soprattutto, gli avvocati. Tali divergenze sono inconciliabili e, spesso, gli interessi
prevalenti non sono confacenti alle finalità di compensation e deterrence proprie della responsabilità civile. Si è
per questo avvertita la necessità di affrontare la questione in termini di agency costs, da ridurre attraverso una
riorganizzazione della rappresentanza della classe (38).
Gli interessi opposti, che trovano espressione in un’azione collettiva, possono essere sia interni che esterni alla
categoria (39). Sono riconducibili alla prima tipologia,
ad esempio, le differenti motivazioni che muovono gli
azionisti in una Securities Class Action, i quali possono
aver subito perdite più o meno ingenti e in differenti momenti. Altra ipotesi classica è quella che si verifica nei
mass torts, ove a fronte di coloro che già possono beneficiare del risarcimento, in quanto hanno subito pregiudizi nella persona o nella proprietà, vi sono coloro le cui lesioni si manifesteranno solo in futuro, quando, però, saranno esclusi dal giudicato o non vi saranno somme sufficienti a garantire loro una compensazione (40). I conflitti esterni, invece, coinvolgono gli attori e i convenuti, questi ultimi intenzionati a ridurre la propria esposizione risarcitoria, nonché le parti e i giudici interessati
all’economia processuale, sia in termini di aggregazione
delle azioni che di tempi per addivenire ad una soluzione (41). Assume un valore decisivo, poi, il contrasto tra
gli interessi degli attori e quelli degli avvocati. Ciò può
sorprendere, ma si è ormai riconosciuta l’impossibilità di
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considerare il rapporto cliente-avvocato in termini
esclusivamente fiduciari, stante il coinvolgimento economico diretto del prestatore di servizi. La questione è
da intendersi come una diversa valutazione del rischio
da parte dei soggetti agenti nel procedimento (42).
L’avvocato opera secondo una logica imprenditoriale,
tanto nella scelta dei casi da sostenere, che nella decisione di accettare una soluzione transattiva o attendere il
pronunciamento dei giudici (43). Ciò in stretta connessione con le formule impiegate negli Stati Uniti per il calcolo dei compensi (44): una percentuale delle somme riconosciute a titolo di risarcimento a favore degli attori
(contingency fee), oppure il numero di ore lavorate moltiplicate per una quota fissa (lodestar formula, metodo impiegato nelle Securities Class Actions (45)). In entrambi i
casi, l’interesse economico spinge l’avvocato ad impegnarsi in una data causa solo sino al punto in cui i costi
ch’egli ha nel frattempo sostenuto siano ripagati e il guadagno prospettato sia assicurato (46). Spesso tale condizione è garantita da un accordo stragiudiziale con la controparte, anche di molto anticipato rispetto alla conclusione giudiziale, e di importo inferiore alle aspettative del
danneggiato o alle «potenzialità» delle ragioni di parte.
Settlements di questo tipo trovano di norma l’accordo dei
convenuti, il cui primario interesse è ridurre il più possibile i costi della litigation (sempre elevati nei casi di responsabilità civile legata ai mercati finanziari (47)). TutNote:
(35) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 380-383.
(36) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 379.
(37) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 382; G. L. Priest, Procedural versus substantive controls of mass torts class action, cit., 528.
(38) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 370; 374-376; J. C. Coffee, Class wars, in 95 Columbia Law Review, 1995, 1346-1347; J. C. Coffee, Understanding the plaintiff’s attorney: the implications of economic theory
for private enforcement of law through class and derivative actions, in 86 Columbia Law Review, 1986, 680; 714; 726.
(39) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 375; 386 ss.
(40) I limiti del giudicato sono definiti dai giudici, sia in sede di certification, che nella decisione finale (Rule 23(c)(1)(B) e 23(c)(2)(B)).
Spesso viene istituito un fondo al quale le vittime appartenenti alla categoria così definita possono fare istanza di risarcimento (R. B. Cappalli C. Consolo, op. cit., 233).
(41) J. C. Coffee, Class wars, cit., 1369.
(42) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 378-379; 389 ss.; 411.
(43) J. C. Coffee, Understanding plaintiff’s attorneys, cit., 678; 686 ss.
(44) Nel caso di una class action le Corti devono pronunciarsi anche sulle somme da corrispondere agli avvocati, le quali devono essere conformi
ad un criterio di ragionevolezza (Federal Rule 23(H)).
(45) J. Cooper Alexander, Do merits matter? A study of settlements in Securities class actions, in 43 Stanford Law Review, 1991, 538.
(46) J. Cooper Alexander, Do merits matter?, cit., 536 ss.; J. C. Coffee,
Understanding plaintiff’s attorneys, cit., 690 ss.; J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 404-405.
(47) I risarcimenti richiesti sono molto elevati; inoltre, la presenza stessa di
un’ampia categoria di soggetti danneggiati amplifica sempre le spese legate
ad un’azione collettiva (J. Cooper Alexander, op. cit., 528; 537; 548-549).
OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
tavia, anche il potere e le strategie negoziali del danneggiante possono manifestarsi in maniera diversa a seconda
della percezione del rischio. Essa sarà più forte se i costi
che il convenuto deve sostenere sono alti e, soprattutto,
maggiori di quelli del danneggiato, mentre se il danneggiante è un repeat player, per la cui attività vi sono probabilità medio-alte di cagionare lesioni, il rischio avvertito
è più basso. Il repeat player, infatti, si affida a mezzi di autotutela, quali l’assicurazione, e può accettare l’alea della
sentenza, onde evitare di essere citato in giudizio in futuro solo per vedersi «estorcere» un facile settlement (48).
Quindi, gli accordi che pongono fine alla gran parte dei
processi americani, comprese la Securities Class Actions
(49), non sono il frutto di una vera e propria collusione
tra soggetti che, invece, dovrebbero essere portatori di
interessi avversi, ma semmai, di una convergente visione del rischio (50). Mentre l’avvocato è tendenzialmente avverso alle incognite connaturate alla soluzione giudiziale della controversia, l’attore potrebbe al contrario
essere più propenso al rischio, o per lo meno disposto a
portare avanti la trattative per una soluzione pattizia più
favorevole. L’anomalia, perciò, risiede in questo contrasto cliente-avvocato, spesso evidente in ambito di Securities, ove il rappresentante della categoria, soprattutto se
investitore professionale, è sostanzialmente neutrale al
rischio, per via della diversificazione operata nel proprio
portafoglio d’investimento.
Se le visioni delle strategie da seguire sono così diverse,
assume un rilievo fondamentale capire chi è effettivamente titolare del potere di scelta, non solo all’interno
della classe, ma anche nel rapporto tra attore ed avvocato. Pareri unanimi, infatti, riconoscono a quest’ultimo il
reale controllo delle scelte legate alle azioni collettive, di
qui l’avvertita necessità di riformare l’istituto processuale
nel segno di una maggiore autonomia e migliore rappresentanza del soggetto leso (51). A tal fine, due sono gli
elementi che, alternativamente a seconda del tipo di
controversia, possono essere migliorati: (i) il potere che il
singolo è in grado di esercitare all’interno della classe; e
(ii) la possibilità di autoesclusione (facoltà da garantire
soprattutto anche dopo che sia stato raggiunto un accordo stragiudiziale con la controparte). Inoltre, per rendere
ancor più efficaci tali strumenti, si è proposto di aprire le
azioni collettive alla concorrenza, di modo che chi esercita il diritto di opt-out possa non solo agire individualmente, ma anche aderire ad una class action concorrente.
Il rischio di un’eccessiva duplicazione dell’attività processuale, tale da vanificare l’economia processuale propria
delle azioni collettive, sarebbe ridotto dalle inevitabili
valutazioni economiche delle parti coinvolte nell’eventuale processo (da intendersi come attori ed avvocati),
nonché dagli stessi requisiti della Federal Rule 23 (52).
4. I difetti delle azioni collettive nel mercato
finanziario
Le azioni collettive promosse da investitori del mercato
finanziario presentano, ovviamente, patologie comuni
alle class actions in generale, ma anche estremizzazioni di
tali vizi dipendenti dal loro specifico contesto. Tali controversie sono risolte nella quasi totalità dei casi attraverso accordi stragiudiziali, i quali, in teoria, dovrebbero
lasciare le parti in una condizione sostanzialmente uguale o migliore a fronte del rischio di un pronunciamento
giudiziale avverso. Pur non essendo tali patti direttamente dipendenti dalle ragioni di diritto fatte valere in
sede processuale, ci si deve ragionevolmente attendere
che il risultato così raggiunto sia accurato quanto una
sentenza e rispettoso dei meriti emersi, non di fronte al
giudice terzo, bensì nella negoziazione tra le parti, essendo il potere di ciascuna di esse proporzionale al fondamento della pretesa avanzata. Tuttavia, per le Securities
Class Actions, una serie di circostanze ricorrenti fanno
vacillare questo assunto (53).
Tipicamente, le azioni collettive vengono intraprese solo dopo il verificarsi di un significativo ribasso del prezzo
dei titoli. La velocità con cui, a seguito di tale evento,
viene promossa la class action fa sorgere diverse perplessità, in modo particolare circa lo scarso tempo a disposizione per svolgere un’adeguata indagine sulle possibili
responsabilità. La prassi ha confermato la sostanziale assenza di una simile fase prima del processo, data l’estrema facilità di raggiungere un settlement, per le ragioni
precedentemente descritte, in questa tipologia di azioni
collettive. Spesso si sono avuti dei professional lead plaintiffs, di fatto rintracciati dagli avvocati specializzati in
questo tipo di litigation. Inoltre, la mancanza di una corretta attività investigativa ha finito col rafforzare, anziché indebolire, il potere negoziale del claimant. L’attività
probatoria durante il procedimento, infatti, diviene una
minaccia: per i costi elevati che essa impone e per il rischio di far affiorare quelle prove di responsabilità che
l’avvocato dell’attore non ha reperito in precedenza. Ecco che gli accordi stragiudiziali sono raggiunti sulla base
dei soli fatti realmente noti (il ribasso del prezzo e le
informazioni fatte circolare sino a quel momento dall’emittente), ma non della responsabilità (54).
Emergono poi una serie di aspetti peculiari delle Securities
Note:
(48) J. C. Coffee, Understanding plaintiff’s attorneys, cit., 701 ss.
(49) J. Cooper Alexander, op. cit., 498-499; 524.
(50) J. C. Coffee, Class wars, cit., 1367; J. C. Coffee, Understanding plaintiff’s attorneys, cit., 688 ss.; J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 390
ss.; J. Cooper Alexander, op. cit., 502; 505.
(51) G. L. Priest, op. cit., 523; 527 ss.
(52) J. C. Coffee, Class action accountability, cit., 419 ss.
(53) J. Cooper Alexander, op. cit., 501-507.
(54) J. Cooper Alexander, op. cit., 513 ss.; M. A. Perino, Did the Private
Securities Litigation Reform work?, disponibile presso www.home.
law.uiuc.edu/lrev/publications/2000s/2003/2003_4/perino.pdf, 920; A.
C. Pritchard, Should Congress repeal Securities class action Reform?, disponibile presso www.law.umichiganedu/centersandprograms/olin/papers; R.
M. Phillips - G. C. Miller, The Private Securities Litigation Reform Act of
1995, cit., 1011-1014.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
Class Actions, quale l’elevata specializzazione tra gli avvocati che assistono gli investitori. Si tratta, diversamente
dai professionisti che affiancano i convenuti, di pochi
studi di piccole dimensioni, che non mantengono un
rapporto duraturo col cliente. Normalmente essi cercano
di distribuire i propri sforzi su vari casi dello stesso tipo,
concentrandosi su ciascuno in modo da raggiungere un
risultato, in termini economici, che sia sicuro. Spesso
concentrarsi solo su poche controversie di maggior rilievo, o affrontare il processo sino a sentenza, sarebbe troppo rischioso per queste modeste organizzazioni (55).
Anche il sistema assicurativo ha favorito gli accordi privati, ciò in considerazione del fatto che le polizze stipulate dai presunti danneggianti prevedono esborsi da parte delle compagnie solo se non è stata accertata la responsabilità dell’assicurato. Nel caso di una condanna al
risarcimento del danno, quindi, il convenuto diviene
personalmente responsabile per le perdite cagionate, cui
si sommano le spese processuali sostenute. È facilmente
comprensibile quanto simili condizioni del contratto
d’assicurazione siano un forte incentivo ad evitare una
sentenza, soprattutto per gli amministratori della società.
Questi soggetti, infatti, sono il più delle volte citati in
giudizio a fianco della persona giuridica, ma, diversamente da essa, subiscono in misura molto maggiore il timore di un’esposizione patrimoniale diretta e proprio per
questo preferiscono assecondare le scelte «imposte» dalle polizze assicurative stipulate per la propria attività
(c.d. Directors & Officers insurance) (56).
L’insieme delle osservazioni svolte conduce alla conclusione che le Securities Class Actions non siano risolte secondo i meriti; in particolare, pretese risarcitorie debolmente motivate possono comunque produrre settlements
ingenti. Al contrario, casi con maggiori probabilità di
esito positivo possono essere pregiudicati da pratiche
standardizzate e avverse a qualsiasi rischio. In tal modo si
assiste, nei fatti, all’abbandono del sistema della responsabilità civile, proprio perché l’accertamento sulla condotta lesiva viene sistematicamente negletto. Ci si avvicina, quindi, ad una sorta di assicurazione no-fault in caso di perdite registrate nel mercato finanziario, la quale
garantisce in ogni caso un indennizzo, aggirando l’intervento giudiziale (57). Non solo, questa alternativa alla
responsabilità civile non sembra neppure portare ad adeguati livelli di riparazione e di deterrenza. Il pericolo di
over o undercompensation, infatti, è insito nella non necessità di provare l’effettiva responsabilità; si determina,
piuttosto, un livellamento degli indennizzi sostanzialmente estraneo alla tort law. Nonostante l’impiego di
azioni collettive, in concreto gli investitori hanno ricevuto, per mezzo dei settlements voluti soprattutto da avvocati e convenuti, somme inferiori rispetto a ciò che
può considerarsi un adeguato risarcimento del danno. Di
conseguenza, il livello di deterrenza effettivamente percepito è stato basso (58), anche in relazione alla presenza di assicurazioni che pagano la gran parte delle somme
concesse in via stragiudiziale (59).
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
5. Private Securities Litigation Reform Act 1995:
la riforma e i suoi esiti
Il contenzioso in materia di responsabilità civile nei
mercati finanziari ha manifestato, attraverso lo sfruttamento sistematico del potere conferito dalle azioni collettive, una forte deviazione rispetto ai principi della tort
law e della stessa funzione giurisdizionale. Per questo nel
1995 il Congresso ha approvato una legge volta a riportare la situazione in condizioni d’equilibrio, al termine di
un iter che vide opporsi l’attività di lobby dell’American
Bar Association a quella delle corporations, nonché il veto
dell’allora Presidente Clinton (60).
Intento primario del legislatore era di ristabilire il necessario legame tra i meriti della causa e l’esito della stessa,
di modo che pretese prive di adeguato fondamento non
avrebbero più potuto trovare facili ristori extragiudiziali
e in via pressoché automatica. Il raggiungimento di questo risultato avrebbe comportato, di conseguenza, il venir meno, o comunque la diminuzione, delle domande
rivolte ai giudici col solo scopo reale di intraprendere
trattative con la controparte. In questo modo, il numero
complessivo dei procedimenti giudiziali e i relativi costi
si sarebbero ridotti (61).
I cambiamenti introdotti con il Private Securities Litigation Reform Act 1995 («PSLRA») riguardano sia il diritto processuale, limitatamente alle azioni promosse di
fronte alle Corti federali (62), che quello sostanziale. Il
Note:
(55) J. Cooper Alexander, op. cit., 522; 545 ss.
(56) Al contrario, le assicurazioni avrebbero un interesse ad attendere la
decisione dei giudici o, per lo meno, dovrebbero essere neutrali al rischio
in quanto repeat players. Ciononostante non esercitano particolari pressioni in tal senso, sia per la responsabilità a cui, altrimenti, si esporrebbero, sia perché qualora non venisse riconosciuta la mala fede del danneggiante in certi casi sarebbero comunque tenute ad adempiere al contratto (J. Cooper Alexander, op. cit., 551 ss.).
(57) J. Cooper Alexander, op. cit., 569-571.
(58) R. M. Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1013; 1029-1031.
(59) Lo spreading the costs operato dal meccanismo assicurativo ricade comunque sulla categoria generale dei risparmiatori, in quanto gli effetti
dell’aumento delle polizze ricadono sugli azionisti delle società (J. Cooper
Alexander, op. cit., 572).
(60) R. M. Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1018 ss.
(61) Tra le motivazioni che hanno convinto il Congresso a riformare la
materia vi sarebbe anche quella di ridurre il peso, in termini di rischio legato alla possibile litigation, sostenuto dalle imprese del settore delle tecnologie negli anni precedenti. Il mercato dei loro titoli, infatti, si presentava come altamente redditizio e altrettanto rischioso e competitivo. Perciò, la naturale variabilità del settore, combinata con lo stato delle Securities Class Actions, offriva molte occasioni di agire in giudizio. Svariate
azioni furono intraprese nel Ninth Circuit, dove si trovavano la maggior
parte delle imprese high-tech, e in cui le Corti, peraltro, applicavano uno
standard poco restrittivo circa l’onere probatorio dell’attore.
J. Cooper Alexander, op. cit., 507 ss.; R. M. Phillips - G. C. Miller, op. cit.,
1042-1043; M. A. Perino, Did the Private Securities Litigation Reform
work?, cit., 915; A. C. Pritchard, Should Congress repeal Securities class action Reform?, cit.
(62) Sono altresì escluse le azioni intraprese dalle autorità, federali e
(segue)
OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
legislatore pare, così, aver accolto le istanze della dottrina che sostiene la necessità di intervenire su entrambi i
fronti, al fine di rispettare gli obbiettivi propri della responsabilità civile. Solo così è possibile avere un’attività
giurisdizionale conforme ai principi che regolano la materia processuale e, al tempo stesso, funzionale al corretto livello di compensation e deterrence (63).
Rispetto alla procedura dettata dalla Federal Rule 23, il
PSLRA ha richiesto particolari requisiti per gli investitori che vogliano agire in qualità di rappresentanti di
una classe. Al fine di favorire la partecipazione dei soggetti più interessati e preparati alla litigation, colui che
presenta un claim per primo non è automaticamente lead
plaintiff. Entro venti giorni dal deposito dell’atto di citazione, infatti, l’attore deve già inviare notifica ai membri
della categoria interessata, i quali possono, nel termine
di sessanta giorni, presentare domanda di essere ammessi come rappresentanti della classe. La Corte, entro novanta giorni, deve stabilire chi sia il soggetto più adeguato ad essere portavoce degli interessi dei danneggiati; secondo una presunzione relativa deve trattarsi dell’investitore economicamente più coinvolto nel caso (essenzialmente un professionista e non un piccolo risparmiatore). Inoltre, la stessa persona non può rivestire il ruolo
di lead palintiff per più di cinque volte in tre anni, né può
ricevere, come avveniva prima del 1995, compensi aggiuntivi per il particolare ruolo svolto in sede processuale (64).
Circa l’attività d’indagine, nell’ipotesi in cui il convenuto faccia istanza di abbandonare il caso per mancanza di
sufficienti elementi fondanti (dismissal), la discovery deve
essere sospesa. Così disponendo, si è chiaramente voluto
scoraggiare l’inizio di procedimenti privi degli idonei accertamenti sulla responsabilità del presunto danneggiante, aumentando le probabilità che una simile causa sia
interrotta prima di trovare le prove necessarie (65).
Inoltre, i giudici sono obbligati (66) a valutare se i petita
siano sufficientemente motivati da elementi di fatto e di
diritto. Qualora le causae petendi non appaiano adeguate
(67), oltre al possibile abbandono del caso, potranno essere inflitte all’attore sanzioni pecuniarie in forma di pagamento di tutte le spese nel frattempo sostenute dalla
controparte (68).
Infine, l’ultima previsione di carattere procedurale riguarda il compenso a favore degli avvocati, per il quale è
stato fissato un limite pari ad una ragionevole percentuale dei danni complessivamente risarciti dal convenuto (69).
La riforma di diritto sostanziale ha soprattutto reso più
rigoroso l’onere della prova in capo all’attore nei casi di
frode nel mercato. Il paragrafo 9(b) delle regole di procedura civile federale richiede che i fatti costituenti la
frode siano provati «with particularity», mentre l’elemento soggettivo, riferito al danneggiante, può essere
definito «generally». Nella prassi i giudici hanno applicato standard molto diversi per la necessaria prova del
c.d. scienter, ovvero della consapevolezza con cui il con-
venuto ha posto in essere la frode. In particolare, il Second Circuit ha richiesto la fondata possibilità di dedurre il dolo del danneggiante («strong inference»), mentre
il Ninth Circuit si accontentava che venisse semplicemente statuita l’esistenza della consapevolezza richiesta.
Nel 1995 il Congresso ha codificato la prima interpretazione (70), circa l’elemento soggettivo della fattispecie, richiedendo anche una prova più precisa delle
informazioni false o errate che ne hanno costituito il
fattore oggettivo (71).
Il legislatore ha poi ampliato la serie di circostanze che
escludono la responsabilità di chi ha compiuto affermazioni sull’andamento futuro dei titoli (safe harbor), riprendendo quanto già la giurisprudenza aveva elaborato
in tal senso. Attualmente, non vi è obbligo di risarcire il
danno in presenza di una di queste condizioni: (i) l’informazione era accompagnata da significative precauzioni,
con le quali si avvertiva della possibilità che i risultati
reali potessero differire da quelli previsti; (ii) impossibilità di dar prova della conoscenza, da parte del convenuto, dell’infondatezza della proiezione; (iii) le affermazioNote:
(segue nota 62)
statali, che controllano il mercato finanziario, nonché le pretese basate
sulle norme generali in materia di frode, e non sulla disciplina specifica
del settore. N. B. Schaumann, Securities Regulation, Chicago, Barbri,
2003, 380.
(63) G. L. Priest, op. cit., 551; 559; J. C. Coffee, Understanding plaintiff’s
attorneys, cit., 726.
(64) Paragrafi 27(a)(1)-27(a)(4) del 1933 Securities Act e paragrafi
21(D)(a)(1)-21(D)(a)(3) del 1934 Securities Eschange Act, come modificati dal paragrafo 101 del PSLRA. N. B. Schaumann, Securities Regulation, cit., 382-382; R. M. Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1015-1016; 10391041; 1048-1049.
(65) Vi sono due eccezioni a questa regola: (i) qualora la sospensione possa arrecare pregiudizio all’attore; oppure (ii) possa impedirgli di ottenere
una prova.
Paragrafo 27(b) del 1933 Securities Act e paragrafo 21(D)(b)(3) del 1934
Securities Exchange Act, modificati dal paragrafo 101 del PSLRA. N. B.
Schaumann, op. cit., 384; M. Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1044-1045.
(66) Prima l’esercizio di questo potere era discrezionale (M. Phillips - G.
C. Miller, op. cit., 1016; 1047).
(67) Secondo i parametri della Federal Rule 11, la quale impone ai legali
e alla parti di dare garanzia che ogni azione intrapresa di fronte alla corte
sia: (1) non finalizzata a ritardare o confondere l’azione giudiziale o ad incrementarne i costi; (2) fondata sul diritto vigente e su fatti adeguati, i
quali (3) devono essere supportati da prove.
(68) Paragrafo 27(c) del 1933 Securities Act e paragrafo 21(D)(c) del
1934 Securities Exchange Act, come emendato dal paragrafo 101 del PSLRA. N. B. Schaumann, op. cit., 386; M. Phillips - G. C. Miller, op. cit.,
1016; 1045-1048.
(69) Paragrafo 27(a)(6) del 1933 Securities Act e paragrafo 21(D)(a)(6)
del 1934 Securities Exchange Act, modificati dal paragrafo 101 del PSLRA.
(70) J. C. Coffee, The future of the Private Securities Litigation Reform
Act: or, why the fat lady has not yet sung, in 51 The Business Lawyer, 1996,
979-981.
(71) Paragrafo 21(D)(b) del 1934 Securities Exchange Act modificato dal
paragrafo 101 del PSLRA. M. Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1041-1044.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
ni non rappresentavano una seria previsione e non sono
state effettuate con simile intento (72).
Tra gli altri aspetti di rilievo nel PSLRA, vi è la modifica apportata alla responsabilità solidale, la quale scatta
solo tra coloro che hanno agito con dolo, mentre gli altri convenuti soccombenti rispondono per la sola quota
di danno ad essi imputabile (73). L’esclusione parziale
della regola di joint and several liability, a favore di una proportionate liability (74), serve a ridurre gli incentivi a citare in giudizio le c.d. deep pocket parties, che, in precedenza, potevano essere tenute ad esborsi non dipendenti da
una loro consapevole partecipazione alla frode (75).
Infine, è stato introdotto un significativo mutamento
nel sistema di calcolo del risarcimento. Prima del 1995,
pur se mancava una specifica previsione in tal senso, i
danni venivano determinati come differenza tra il prezzo
pagato dall’attore all’acquisto del titolo e quello raggiunto dopo che le informazioni costituenti la frode erano
state corrette. La riforma, invece, ha imposto un preciso
cap, secondo cui l’ammontare del risarcimento non può
eccedere la differenza tra il prezzo pagato e il prezzo medio del titolo nei novanta giorni antecedenti la scoperta
del reato (76).
Nel 1998 il legislatore americano è ulteriormente intervenuto nella materia, ma non per apportare nuove modifiche alla disciplina, bensì per imporre un radicale
cambiamento in termini di competenza (77). Le leggi
che fissano le ipotesi di responsabilità civile nel mercato
finanziario permettono di agire in giudizio tanto di fronte alle corti federali, quanto a quelle statali. Il PSLRA,
però, ha riformato la materia soltanto con riferimento
alle azioni intraprese nella giurisdizione federale, determinando la fuga dei casi «più deboli» nelle Corti statali,
che continuavano a richiedere un onere della prova meno rigoroso. L’effettività della riforma risultava così fortemente limitata, stante l’incapacità di evitare che pretese poco fondate continuassero ad essere presentate nei
cinquanta stati. Di qui l’uso della doctrine of preemption,
ovvero il riconoscimento della giurisdizione esclusiva
delle Corti federali, in relazione alla class actions instaurate per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito del commercio di titoli azionari (78).
A distanza di anni dalla riforma operata con il PSLRA,
il risultato sperato, cioè la riduzione delle azioni prive di
merito, è stato nel complesso raggiunto, pur se in via inNote:
(72) Paragrafo 27(A) del 1933 Securities Act e paragrafo 21(E) del 1934
Securities Exchange Act, come emendati dal paragrafo 102 del PSLRA. J.
C. Coffee, The future of the Private Securities Litigation Reform Act, cit., 988
ss.; M. Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1052-1056.
(73) La responsabilità proporzionale non vale nei confronti di coloro
che hanno subito danno superiori a $200.000, o al 10% del risarcimento netto; se un convenuto è insolvente, pagamenti aggiuntivi sono richiesti agli altri, sino al 50% della quota iniziale di ciascuno. Paragrafo
21(D)(g) del 1934 Securities Exchange Act, come modificato dal paragrafo 201 del PSLRA.
(74) Negli Stati Uniti, l’adozione di una regola di proportionate liability, in
824
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
relazione alla responsabilità civile nei mercati finanziari, è stata reputata
necessaria al fine di correggere alcune deviazioni del sistema, soprattutto
in connessione con le class actions. Nel nostro ordinamento, a livello dottrinale, si è addirittura suggerita l’opportunità di sostituire, in termini generali, la responsabilità solidale con una regola di responsabilità parziaria
(U. Violante, La responsabilità parziaria, Napoli, 2004, 149-198; U. Violante, Responsabilità solidale e responsabilità parziaria, in questa Rivista, 2001,
460). L’analisi che conduce ad una simile conclusione, però, non ha come
parametri normativi fondamentali le finalità di riparazione e deterrenza,
bensì essa pone al primo posto efficciency e deterrence. Valutando secondo
queste due prospettive, la joint and several liability appare inefficiente: essa
impone costi più elevati di quelli che si avrebbero in un’ottimale situazione di responsabilità parziaria, e fallisce sotto il profilo di un adeguato livello di deterrenza. Se il danneggiante è tenuto a rispondere dell’intero risarcimento, egli può essere incentivato ad investire in sicurezza in modo da
evitare anche il potenziale danno di altri soggetti. Tuttavia, le informazioni ch’egli possiede sono in questo senso spesso inadeguate, per cui il singolo danneggiante non riesce a valutare adeguatamente quale sia lo standard
di diligenza necessario per evitare l’altrui causazione del pregiudizio. Ciò
che risulta è una situazione di inefficienza, perché i costi sostenuti dal singolo sono maggiori di quelli che ciascun responsabile potrebbe sostenere
per evitare la propria quota di danno. Oppure si verifica underdeterrence,
poiché a fronte di elevate somme per il risarcimento e per la necessaria
prevenzione il danneggiante (soprattutto se solvente solo per una ridotta
parte dei damages) potrebbe decidere di restare inerte. Altra conseguenza
negativa è il fatto che il potenziale danneggiante cercherà di evitare coautori troppo rischiosi, se costretto a rispondere anche della loro quota di
danno; evento, quest’ultimo, che si è manifestato proprio negli Stati Uniti in tema di Securities, con particolare riferimento ai revisori.
Rispetto all’esperienza del PSLRA, però, emerge una fondamentale differenza imposta dall’impiego dell’efficienza come parametro normativo:
l’Autore sostiene che la proportionate liability promuova maggiormente la
composizione stragiudiziale delle liti, e che i settlements, riducendo i costi
rispetto al contenzioso, siano più efficienti. Al contrario, la riforma nordamericana, che si può ritenere ispirata alla riparazione del danno e alla
deterrenza, mira a ridurre sensibilmente gli accordi privati, anche attraverso l’abbandono parziale della responsabilità solidale, riconosciuta come uno dei fattori che favoriva soluzioni stragiudiziali. Il Congresso, perciò, ha previsto un sistema «misto», in cui l’elemento discretivo è rappresentato dalla colpa.
Anche nel nostro ordinamento l’elemento soggettivo ha un rilievo primario, in particolare, esso è al centro del meccanismo di regresso dell’art.
2055, comma 2, c.c. Tale regola è stata ritenuta il mezzo che permetterebbe di recuperare un’adeguata deterrenza, pur in presenza di una responsabilità solidale (A. Gnani, L’art. 2055 c.c. e il suo tempo, in questa
Rivista, 2001, 103). Il legislatore italiano, quindi, ha già previsto meccanismi correttivi, nonché fondamentali principi, in grado di rendere la
joint and several liability una better rule come criterio generale.
Tra le due analisi qui riportate (una contro e l’altra a favore della responsabilità solidale), sussiste una sostanziale divergenza di impostazioni, oltre
che di soluzioni, per cui risulta difficile metterle a confronto. Le differenze, infatti, stanno innanzitutto su di un piano diverso e superiore rispetto
allo studio del diritto positivo e alle possibili considerazioni normative
(cfr. G. Calabresi, About Law and Economics: a letter to Ronald Dworkin, in
8 Hofstra Law Review, 1980, 553; F. Denozza, Il danno risarcibile tra benessere ed equità: dai massimi sistemi ai casi «Cirio» e «Parmalat», in Giur.
comm., 2004, 331).
(75) D. C. Langevoort, The reform of joint and several liability under the Private Securities Litigation Reform Act of 1995: proportionate liability, contribution rights and settlement effects, in 51 The Business Lawyer, 1996, 1157; M.
Phillips - G. C. Miller, op. cit., 1056-1059.
(76) Paragrafo 21(D)(e) del Securities Exchange Act, come modificato
dal paragrafo 101 del PSLRA. R. B. Thompson, «Simplicity and certainty» in the measure of recovery under rule 10b-5, in 51 The Business
Lawyer, 1996, 1177.
(77) Securities Litigation Uniform Standards Act 1998.
(78) M. A. Perino, Fraud and Federalism: preempting private state securities
fraud causes of action, in 50 Stanford Law Review, 1998, 273; N. B. Schaumann, op. cit., 383; J. C. Coffee, The future of the Private Securities Litigation Reform Act, cit., 999 ss.
OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
diretta. Il numero dei processi intrapresi, infatti, non è
affatto diminuito; ciò indica come la strategia seguita dagli avvocati resti quella di diversificare i propri sforzi su
vari casi, i quali possono essere più o meno fondati. I procedimenti continuano ad essere iniziati dopo che il prezzo dei titoli ha subito una sensibile riduzione, e l’assistenza legale è tuttora appannaggio di pochissimi studi
legali. Tuttavia, pur se non vi sono stati forti disincentivi ad agire in giudizio, hanno ben operato gli ostacoli inseriti nella procedura. Tale osservazione è formulata sulla base dell’incremento dei casi dismissed, nonché del più
elevato valore dei settlements raggiunti, il che testimonia
il maggior potere negoziale dei danneggiati in grado di
sostenere le proprie pretese con ragioni migliori (79).
In conclusione, perciò, i dati empirici dimostrano come
non siano aumentate la precisione e il merito delle motivazioni addotte a sostegno delle pretese risarcitorie, ma
piuttosto, la possibilità per le corti di selezionare i danneggiati che fanno miglior uso del diritto ad ottenere un
pronunciamento giudiziale o una soluzione pattizia.
6. Conclusioni
I recenti sviluppi nordamericani e italiani, in tema di Securities e di class actions, appaiono simili nella ratio: incrementare l’effetto deterrente nei confronti dei soggetti potenzialmente in grado di porre in essere frodi e cagionare danno ai risparmiatori nel mercato finanziario.
La simile reazione mostra come vi sia una fortissima interdipendenza con le vicende economiche, o meglio,
con l’andamento generale dell’economia. La legge, più o
meno severa, e i mercati sarebbero complementari, piuttosto che contrari, e difficilmente separabili. Di certo, la
necessità di controlli è maggiormente avvertita quando
gli investitori sono scettici e più cauti, ma decisamente
meno nel pieno di una crescita economica. Stabilire, a
fini normativi, chi sia colpevole dei recenti scandali nordamericani (se il PSLRA con il suo rigoroso onere della
prova o la bolla economica) non è certo agevole (80).
Oggi l’attenzione degli ordinamenti è sbilanciata nella
direzione della deterrence, avvertita come esigenza primaria per far tornare la fiducia nel mercato, attraverso la garanzia di una maggiore correttezza dello stesso (81). Si pone, allora, un’ulteriore questione: come realizzare una
riforma in ambito processuale e/o sostanziale. A questo
punto, inevitabilmente, i percorsi dei due sistemi, quello
nordamericano e quello nazionale, si dividono a causa
delle differenze interne. Negli USA, infatti, il problema
sul piano del diritto processuale si pone nei termini di un
nuovo cambiamento delle regole del PSLRA, affinché
non sia più così oneroso ottenere un risarcimento o un
settlement nei casi di frode nel mercato (82). In Italia, invece, le class actions non esistono e un loro inserimento
imporrebbe sostanziali mutamenti di principio (83). Dovrebbe risultare chiaro, al termine di questa analisi, come
la portata di questo meccanismo processuale sia di notevole impatto, e come la questione dovrebbe, forse, essere
affrontata primariamente in termini di policy. In questo
senso, il modello americano ha evidenziato effetti di economia processuale, in una realtà, peraltro, molto ampia e
complessa di corti federali e statali, unitamente alla realizzazione di un beneficio in termini di welfare (84). Dato
lo spessore delle implicazioni normative legate alle azioni
collettive, prendere in considerazione questo strumento
solo per un settore specifico è, quantomeno, difficile.
Non stupisce, quindi, che nel Nuovo Testo Unificato
(85), riferimento per gli attuali lavori parlamentari, non
si faccia menzione di un meccanismo procedurale ispirato alle class actions. I lavori della riforma, così come molta dottrina (86), hanno toccato solo aspetti sostanziali.
Note:
(79) R. Painter et Al., Private Securities Litigation Reform Act: a post-Enron
analysis, disponibile presso www.fed-soc.org/pdf/PSLRAFINALII.pdf, 117; A. Pritchard, op. cit., 8 ss.; M. A. Perino, Did the Private Securities Litigation Reform Act work?, cit., 929 ss. (in cui l’Autore evidenzia una distribuzione geografica dei processi corrispondente al grado di severità
adottato dalle corti federali nell’interpretare le previsioni del PSLRA, in
particolare il numero delle class actions è inferiore nel più rigoroso Second
Circuit e maggiore nel più accondiscendente Ninth Circuit).
(80) J. C. Coffee, Understanding Enron, cit., 1409 ss.
(81) Già in passato alcuni autori avevano individuato nella deterrenza il
vero scopo fondamentale delle SECURITIES CLASS ACTIONS, dato
lo scarso interesse per la compensazione avvertito dagli investitori in grado di diversificare il proprio portafoglio e, di conseguenza, di ridurre l’impatto delle perdite subite (J. C. Coffee, Class wars, cit., 1355).
(82) R. Painter et Al., Private Securities Litigation Reform Act, cit., 17 ss.; J.
C. Coffee, Understanding Enron, cit., 1409.
(83) La necessità di simili cambiamenti è stata avvertita, chiaramente,
anche da coloro che hanno formulato le prime proposte di legge; si veda
C. 4639.
(84) Recentemente, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una
riforma fortemente voluta dall’attuale governo repubblicano (portata in
parlamento già nel 2002). Il Class Action Fairness Act 2005 ha apportato
cambiamenti soprattutto in termini di competenza; in particolare, la
competenza per valore delle corti federali, per class actions che presentano diversity of citizenship e classi composte da più di 100 soggetti, è stata
ampliata a tutte le liti il cui valore è superiore a $5,000,000. Devolvendo
più casi a favore delle District Courts si determina, indirettamente: (i) l’innalzamento degli standard applicati circa l’onere delle prova in capo all’attore; (ii) la riduzione dei casi di forum shopping; (iii) il possibile impiego di mezzi d’appello più immediati. Tuttavia, i primissimi commenti a tale riforma, non interessati alla critica politica, ma ai problemi delle azioni collettive, hanno già definito questi cambiamenti «modesti». Si è sottolineato, infatti, che la riforma non deve essere solo processuale, ma sostanziale. Poiché l’applicazione più frequente, importante e problematica
della Federal Rule 23 si ha in tema di risarcimento dei danni, le nuove regole devono tener conto dei fini di compensation e deterrente (cfr. G. L.
Priest, What we know and what we don’t know about modern class actions: a
review of the Eisenberg-Miller Study, disponibile presso www.manhattaninstitute.org; G. L. Priest, «Tackling tort reform - A commentary, disponibile presso www.law.yale.edu).
(85) Nuovo Testo Unificato adottato come Testo Base dalle Commissioni in data 25 novembre, 2004.
(86) N. Abriani, Dal caso Parmalat alle nuove regole a tutela del risparmio,
2004, 269; F. Denozza, Il danno risarcibile tra benessere ed equità, cit., 346 ss;
G. Colangelo, C’era una volta in America, gli insegnamenti presunti e i fallimenti reali dell’affare Enron, in Mercato Concorrenza Regole, 2002, 455; M.
Onado, I risparmiatori e la Cirio: ovvero, pelati alla meta, in Mercato Concorrenza Regole, 2003, 499; R. Pardolesi, A. M. P. e A. Portolano, Latte, lacrime (da coccodrillo) e sangue (dei risparmiatori), in Mercato Concorrenza
(segue)
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
825
OPINIONI•RESPONSABILITÀ CIVILE
Sempre riguardo alla scelta della migliore riforma per i
mercati finanziari, vi è poi l’esigenza di stabilire in che
direzione debba andare la deterrenza, ovvero quali siano
i soggetti realmente responsabili. L’esperienza delle
SECURITIES CLASS ACTIONS ha dimostrato che la
generica categoria degli investitori risulta comunque lesa ed impoverita, anche dopo che il danno derivante
dalla frode era stato risarcito. Infatti, la riparazione, a seguito di una sentenza o di un accordo tra le parti, innesca una sorta di meccanismo circolare che ricade sugli
azionisti della società convenuta responsabile. Il trasferimento di ricchezza, realizzato attraverso la regola di responsabilità civile, grava sugli azionisti nella forma di costi processuali, oltre al risarcimento versato, lesione della reputazione della società e incremento delle polizze assicurative. A fronte di ciò, però, non vi è la responsabilità diretta di questi soggetti, né, spesso, un loro specifico
vantaggio economico (a meno che tali investitori non
abbiano venduto i propri titoli sfruttando la frode). Di
qui l’evidente esigenza di colpire il vero target della deterrence, rintracciato negli amministratori che hanno falsato i rendimenti reali della società (87). Nelle azioni
collettive, però, il ruolo degli amministratori, anche se
citati a titolo personale, resta marginale; il peso economico della controversia e del suo esito è sostenuto dalla
società e dalle assicurazioni (88). Si assiste, perciò, ad
una biforcazione: overdeterrence per gli investitori e underdeterrence per gli amministratori; il risultato ottimale
si avrebbe, invece, colpendo i soli veri responsabili, anche in considerazione della gravità della condotta posta
826
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
in essere (89). Ciò ripropone il tema del necessario coordinamento con una riforma di diritto sostanziale, e forse
non solo sul piano della responsabilità civile (90); non a
caso il primo intervento americano, dopo gli scandali finanziari degli ultimi anni, è stato di questo tipo (Sarbanes-Oxley Act 2002).
In conclusione, un intervento nel nostro sistema attraverso regole processuali costituirebbe un autonomo fattore di cambiamento, di portata particolarmente rilevante, ma che, comunque, non potrebbe prescindere
dalle funzioni proprie della responsabilità civile.
Note:
(segue nota 86)
Regole, 2004, 193; L. Enriques, Bad apples, bad oranges: a comment from old
Europe on post-Enron corporate governance reforms, in 38 Wake Forest Law
Review, 2003, 911; P. Schlesinger, La riforma delle tutele del risparmio. Il
progetto del governo, in Corr. giur., 2004, 285; P. Abadessa et Al., La tutela
del risparmio: l’efficienza del sistema, in Le Società, 2005, 277.
(87) N. Abriani, Dal caso Parmalat alle nuove regole a tutela del risparmio,
cit., 270.
(88) A. C. Pritchard, op. cit., 5 ss.; M. A. Perino, Did the Private Securities
Litigation Reform Act work?, cit., 921.
(89) A. C. Pritchard, op. cit., 15; J. C. Coffee, Understanding Enron, cit.,
1413-1414.
(90) A fianco della deterrenza, realizzata attraverso le regole di responsabilità civile, è avvertita la necessità di incrementare gli effetti in termini
di punishment. Per questo, le proposte di legge italiane prevedono anche
l’incremento delle sanzioni penali ed amministrative a carico degli amministratori.
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
Sportivi dilettanti
L’assicurazione obbligatoria
degli sportivi dilettanti tra Decreti
ministeriali e polizze Sportass
DECRETO MINISTERIALE 17 dicembre 2004
Modalità tecniche per l’iscrizione all’assicurazione obbligatoria presso la Cassa di previdenza per
l’assicurazione degli sportivi, nonché i termini, la natura, l’entità delle prestazioni e i relativi premi
assicurativi
(G.U. 28 aprile 2005, n. 97 - Serie Generale)
IL MINISTRO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
di concerto con
IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
e
IL MINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE
SOCIALI
Visto il regio decreto 16 ottobre 1934, n. 2047 e successive modificazioni con cui è stata istituita la Cassa di previdenza per l’assicurazione degli sportivi;
Visto il decreto del Presidente della Repubblica 1° aprile 1978, n. 250;
Visto il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, recante istituzione del Ministero per i beni e le attività culturali e successive modificazioni;
Visto il decreto del Presidente della Repubblica 10 giugno 2004, n. 173, recante norme di organizzazione del
Ministero per i beni e le attività culturali;
Visto l’art. 51 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, recante disposizioni in materia di assicurazione degli sportivi, come modificato dalla legge 24 dicembre 2003, n.
350;
Visto il decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, recante «Disposizioni in materia di assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali»;
Visto in particolare il comma 2-bis dell’art. 51 della citata legge, come modificato dall’art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, con il quale si prevede che con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, di
concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’economia e delle finanze, da
emanarsi entro il 31 dicembre 2004, sono stabilite le
modalità tecniche per l’iscrizione all’assicurazione obbligatoria presso la Cassa di previdenza per l’assicurazione
degli sportivi, nonché i termini, la natura, l’entità delle
prestazioni e i relativi premi assicurativi;
Vista la nota del 4 agosto 2004 con la quale il Comitato
Olimpico Nazionale Italiano (CONI) esprime il proprio
parere favorevole;
Decreta:
Titolo I
DISPOSIZIONI GENERALI
Capo I
SOGGETTI ASSICURATI
Art. 1
Soggetti obbligati e beneficiari delle prestazioni
assicurative
1. Ai sensi del primo comma dell’art. 51 della legge 27
dicembre 2002, n. 289 sono beneficiari delle prestazioni
assicurative obbligatorie tutti gli sportivi dilettanti tesserati con la qualifica di atleta, tecnico, dirigente alle Federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate ed agli enti di promozione sportiva.
2. Ai fini dell’applicazione della richiamata legge 27 dicembre 2002, n. 289:
a) per atleti dilettanti si intendono tutti i tesserati che
svolgono attività sportiva a titolo agonistico, non agonistico, amatoriale, ludico motorio o quale impiego del
tempo libero, con esclusione di coloro che vengono definiti professionisti dagli specifici regolamenti delle organizzazioni sportive nazionali di appartenenza o che vengono ricompresi nelle previsioni di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38;
b) per dirigenti si intendono tutti i tesserati con tale qualifica alle organizzazioni di riferimento e che esercitano
le proprie funzioni a livello centrale e/o periferico, ovvero in seno agli affiliati;
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
827
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
c) per tecnici si intendono tutti i tesserati in qualità di
maestri, istruttori, allenatori, collaboratori ed altre figure
diversamente definite o individuate dalle organizzazioni
di appartenenza che siano preposte all’insegnamento
delle tecniche sportive, all’allenamento degli atleti ed al
loro perfezionamento tecnico.
Art. 2
Premio assicurativo
1. Ai fini della tutela assicurativa obbligatoria, gli
sportivi dilettanti di cui all’art. 51 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sono tenuti al pagamento del
premio assicurativo esclusivamente per il tramite delle organizzazioni sportive nazionali di riferimento, con
i tempi e le modalità previsti dal presente decreto quale condizione essenziale per il rilascio della tessera associativa.
Capo II
AMBITO DI APPLICAZIONE
Art. 3
Ambito di applicazione della tutela assicurativa
1. L’assicurazione obbligatoria è rivolta agli sportivi dilettanti tesserati in qualità di atleti, dirigenti e tecnici alle Federazioni sportive nazionali, le discipline sportive
associate e gli enti di promozione sportiva e riguarda le
conseguenze degli infortuni accaduti ai medesimi durante ed a causa dello svolgimento delle attività sportive,
degli allenamenti e durante le indispensabili azioni preliminari e finali di ogni gara od allenamento ufficiale,
ovvero in occasione dell’espletamento delle funzioni attribuite alla qualifica rivestita nell’ambito dell’organizzazione di appartenenza.
2. Gli infortuni saranno ammessi al beneficio assicurativo, a condizione che le attività di cui sopra si svolgano
secondo le modalità, i tempi ed in strutture o luoghi regolamentati dalle singole organizzazioni.
3. La normativa di riferimento per l’accertamento delle
circostanze di cui sopra è quella vigente al momento dell’infortunio.
Art. 4
Validità dell’assicurazione
1. L’assicurazione è prestata senza limiti di età ed è valida
per il mondo intero, a condizione che le attività sportive
o le funzioni di cui al comma 1 dell’art. 3 del presente decreto siano svolte nelle occasioni e circostanze previste
dai regolamenti, dai calendari e dagli accordi delle organizzazioni sportive nazionali di riferimento, purché definiti in una data certa antecedente all’evento che ha generato l’infortunio.
2. La garanzia assicurativa inizia dalle ore 24 del giorno
in cui viene pagato il premio e cessa alle ore 24 del trentesimo giorno successivo alla data di scadenza del tesseramento.
828
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Art. 5
Titoli per le prestazioni assicurative
1. I titoli che danno diritto alla prestazioni assicurative
sono:
a) essere tesserato in data certa antecedente all’infortunio mediante le modalità previste da ciascuna delle organizzazioni sportive di appartenenza;
b) essere in regola con il pagamento del premio assicurativo in data certa antecedente all’infortunio.
Art. 6
Definizione di infortunio e sua indennizzabilità
1. Agli effetti dell’art. 3 del presente decreto si intende
per «infortunio» l’evento improvviso di una causa violenta ed esterna che si verifichi indipendentemente dalla volontà dell’assicurato, nell’esercizio dell’attività sportiva o della funzione disciplinata dall’organizzazione per
la quale risulti al momento tesserato, che produca lesioni corporali obiettivamente constatabili, le quali abbiano per conseguenza la morte o l’invalidità permanente.
2. Sono indennizzabili le lesioni corporali che abbiano
nell’infortunio come sopra specificato la loro causa diretta, esclusiva e provata e che producano all’assicurato
la morte o l’invalidità permanente entro un anno dall’infortunio denunciato.
Art. 7
Condizioni per l’indennizzabilità dell’infortunio
1. La Cassa di previdenza per l’assicurazione degli sportivi di seguito denominata SPORTASS, corrisponde l’indennizzo per le conseguenze dirette ed esclusive dell’infortunio che siano indipendenti da condizioni fisiche
o patologiche preesistenti o sopravvenute; pertanto l’influenza che l’infortunio può aver esercitato su tali condizioni, come pure il pregiudizio che esse possono portare
all’esito delle lesioni prodotte dall’infortunio, sono conseguenze indirette e quindi non indennizzabili.
2. Nei casi di preesistenti mutilazioni o difetti fisici, l’indennità per invalidità permanente è liquidata per le sole
conseguenze dirette cagionate dall’infortunio, come se
esso avesse colpito una persona fisicamente integra senza riguardo al maggior pregiudizio derivato dalle condizioni preesistenti, fatto salvo quanto successivamente
previsto per gli atleti disabili.
3. In deroga a quanto stabilito al precedente comma 1,
per i soli infortuni che determinano la morte dell’assicurato, purché avvenuti in occasione di una manifestazione sportiva ufficialmente indetta dalle organizzazioni
sportive per le quali l’assicurato risulti tesserato, iscritta
nei rispettivi calendari ed avvenuta nei limiti della struttura deputata allo svolgimento della manifestazione stessa, la SPORTASS liquiderà il previsto capitale qualunque sia la causa che ha determinato il decesso.
Art. 8
Estensione della garanzia per gli allenamenti
1. L’assicurazione si estende alle conseguenze di infortu-
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
ni che avvenissero durante gli allenamenti, anche individuali o isolati, purché questi siano previsti e/o disposti
e/o autorizzati e/o controllati dall’organizzazione sportiva
competente, anche attraverso le proprie società affiliate.
In tal caso, ai fini dell’ammissione del sinistro al beneficio assicurativo, la denuncia di infortunio, sottoscritta
dal legale rappresentante della struttura organizzativa alla quale riferire l’organizzazione dell’evento in occasione
del quale si è verificato l’infortunio, dovrà comunque essere accompagnata da una dichiarazione sottoscritta dal
maggiore esponente sportivo presente al fatto che confermi l’esistenza dei presupposti di ammissibilità sopra
enunciati, assumendone la piena responsabilità della veridicità delle dichiarazioni stesse.
2. Nel caso di discipline sportive individuali, l’assicurazione non sarà operante in caso di disposizioni riguardanti la limitazione temporale o territoriale dell’esercizio
della disciplina stessa, o se l’infortunio è avvenuto nel
corso di attività in contravvenzione alle leggi ed ai regolamenti anche locali.
3. Per quanto previsto nel presente articolo non trovano applicazione le disposizioni di cui alla lettera e), dell’art. 10.
Art. 9
Estensione della garanzia per il rischio in itinere
1. L’assicurazione è operante anche in occasione di trasferimenti, con qualsiasi mezzo effettuati, anche come
passeggeri ed in forma individuale, verso e dal luogo di
svolgimento dell’attività prevista dal ruolo conseguente
al titolo associativo in possesso dell’assicurato al momento del verificarsi dell’evento, esclusi tassativamente
gli incidenti verificatisi in conseguenza di infrazioni o
comunque di inosservanza delle norme di legge che regolano il viaggio da parte del soggetto assicurato.
2. Affinché l’infortunio possa essere ammesso al beneficio assicurativo è indispensabile che l’evento sia occorso
in località compresa nella direttrice di marcia compatibile con il percorso necessario per recarsi dalla propria
residenza al luogo deputato all’attività assicurata ed in
date e/o orari coerenti con la necessità di pervenire in
tempo utile sul luogo di svolgimento dell’attività assicurata, ovvero con il tempo necessario per il rientro alla residenza al termine dell’attività stessa.
Art. 10
Esclusione della garanzia
1. L’assicurazione non è operante:
a) per eventi derivanti da uso e guida, anche come passeggero, di natanti e mezzi di locomozione subacquea e
di mezzi di locomozione aerea, con esclusione delle discipline sportive per le quali detti mezzi siano lo strumento attraverso il quale esercitare l’attività;
b) per eventi derivanti da abuso di alcolici e psicofarmaci o uso non terapeutico di stupefacenti o allucinogeni;
c) qualora sia accertato dalle competenti strutture, in ba-
se alle normative vigenti, che l’assicurato abbia assunto
sostanze dopanti in violazione delle norme sportive e di
legge;
d) qualora sia accertato che l’assicurato sia affetto da alcolismo, tossicodipendenza, epilessia o dalle seguenti infermità mentali: schizofrenia, sindromi organico-cerebrali, forme maniaco depressive, stati paranoidi, fatto
salvo quanto previsto per le attività degli atleti disabili;
e) qualora sia accertato che l’assicurato sia stato destinatario di provvedimento di squalifica o inibizione disposto in via definitiva dagli organi di giustizia sportiva delle competenti, dalle ore 24 del giorno d’inizio della sanzione, sino alle ore 00 del primo giorno successivo alla
scadenza del provvedimento;
f) per eventi derivanti o che siano stati determinati da
una azione delittuosa commessa dall’assicurato o da personale partecipazione come attore o provocatore a risse,
tumulti, ed in genere da violazione di leggi o regolamenti comuni e sportivi;
g) nei casi di guerra, insurrezione, attentati terroristici;
h) per eventi derivanti da movimenti tellurici, inondazioni ed eruzioni vulcaniche;
i) per eventi derivanti da trasmutazione del nucleo dell’atomo, radiazioni provocate artificialmente dall’accelerazione di particelle atomiche o da esposizione a radiazioni ionizzanti;
j) per le conseguenze di lesioni di varici e dei tessuti alterati dalle stesse, le incarcerazioni intestinali (ernie non
traumatiche e loro conseguenze), gli effetti dello spavento e del «colpo morale».
2. L’assicurazione, altresì, non è operante dalla data dell’infortunio sino alla guarigione clinica delle lesioni di
infortunio, documentata alla SPORTASS con certificato medico di avvenuta guarigione. Pertanto, ove l’infortunato, autorizzato o non, riprenda l’attività sportiva prima del conseguimento della guarigione stessa, la SPORTASS non riconoscerà eventuali infortuni nei quali l’assicurato possa incorrere in tale periodo, né l’eventuale
conseguente aggravamento delle precedenti lesioni.
Art. 11
Esonero denuncia altre assicurazioni
1. Gli assicurati sono esonerati dall’obbligo di denunciare altre polizze stipulate per il medesimo rischio in quanto le prestazioni definite dal successivo capo III si aggiungono a quelle di ogni altra assicurazione.
Art. 12
Altri esoneri
1. Gli assicurati sono esonerati dall’obbligo di denunciare infermità, difetti fisici, o mutilazioni, da cui gli assicurati stessi fossero affetti al momento del tesseramento o
che dovessero in seguito intervenire.
Art. 13
Rinuncia alla rivalsa
1. La SPORTASS rinuncia a favore dell’assicurato al di-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
829
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
ritto di surrogazione di cui all’art. 1916 del codice civile
verso i terzi responsabili del sinistro, ad eccezione di
quanto stabilito all’art. 27 del presente decreto.
Capo III
PRESTAZIONI
Art. 14
Prestazioni assicurative
1. Le prestazioni fornite dalla SPORTASS agli assicurati consistono:
a) erogazione agli aventi diritto, in caso di morte dell’assicurato di un capitale di 75.000,00 euro, con limite catastrofale di 2.500.000,00 euro. Qualora un unico evento ammissibile al beneficio assicurativo coinvolgesse più
assicurati tale che la somma complessiva dei capitali assicurati superasse il predetto limite, l’ importo sarà proporzionalmente ridotto in base al numero degli assicurati coinvolti nell’evento;
b) erogazione a favore dell’assicurato, per l’intera durata
della sua vita e/o finché sussistano le condizioni che hanno comportato l’assegnazione del vitalizio, di 6.000,00
euro annui per invalidità accertate superiori al 35% e sino al 60% compreso e di 9.000,00 euro annui per invalidità superiori al 60%;
c) indennizzo per invalidità permanente da erogarsi in
unica soluzione, proporzionalmente al capitale di morte di cui alla precedente lettera a), da liquidarsi al definitivo accertamento di una invalidità permanente fino
al 35%.
Art. 15
Criteri per la determinazione dell’invalidità permanente
1. La determinazione del grado di invalidità permanente
cui riferire la natura delle prestazioni di cui all’art. 14 del
presente decreto viene effettuata in base alla tabella allegato 1 al decreto del Presidente della Repubblica 30
giugno 1965, n. 1124 e successive modifiche, tenuto
conto che:
a) la perdita assoluta ed irrimediabile dell’uso funzionale
di un organo o di un arto viene considerata come perdita anatomica dello stesso; se trattasi di minorazione, le
percentuali indicate in tabella vengono ridotte in proporzione della funzionalità perduta;
b) per le menomazioni degli arti superiori, in caso di
mancinismo, le percentuali di invalidità previste per il
lato destro varranno per il lato sinistro;
c) nel caso di perdita anatomica o funzionale di più organi o arti la indennità viene stabilita mediante addizione delle percentuali corrispondenti ad ogni singola lesione, sino al limite massimo del 100 per cento. L’indennità
per la perdita anatomica di una falange del pollice è stabilita nella metà; per la perdita anatomica di una falange dell’alluce, nella metà; per la perdita dì una falange di
qualunque altro dito, in un terzo della percentuale fissata per la perdita totale del rispettivo dito;
d) per le singole falangi terminali delle dita, escluso il
830
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
pollice, si considera invalidità permanente soltanto l’asportazione totale;
e) nei casi di invalidità permanente non specificati nella tabella di riferimento, l’indennità è stabilita tenendo
conto, con riguardo alle percentuali dei casi indicati,
della misura nella quale è per sempre diminuita la capacità generica dell’assicurato ad un qualsiasi lavoro proficuo indipendentemente dalla sua professione, esclusa in
ogni caso la diminuzione della capacità sportiva;
f) in caso di perdita anatomica o funzionale di un organo
o arto già minorato, le percentuali sopra indicate saranno diminuite tenendo conto del grado di invalidità preesistente;
g) per la perdita di elementi dentari potrà essere concessa indennità per invalidità permanente in misura da stabilirsi, caso per caso, proporzionalmente alla diminuita
capacità masticatoria o fonatoria causata dalla perdita
stessa.
Art. 16
Criteri di indennizzabilità per il caso di morte
1. Se l’infortunio ha per conseguenza la morte dell’assicurato e questa avvenga entro un anno dal giorno nel
quale l’infortunio è avvenuto, la SPORTASS liquida il
capitale assicurato agli eredi legittimi e testamentari.
2. Quando la morte sia avvenuta entro un anno dall’infortunio e per causa, dimostrata e provata, dello stesso, gli eventuali indennizzi o rendite che fossero state
corrisposte per invalidità permanente, in conseguenza
del medesimo infortunio, saranno detratti dal capitale di
morte da erogare agli aventi diritto.
3. Qualora, a seguito di un evento indennizzabile, il corpo dell’assicurato non venga ritrovato, la SPORTASS liquida ai beneficiari di cui al comma 1 il capitale assicurato non prima che siano trascorsi sei mesi dalla presentazione dell’istanza di morte presunta ex articoli 60-62
del codice civile. Tuttavia se dopo il pagamento del capitale assicurato risultasse che l’assicurato è vivo, la
SPORTASS avrà diritto alla restituzione della somma
pagata entro quindici giorni dalla richiesta agli eredi beneficiari.
Art. 17
Criteri di indennizzabilità per invalidità permanente
superiore al 35%
1. Nel caso in cui l’infortunio abbia comportato quale
conseguenza diretta accertata una invalidità permanente superiore al 35%, sarà erogato l’indennizzo previsto
dalla lettera b), punto 1, dell’art. 14.
2. I destinatari del vitalizio dovranno, pena la decadenza
dal diritto assicurativo in godimento, certificare con cadenza quinquennale ed entro la scadenza anniversaria
del riconoscimento dell’indennizzo di cui al precedente
punto 1, il perdurare dei postumi invalidanti che hanno
dato luogo all’assegnazione del vitalizio.
3. Nel caso in cui, nel corso del quinquennio, si siano verificate modificazioni migliorative o peggiorative dello
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
stato d’invalidità accertato o successivamente confermato, il beneficiario del vitalizio dovrà darne immediata comunicazione scritta alla SPORTASS, che provvederà ad
accertare il nuovo stato procedendo alla revoca, alla modifica o all’integrazione del trattamento.
4. In caso di revoca del vitalizio per sopravvenuto miglioramento che comporti una valutazione di invalidità
inferiore al 35%, si darà luogo alla liquidazione dell’indennizzo per infortunio di cui alla lettera c), punto 1,
dell’art. 14.
5. Nessun importo è dovuto all’ente nel caso l’ammontare del vitalizio erogato sia superiore all’importo dell’indennizzo derivante dal nuovo accertamento del grado di
invalidità.
6. A seguito di revoca del vitalizio, nel caso di successivo
aggravamento dell’ultimo grado di invalidità accertato e
conseguente all’infortunio che ha dato luogo al trattamento assicurativo, l’assicurato può far richiesta di revisione della propria posizione.
7. Nel caso di riammissione al vitalizio, le eventuali somme erogate a titolo di indennizzo ai sensi del precedente
punto 4 saranno conguagliate a valere sulle successive
rate del vitalizio.
8. La SPORTASS si riserva il diritto insindacabile di sottoporre l’assicurato titolare del vitalizio ad accertamenti
medici volti a verificare lo stato ed il grado di invalidità.
9. L’assicurato non potrà rifiutarsi, pena la decadenza dal
diritto al trattamento assicurativo in godimento, di sottoporsi agli accertamenti medici.
Art. 18
Indennizzo per prestazioni aggiuntive
1. Oltre alle prestazioni previste dal precedente art. 14,
la SPORTASS riconosce indennizzi per le seguenti prestazioni aggiuntive, purché avvenute in occasione di
eventi indennizzabili ai sensi del presente decreto:
a) nel caso di morte di un tesserato genitore, il previsto
capitale in caso di morte spettante ai figli minorenni se
conviventi ed in quanto beneficiari sarà aumentato del
50%. Ai figli minorenni sono equiparati i figli maggiorenni che siano già portatori di invalidità permanente
pari o superiore al 50% della totale;
b) per gli assicurati che non abbiano compiuto il quattordicesimo anno d’età alla data dell’infortunio, saranno
rimborsate le spese documentate sostenute per interventi di chirurgia plastica o stomatologica ricostruttiva conseguenti all’infortunio subito, sino all’importo massimo
di 1.500,00 euro;
c) nel caso di morso di animali, insetti e aracnoidi che
comportino all’assicurato ricovero in istituto di cura ed a
seguito di relativa diagnosi che accerti detto evento, saranno rimborsate le relative spese documentate sino all’importo massimo di euro 500,00;
d) nel caso di avvelenamento acuto da ingestione o assorbimento involontario di sostanze che comporti almeno un ricovero con pernottamento in istituto di cura ed
a seguito di relativa diagnosi ospedaliera anche di so-
spetto avvelenamento, saranno rimborsate spese documentate sino all’importo massimo di euro 500,00;
e) nel caso di ricovero dell’assicurato in istituto di cura,
a seguito di diagnosi di assideramento, congelamento,
colpi di sole o di calore e folgorazione, verranno rimborsate spese sostenute sino all’importo massimo di euro
500,00;
f) se l’infortunio, a causa dell’entità delle lesioni dovesse
comportare l’impossibilità alla frequenza delle lezioni per
un periodo che, a norma delle disposizioni ministeriali
vigenti, dovesse comportare la perdita dell’anno scolastico, sarà corrisposto un indennizzo di euro 1.500,00.
Capo IV
DETERMINAZIONE DEL PREMIO E MODALITÀ
DI PAGAMENTO
Art. 19
Determinazione del premio
1. I premi assicurativi, suddivisi per fasce di rischio, sono
indicati nella tabella allegata al presente decreto.
2. Allo scadere del terzo anno dall’emanazione del presente regolamento e, successivamente, ogni cinque anni, il Presidente della SPORTASS relazionerà alle autorità competenti sull’andamento tecnico della gestione
assicurativa obbligatoria.
3. Sulla base delle relazioni di cui al precedente punto 2,
con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali
di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze
e del lavoro e delle politiche sociali, saranno adottati gli
opportuni provvedimenti di assestamento sia in termini
di prestazioni che di premi.
Art. 20
Modalità di pagamento del premio
1. Il pagamento del premio a favore della SPORTASS
dovrà essere effettuato per il tramite delle organizzazioni
sportive nazionali cui l’assicurato chiede il rilascio del
tesseramento, contestualmente alla trasmissione alla
SPORTASS medesima degli elenchi nominativi suddivisi per distinti soggetti di cui alla tabella «A» e per fascia di premio, con l’indicazione della data di effettivo
avvenuto tesseramento. Gli elenchi faranno fede per
l’ammissione al beneficio assicurativo del tesserato.
L’importo del premio potrà essere addebitato ai soggetti
destinatari dell’obbligo assicurativo nei modi che ogni
singola organizzazione sportiva nazionale di riferimento
riterrà più opportuni.
Art. 21
Mancato versamento del premio
1. In mancanza del versamento del premio, qualora l’assicurato possa esibire la tessera associativa per la qualifica rivestita al momento del sinistro, comunque rilasciata dalla struttura organizzativa deputata a tale compito
dai regolamenti delle organizzazioni di cui all’art. 1 antecedentemente alla data dell’infortunio, la SPORTASS
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
831
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
provvederà ad erogare la prevista prestazione, salvo
quanto stabilito al successivo art. 27.
Capo V
DISPOSIZIONI SPECIALI PER L’ATTIVITÀ
DEGLI ATLETI DISABILI
Art. 22
Atleti disabili
1. Per gli sportivi dilettanti tesserati alla Federazione Italiana Sport Disabili, avuto riguardo alla necessità di individuare particolari condizioni di assicurabilità, saranno
emanate speciali disposizioni, fermo restando quanto
previsto all’art. 31 del presente decreto.
Capo VI
NORME E MODALITÀ DI ATTUAZIONE
Art. 23
Procedure
1. Le denunce degli infortuni, compresi quelli che hanno determinato il decesso degli assicurati, dovranno essere redatte su apposito modulo fornito dalla SPORTASS ed inviate a quest’ultima a cura dell’infortunato o
suoi aventi causa entro quindici giorni dal fatto.
2. Nessuna denuncia d’infortunio potrà in alcun caso essere presa in considerazione trascorsi i termini di prescrizione di cui al secondo comma dell’art. 2952 del codice
civile.
3. La denuncia d’infortunio compilata in ogni sua parte
e controfirmata dal legale rappresentante della società
sportiva che con tale atto assume la piena responsabilità
delle dichiarazioni rese nella denuncia stessa in ordine
alle modalità e circostanze di fatto, di tempo e di luogo
in cui ebbe a verificarsi il sinistro, dovrà essere corredata
da copia della seguente documentazione:
a) copia del certificato medico attestante l’idoneità fisica alla pratica sportiva agonistica o amatoriale;
b) dichiarazione di non essere sottoposto a provvedimenti di squalifica o inibizione;
c) certificazione medica attestante la lesione subita.
4. Avvenuto l’infortunio deve sottoporsi alle cure di un
medico e seguire le prescrizioni dei sanitari al fine di ridurre al minimo le conseguenze delle lesioni.
5. Nel caso l’infortunio abbia comportato il ricovero, all’atto della dimissione dovrà essere trasmessa alla SPORTASS copia della relativa cartella clinica.
6. Nel caso l’infortunio comporti la necessità di successive
visite e/o controlli sanitari, l’assicurato o gli aventi causa
dovranno trasmettere alla SPORTASS copia della relativa certificazione per la valutazione del decorso clinico.
7. L’infortunato, i suoi familiari, gli aventi causa, devono
consentire alle visite dei medici della SPORTASS ed a
qualsiasi indagine che questa ritenga necessaria.
8. Entro quindici giorni dalla cessazione delle cure mediche l’infortunato o gli aventi causa dovrà presentare alla
SPORTASS il certificato di guarigione recante l’indica-
832
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
zione dell’eventuale grado di invalidità permanente, anche se non richiestogli. In tale certificato dovranno essere descritte dettagliatamente la natura ed il carattere dei
postumi residuati dalla lesione, il valore dei postumi stessi in rapporto alla diminuzione della capacità generica
lavorativa applicata alla tabella di cui al precedente punto 1 dell’art. 15.
9. L’assicurato o i suoi aventi causa decadono da ogni diritto alle prestazioni nel caso di inosservanza delle prescrizioni per l’infortunio sopra riportate e del pari decadono da ogni diritto ove fossero incorsi in erronee, false
o reticenti dichiarazioni.
10. Nel caso che dalla documentazione prodotta risulti
una invalidità permanente, la SPORTASS, trascorso il
necessario periodo di stabilizzazione dei postumi, provvederà ad insindacabile giudizio a sottoporre l’infortunato ad accertamento medico-fiduciario, al fine di stabilire
definitivamente l’esistenza e l’entità dell’invalidità permanente, oggetto di indennizzo.
11. Nel caso di morte dell’assicurato, a seguito di dichiarazione di ammissibilità al beneficio assicurativo da parte della SPORTASS, gli aventi causa dovranno presentare la seguente documentazione:
a) certificato di morte dell’assicurato;
b) certificato di stato di famiglia;
c) atto notorio dal quale dovrà risultare se il defunto ha
lasciato testamento; in caso positivo nell’atto dovranno
essere citati i termini del testamento stesso. In mancanza di testamento, nell’atto notorio, dovrà essere precisato chi siano gli eredi legittimi ed il rispettivo rapporto di
parentela con il defunto.
12. Il pagamento degli indennizzi, delle rendite e/o del
capitale di morte viene effettuato in Italia ed in euro, in
un’unica soluzione.
13. Ogni pretesa dell’assicurato o dei suoi aventi causa si
avrà per abbandonata in caso di inattività per un anno
dall’ultima comunicazione data o ricevuta dalla SPORTASS.
Capo VII
CONTENZIOSO
Art. 24
Ricorso alla SPORTASS
1. Avverso le decisioni di SPORTASS in ordine al fatto
dell’infortunio, alle sue cause e conseguenze, nonché alla regolarità amministrativa della pratica d’infortunio, è
ammesso ricorso al Consiglio direttivo della SPORTASS su istanza motivata e documentata dell’assicurato,
da depositarsi alla sede dell’ente entro quindici giorni
dalla comunicazione che s’intende contestare. Il Consiglio direttivo dell’ente si pronuncerà sul ricorso entro
quarantacinque giorni dal suo deposito.
Art. 25
Foro competente
1. Le disposizioni del presente decreto e le obbligazioni
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
che da esso derivano sono regolate dalla legge italiana.
Per ogni controversia è competente in via esclusiva il foro di Roma.
Capo VIII
OBBLIGHI E SANZIONI
Art. 26
Obblighi
1. Alla verifica del pagamento del premio assicurativo,
del rispetto dei tempi e delle modalità previsti dal presente decreto quale condizione essenziale per il perfezionamento delle procedure di tesseramento, sono preposte
le organizzazioni sportive nazionali di riferimento.
2. La relativa documentazione dovrà essere custodita
dalle sopra indicate strutture per almeno cinque anni ed
esibita a richiesta dell’elenco.
Art. 27
Sanzioni
1. La verifica circa l’esistenza di un tesseramento rilasciato in assenza di pagamento di premio comporterà, a
carico della struttura responsabile del rilascio della tessera, una sanzione pari a trenta volte il premio indicato alla tabella A allegata al presente decreto.
2. Al verificarsi delle condizioni previste all’art. 21, la
SPORTASS eserciterà nei confronti dell’organizzazione
sportiva nazionale di riferimento il diritto di rivalsa spettante a norma dell’art. 1916 del codice civile.
Titolo II
PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI DERIVANTI
DALL’ESERCIZIO DELLA PRATICA SPORTIVA
Capo I
PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI
Art. 28
Prevenzione
1. Entro un anno dall’entrata in vigore del presente decreto, la SPORTASS, in collaborazione con l’Istituto
Superiore di Scienza dello Sport del C.O.N.I. implementa il sistema informativo per la raccolta, nel rispetto
delle disposizioni della legge 31 dicembre 1996, n. 675 e
successive modificazioni, dei dati sugli infortuni sportivi
ed in particolare per:
a) la valutazione e l’elaborazione dei predetti dati;
b) la valutazione dell’efficacia delle misure di prevenzione e di educazione sanitaria messe in atto;
c) la redazione dei piani riferiti ai rischi più gravi e diffusi
per prevenire i fenomeni e rimuovere le cause di nocività;
d) la stesura di una relazione annuale sul numero degli
infortuni e sulle loro cause e formule proposte in tema di
informazione, formazione ed assistenza ai fini della prevenzione degli infortuni negli ambienti di svolgimento
dell’attività sportiva e per limitare i rischi nella pratica
delle discipline sportive.
Art. 29
Attività di informazione ed educazione
1. La SPORTASS, d’intesa con il Comitato Olimpico
Nazionale Italiano, individua le linee guida per l’informazione e l’educazione alla sicurezza nell’ambito sportivo e per la predisposizione di campagne informative a livello nazionale finalizzate alla prevenzione degli infortuni derivanti dall’esercizio della pratica sportiva. I predetti programmi sono rivolti prevalentemente ai giovani ed
alle categorie a maggior rischio e promuovono la conoscenza delle normative tecniche di sicurezza e delle soluzioni preventive.
Titolo III
NORME TRANSITORIE E FINALI
Capo I
NORME TRANSITORIE E FINALI
Art. 30
Altri soggetti ed organizzazioni sportive
1. Le norme del presente decreto sono applicabili anche
nei confronti dei tesserati alle organizzazioni sportive a
carattere nazionale diverse da quelle indicate dalla legge
27 dicembre 2002, n. 289, a condizione che dette organizzazioni ne facciano espressa richiesta.
2. Le norme del presente decreto sono altresì applicabili
nei confronti dei soggetti non previsti dall’art. 4, comma
205, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, a condizione
che le organizzazioni sportive nazionali di riferimento ne
facciano espressa richiesta.
3. La SPORTASS, valutati i contenuti tecnico-sportivi
delle attività, potrà a suo insindacabile giudizio accogliere le richieste o rifiutarle.
Art. 31
Termini
1. Per i soggetti obbligati ai sensi dell’art. 51 della legge
27 dicembre 2002, n. 289 così come modificato dalla
legge 24 dicembre 2003, n. 350 che alla data di entrata
in vigore del presente decreto risultino già titolari di copertura assicurativa con l’ente pubblico SPORTASS, le
garanzie assicurative in essere rimangono efficaci fino alla loro prima scadenza anniversaria.
... Omissis ...
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
833
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
IL COMMENTO
di Giuseppe De Marzo
Nell’articolo, l’Autore esamina le questioni poste dal
raccordo tra l’art. 51 della legge finanziaria 2003, che
ha previsto l’obbligo assicurativo contro gli infortuni
per gli sportivi dilettanti, e il d.m. attuativo del 17 dicembre 2004.
Sulla G.U. n. 97 del 28 aprile 2005 è stato pubblicato
il decreto del Ministro per i beni e le attività culturali del 17
dicembre 2004, destinato a dare attuazione all’art. 51 della
legge 27 dicembre 2002, n. 289, che ha assoggettato all’obbligo assicurativo gli sportivi dilettanti tesserati in qualità
di atleti, dirigenti e tecnici alle Federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva.
Al riguardo, deve segnalarsi che l’originario termine
del 1° luglio 2003, previsto dall’art. 51, comma 1 appena citato, già inutilmente spirato in attesa del d.m. attuativo, è
stato, infine, «sospeso» sino al 31 dicembre 2006 dall’art. 6,
comma 4, d.l. 30 giugno 2005, n. 115.
Ciò ricordato, va rilevato che, ai sensi del comma 2
dell’art. 51, l’obbligatorietà dell’assicurazione comprende i
casi di infortunio avvenuti in occasione e a causa dello
svolgimento delle attività sportive, dai quali sia derivata la
morte o una inabilità permanente e che il comma 2-bis demanda al decreto del Ministro di stabilire le modalità tecniche per l’iscrizione all’assicurazione obbligatoria presso
l’ente pubblico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1° aprile 1978, n. 250 (ossia presso la Cassa di previdenza per l’assicurazione degli sportivi - Sportass), nonché i termini, la natura, l’entità delle prestazioni e i relativi
premi assicurativi.
In realtà, un pur sommario esame del decreto ministeriale rivela che esso incorpora, piuttosto semplicisticamente, null’altro che un modulo di polizza. Al riguardo, è sufficiente sottolineare che il lettore ritrova, nell’art. 25 del
d.m., una clausola attributiva della competenza esclusiva
per le controversie derivanti dall’applicazione del decreto
al foro di Roma. All’evidenza, si tratta di una norma da disapplicare, da parte del diverso giudice adìto, per l’elementare ragione che il comma 2-bis del citato art. 51 non ha attribuito alla fonte normativa subordinata il potere di introdurre una deroga alle regole poste dalla legislazione ordinaria per la distribuzione degli affari tra i diversi uffici giudiziari. La competenza per territorio, disciplinata dalla legge
ordinaria, può essere derogata per accordo delle parti (art.
28 c.p.c.), ma non da una fonte sottoordinata, a ciò non autorizzata, senza violare irrimediabilmente il principio di gerarchia delle fonti.
Ma la svista relativa alla clausola derogativa della
competenza, indice evidente del modello assunto a riferimento dal decreto ministeriale (e, a puro titolo esemplificativo, il lettore potrà soffermarsi sul procedimento, irto di
834
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
adempimenti formali e decadenze di cui all’art. 23 e destinato a garantire l’accertamento dei presupposti del diritto),
induce a interrogarsi su alcuni profili interpretativi dall’esito più problematico.
L’ambito di applicazione della tutela assicurativa
Senza indugiare in un esame analitico del d.m., può
essere utile soffermarsi sull’ambito di applicazione della tutela assicurativa.
L’art. 3, comma 1, chiarisce, infatti, che la tutela riguarda le conseguenze degli infortuni accaduti agli sportivi
dilettanti indicati dall’art. 1, durante ed a causa dello svolgimento delle attività sportive, degli allenamenti e durante
le indispensabili azioni preliminari e finali di ogni gara od
allenamento ufficiale, ovvero in occasione dell’espletamento delle funzioni attribuite alla qualifica rivestita nell’ambito dell’organizzazione di appartenenza. Il comma 2
aggiunge che la tutela opera solo se le attività appena indicate si svolgano secondo le modalità, i tempi ed in strutture o luoghi regolamentati dalle singole organizzazioni, all’uopo dovendosi fare riferimento alla normativa vigente al
momento dell’infortunio (comma 3).
Il successivo art. 6, nel definire la nozione di infortunio, opera una serie di limitazione di dubbia legittimità, alla luce della fonte sopraordinata rappresentata dall’art. 51
citato nel paragrafo che precede.
Dispone, infatti, l’art. 6, comma 1 che, agli effetti dell’art. 3, si intende per «infortunio» l’evento improvviso di
una causa violenta ed esterna che si verifichi indipendentemente dalla volontà dell’assicurato, nell’esercizio dell’attività sportiva o della funzione disciplinata dall’organizzazione per la quale risulti al momento tesserato, che produca lesioni corporali obiettivamente constatabili, le quali
abbiano per conseguenza la morte o l’invalidità permanente. Il comma 2 aggiunge che sono indennizzabili le lesioni
corporali che abbiano nell’infortunio come sopra specificato la loro causa diretta, esclusiva e provata e che producano
all’assicurato la morte o l’invalidità permanente entro un
anno dall’infortunio denunciato.
Sul piano esegetico, deve rilevarsi che non sono ben
chiare le conseguenze del requisito dell’»indipendenza»
dell’infortunio dalla volontà della vittima, soprattutto alla
luce del fatto che l’infortunio, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 6, deve rappresentare la causa diretta, esclusiva
e provata del danno. In definitiva, una volta chiarito che la
causa deve essere «violenta ed esterna», la succitata indipendenza dalla volontà dell’assicurato sembra avere null’altro che una funzione specificativa del carattere «esterno»
della causa, non riconducibile alla volontà del danneggiato. Dovrebbe però essere chiaro, alla luce della normale
concitazione che caratterizza la partecipazione agli eventi
sportivi (e che normalmente giustifica l’esonero da responsabilità del danneggiante), che la volontà del danneggiato
NORMATIVA•ASSICURAZIONI
che esclude la tutela deve riguardare l’evento lesivo e non
la partecipazione alla competizione, la quale si caratterizza
normalmente per la presenza di un rischio, più o meno elevato (e, in funzione di tale differenziazione si giustificano i
diversi premi di cui alla tabella A del d.m. in esame), per
l’incolumità fisica dell’atleta.
Ma anche tale ricostruzione non sembra esattamente
in linea con l’art. 51 della legge finanziaria che opera un generico riferimento agli avvenuti in occasione e a causa dello svolgimento delle attività sportive, dai quali sia derivata
la morte o una inabilità permanente, senza introdurre limiti relativi al nesso causale dell’infortunio. Ai sensi dell’art.
6, comma 1 d.m., un pugile che dovesse riportare una lesione corporale per aver portato male a segno un colpo ed essere scivolato, non sarebbe coperto dalla tutela. Il che non
sembra rispettare la lettera e lo spirito della legge. Sul punto si avrà modo di tornare.
Per intanto, deve rilevarsi che, ai sensi del comma 2
dell’art. 6, sono escluse dall’ambito della protezione le lesioni non corporali. Quindi l’eventuale pregiudizio psichico, che pure si traduca in un’inabilità permanente ai sensi
dell’art. 51, comma 2 della legge finanziaria 2003, resta fuori da ogni copertura, a meno che non consegua ad una lesione corporale.
A questo punto, diviene centrale intendere il significato dell’espressione «termini» delle prestazioni, che rappresenta uno degli ambiti assegnati alla regolamentazione
del d.m. dal comma 2-bis dell’art. 51 cit. Quanto alla natura delle prestazioni non v’è luogo per dubbi di sorta, potendo astrattamente immaginarsi non solo erogazioni in denaro, ma interventi diretti di vario tipo; del pari, non solleva
dubbi il riferimento all’entità delle prestazioni (al riguardo,
si vedano gli artt. 14 ss.).
Quanto ai termini, si può pensare che l’espressione indichi o i presupposti delle prestazioni, in stretta correlazione con la determinazione dei premi, o il contenuto delle
stesse.
Il profilo della correlazione con i premi non va sopravvalutato, nel senso che, ferma restando l’autonomia
ministeriale nell’apprezzare l’adeguatezza dei premi all’entità delle prestazioni erogabili, al fine di garantire l’equilibrio finanziario della Sportass, non è necessario assumere
come mobili anche i presupposti delle prestazioni, potendo
essi rappresentare una variabile indipendente, della quale
tenere conto. Il fatto è che intendere l’espressione «termini» come sinonimo di «contenuto» è forse più corretto sul
piano semantico, ma rischia di rendere pleonastico il riferimento, a fronte del richiamo successivo a natura ed entità
delle prestazioni, che definiscono compiutamente l’oggetto
dell’obbligazione indennitaria. Insomma, una volta definiti natura ed entità delle prestazioni, sembra essere stato definito il contenuto delle prestazioni.
Può concludersi nel senso che è possibile raggiungere una pur sofferta coerenza, sul punto, del d.m. con l’art.
51. L’esito appare forse appagante sul piano dell’entità dei
premi, che non scoraggiano la pratica sportiva, e delle risorse della Sportass, ma è tuttavia assolutamente insoddisfacente sul versante dei presupposti delle prestazioni e
degli adempimenti procedimentali, con una amplissima
riduzione dello spettro applicativo dell’assicurazione obbligatoria, quale era stata prefigurata dalla legge finanziaria per il 2003.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
835
GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
Caso fortuito
La (doppia) natura
della responsabilità del gestore
di una pista da sci
CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 10 febbraio 2005, n. 2706
Pres. Vittoria - Rel. Fantacchiotti - P.M. Russo (parz. diff.) - M. S. c. Funivie Valdaora S.p.A. e Scuola Sci
Olang Rasun
Responsabilità civile - Gestione di pista da sci - Responsabilità per cose in custodia - Configurabilità - Natura.
(c.c. art. 2051)
Il gestore di una pista da sci ne è custode ed è a tale titolo oggettivamente responsabile per tutti i danni
ricollegabili alla presenza sulla stessa di ostacoli, a meno che non fornisca la prova rigorosa del caso fortuito, comprensivo anche dell’imprevista ed imprevedibile condotta colposa del danneggiato.
Svolgimento del processo
... Omissis...
Motivi della decisione
1.1 Con il primo motivo il ricorrente denuncia «omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della controversia ex art. 360, n. 5 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. ex art. 360, n.
3 c.p.c.».
Sostiene, anzitutto, che la Corte ha errato sia nel considerare la rete di delimitazione della zona riservata alla
scuola di Sci una «caratteristica» della pista, piuttosto
che un’opera artificiale che non asseconda le naturali caratteristiche del terreno ma inserisce nella pista un ostacolo che, altrimenti, non vi sarebbe stato sia nel ritenere sufficiente, per escludere la responsabilità dei convenuti, la circostanza che i pali e la rete erano visibili.
Aggiunge che, in ogni caso, la responsabilità del custode
non avrebbe potuto essere esclusa dato il nesso di causalità esistente, nel caso concreto, tra la presenza del palo
«nel bel mezzo della pista» e le lesioni riportate e (data)
la totale assenza della prova liberatoria richiesta dall’art.
2051 c.c.
Rileva, ancora, che la Corte ha errato nel ritenere che le
caratteristiche del palo di legno, di per se rigido e, per
questo, poco adatto ad assorbire gli urti, dovessero considerarsi irrilevanti nel tratto, agevolmente percorribile,
della pista interessato dalla recinzione, senza accorgersi
che, invece, ogni ostacolo artificiale in una pista da sci,
che è percorsa anche da persone non particolarmente
esperte, deve essere costruito in modo da evitare la possibilità di danni alle persone che vi si scontrino accidentalmente.
Ulteriore errore in cui è incorsa la Corte di merito, secondo il ricorrente, è quello di avere ritenuto impossibile l’utilizzazione di palificazione di plastica, data l’esistenza, nel mercato, di pali in materiale plastico particolarmente elastico, perfettamente idonei per sostenere
una rete di recinzione.
1.2. con il secondo motivo il ricorrente denuncia «insufficiente e carente motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360, n. 5 c.p.c.».
Rileva che la Corte di merito ha escluso la pericolosità
della palificazione con un argomento che, senza logica
alcuna, fa leva sulla possibilità di sciare a congrua distanza dalla pista e che conseguentemente addebita alla vittima, che non avrebbe mantenuto la distanza di sicurezza dalla rete di delimitazione della pista, la responsabilità
esclusiva del sinistro, in tal modo negando la colpa delle
convenute, senza avvedersi che, in ogni caso, dovendosi
l’evento considerare prevedibile e prevenibile, tale colpa
non avrebbe potuto essere esclusa.
Aggiunge che, nell’escludere la colpa dei convenuti, la
Corte di merito ha trascurato di verificare se, in ogni caso, la responsabilità degli stessi non potesse e dovesse farsi dipendere dalla disposizione dell’art. 2051 c.c. per il
quale la colpa del danneggiato può escludere la responsabilità del custode solo quando presenti le caratteristiche del caso fortuito.
1.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia «contraddittoria motivazione su un ulteriore punto decisivo
della controversia ex art. 360, n. 5 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. ex art. 360, n. 3 c.p.c.»,
lamentando che la Corte ha negato ogni nesso causale
tra la collocazione del palo e l’evento, che ha addebitato
ad imprudenza della vittima, senza accorgersi che il pre-
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GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
detto nesso non può essere affatto negato dato che senza
il palo rigido la caduta di esso ricorrente ed il suo incontrollato successivo scivolamento verso valle non avrebbe prodotto alcuna conseguenza dannosa.
1.4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ancora
«contraddittoria motivazione su un ulteriore punto decisivo della controversia ex art. 360, n. 5 c.p.c.»
Lamenta che la Corte abbia considerato del tutto inapplicabile al caso sottoposto al suo giudizio il suo stesso
precedente giurisprudenziale contenuto nella sentenza
n. 289/92, nel quale, contrariamente a quanto asserito
nella impugnata sentenza, è stata riconosciuta la responsabilità dell’ente custode della pista per le lesioni riportate da uno sciatore a seguito dell’urto contro un palo di
ferro che delimitava la pista.
1.5. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la «violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e ss. c.c. ex
art. 360, n. 3 c.p.c.; illogicità e contraddittorietà della
motivazione ex art. 360, n. 5 c.p.c.».
Afferma che la Corte ha errato nel disattendere la domanda risarcitoria per inadempimento contrattuale della società Funivia Valdaora, che, fornendo la risalita della pista con i propri impianti, assume anche l’obbligo accessorio di mantenimento della pista in condizioni di
utilizzabilità senza pericoli da parte degli utenti che dell’impianto si sono serviti per la risalita.
2. I primi tre motivi debbono essere congiuntamente
esaminati in quanto composti da una serie di censure,
talvolta ripetute sotto angolazioni solo apparentemente
diverse, che sostanzialmente investono il ragionamento
che ha condotto la Corte di merito a negare la possibilità
di ricondurre l’evento dannoso ad una qualche condotta
colpevole delle due società e ad addebitare conseguentemente tale evento alla inesperta condotta del danneggiato.
Questi motivi sono fondati nei limiti di seguito precisati.
La Corte di merito non accerta specificamente, e con la
necessaria chiarezza, se le due società appellate potessero
considerarsi custodi della pista nella quale si è verificato
il sinistro e/o dell’impianto (cioè, la recinzione) contro il
quale la vittima, a seguito della caduta, si è rovinosamente scontrata scivolando, a causa della pendenza, lungo la pista innevata.
Ciò perché ha ritenuto di poter negare sia i presupposti
della responsabilità del custode sia quelli della responsabilità aquiliana, dato che, avuto riguardo alle caratteristiche della pista, tutt’altro che disagevole, ed alla perfetta visibilità della recinzione, che non costituiva, pertanto, una insidia per gli utenti della pista, ha creduto,
per un verso, di dovere escludere la pericolosità dell’impianto (o, più propriamente, dei pali di sostegno della recinzione) e la possibilità, quindi, di ricollegare il danno
ad una condotta colposa degli autori della recinzione, e,
per altro verso, di potere addebitare l’evento alla imperizia ed imprudenza della vittima, che aveva sciato ad inadeguata distanza dalla recinzione nonostante la larghezza della pista.
838
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Ma i predetti argomenti non bastano per escludere la responsabilità del custode né la responsabilità aquiliana.
Per il profilo che attiene alla responsabilità del custode è
sufficiente, infatti, rilevare: 1) che il nesso di causalità rispetto all’evento non si pone, nel caso concreto, con la
pista di sci ma con l’ostacolo fisso (la palificazione, per la
recinzione della pista riservata alla scuola) che in essa è
stato costruito o, se si preferisce, con le peculiari caratteristiche, nel luogo in cui il sinistro si è verificato, della pista, caratterizzata dalla presenza di una recinzione sostenuta da pali che, restringendone la larghezza, realizzano,
comunque, un ostacolo, ancorché facilmente evitabile;
2) che il giudizio di idoneità causale di tale ostacolo non
può essere guidato dal criterio della sua astratta evitabilità, ma deve piuttosto tenere conto della situazione di
pericolo che, nel contesto ambientale in cui è stato posto ed in relazione alle attività che vi si svolgono, esso
(ostacolo) può determinare; 3) che accertato il nesso di
causalità, secondo il principio della regolarità causale
(per il quale tutti gli antecedenti in mancanza dei quali
un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato, debbono ritenersi causa del medesimo), non basta,
per escludere la responsabilità, che sia concretamente
provata l’assenza di colpa del custode o la colpa della vittima ma occorre la prova rigorosa del caso fortuito.
Nel caso in esame non può dirsi che tale accertamento
sia stato compiuto esplicitamente nei termini indicati.
Impropri sono, infatti, sia il riferimento al concetto di insidia o trabocchetto, di per se insufficiente criterio di verifica della autonoma idoneità causale dell’ostacolo, sia,
più in generale, la valutazione del comportamento del
custode, che è estranea al paradigma normativo di cui all’art. 2051 c.c., il quale non lega la responsabilità del custode ad una presunzione di colpa dello stesso ma al rischio per i danni che non dipendono da fortuito.
Insufficiente è poi il riferimento alla azione colposa della vittima, che in nessuna parte della motivazione della
sentenza la Corte di appello considera, con la necessaria
chiarezza, un caso fortuito dotato di autosufficienza causale.
Per altro, non a diversa conclusione potrebbe approdarsi ove si volesse ricostruire il pensiero della Corte supponendo che la stessa abbia voluto riconoscere nella condotta colposa della vittima le caratteristiche proprie del
caso fortuito escludente la responsabilità del custode.
È vero che il caso fortuito può anche consistere nella
azione colposa della vittima.
Ma è necessario che questa (azione) ne assuma le caratteristiche proprie di elemento imprevisto ed imprevedibile che, inserendosi nel processo causale al di fuori di
ogni possibile controllo del custode, renda inevitabile il
verificarsi dell’evento ponendosi come l’unica causa efficiente di esso (sent. 13 aprile 1999, n. 1774 rv 462476).
Nella motivazione della sentenza impugnata vi è solo
l’accertamento della condotta colposa della vittima, non
quello della imprevedibilità di tale condotta né quello
della inevitabilità dell’evento che ne è seguito.
GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
Per altro, anche il procedimento logico che, soprattutto
nella prospettiva della responsabilità aquiliana, ha indotto la Corte ad escludere la colpa delle due società, ritenendo non necessari particolari accorgimenti nella costruzione della recinzione nel tipo di pista in cui si è verificato il sinistro se non quello di evitare che la recinzione possa costituire una insidia, muove da una premessa giuridicamente errata.
Nel valutare la congruità del criterio di costruzione solo
alla stregua del parametro indicato nella motivazione
della sentenza, la Corte di merito evidentemente equipara la pista da sci ad una qualsiasi strada facilmente percorribile, nella quale la caduta assume il carattere di
evento accidentale e la possibilità di urto del pedone
contro pali, alberi, muretti che in essa siano stati collocati assume il carattere di evento fortuito accidentale.
Essa non considera, così, che in una pista da sci frequentata da utenti dei più diversi livelli di capacità tecniche,
la perdita dell’equilibrio, ed i movimenti incontrollati
che essa comporta, è fatto prevedibile che rende pericolosi tutti gli ostacoli che vi siano eventualmente apposti
e che è alla stregua di queste peculiari caratteristiche
che, indipendentemente dalla previsione normativa di
specifiche cautele, solo recentemente imposte dalla legge 24 dicembre 2003, n. 363, avrebbe dovuto essere verificata la presenza o meno di una colpa nella scelta operata sulla convenienza della costruzione artificiale e, soprattutto, sulla necessità o meno di particolari protezioni delle sue strutture rigide.
Il principio del neminem laedere, che impone un generale dovere di adottare le misure necessarie per evitare
che dalla propria attività possano derivare danni ai terzi,
richiede, infatti, la concreta valutazione delle condizioni
ambientali e dei fattori naturali che caratterizzano la
realtà fisica sulla quale incide il comportamento imputabile all’uomo.
L’omessa valutazione di queste condizioni si risolve, così,
nella violazione di un principio giuridico che è censurabile in cassazione (Sez. III, sent. n. 1863 del 18-2-2000,
Mancini c. Autorità Portuale di Trieste (rv 534085).
3. Accertata la fondatezza, per quanto di ragione, dei primi tre motivi, debbono essere invece disattesi gli altri due.
3.1. Il quarto denuncia infatti solo una contraddizione
tra la sentenza impugnata ed un precedente giurisprudenziale della medesima corte di merito, una contraddizione, cioè, che non può affatto considerarsi vizio della
sentenza denunciabile in cassazione essendo affatto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il vizio di
contraddittorietà della motivazione, deducibile ai sensi
dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, può investire solo una pluralità di enunciati posti a fondamento della
decisione e rinvenibili nella motivazione (o da questa ricavabili implicitamente) della sentenza, ponendone in
luce la reciproca incompatibilità e non può concernere,
invece, il rapporto tra il provvedimento impugnato ad
altro precedente provvedimento pronunciato dalla medesima autorità in altro processo.
3.2. Il quinto motivo muove, invece, da una premessa di
fatto, la presenza, cioè, di un rapporto per l’utilizzazione
della pista tra il gestore dell’impianto di risalita e gli
utenti che hanno utilizzato tale impianto, che la Corte
di merito ha espressamente ritenuto di non potere fare
derivare dal contratto di trasporto per la risalita e che, in
mancanza di allegazione e prova di uno specifico accordo tra le parti, ha, quindi, escluso (allineandosi, del resto,
al principio di diritto enunciato da questa Corte con
sentenza n. 2216 del 2001) con apprezzamento di fatto
non censurabile in cassazione.
4. La rilevata fondatezza, per quanto di ragione, dei primi tre motivi conduce alla cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito per il riesame alla stregua dei seguenti principi: 1) accertato il nesso di
causalità secondo il principio della regolarità causale, per
il quale tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un
determinato evento dannoso non si sarebbe verificato
debbono ritenersi causa del medesimo, ove non siano intervenuti fattori imprevedibili dotati di autonoma efficienza causale, non basta, per escludere la responsabilità
del custode, che sia concretamente provata l’assenza di
colpa di quest’ultimo ma occorre la prova rigorosa del
caso fortuito che può anche dipendere dalla condotta
colposa della vittima purché questa assuma i caratteri di
elemento imprevisto ed imprevedibile che, inserendosi
nel processo causale al di fuori di ogni possibile controllo del custode, renda inevitabile il verificarsi dell’evento
ponendosi come l’unica causa efficiente di esso; 2) nella
scelta sulla convenienza della costruzione di un ostacolo
artificiale in una pista di sci e sulle caratteristiche di tale
ostacolo, l’autore dell’opera ha il dovere di considerare,
con la necessaria diligenza e competenza tecnica, le condizioni ambientali ed i fattori naturali che caratterizzano
la realtà fisica sulla quale incide il suo comportamento e
di verificare così la pericolosità dell’ostacolo anche alla
stregua della predetta realtà.
... Omissis...
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
IL COMMENTO
di Michele Calabrese
La sentenza in epigrafe, affermando la responsabilità
per custodia del gestore delle piste da sci, costituisce
lo spunto per affrontare le varie opzioni espresse sulla
natura di detta responsabilità e verificare se e quale
influenza possa aver avuto in merito l’emanazione
della legge 24 dicembre 2003, n. 363, recante norme
in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo.
Uno sciatore cade su una pista da sci procurandosi lesioni personali a causa della presenza, ai margini della stessa, di un palo di legno, utilizzato per sostenere la recinzione
e contro il quale finisce rovinosamente la sua corsa. La sentenza in epigrafe inquadra la responsabilità del gestore della pista da sci nell’ambito della responsabilità per custodia
(1), affermandone esplicitamente e senza esitazione alcuna
la natura oggettiva, a prescindere da qualsiasi riferimento a
presunzioni di colpa. Per il Supremo Collegio, il giudice di
merito ha errato nel ritenere insussistente il nesso causale
tra la presenza del palo ed il danno subito dallo sciatore. Di
conseguenza, trovandosi il ridetto palo sulla pista della quale ha l’esclusivo governo e potere di ingerenza il gestore,
questi ne risponde a titolo di custodia.
Nessun rilievo esimente è stato accordato, poi, alla
circostanza che il palo fosse ben visibile e, per la conformazione del tracciato, evitabile con la semplice cautela di sciare al centro della pista stessa (e non in prossimità della rete), posto che non integra gli estremi del fortuito un evento in sé prevedibile e nient’affatto eccezionale come la caduta di uno sciatore su una pista di discesa (2).
La responsabilità del gestore di una pista da sci
La legge 24 dicembre 2003, n. 363 (3), recante norme
in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da
discesa e da fondo, prevede all’art. 4 che «i gestori delle aree
sciabili attrezzate (…) sono civilmente responsabili della regolarità e della sicurezza dell’esercizio delle piste». Orbene, è
innegabile il senso di vuoto, o almeno la delusione, conseguente alla scoperta che la promessa contenuta nella rubrica della disposizione - la soluzione (rectius: la chiara presa di
posizione in merito) al dibattito dottrinale (4) e all’alternarsi di soluzioni giurisprudenziali - si risolve unicamente nell’imposizione, in capo al gestore, dell’obbligo assicurativo
per la responsabilità civile e nella comminatoria di sanzioni
per l’inosservanza dello stesso (5). Nulla è detto (almeno
espressamente) dalla norma circa la natura di tale responsabilità. Ciò non significa che da altre disposizioni dello stesso
provvedimento legislativo o dal suo complesso non possano
trarsi elementi utili per tale ricerca. Infatti, per anni, la gran
parte della giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi su incidenti occorsi agli sciatori in occasione della discesa sulle piste innevate, ha ricondotto la responsabilità del gestore del-
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
la pista nell’alveo dell’art. 2043 c.c. (6). Tuttavia, nell’individuare il titolo di responsabilità del gestore di una pista da
Note:
(1) Rari i precedenti in tal senso. V. Trib. Modena 12 novembre 1990, in
Dir. trasporti, 1992, con nota di R. Cavani, Contratto di trasporto a fune e
gestione di piste da sci: profili di responsabilità contrattuale ed aquiliana per danni da incidente sciatorio; v. anche Trib. Bolzano 8 novembre 1975, in Resp.
civ. e prev., 1977, 611, con nota di G. Bondoni, Risponde il gestore di impianto sciistico di risalita per insidie non segnalate?.
(2) Cfr. App. Torino 5 luglio 1997, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1998, 500.
(3) In G.U. 5 gennaio 2004, n. 3. Per un primo commento della stessa v.
M. Flick, Sicurezza e responsabilità nella pratica degli sport invernali, alla luce
della legge 24 dicembre 2003, n. 363, in questa Rivista, 2004, 475.
(4) In dottrina v. B. Bertini, La responsabilità sportiva, Milano, 2002, 153;
M. Bona, Contratto di ski-pass e obblighi del gestore delle piste, in questa Rivista, 2002, 77; V. Carbone, Il gestore dell’impianto, risponde del danno allo
sciatore inciampato in un ciuffo d’erba?, in questa Rivista, 2001, 372; M. Bona - M. Ambrosio, Risalita su sciovia e responsabilità del gestore dello skilift:
contratto di trasporto o contratto atipico?, id., 2000, 292; R. Beghini, Aspetti
generali della responsabilità negli incidenti sugli sci, ibidem, 901; T. Spagnoli
Catalano, Responsabilità del gestore degli impianti, ibidem, 909; G. Andreis M. Garavoglia - M. Peracino, Leggi e regolamenti in materia di impianti di risalita e piste da sci: la situazione a livello nazionale e regionale, ibidem, 911; P.
Laghezza, La Cassazione al passo: la responsabilità del gestore dell’impianto di
sciovia, in Riv. dir. sport., 1998, 144; C. Ferri, Il contratto di risalita in seggiovia e il danno dell’utente, in Resp. civ. e prev., 1998, 94; R. Tranquilli Leali,
Il contratto di trasporto a fune, in AA.VV., Dai tipi legali ai modelli sociali nella contrattualistica della navigazione dei trasporti e del turismo, Milano, 1996,
266; G. Chinè, «Con la neve alta così»: di sci, impianti di risalita e responsabilità civile, in Riv. dir. sport., 1995,I, 551; R. Cavani, Contratto di trasporto
a fune e gestione di piste da sci: profili di responsabilità contrattuale ed aquiliana per danni da incidente sciatorio, cit.; G. Ciurnelli, I contratti del tempo libero, in G. Ciurnelli - S. Ponticelli - G. Zuddas, Il contratto d’albergo, i contratti di viaggio, i contratti del tempo libero, Milano, 1994, 281 ss.; L. Bertolini, Le responsabilità penali ed amministrative dei gestori, del personale e degli
utenti degli impianti di sci, in Riv. dir. sport., 1989, 3; M. Pradi,., voce Sci alpino, in Dig. civ., 1988; G. Silingardi - M. Riguzzi - E. Gragnoli, Responsabilità degli operatori turistici, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1988, 85; G. Bevilacqua, Responsabilità per infortuni derivanti da difetti di apprestamento o
manutenzione delle piste da sci, in Riv. dir. sport., 1983, 527; U. Giudiceandrea, La responsabilità civile e penale del gestore degli impianti di risalita, Riv.
dir. sport., 1982, 301; G. Bondoni, Risponde il gestore, cit.; L. M. Luzzatto
Questioni di diritto in relazione alle piste sciatorie, in AA.VV., Problemi giuridici di infortunistica sciatoria, Milano, 1976, 163; G. Tamburrino, Applicabilità della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose in materia di sinistri
sciatori, ibidem, 245; V. Vinci Orlando, Sulla responsabilità del concessionario dell’impianto di risalita per danni subiti da terzi in dipendenza della omessa
manutenzione delle piste di sci, ibidem, 265.
(5) Per l’inosservanza dell’obbligo assicurativo da parte del gestore dell’impianto è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da Euro 20.000 a Euro 200.000. L’adempimento di tale obbligo è
anche condizione per il rilascio delle autorizzazioni per la gestione di
nuovi impianti e per l’apertura al pubblico di quelli esistenti, i cui gestori
hanno visto sospese le autorizzazioni loro già rilasciate fino alla stipula del
contratto di assicurazione.
(6) Da ultimo, Cass. 15 febbraio 2001, n. 2216, in questa Rivista, 2001,
372, con nota di V. Carbone, Il gestore dell’impianto, risponde del danno allo sciatore inciampato in un ciuffo d’erba, cit.; Cass. 12 maggio 2000, n.
6113, in Foro it., Rep. 2000, voce Responsabilità civile, n. 314; Cass. 10
maggio 2000, n. 5953, ibidem, n. 344; Trib. Bolzano 27 luglio 1998, id.,
Rep. 1999, voce cit., n. 304.
GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
sci non sono mancate, sia in dottrina sia in giurisprudenza,
posizioni che, seppur decisamente minoritarie, hanno optato ora per l’applicabilità dell’art. 2050 c.c., o ancora per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., non escludendo, infine, un inquadramento nell’ambito di quella contrattuale.
Ma procediamo con ordine.
Impossibilità di configurare una responsabilità
per l’esercizio di attività pericolose
Per quel che concerne la possibilità di fondare la responsabilità del gestore della pista sul disposto dell’art. 2050
c.c., recentemente la Cassazione (7), sulla base dell’ineccepibile considerazione che la pericolosità di un’attività è una
valutazione di merito ad essa preclusa, ha chiesto al giudice
di rinvio di verificare in concreto la pericolosità dell’attività
posta in essere dal gestore della pista da sci, mostrando così
di non escluderla a priori. Sennonché, non appare corretto
(e sembra frutto di un equivoco interpretativo) ritenere in
genere pericolosa l’attività di gestione di una pista da sci per
il sol fatto che sia pericolosa l’attività che vi si esercita. Peraltro, ritenere la pericolosità dell’attività sciistica non è affermazione cui possa giungersi senza intoppi nel ragionamento. Anzi, a ben guardare lo sci è uno sport non violento
e, come avviene per altre discipline non violente, è da escludere ch’esso presenti di per sé un’obiettiva pericolosità (8).
Potrà certo obiettarsi che il numero e la natura degli incidenti sulle piste inducono a ritenere il contrario, ma così
non si distinguerebbe tra le varie cause degli incidenti stessi
- non di rado determinati, come nel caso che ci occupa, da
ostacoli sulla pista o da assenza di protezioni -, tra i quali non
pochi sono da attribuirsi ad imprudenti o imperite manovre
dello sciatore. L’obiezione, dunque, non sarebbe decisiva, in
quanto è pacifico che non può farsi derivare la pericolosità
di un’attività dalla condotta di chi la pone in essere (9). Peraltro, come è stato osservato, l’applicazione dell’art. 2050
c.c. all’attività sciistica non sarebbe servita a fondare la responsabilità del gestore (10), ma avrebbe al più potuto, prima dell’intervento del legislatore, semplificare azioni risarcitorie nei confronti di altri sciatori (11).
Pista da sci e danno da cose in custodia
Sulla possibilità di ricondurre la responsabilità del gestore della pista da sci nell’alveo dell’art. 2051 c.c. non sono mancati, prima della pronuncia in esame, sporadici precedenti giurisprudenziali (12), nonché voci favorevoli in
dottrina (13). E, in effetti, una volta acclarato il nesso di
causalità tra cosa (un palo, nel nostro caso) ed evento di
danno e verificata la sussistenza in capo al gestore della pista di un concreto potere d’uso ed ingerenza, tale da potersi affermare che della stessa egli ha l’esclusivo governo, non
pare revocabile in dubbio la sua responsabilità a titolo di
custodia. In realtà, sembra che le pronunce inclini ad
escludere la responsabilità del gestore a tale titolo si fondino o sul mancato riscontro processuale di alcuno degli elementi della fattispecie regolata dall’art. 2051 c.c. ovvero
sulla pacifica individuazione di concreti profili di colpa e,
quindi, di una chiara responsabilità ex art. 2043 c.c.
Tuttavia, l’intervento della legge 363/03, sembra incidere in maniera decisiva sulla convinzione diffusa che il gestore dell’impianto non sia anche custode della pista. Infatti, l’art. 3 della legge impone ai gestori di assicurare «agli
utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza, provvedendo alla messa in sicurezza delle
piste secondo quanto stabilito dalle regioni» e di «proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste mediante
l’utilizzo di adeguate protezioni degli stessi e segnalazioni
della situazione di pericolo», nonché quello di «assicurare il
soccorso e il trasporto degli infortunati lungo le piste in luoghi accessibili dai più vicini centri di assistenza sanitaria o
di pronto soccorso, fornendo annualmente all’ente regionale competente in materia l’elenco analitico degli infortuni verificatisi sulle piste da sci e indicando, ove possibile,
anche la dinamica degli incidenti stessi». Prosegue poi l’art.
7 col chiarire che i gestori «provvedono all’ordinaria e
straordinaria manutenzione delle aree stesse» (14); mentre
il comma 4 dello stesso articolo precisa che «Il gestore ha
l’obbligo di chiudere le piste in caso di pericolo o non agibilità». Inoltre, per effetto dell’art. 16 della legge il gestore
non solo può, ma deve impedire che mezzi meccanici non
adibiti al servizio ed alla manutenzione delle piste e degli
impianti possano accedervi. Infine, contrariamente a
quanto appare prima facie, è decisiva la stessa affermazione
Note:
(7) Cass. 26 aprile 2004, n. 7916, in Studium Juris, 2004, 1282, con osservazioni di R. Viglione. Sulla pericolosità dell’attività sciistica, si esprime
pure a favore Pret. Porretta Terme 20 giugno 1968, in Resp. civ. e prev.,
1968, 495; contra, oltre alla giurisprudenza citata nella nota precedente,
App. Bologna 26 febbraio 1972, in Dir. e pratica ass., 1973, 815; Trib. Bolzano 5 aprile 1975, id., 1975, 760. Pacificamente ritenuta invece la pericolosità degli impianti di risalita, quali seggiovie (cfr. Trib. Savona 20 dicembre 1965, in Giur. it., 1966, I, 2, 557) e sciovie (cfr. Trib. Como 31
maggio 1972, in Dir. e pratica ass., 1972, 776).
(8) Sul punto v. P. Ziviz, Le attività pericolose, in Nuova giur civ. comm.,
1988, 179, e G. Silingardi - M. Riguzzi - E. Gragnoli, Responsabilità degli
operatori turistici, cit., 85.
(9) Sul punto, per tutte, v. Cass. 21 dicembre 1992, n. 13530, in Resp. civ.
e prev. 1993, 821, che indica la necessità di «tenere distinta la nozione di
attività pericolosa prevista dall’art. 2050 c.c. da quella di condotta pericolosa, essendo necessario perché si verifichi la prima che l’attività presenti una notevole potenzialità di danno a terzi, mentre non rileva se
un’attività normalmente innocua, diventi pericolosa per la condotta di
chi la esercita».
(10) Così G. Chinè, op. cit., 582, nt. 84, secondo cui l’applicazione dell’art. 2050 c.c. «non coprirebbe eventuali azioni di responsabilità dello
sciatore danneggiato nei confronti del gestore delle piste».
(11) Oggi, invece, la legge 363/05 sancisce all’art. 19 che, nel caso di
scontro tra sciatori, si presume, fino a prova contraria, che ciascuno di essi abbia concorso ugualmente a produrre gli eventuali danni.
(12) V. Cass. 19 luglio 2004, n. 13334, in La Responsabilità civile, 2005, 73;
Trib. Massa Carrara 14 maggio 1996, in Foro it., Rep. 1996, voce Responsabilità civile, n. 181, e in Arch. civ., 1996, 1399; Trib. Bolzano 8 novembre 1975, cit.
(13) V. G. Silingardi - M. Riguzzi - E. Gragnoli, op. cit., 86 ss.
(14) Trib. Modena 12 novembre 1990, in Dir. trasporti, 1992, 579, con
nota di R. Cavani, Contratto di trasporto, cit., ha riconosciuto custode il
soggetto (lo stesso che gestiva l’impianto di risalita) che curava la compattazione delle piste di discesa.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
841
GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
contenuta nell’art. 4 della legge 363/03, secondo cui è il gestore (senza riferimento alcuno alla proprietà) il soggetto
civilmente responsabile della regolarità e della sicurezza
dell’esercizio delle piste (15).
Orbene, alla luce di siffatto impianto normativo non
sembra più potersi dubitare che i gestori siano custodi delle
piste: riesce difficile pensare che obblighi, compiti e responsabilità di tal fatta possano far capo a soggetti privi di
un potere di fatto sulla pista, tale da poter (ed in alcuni casi dover) escludere l’ingerenza altrui.
La responsabilità contrattuale (concorrente)
del gestore
Il trasporto dello sciatore da valle a monte (16), effettuato dal titolare dell’impianto di risalita, pur funzionalmente collegato alla successiva discesa sulla pista, è stato
sempre ritenuto in giurisprudenza inidoneo a configurare
alcuna forma di responsabilità contrattuale in capo a tale
soggetto per gli infortuni occorsi allo sciatore nella fase di
discesa (17). Per vero, l’applicazione dell’art. 1681 c.c. non
è certamente possibile per gli incidenti occorsi allo sciatore
in fase di discesa sulla pista, posto che, all’atto della successiva discesa, il «viaggio» da valle a monte è inequivocabilmente terminato (18); e con esso anche la possibilità di applicare la particolare disciplina dettata in tema di sinistri
che in detta fase colpiscono il viaggiatore.
Tuttavia, sulla base della considerazione che il gestore
degli impianti di risalita offre il trasferimento da valle a
monte come un aspetto di una più ampia pluralità di servizi, si è ritenuto che tra lo stesso e l’utente venga in essere un
contratto d’appalto nel quale la prestazione del trasporto ha
natura e funzione accessoria rispetto a quella della successiva discesa (19).
A tale tesi sono stati opposti due rilievi. Il primo (20)
- fondato sull’impossibilità di individuare nell’utilizzazione della pista una prosecuzione del contratto di trasporto,
né un diverso ed autonomo rapporto - è agevolmente superabile alla luce di quanto disposto dall’art. 2 della legge
363/03, che definisce l’area sciabile attrezzata ed espressamente sancisce ch’essa comprende «piste, impianti di risalita e di innevamento». Il contratto stipulato col gestore di tali aree, pertanto, non può avere e non ha più ad
oggetto il solo trasporto, ma anche e soprattutto la fruizione delle piste all’interno dell’intera area attrezzata.
Quanto innanzi induce a propendere decisamente per la
natura contrattuale della responsabilità del gestore per i
sinistri occorsi allo sciatore all’interno di tali aree, ormai
da intendersi come comprensive sia degli impianti di risalita sia delle piste di discesa, complessivamente ed unitariamente intese (21).
Il secondo rilievo opposto alla teoria dell’unicità del
rapporto contrattuale intercorrente tra gestore e sciatore è
imperniato sulla constatazione che, terminato il trasporto
da valle a monte, la discesa dello sciatore sulla pista, per
quanto normale e frequente, è solo un’eventualità e rientra
nella sfera dei motivi di stipulazione del contratto di trasporto: da ciò la giuridica irrilevanza per la qualificazione
842
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
del rapporto tra sciatore e gestore dell’impianto di risalita
(22). Per il superamento di questa obiezione, sarebbe sufficiente ripetere quanto già osservato e sostenere che il legislatore, ritenendo impianti di risalita e piste di discesa
un’inscindibile «area attrezzata», ha inequivocabilmente
aderito alla tesi dell’unicità del rapporto contrattuale. Ma
v’è un’ulteriore indicazione normativa che impedisce di ritenere la successiva discesa estranea alla causa del contratto: l’art. 15 della legge 363/03, che vieta di percorrere a piedi le piste da sci. Alla luce di ciò sembra difficile poter oggi
sostenere che la successiva discesa con gli sci rientri nell’ambito dei motivi giuridicamente irrilevanti.
Né l’art. 17 legge 363/03 (il cui comma 1 stabilisce
che «[i]l concessionario e il gestore degli impianti di risalita non sono responsabili degli incidenti che possono verificarsi nei percorsi fuori pista serviti dagli impianti medesimi») potrebbe deporre in senso contrario e costituire prova
dell’infondatezza di una ricostruzione della responsabilità
del gestore in termini contrattuali. Ciò perché nella decisione dell’utente, una volta risalito a monte di non servirsi
della pista delimitata e gestita, per sciare piuttosto «fuori pista» (o anche non sciare affatto), non può non ravvisarsi la
volontà di porre fine all’unico contratto già posto in essere
o, quanto meno, di non avvalersi della facoltà di godimento di un servizio che comunque gli compete per contratto e
che il gestore è tenuto a garantirgli.
Conclusioni
Molte delle obiezioni mosse alle teoriche che riconducevano la responsabilità del gestore nell’ambito della responsabilità per custodia e della responsabilità ex contractu
Note:
(15) V. sul punto B. Bertini, La responsabilità sportiva, cit., 145, e G. Vidiri, La responsabilità civile nell’esercizio delle attività sportive, in Giust. civ.,
1994, 208.
(16) Si segnala che l’art. 15, comma 4, della legge 363/03 dispone che
«[l]a risalita della pista con gli sci ai piedi è normalmente vietata. Essa è
ammessa previa autorizzazione del gestore dell’area sciabile attrezzata o, in
mancanza di tale autorizzazione, in casi di urgente necessità, e deve comunque avvenire ai bordi della pista, avendo cura di evitare rischi per la
sicurezza degli sciatori e rispettando le prescrizioni di cui alla presente legge, nonché quelle adottate dal gestore dell’area sciabile attrezzata».
(17) Cfr. Trib. Torino 23 aprile 1987, in Riv. dir. sport., 1988, 264, e in
Riv. giur. circolaz. trasp., 1989, 765, con nota di S. De Bassa, In tema di responsabilità del gestore di impianti di risalita e di tutela dell’utente.
(18) Sul momento finale del viaggio nel caso di mezzi di trasporto in continuo movimento, v. per tutte Cass. 13 gennaio 1993, n. 356, in Foro it.,
1993, I, 110, e in Giust. civ., 1993, I, 2133, con nota di G. Chinè, Trasporto di persone e responsabilità del gestore di impianti di risalita.
(19) Cfr. in tal senso G. Chinè, op. cit., 572;; G. Silingardi - M. Riguzzi E. Gragnoli, op. cit., 81 ss.
(20) Cfr. S. De Bassa, op. cit., 767 ss.
(21) Alla medesima conclusione giungeva già G. Chinè, op. cit., 575 ss.,
sulla base della considerazione che fra gestore degli impianti di risalita e
gestore delle piste di discesa vi fosse sovente una coincidenza soggettiva e
che in alcune Regioni tale coincidenza fosse imposta da leggi regionali
(Legge Regionale Valle d’Aosta 12 marzo 1992, n. 9).
(22) Cfr. R. Cavani, op. cit., 590 ss.
GIURISPRUDENZA•COSE IN CUSTODIA
erano superabili (e superate (23)) anche prima e a prescindere dal recente intervento del legislatore. Prende allora
consistenza il dubbio che la resistenza giurisprudenziale ad
ipotesi di responsabilità che vedono il danneggiato in posizione avvantaggiata dal punto di vista della prova trovi la sua
ragione profonda nella necessità di non mortificare sul nascere (o nel loro crescere) le imprese turistiche e di evitare
che le stesse trasmettano verso l’utente finale i costi dei (probabilmente tanti) risarcimenti incrementando il prezzo del
servizio. L’obbligo assicurativo oggi previsto dall’art. 4 della
legge 363/03 consente, però, di affrontare il problema in
un’ottica diversa. Infatti, se è vero che anche gli oneri assicurativi del gestore ricadranno ineluttabilmente sul costo del
servizio, è altresì vero che a differenza dei costi del risarcimento, quelli assicurativi, in quanto valutabili ed in genere
valutati ex ante, consentono una migliore pianificazione ed
una più razionale predeterminazione del prezzo del servizio.
C’è posto per un’ultima considerazione. Pur mancando l’attribuzione di un’azione diretta dello sciatore danneggiato nei confronti della compagnia assicuratrice, è facile
preventivare, oltre ad un «fisiologico» incremento delle
azioni di danno nei confronti dei gestori delle «aree attrezzate», anche un progressivo ed auspicabile abbandono giurisprudenziale dell’applicazione, in detta materia, dell’art.
2043 c.c. ed una meno incerta propensione della giurisprudenza all’inquadramento delle fattispecie nell’alveo di norme di sicuro vantaggio probatorio per il danneggiato.
Nota:
(23) Cfr. G. Chinè, op. cit., 574 ss.; G. Silingardi - M. Riguzzi - E. Gragnoli, op. cit., 81 ss.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
843
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
Artt. 2051 e 2054 c.c.
Incendio di veicoli in sosta e danni
a terzi: quale forma di responsabilità?
CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, 5 agosto 2004, n. 14998
Pres. Fiduccia - Rel. Amatucci - P.M. Uccella (diff.) - N. c. Sarp Assicurazioni S.p.A.
Circolazione stradale - Responsabilità civile da incidenti stradali - In genere - Danneggiamento di immobile causato
da incendio di autovettura parcheggiata nelle vicinanze - Evento prodotto dalla circolazione stradale - Configurabilità - Condizioni.
(c.c. artt. 2043, 2054)
La sosta di un veicolo a motore su area pubblica o ad essa equiparata integra, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2054 c.c. e della legge 990/1969, anch’essa gli estremi della fattispecie «circolazione del veicolo»,
con la conseguenza che, dei danni derivati a terzi (nella specie, il conduttore di un immobile) dal relativo
incendio (non determinato da fatto idoneo ad interrompere il nesso della sua derivazione causale dalla circolazione, degradandola a mera occasione del danno stesso) risponde anche l’assicuratore, indipendentemente dal lasso di tempo intercorso tra l’inizio della sosta e l’insorgere dell’incendio.
Svolgimento del processo
... Omissis...
Motivi della decisione
1.1. Col primo motivo il ricorrente - deducendo violazione e falsa applicazione della legge n. 990 del 1969 e
del vigente codice della strada - si duole che il Tribunale
abbia erroneamente inteso il termine circolazione (per i
danni derivanti dalla quale il veicolo era obbligatoriamente assicurato) in senso restrittivo, escludendo che la
sosta valga ad integrarla, benché non possa dubitarsi che
il proprietario di un veicolo privo di copertura assicurativa incorra nelle sanzioni previste quand’anche il veicolo
sia in sosta, anziché in movimento. Del tutto irragionevolmente il Tribunale aveva introdotto un criterio
«temporale» al fine della sussistenza di nesso causale tra
circolazione ed incendio laddove aveva ritenuto che il
fatto avrebbe potuto essere sussunto nell’ambito applicativo della legge sull’assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore solo in quanto fosse risultato che l’incendio
era scoppiato poco dopo l’inizio della sosta. In ogni caso,
infatti, l’incendio da non altro potrebbe essere dipeso
che dall’usura del veicolo, comunque conseguente alla
sua circolazione.
1.2. Col secondo motivo è denunciata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere il Tribunale - al di là dell’errore di diritto denunciato col primo
motivo - irragionevolmente ritenuto che l’autovettura
fosse parcheggiata da un considerevole lasso di tempo al
momento in cui era divampato l’incendio solo perché il
fatto era accaduto di notte. Il che era del tutto insuffi-
844
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
ciente a giustificare la raggiunta conclusione, posto che
il veicolo ben poteva essere stato parcheggiato poco
tempo prima che l’incendio si verificasse.
2. La società controricorrente - premesso che era stato
provato che il veicolo era fermo già da tempo - obietta
che la sosta costituisce bensì una forma di circolazione e
che i danni prodotti da un veicolo in sosta pure possono
essere ricompresi fra quelli di cui l’assicuratore deve direttamente rispondere ai sensi della legge n. 990 del
1969. Ma ciò a condizione che determinate modalità di
sosta, in ipotesi contrastanti col disposto dell’art. 157 del
codice della strada ovvero con le regole di ordinaria prudenza e diligenza, interferiscano con la circolazione. Purché, insomma, le conseguenze dannose siano effetto di
una condotta di cui debba rispondere il conducente ex
art. 2054 c.c., posto che l’art. 1 della legge n. 990 del
1969 a quel tipo di responsabilità fa espresso riferimento.
Se, invece, la responsabilità del conducente non sia prospettabile, deve escludersi la riconducibilità dell’evento
alla circolazione per gli effetti della responsabilità diretta
dell’assicuratore ai sensi della legge sull’assicurazione obbligatoria e concludersi che la norma applicabile è quella di cui all’art. 2051 c.c., non facendo più capo al conducente, ma solo al proprietario, la responsabilità per vizi di costruzione o difetti di manutenzione quando la circolazione sia cessata con la sosta. A sostegno dei propri
assunti richiama il principio enunciato da Cass. n. 5032
del 2000, la quale ha affermato che «il danneggiamento
di un immobile a causa dell’incendio di un’auto parcheggiata in prossimità, fatta eccezione per l’ipotesi che
venga individuato un particolare e specifico nesso ezio-
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
logico tra un determinato avvenimento della circolazione stradale ed incendio, non può considerarsi un evento
prodotto da detta circolazione stradale».
3. L’indirizzo di questa Corte è costante nel senso che se
l’incendio che si propaga da un veicolo in sosta su area
pubblica sia stato appiccato dolosamente, le conseguenze dannose che ne siano derivate ai terzi non possono essere eziologicamente ricollegate alla circolazione stradale, con la conseguenza che in tal caso l’assicuratore per la
responsabilità civile del veicolo dal quale si è propagato
l’incendio non risponde del danno nei confronti dei terzi danneggiati, privi dell’azione diretta nei confronti dell’assicuratore ai sensi dell’art. 18, primo comma, della
legge 24 dicembre 1969, n. 990 (così, oltre alla citata
sentenza n. 5032 del 2000, la coeva Cass. 18 aprile 2000,
n. 5033, nonché Cass. 6 maggio 1998, n. 4575 e 9 giugno 1997, n. 5146).
Non altrettanto univoco è l’orientamento nei casi in cui
l’incendio sia insorto indipendentemente dall’intervento doloso di terzi. Benché, infatti, si sia sempre affermato
che anche l’autoveicolo in sosta deve considerarsi in circolazione per gli effetti di cui all’art. 2054 c.c. (cfr., ex
plurimis, Cass. nn. 2660/1980, 10110/97, 6750/93) e,
correlativamente, della legge sull’assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore e dei natanti, s’è tuttavia talora ritenuto che in tanto l’incendio propagatosi da un veicolo è ricollegabile alla circolazione in quanto sia dipeso
da una collisione (così Cass. n. 4575/98) o comunque
dal «normale utilizzo funzionale del veicolo assicurato»
(così Cass. n. 5146/97), essendo necessario che si evidenzi «un particolare e specifico nesso eziologico con un
determinato avvenimento attinente alla circolazione»
(Cass. 20 novembre 2003, n. 17626). Con tale sentenza
s’è in particolare affermato che «una situazione annosa
proveniente da un veicolo fermo va attribuita alla sua
circolazione (ai sensi e per gli effetti dell’art. 2054 c.c.)
solo quando provenga da causa comunque attinente (e
non estranea) alla sua utilizzazione appunto come veicolo, senza l’interferenza di fattori esterni», sicché, a fronte
di una domanda proposta ai sensi dell’art. 2051 c.c. (nel
quale non è evidentemente configurabile la responsabilità diretta dell’assicuratore nei confronti del danneggiato), per inquadrare la fattispecie nel diverso schema di
cui all’art. 2054 c.c. occorre considerare se l’incendio
possa considerarsi evento relativo alla circolazione stradale (nella specie, il giudice di secondo grado aveva ritenuto la domanda improcedibile nei confronti del responsabile civile in quanto non era stata soddisfatta la
condizione della preventiva richiesta di risarcimento all’assicuratore ex art. 22 della legge n. 990 del 1969).
Per converso, la più recente Cass. 6 febbraio 2004, n.
2302 ha affermato che, poiché anche in occasione di
fermate o soste sussiste la possibilità di incontro o comunque di interferenza con la circolazione di altri veicoli o di persone, anche in tali contingenze il conducente non può ritenersi esonerato dall’obbligo di assicurare l’incolumità dei terzi (cfr. Cass. 28 novembre 1990,
n. 11467), sicché deve considerarsi evento relativo alla
circolazione l’incendio propagatosi da veicolo in sosta
(con conseguente azione diretta del danneggiato nei
confronti dell’assicuratore del veicolo), a meno che esso
non sia stato appiccato dall’azione dolosa di terzi, la quale è da sola sufficiente ad escludere il nesso di causalità
tra la circolazione e l’incendio stesso. Si è dunque concluso (in fattispecie nella quale l’incendio si era propagato da un veicolo ad un altro) che la sosta è essa stessa
circolazione e che «comprende in sé il complesso delle
situazioni dinamiche e statiche in cui è posto il veicolo
sulla pubblica via».
Tale impostazione va anche in questa occasione confermata.
Costituisce, invero, un dato ormai acquisito (oltre alla
giurisprudenza sopra citata, si veda anche Corte cost. 14
aprile 1969, n. 82) che anche la sosta su area pubblica o
ad essa equiparata «è» essa stessa circolazione, non potendo questa restrittivamente intendersi nel senso di
veicolo in movimento. Se ne trova ulteriore conferma
nell’art. 3, n. 9, del nuovo codice della strada approvato
con decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, che appunto definisce la circolazione come «il movimento, la
fermata e la sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali
sulla strada».
Ravvisare allora nesso eziologico tra circolazione ed incendio della vettura in sosta (non provocato da fatto doloso) solo allorché l’incendio si sia «sviluppato poco dopo l’utilizzo del veicolo, e quindi per avarie insorte verosimilmente mentre era in movimento», giacché «diversamente, nel caso di incendio di veicolo fermo già da
tempo, ogni possibile nesso con la circolazione deve essere escluso» (così la sentenza impugnata, a pagina 4),
equivale ad accedere ad un’erronea concezione di circolazione. Concezione tra l’altro contrastante col rilievo
che l’avaria cui si riferisce la Corte di merito ben può essere insorta per cause diverse dal movimento appena
cessato con la sosta, quali ad esempio l’usura complessiva del mezzo e delle sue componenti elettriche e meccaniche, a determinare le quali concorre lo stesso decorso
del tempo, fatto di movimenti e di soste (e di tipi di movimento e di tipi di soste) sin dall’epoca della costruzione del veicolo, in relazione anche alla qualità della stessa, nonché alla frequenza ed al genere di manutenzione
cui sia stato sottoposto. Ed è significativo, in proposito,
che l’ultimo comma dell’art. 2054 c.c. non consenta al
proprietario ed al conducente di sottrarsi alla responsabilità per i danni derivati dalla circolazione (fatta, come
s’è detto, di movimento e di sosta) per vizi di costruzione
o per difetto di manutenzione, in assenza dei quali, ove
difetti un apporto causale esterno, a ben vedere non è
dato ipotizzare che un veicolo a motore prenda spontaneamente fuoco dopo essere stato arrestato.
Il primo motivo va dunque accolto e la sentenza cassata
con rinvio alla Corte d’appello di Napoli perché decida
la causa nel rispetto del seguente principio di diritto:
«agli effetti dell’art. 2054 c.c. e della legge sull’assicura-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
845
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
zione obbligatoria n. 990 del 1969 anche la sosta di un
veicolo a motore su area pubblica o ad essa equiparata
costituisce «circolazione», con la conseguenza che dei
danni derivati a terzi dall’incendio del veicolo (non determinato da fatto che valga ad interrompere il nesso
della sua derivazione causale dalla circolazione, degradandola a mera occasione del danno) risponde anche
l’assicuratore, indipendentemente dal lasso di tempo decorso tra l’inizio della sosta e l’insorgere dell’incendio».
... Omissis...
IL COMMENTO
di Federica Giazzi
La nota alla sentenza della Suprema Corte affronta il
problema della natura giuridica del danno provocato
a terzi dall’incendio di un’auto in sosta, proponendo
un raffronto tra l’art. 2054 c.c. e l’art. 2051 c.c., il cui
elemento distintivo è rappresentato dall’individuazione di uno specifico nesso eziologico tra il danno e la
circolazione del veicolo, nozione, altresì, comprensiva
del concetto di sosta. L’analisi prospettata non ha, del
resto, rilevanza meramente teorica, ma comporta significative conseguenze sul piano pratico, in ordine ai
profili risarcitori del pregiudizio sofferto dal danneggiato.
È ancora controversa nella giurisprudenza di merito la
qualificazione giuridica della responsabilità per danni cagionati a terzi dall’incendio sprigionatosi da un’autovettura
ferma su suolo pubblico. Ci si chiede, in particolare, se la
fattispecie concreta possa rientrare nella previsione dell’art.
2054 c.c., in materia di danni provocati dalla circolazione
di veicoli o debba essere ricondotta alla più plausibile ipotesi delineata dall’art. 2051 c.c., in tema di responsabilità
per custodia di cose. Sul punto, infatti, i giudici di merito
giungono, talvolta, a esiti interpretativi contrastanti.
Con riguardo al caso di specie, ad esempio, nella sentenza poi oggetto dell’esame di legittimità, il Tribunale di
Napoli (1) riconosce al ricorrente, conduttore dell’immobile danneggiato dall’incendio sviluppatosi da un’autovettura
in sosta nelle vicinanze, il diritto al risarcimento dei danni,
a titolo responsabilità per custodia di cose ex art. 2051 c.c.,
non ravvisando nell’evento dannoso alcun collegamento
con la circolazione del veicolo e, quindi, con l’art. 2054 c.c.
La Suprema Corte, al contrario, consolidando l’orientamento giurisprudenziale maggioritario e più recente sul
tema (2), cassa con rinvio la sentenza impugnata, riconducendo l’ipotesi concreta alla fattispecie di responsabilità per
danni da circolazione dei veicoli ex art. 2054 c.c., sul presupposto che l’incendio abbia avuto origine dall’usura dell’autovettura, conseguente alla circolazione.
In sintonia con la dottrina (3), infatti, la Cassazione
ribadisce che ogni qualvolta il danno a terzi sia provocato
dal deterioramento di un veicolo imputabile alla sua circolazione sarà esclusivamente applicabile l’art. 2054 c.c. (4),
risultando improprio il ricorso all’art. 2051 c.c. (5).
La convenienza di applicare al caso concreto l’art.
2054 c.c. è, del resto, riconducibile al fatto che il legislato-
846
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
re, accanto alla responsabilità del proprietario e del conducente per i danni arrecati a terzi dal proprio veicolo, ha previsto l’assicurazione obbligatoria per tutti i veicoli ai sensi
dell’art. 1 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 e, quindi, la
possibilità di agire nei confronti di un soggetto - l’assicurazione - generalmente dotato di maggiore liquidità e solvibilità rispetto alle persone fisiche.
Individuare le ipotesi in cui il danneggiato possa esercitare l’azione diretta contro l’impresa assicuratrice è, però,
indispensabile per evitare situazioni di undercompensation
o al contrario il proliferare di cause nei confronti di un soggetto privo della qualità di legittimato passivo.
È, perciò, necessario verificare di volta in volta la sussumibilità del caso concreto nelle caratteristiche della fattispecie generale e astratta, per stabilire se il danno procurato a terzi possa considerarsi prodotto dalla circolazione del
veicolo. Le argomentazioni che la Suprema Corte, peraltro,
Note:
(1) Contra, ex multis, Trib. La Spezia 13 luglio 1994, in Arch. giur. circolaz., 1995, 44; Pret. Reggio Emilia 14 luglio 1993, in Arch. giur. circolaz.,
1993, 891, che in analoghe circostanze avevano riconosciuto una responsabilità ex art. 2054 c.c., in forza del collegamento eziologico tra l’incendio e l’usura del mezzo, successiva alla sua circolazione.
(2) Ex multis Cass. 6 febbraio 2004, n. 2302, in Foro it., Rep. 2004 voce Assicurazione, n. 11; Cass. 20 novembre 2003, n. 17626, in Foro it., Rep. 2003,
non massimata; sull’esclusione della responsabilità degli obbligati ex art.
2054 c.c. per mancanza del nesso di causalità tra la circolazione e l’incendio propagatosi da un veicolo Cass. 18 aprile 2000, n. 5032, in Foro it., Rep.
2001, voce Assicurazione, n. 93; Cass. 6 maggio 1998, n. 4575, in Foro it.,
Rep. 1998, voce Assicurazione, n. 127; Cass. 9 giugno 1997, n. 5146, in
Giust. civ., 1997, 2754; Giud. di Pace di Livorno 15 luglio 1997, in Giur. it.,
1998, 2067; Pret. Bari 14 maggio 1987, in Arch. giur. circolaz., 1987, 799.
(3) Antinozzi, La responsabilità per incendio di autoveicolo, in Dir. prat. ass.,
1988, 142; Gallone, Il danno derivante dalla circolazione dei veicoli e il danno derivante da veicoli in circolazione, in Giur. it., 1998, 1122.
(4) Confermato anche dalla Cass. 17 maggio 1982, n. 3038, in Foro it.,
1982, 2196. Gallone, Il danno derivante dalla circolazione, cit., 1122, sostiene, peraltro, che l’art. 2051 c.c. potrà essere invocato allorquando il
veicolo non risulti più in circolazione, ma venga ritirato in un luogo privato. Nel medesimo senso vedasi Lagostena Bassi e Rubini, La responsabilità per la circolazione dei veicoli, Milano, 1972, 392.
(5) L’art. 2051 c.c., peraltro, pur costituendo norma speciale rispetto all’art. 2043 c.c., si configura come disposizione di carattere generale idonea a ricomprendere le ipotesi in cui un soggetto abbia in custodia una
cosa al fuori dai casi previsti da norme speciali quali gli artt. 2053 e 2054
c.c. Qualora, dunque, nella fattispecie concreta si ravvisino gli elementi
enucleati dall’art. 2054 c.c., il risarcimento dei danni verrà valutato solo
in relazione a tale norma, prescindendo dal ricorso alla clausola generale
della responsabilità per custodia di cose.
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
impiega per affermare la responsabilità degli obbligati ai
sensi dell’art. 2054 c.c. si concentrano sulla nozione di circolazione del veicolo e sul nesso di causalità tra il fatto della circolazione e l’evento dannoso nel suo complesso.
Al fine di una migliore comprensione del problema, è,
dunque, opportuno procedere, in primis, ad una specificazione del concetto di circolazione, così come elaborato dal
legislatore e dalla giurisprudenza e, successivamente, ad
una analisi approfondita del legame eziologico tra la circolazione e l’incendio fonte dei danni lamentati.
La circolazione
In merito alla nozione di circolazione, costituiscono
oramai ius receptum le numerose pronunce (6) con le quali la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che anche il
veicolo in sosta è considerato «in circolazione» (7), per il
fatto che, seppure fermo, può costituire un intralcio e un
ostacolo al movimento degli altri veicoli (8). La tesi risulta,
peraltro, confermata dal testo di legge (9), che definisce,
appunto, la circolazione come il «movimento, la fermata e
la sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulla strada»,
intendendosi con il termine strada tutte le aree di uso pubblico o privato adibite al traffico (10).
È opportuno, però, precisare che un’autovettura in sosta, oltre a costituire un impedimento al transito degli altri
veicoli - nel caso in cui venga posteggiato in violazione delle norme cautelari previste dal Codice della Strada - va
considerata in circolazione, secondo la dottrina e la giurisprudenza, perché idonea a mutare, in qualsiasi momento,
il proprio stato di quiete in movimento.
Anche la sentenza in esame aderisce all’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale la circolazione organicamente considerata non può restringersi alla fase dinamica,
caratterizzata appunto dal movimento del veicolo, ma si
deve necessariamente estendere anche alle fasi della fermata e della sosta, che ugualmente si inseriscono nel corso della circolazione. La pericolosità della circolazione deriva, del
resto, non tanto dall’ambiente in cui si verifica il transito o
la sosta degli automezzi, ma dall’uso normale degli stessi sulla strada (11). Tale connotazione è significativa al fine di
valutare la sussistenza del nesso di causalità tra la circolazione del veicolo e il danno provocato a terzi - apprezzamento che, peraltro, non si limita a individuare il collegamento eziologico tra la condotta (incendio) e l’evento
(danneggiamento dell’immobile), ma si estende, altresì, all’analisi del legame causale tra l’evento (incendio) e la sua
possibile origine.
Nel casi come quello di specie, infatti, è pacifica la sussistenza di un legame causale tra l’incendio e il danno all’immobile, dubbio è, invece, il collegamento eziologico tra
l’incendio e il fatto della circolazione.
Nesso di causalità tra 2054 c.c., 2043 c.c.
e 2051 c.c.: come oscilla la qualificazione
giuridica del fatto
Proprio dall’individuazione di uno specifico nesso
eziologico tra l’incendio e la sua possibile causa dipende la
qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 2054 c.c.,
piuttosto che ex art. 2043 c.c. o 2051 c.c.
Come si evince dalla lettera dell’art. 2054 c.c., ai fini
dell’applicabilità della suddetta norma alla fattispecie concreta, si richiede che il danno venga «prodotto» dalla circolazione, ovvero che sussista un nesso di imputazione
obiettiva dell’evento dannoso al transito o alla sosta del
Note:
(6) Ex multis, Corte cost. 2-14 aprile 1969, n. 82, in Giur. it., 1969, I,
1219, secondo la quale il concetto di sosta rientra nella nozione di circolazione, in quanto quest’ultima «ricomprende in sé il complesso di situazioni dinamiche e statiche in cui è posto un veicolo sulla pubblica via (…)»;
Cass. 17 giugno 1993, n. 6750, in Foro it., Rep. 1993, voce Circolazione
stradale, n. 180; Cass. 28 novembre 1990, n. 11467, in Foro it., Rep.
1990, voce Circolazione stradale, n. 189, in cui si afferma che «nell’ampio
concetto di circolazione stradale indicato dall’art. 2054 c.c., come possibile
fonte di responsabilità deve essere ricompressa anche la posizione di arresto del
veicolo su area pubblica, in quanto anche in occasione di fermate o soste sussiste la possibilità di incontro o comunque di interferenza con la circolazione di
altri veicoli o di persone ed anche in tali contingenze non può il conducente ritenersi esonerato dall’obbligo di assicurare l’incolumità dei terzi»; Cass. 24 luglio 1987, n. 6445, in Arch. giur. circolaz., 1988, 580, in cui si afferma che
«ai sensi e per gli effetti dell’art. 2054 c.c. deve ritenersi compresa anche la situazione di arresto o di sosta di un veicolo su strada o area di pubblica pertinenza della stessa, non avendo il legislatore distinto fra veicolo in circolazione
e circolazione del veicolo»; Cass. 23 aprile 1980, n. 2660, in Foro it., Rep.
1980, voce Danni civili, n. 62, in cui si ribadisce che «l’ampia nozione di
circolazione stradale, quale configurata dalla legislazione vigente, comprende
non solo i veicoli in moto ma anche quelli momentaneamente in sosta su strada o altra area pubblica».
(7) Sul punto anche Peccenini, La responsabilità civile, in Il diritto privato
nella giurisprudenza, a cura di Cendon, V, XII, Torino, 1998, 243, il quale
sottolinea, confortato dalla dottrina, come «la sosta non sia che un momento entro l’ampio fenomeno della circolazione» e che lo stesso concetto di
circolazione possa essere scisso in «circolazione dinamica» e «circolazione statica», quale forma di utilizzazione della strada, simile al transito. Sul
punto Gallone, Il danno derivante dalla circolazione, cit., 1123 e Alibrandi, Sul concetto di circolazione stradale, in Arch. giur. circolaz., 1991, 641;
Geraci, Veicolo non destinato alla circolazione e responsabilità ex art. 2054
c.c., in Resp. civ. e prev., 1982, 304 s.
(8) Il principio informatore del C.d.S. prescrive, peraltro, che gli utenti
della strada tengano un comportamento volto non creare pericolo alla
generalità dei consociati. Sul punto anche Colombani, La sosta è circolazione?, in Arch. giur. circolaz., 1995, 44.
(9) Art. 3, n. 9, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.
(10) Gallone, L’ambiente della circolazione veicolare e l’azione diretta, in Resp. civ. e prev., 2001, 373, secondo il quale ciò che contraddistingue un’area dall’altra ai fini della denominazione di «strada» non è il carattere
pubblico o privato della stessa, ma la situazione di pericolosità che la connota in conseguenza del transito e della sosta di automezzi. Nello stesso
senso Peccenini, La responsabilità, cit., 244.
(11) Cass. 9 maggio 1991, n. 5189, in Giur. it., 1993, 201, in cui si afferma che, ai fini della pericolosità della circolazione, non rileva lo stato di
efficienza del veicolo anche in sosta, salvo che si tratti di un vero e proprio rottame, suscettibile di demolizione certa ed imminente. Nonché
Gallone, Nullità della clausola contrattuale limitatrice del rischio e applicabilità dell’art. 1419, 2° comma c.c. La nuova soluzione della S.C. in materia di
assicurazione obbligatoria per la r.c.a., in Giur. it., 1998, 836. Geraci, Veicolo non destinato alla circolazione, cit., 305 ss. L’Autore si sofferma sulla distinzione tra circolazione in senso oggettivo e in senso soggettivo, riguardando la prima, la sede in cui il transito e la sosta dei veicoli possono avere luogo e la seconda, la destinazione del veicolo al movimento, da parte
di chi ne sia proprietario. La normale destinazione della vettura alla circolazione è, infatti, un elemento indispensabile per la valutazione del
rapporto causale tra l’evento dannoso e la circolazione stessa.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
847
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
veicolo (12). La disposizione prevede, infatti, esplicitamente che proprietario e conducente siano obbligati al risarcimento dei danni cagionati dalla circolazione della propria
autovettura - esulando da tale circostanza l’insieme dei
danni che l’automezzo possa procurare a terzi, indipendentemente da essa. Il nesso di causalità tra la circolazione e
l’incendio, quindi, non può essere ridotto ad un rapporto di
mera occasionalità (13), per il fatto che la circolazione deve determinare una situazione tale che, senza di essa, l’evento dannoso non si sarebbe verificato (14). In altri termini si richiede che la circolazione sia antecedente necessario dell’incendio e non si limiti a fornire una semplice occasione di danno.
Secondo quest’ottica, il danno deve presentarsi come
conseguenza immediata e diretta della circolazione di un
veicolo (15), con l’effetto che al di fuori delle puntuali ipotesi individuate dall’art. 2054 c.c., risulterà, tutt’al più, applicabile la clausola generale dell’art. 2043 c.c. o, qualora
ne ricorrano i presupposti, l’art. 2051 c.c.
L’art. 2054 c.c., del resto, non rappresenta che una
specificazione della norma generale in materia di responsabilità civile (16) (art. 2043 c.c.), suscettibile di essere invocato solo nei casi tassativamente previsti.
Il discrimen tra le due fattispecie è, dunque, rappresentato dalle modalità di impiego di un veicolo: la sosta e il
transito di un’autovettura sulla strada non possono che
rientrare nella nozione di circolazione, garantendo un utilizzo «normale» del veicolo, diversamente da quanto accade nelle ipotesi di uso abnorme e improprio dell’automezzo,
totalmente estranee al fatto della circolazione (17). In tali
circostanze la circolazione, in quanto strumento per realizzare una diversa finalità (18), risulta esclusa dalla serie causale idonea a provocare l’evento e non può giustificare il ricorso all’art. 2054 c.c. Si tratta di casi in cui l’autovettura
venga utilizzata come arma impropria (19) o l’incendio
venga appiccato dolosamente da terzi (20) allo scopo di
danneggiare il veicolo. In siffatte situazioni la condotta del
terzo dà luogo ad una serie causale autonoma, distinta dalla circolazione dell’automezzo e suscettibile di essere valutata sotto il profilo risarcitorio ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Sono, inoltre, escluse dalla sfera di applicazione dell’art. 2054 c.c. anche le ipotesi in cui l’incendio sia dovuto
alla struttura del veicolo, ovvero ad un difetto dello stesso
svincolato dalla circolazione (21). Si tratta di vizi di costruzione la cui lesività può esplicarsi indipendentemente
dal transito o dalla sosta del veicolo. In tali circostanze il
danneggiato è legittimato all’esercizio di un’azione civile
ai sensi dell’art. 2051 c.c., poiché il pericolo si è originato
dalla cosa, soggetta al potere-dovere di controllo del custode, in capo al quale sussiste una presunzione di responsabilità. Secondo l’art. 2051 c.c., infatti, la pericolosità
della cosa è intrinseca alla struttura e alla conformazione
della stessa e non abbisogna necessariamente di un intervento esterno - quale, ad esempio, il fatto della circolazione - per esprimere la propria potenzialità lesiva (22). Se
l’incendio sviluppatosi dalla vettura venisse considerato
come fenomeno originatosi dalla cosa ex se si ricadrebbe,
848
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Note:
(12) Gallone, Nullità della clausola contrattuale, cit., 837. L’Autore tratta
diffusamente il problema del nesso di causalità che non sussiste nel caso in
cui la circolazione del veicolo rappresenti una mera occasione di danno,
in quanto frutto di coincidenza. Nel caso in cui un pedone venga, ad
esempio, ferito dai frammenti del finestrino di un’autovettura, rotto da
due trasportati durante una colluttazione, sarà inapplicabile l’art. 2054
c.c., risultando estraneo alla circolazione l’evento dannoso verificatosi. Il
danneggiato dovrà, quindi, correttamente agire ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
trattandosi di un danno derivato non dalla «circolazione del veicolo», ma
da un «veicolo in circolazione». Sul punto anche Perseo, In tema di limite
causale della presunzione ex art. 2054 c.c., in Arch. giur. circolaz., 1959, 35.
(13) Scardigno, Presunzione di responsabilità e mancata collisione tra veicoli,
in Giur. it., 1999, 1818. In giurisprudenza Cass. 17 novembre 1976, n.
4291, in Foro it., Rep. 1976, voce Danni civili, n. 31 e Cass. 22 febbraio
1958, n. 581, in Giur. it., 1958, I, 1, 921. L’evento dannoso deve considerarsi conseguenza, almeno mediata e indiretta, della circolazione. Così affermato da Peretti Griva, Presunzione di colpa di fronte a mancanza di collisione di veicoli, in Giur. it., 1958, I, 1, 921.
(14) Gallone, Nullità della clausola contrattuale, cit., 835.
(15) Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e
Branca, Bologna, 1993, 651.
(16) Gallone, Nullità della clausola contrattuale, cit., 836. L’art. 2043 c.c.
si configura come «norma in bianco» e garantisce il risarcimento del danno in tutte le circostanze generatrici di responsabilità civile.
(17) Gallone, Nullità della clausola contrattuale, cit., 837.
(18) Gallone, Nullità della clausola contrattuale, cit., 837. L’Autore osserva come in dottrina i mezzi impiegati dall’agente per raggiungere uno scopo illecito siano considerati giuridicamente irrilevanti, in quanto privi di
autonomia causale.
(19) Trib. Pordenone 25 febbraio 1980, in Resp. civ. e prev., 1980, 576:
emblematico è il caso di un veicolo utilizzato per divellere la colonnina di
un distributore automatico di carburante, allo scopo di entrare in possesso delle banconote in esso contenute. Significativo anche il caso di
un’autovettura impiegata come ariete al fine di sfondare la vetrata di una
banca e incendiatasi in conseguenza dell’impatto. Gallone, Il danno derivante dalla circolazione, cit., 1123 ss. De Cupis, Dei fatti illeciti, in Comm.
cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1971, 102, sottolinea che in tali circostanze il veicolo non viene utilizzato secondo la sua
naturale destinazione.
(20) Cass. 6 maggio 1998, n. 4575, cit., in cui la Suprema Corte afferma
che «non può considerarsi evento relativo alla circolazione stradale l’incendio
propagatosi da un veicolo in sosta, ed appiccato dall’azione dolosa di terzi; ne
consegue che, in un simile caso, il terzo danneggiato non ha azione diretta nei
confronti dell’assicuratore del veicolo dal quale si è propagato l’incendio». Sul
punto anche Antinozzi, La responsabilità per incendio, cit., 143 s., che si
sofferma sulla circostanza di danni provocati dall’incendio di un’autovettura verificatosi per opera di un terzo sconosciuto e i conseguenti profili
di responsabilità a titolo di custodia di cose, piuttosto che ex art. 2043 c.c.
L’Autore correttamente evidenzia che, in ambito di responsabilità ex art.
2051 c.c., il fatto illecito del terzo è idoneo ad interrompere il nesso di imputazione oggettiva tra l’evento dannoso e l’onere di vigilanza del custode, in quanto integra l’ipotesi del caso fortuito. A maggior ragione il fatto del terzo escluderà la responsabilità di proprietario, conducente e assicurazione ai sensi dell’art. 2054 c.c.
(21) Trib. Reggio Emilia 12 giugno 1998, in Arch. giur. circolaz., 1998,
779, in cui l’incendio sprigionatosi dal veicolo, un furgone adibito a rosticceria mobile, era derivato dalla rottura dei tubi del gas delle cucine, indipendentemente dalla circolazione; Cass. 9 giugno 1997, n. 5146, in
Giur. it., 1998, 1122, che ha escluso la responsabilità dell’assicurazione ai
sensi della legge 24 dicembre 1969, n. 990 nel caso di incendio sviluppatosi durante le operazioni di carico e scarico di carburante compiute da un
automezzo nei pressi di un impianto di distribuzione di carburante.
(22) Franzoni, Dei fatti illeciti, cit., precisa, tuttavia, che la norma si riferisce ai danni non solo che «la cosa è suscettibile per sua natura di produrre,
ma anche a quelli che dipendono dall’insorgere dalla cosa stessa di un agente
dannoso», agente che, però, non dipende necessariamente da circostanze
esterne alla cosa.
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
senza alcun dubbio, nell’ipotesi prevista dall’art. 2051 c.c.
Viceversa, l’individuazione di un collegamento eziologico
tra l’incendio del mezzo e la circolazione comporta una diversa qualificazione giuridica del fatto in termini di responsabilità ex art. 2054 c.c.
Come indicato dalla sentenza in esame, ai fini dell’applicazione dell’art. 2054 c.c., tra il danno e il fatto della circolazione deve, infatti, sussistere una precisa connessione
(23), che si traduce nel deterioramento del veicolo, successivo al movimento (24). Se non venisse individuato quello
specifico legame causale, dunque, il proprietario o il conducente ne potrebbero rispondere solo in qualità di custodi.
Non meno significativo in tal senso è il quarto comma
dell’art. 2054 c.c. che non libera il proprietario e il conducente da responsabilità per danni derivanti da vizi di costruzione o da difetto di manutenzione del veicolo. In tale ipotesi, presupposto della responsabilità è la valutazione della
pericolosità della circolazione del mezzo, insita nell’inidoneità del veicolo allo scopo normale cui è destinato (25).
In dottrina (26) è stato osservato come i vizi indicati
dalla norma siano direttamente riconducibili alla cosa, che,
tuttavia, può esplicare le sue potenzialità dannose, solo durante la circolazione (27). In tal modo, il fatto della circolazione si pone come antecedente causale necessario al prodursi dell’evento lesivo.
In linea con le considerazioni svolte, la sentenza riportata in epigrafe, dunque, giustamente sottolinea come
l’incendio propagatosi da un’autovettura in sosta all’immobile altrui possa dar luogo ad una forma di responsabilità ex
art. 2054 c.c., soltanto quando il fatto lesivo sia direttamente legato all’usura complessiva del mezzo, conseguente
alla circolazione (28).
Non vale, invece, ad escludere il risarcimento dei danni il «criterio temporale» impiegato dalle Corti di merito
per negare il nesso eziologico tra l’avaria del veicolo e la circolazione, stante il probabile decorso di un considerevole
lasso di tempo tra il movimento della vettura e la sosta, presumibilmente in grado di interrompere la causalità. In
realtà, il criterio della «lontananza cronologica» tra il transito dell’automobile e l’incendio non può essere considerato fattore esterno rispetto al fatto della circolazione, né
principio idoneo all’individuazione di un decorso causale
alternativo, in grado di interrompere la sequenza causale
che lega l’avaria e l’usura complessiva del veicolo - conseguenti alla sua circolazione - alla situazione dannosa originatasi dallo stesso (29).
Sul punto, la dottrina (30) e la giurisprudenza (31) sono concordi nell’affermare che per l’accertamento del nesso di causalità è necessario verificare la regolarità della sequela causale, in modo che l’evento successivo abbia rappresentato un sviluppo normale e non abnorme, di quello
precedente. Risulta, così, idonea ad escludere il nesso di
causalità tra il fatto della circolazione e l’incendio della vettura l’azione illecita del terzo, che costituisce una causa autonoma di produzione dell’evento dannoso, capace di degradare la circolazione a mera occasione di danno (32).
L’accertamento delle circostanze che hanno provoca-
to l’evento lesivo, peraltro, si innesta su un giudizio ex post
di tipo controfattuale (33), che il giudice di merito deve,
Note:
(23) Cass. 18 aprile 2000, n. 5032, cit., nella quale, per converso, si afferma che «il danneggiamento di un immobile a causa dell’incendio di un’auto parcheggiata in prossimità, fatta eccezione per l’ipotesi che venga individuato uno
specifico nesso eziologico tra un determinato avvenimento della circolazione stradale e l’incendio, non può considerarsi un evento prodotto da detta circolazione».
La Cass. 6 febbraio 2004, n. 2302, cit., ribadisce che deve considerarsi
«evento relativo alla circolazione stradale» l’incendio propagatosi da un veicolo in sosta (con conseguente azione del danneggiato verso l’assicurazione
del veicolo), a meno che l’incendio non derivi dall’azione dolosa di terzi.
(24) Gallone, Il danno derivante dalla circolazione, cit., 1124 e Antinozzi,
La responsabilità per incendio, cit., 142. Sono ipotesi concrete di danno
provocato dalla circolazione quelle in cui l’incendio si verifichi per il surriscaldarsi del motore, oppure per lo scoppio del serbatoio di benzina, per
un corto circuito o per un ritorno di fiamma.
(25) Peccenini, La responsabilità, cit., 112.
(26) Scognamiglio, voce Responsabilità civile, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 649.
(27) Diversamente da quanto accade nell’ipotesi prevista dall’art. 2051
c.c., secondo il quale la pericolosità della cosa è intrinseca alla struttura e
alla conformazione della stessa e non necessita di alcun intervento esterno per esprimere la propria potenzialità lesiva. Secondo il quarto comma
dell’art. 2054 c.c, invece, l’anormalità del veicolo avrebbe la possibilità di
cagionare danni a terzi solo mediante la circolazione, integrando in tal
modo la fattispecie appositamente prevista dal legislatore per i danni derivanti dalla circolazione dei mezzi.
(28) La Suprema Corte supporta le proprie argomentazioni citando precedente giurisprudenza che sostiene la riconducibilità di una «situazione
dannosa proveniente da un veicolo alla sua circolazione, solo quando provenga
da una causa attinente e non estranea alla sua utilizzazione appunto come veicolo, senza l’interferenza di fattori esterni», così in Cass. 20 novembre 2003,
n. 17626, cit. Non è, infatti, necessaria una violazione delle norme cautelari del C.d.S., posta in essere in caso di sosta vietata o di collisione con
altro veicolo, per la riconducibilità dei danni derivanti dalle fiamme sprigionatesi da un veicolo al fatto della circolazione: contra Giud. Conciliatore di Perugia 28 maggio 1996, in Rass. giur. Umbra, 1996, 406.
(29) A sostegno della tesi Cass. pen. 22 febbraio 1991, in Arch. giur. circolaz., 1992, 22, che aveva ritenuto responsabile di un sinistro avvenuto
durante la notte, il conducente che aveva lasciato in sosta in veicolo in
pieno giorno. Il veicolo si ritiene affidato al conducente e si ritiene in circolazione anche se lasciato in sosta per un lungo periodo di tempo, come
conferma la Cass. 24 luglio 1987, n. 6445, in Arch. giur. circolaz., 1988,
580. Da entrambe le pronunce si evince che il criterio temporale non può
assurgere a causa di esclusione della responsabilità per i danni provocati
dal mezzo in circolazione, né può costituire un fattore eccezionale di per
sé capace di produrre l’evento.
(30) Franzoni, Dei fatti illeciti. Supplemento, in Comm. cod. civ., a cura di
Scialoja e Branca, Bologna, 2004, 25 ss.
(31) Cass. 20 dicembre 1986, n. 7801, in Foro it., Rep. 1986, voce Responsabilità civile, n. 68.
(32) Cass. 11 febbraio 1988, n. 1473, in Foro it, Rep. 1988, voce Danni civili, n. 149; Cass. 27 maggio 1995, n. 5923, in Foro it., Rep. 1995, voce Responsabilità civile, n. 63, dalla quale si evince che «l’evento dannoso deve essere attribuito alla condotta dannosa solo se questa azione risulti tale da rendere
irrilevante le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di
sviluppo della serie causale in atto». La Cass. 19 settembre 1996, n. 8348, in
Foro it., Rep. 1997, voce Responsabilità civile, n. 261, attribuisce alla causa
sopravvenuta l’idoneità a spezzare il nesso eziologico tra l’evento dannoso e altri fatti precedenti, quando da sola è in grado di relegare gli altri fatti al rango di occasioni estranee.
(33) La ricostruzione del processo causale viene risolta attraverso l’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., in relazione ai quali la dottrina in ambito
(segue)
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
849
GIURISPRUDENZA•CIRCOLAZIONE STRADALE
però, adeguatamente motivare (34). Proprio perché basata
sul fatto, la ricostruzione del decorso causale deve, inoltre,
fondarsi sulla CTU tecnica (35), in grado di offrire una valutazione precisa dei fattori che concretamente hanno dato
luogo alla situazione di danno.
Nei casi come quello di specie, pertanto, individuate
con precisione le disfunzioni meccaniche o elettriche che
hanno provocato l’incendio del veicolo, spetterà all’interprete porre in relazione l’avaria della vettura al fatto della
circolazione, nell’ambito della quale lo stesso coefficiente
temporale - fatto di movimenti e di soste - può concorrere
a determinare l’usura complessiva del mezzo e delle sue
componenti costitutive (36).
Conclusioni
Le considerazione suesposte permettono di svolgere
qualche valutazione in merito ai possibili esiti di un’azione giudiziale esercitata da chi subisca un danno in seguito all’incendio sviluppatosi da un veicolo che, seppure in
sosta, è considerato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza,
in circolazione. Il legislatore e la giurisprudenza, indubbiamente, si rivolgono con un occhio di favor al soggetto
leso.
Qualora, infatti, venga accertato il nesso di causalità
tra la circolazione e l’evento, con possibilità di ricondurre la
vicenda alla previsione dell’art. 2054 c.c, il danneggiato
avrà la possibilità di agire direttamente nei confronti dell’assicurazione, con sicura soddisfazione delle proprie pretese. La sussistenza del legame eziologico tra il fatto della circolazione e il danno risulta, del resto, sufficiente a configurare la responsabilità degli obbligati ex art. 2054 c.c., la cui
condotta, peraltro, prescinde dalla violazione delle norme
cautelari del Consiglio di Stato (37).
Qualora, al contrario, il nesso di causalità ut supra delineato venga escluso, non sarà difficile per il danneggiato
agire ai sensi dell’art. 2051 c.c., che secondo la giurisprudenza (38) rappresenta una delle ipotesi di responsabilità
oggettiva, per danno cagionato da cose in custodia. Nell’ipotesi in cui il danno subito dal terzo non possa, infatti, essere considerato prodotto dalla «circolazione del veicolo»,
potrà, però, essere valutato come prodotto dal «veicolo in
circolazione» (39). In ogni caso l’onere della prova spettante al danneggiato sarà limitato alla valutazione del solo
rapporto di causalità tra il danno e l’evento lesivo ingeneratosi dalla cosa, sottoposta al potere di controllo del custode.
Tramite il riferimento all’art. 2054 c.c., dunque, la giurisprudenza conduce lontano dagli inconvenienti connaturati alla clausola generale dell’art. 2043 c.c. agevolando la
posizione risarcitoria di chi subisca gli effetti devastanti di
un incendio divampato da un veicolo, la cui pericolosità
non si riduce ai momenti di circolazione dinamica, ma si
estende anche alle fasi di circolazione statica, imponendo
al proprietario e al conducente una costante sorveglianza
sul proprio mezzo.
850
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Note:
(segue nota 33)
penalistico ha elaborato due teorie: quella della condicio sine qua non, secondo la quale la condotta è causa dell’evento ogni qualvolta non possa
essere mentalmente eliminata - alla luce di un giudizio ex post - senza che
l’evento venga meno e quella della causalità adeguata, che si fonda su un
giudizio di prevedibilità e idoneità ex ante della causa a produrre l’evento
successivamente verificatosi. Franzoni, Dei fatti illeciti, cit., 29. La giurisprudenza accoglie un criterio interpretativo intermedio, che modifica la
teoria della condicio sine qua non, prevedendo una valutazione del rapporto causale a struttura bifasica: la prima indagine richiede la sussunzione
sotto leggi scientifiche in grado di verificare la probabilità che ad una determinata condotta segua un certo evento; la seconda fase comporta, invece, l’eliminazione dei decorsi causali alternativi, in base ai quali un
evento possa essersi verificato per il sopravvenire di un’anomala deviazione rispetto allo sviluppo normale della serie causale. Sull’argomento
sono interessanti le osservazioni svolte da Rimmaudo, Nota a sentenza del
Giudice di Pace di Livorno 15 luglio 1997, in Giur. it., 1998, 2067.
(34) Sul punto ancora la Cass. 11 febbraio 1988, n. 1473, cit., in cui sancisce, infatti, che «l’accertamento se uno o più fatti rientrino nel quadro delle
condizioni necessarie alla produzione dell’evento costituisce un tipico giudizio di
fatto, incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato». Franzoni, Dei fatti illeciti, cit., 23 ribadisce come «l’indagine dell’interprete debba
procedere con metodo casistica, desumendo dalla soluzione delle controversie le
costanti che possono valere per deliberare le regulae iuris giurisprudenziali, a
prescindere dalle formule adottate in motivazione».
(35) Come è noto la consulenza tecnica è uno strumento di integrazione
istruttoria, con la funzione di completare le conoscenze del giudice sul
piano tecnico ovvero di orientare lo svolgimento dell’attività istruttoria
Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2000, 187 ss.; Luiso, Diritto
processuale civile, Milano, 1997, 89 ss. La giurisprudenza, tuttavia, è consapevole del fatto che la CTU oltre a offrire elementi di valutazione delle risultanze istruttorie può diventare essa stessa fonte oggettiva di prova,
quando diviene strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo
con il ricorso a determinate condizioni tecniche. Cass. 31 marzo 1990, n.
2629, in Foro it., Rep. 1990, voce Consulente tecnico, n. 12; nonché Rimmaudo, Nota a sentenza, cit., 2078.
(36) Per converso secondo la Cass. 11 agosto 2000, n. 10719, in Foro it.,
Rep. 2001, voce Danni civili, n. 128, «in tema di nesso di causalità nell’illecito extracontrattuale, il principio dell’equivalenza di cause posto dall’art. 41 c.p.
sta a significare che tutti gli antecedenti in mancanza dei quali l’evento dannoso
non si sarebbe verificato sono causa efficiente di esso, salvo che sia intervenuta
una causa prossima idonea da sola a produrlo, la quale interrompe il nesso causale a norma dell’art. 41 2° comma c.p.». Alla luce delle considerazioni
svolte, dunque, il decorrere del tempo non può che essere invocato quale possibile concausa dell’evento dannoso e non - come contraddittoriamente affermato dalle Corti di merito - in qualità di circostanza di esclusione della responsabilità.
(37) L’art. 2054 c.c. primo, secondo e terzo comma configura un’ipotesi di
responsabilità presunta, entro la quale l’elemento soggettivo della colpa
viene provato attraverso il sistema delle presunzioni accolto sia dal codice civile che dal codice di procedura civile. Singolare è la previsione dell’ultimo comma dell’art. 2054 c.c., che prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva. Ai fini del risarcimento del danno nelle ipotesi di specie,
infatti, non è necessaria alcuna valutazione in termini di colpa della condotta del danneggiante. Nei primi tre commi la colpa è presunta, nell’ultimo comma non è prevista L’illecito delineato dal caso di specie, peraltro, sembrerebbe ascrivibile alle ipotesi di responsabilità oggettiva, perché deriva da una situazione più simile a quella regolata dall’art. 2054 c.c.
quarto comma. In tale circostanza non è, del resto, necessaria alcuna violazione di regole cautelari, tale da configurare la colpa dei soggetti obbligati ex art. 2054 c.c.
(38) Cass. 15 gennaio 2003, n. 472, in Foro it., Rep. 2003, voce Responsabilità civile, n. 259.
(39) Gallone, Il danno derivante dalla circolazione, cit., 1123; Antinozzi,
La responsabilità per incendio, cit., 145; Colombani, La sosta, cit., 45.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
Interruzione della relazione figlio - genitore non affidatario
Responsabilità civile e famiglia …
un «idillio» che continua
TRIBUNALE DI MONZA, Sez. IV, 5 novembre 2004
Pres. e Rel. Litta Modignani - R. F. c. F. N.
Divorzio - Affidamento del minore al padre - Interruzione del rapporto con la madre per un lungo lasso di
tempo - Comportamento colposo del genitore affidatario - Risarcimento del danno - Danno non patrimoniale Sussistenza.
(c.c. artt. 2043, 2059)
Ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo
tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario,
delle condotta ostruzionistica del genitore affidatario.
Svolgimento del processo
... Omissis...
Motivi della decisione
Nelle due ordinanze collegiali del 5.4.2000 e del
27.12.2001, poco sopra menzionate, sono contenuti ampi riferimenti alle vicende che hanno segnato il lungo
conflitto personale tra i coniugi R. e F., conflitto che ha
avuto come protagonista principale il figlio minore N.;
negli stessi provvedimenti sono posti in rilievo i momenti salienti dell’attività dei Servizi e operatori vari,
chiamati dal Tribunale a supporto dell’accertamento
giudiziale e a sostegno degli stessi componenti del nucleo
familiare de quo.
Il Collegio, chiamato oggi alla decisione definitiva della
controversia - decisione che, tuttavia, non può tradursi
nella soluzione del conflitto personale, di cui permangono le conseguenze laceranti - deve rielaborare e puntualizzare le proprie precedenti valutazioni sui fatti rilevanti
per il giudizio e in particolare sui comportamenti delle
parti, alla luce delle più recenti osservazioni proposte
dalle consulenti d’ufficio e tenuto conto egli argomenti
sviluppati dalle opposte difese negli scritti conclusionali.
Il dato più rilevante, che emerge dalle conclusioni della
perizia R./M. e che conferma precedenti valutazioni di
altri operatori specializzati (vedi ad es. rel. della psicologa dott. C. G. dell’ASL in data 19.11.1997), è un giudizio di sostanziale inadeguatezza di entrambe le figure genitoriali nell’affrontare i gravi problemi derivati a N. dalle vicende della separazione.
«Nonostante il percorso effettuato con entrambe le professioniste incaricate... nessuno si è dimostrato in grado
di affidarsi ad un progetto terapeutico, che in realtà non
è mai stato accettato e condiviso, e nel quale nessuno ha
mai veramente creduto.
La madre ha continuato a dimostrarsi poco affidabile,
oscillante tra momenti di intensa depressione, abulia e
scoramento, e momenti di euforia ed entusiasmo poco
motivati sul parametro di realtà.
… è stata per un lungo tempo latitante (ha effettivamente avuto un importante problema di salute) … una
volta offertole uno spazio di rielaborazione e sostegno
dopo la difficilissima prova dell’aver incontrato N., si è
mostrata estremamente incostante nel presentarsi agli
appuntamenti, oltre che discontinua negli impegni assunti.
Il padre ha mantenuto una posizione di totale diffidenza,
quando non di aperta svalutazione, e ha incentivato un
atteggiamento ostile, talvolta decisamente boicottante
nei confronti del progetto d’intervento.
N. si è mantenuto in una posizione rigidamente difensiva. Non si è neppure permesso di percepire il contesto di
aiuto e di sostegno, perché terrorizzato dall’idea che
qualcuno potesse avvicinarsi ad una struttura difensiva
così rigida e massiva …
La percezione della realtà, soprattutto di quelle emotiva,
da parte di questo bambino è così parziale e circoscritta,
e il suo atteggiamento manifesto appare così rispondente alle aspettative del padre, che è verosimile parlare di
una strutturazione di personalità di «Falso Sé».
… in considerazione di quanto sopra esposto, appare evidente che c’è stato intorno a N. un fallimento ambientale; entrambi i genitori, al di là delle singole strutturazioni patologiche a livello di personalità (sig.ra F.: Disturbo Narcisistico di Personalità; sig. R.: Disturbo di
Personalità), non sono stati in grado di esercitare una
funzione protettiva, contenitiva e rassicurante nei confronti del figlio.
La madre non è stata in grado di farlo perché non ha saputo offrire al bambino costanza affettiva ed interessa-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
851
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
mento autentico ai bisogni da lui espressi, il padre perché ha fatto di tutto per impedire una reale ripresa dei
rapporti tra madre e figlio, e, convinto della totale inadeguatezza dell’ex moglie, ha sempre agito come se per il
figlio fosse meglio non averla proprio una madre di questo genere».
Si tratta di notazioni ampiamente condivisibili, le quali
non fanno che confermare - con il suffragio dei dati raccolti in un’opera di osservazione più approfondita, scandita da una serie di incontri dei periti con i genitori e con
il minore - quanto era già emerso nelle precedenti fasi
giudiziali ed era stato riassunto nei provvedimenti parziali del Tribunale.
Il «fallimento ambientale» dichiarato dalle CTU, era
già stato percepito - infatti - dagli operatori del Servizio
Sociale di Sesto San Giovanni (vedi la relazione finale
del 21.03.2001) e aveva condotto il Tribunale a sostituire il sig. R., nella funzione di genitore affidatario di N.,
con lo stesso Ente Pubblico.
È chiaro, dunque, che l’odierna decisione non potrà che
riproporre, circa le modalità di affidamento del minore,
la situazione già in atto, secondo le indicazioni dei periti
d’ufficio:
«Lasciare N. affidato ad un Ente Tutore, in considerazione delle gravi carenze genitoriali dimostrate da entrambi.
Non prevedere al momento attuale altre occasioni d’incontro di N. con la madre, a meno che non partano da
un’esplicita richiesta del bambino.
Non prescrivere ai componenti del nucleo familiare un
intervento terapeutico coatto, in considerazione della
scarsissima recettività dimostrata nei diversi contesti
d’intervento strutturati nel passato e in tempi recenti, e
in considerazione della fortissima resistenza al cambiamento dimostrata da tutti».
Non dissimile, del resto, era stata la conclusione della citata relazione del Servizio Sociale del marzo 2001: «...
non si ritiene di dare prescrizioni, perché si ritiene che
solo alla luce di una reale motivazione da parte degli interessati si possa avere un’efficacia terapeutica …
Solo attraverso un presa di coscienza da parte degli interessati si ritiene che possa accadere qualcosa in senso trasformativo.
In tal senso appare indicato lasciar trascorrere un tempo relativamente lungo, mantenendo un controllo a
distanza».
Il Collegio conferma dunque l’affido di N. al Servizio Sociale, con collocamento del minore presso il padre, secondo le prescrizioni che saranno appresso dettagliate
nel dispositivo.
Va per contro scartata una diversa soluzione, che preveda l’allontanamento di N. dall’attuale contesto familiare
- come proposto dalla difesa della sig.ra F. - sia per la considerazione che non si è registrata alcuna indicazione dei
consulenti in tal senso, sia perché un collocamento eterofamiliare darebbe innesco a nuove sofferenze per il minore, sconvolgendo la situazione di compenso psicologi-
852
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
co ed emotivo che il ragazzo sta vivendo nell’ambiente
paterno, senza la garanzia di un risultato positivo apprezzabile.
... Omissis...
La resistente, da parte sua, ha avanzato una richiesta risarcimento del danno biologico e morale, lamentando la
privazione di ogni possibilità di rapporto con il figlio per
fatto imputabile al sig. R., in ragione della condotta rigidamente ostativa che il ricorrente avrebbe tenuto al fine
di impedire la ripresa delle normali relazioni di N. con la
madre.
La difesa del resistente ha contestato la stessa ammissibilità della domanda, in quanto proposta tardivamente, e
comunque ne ha chiesto il rigetto per totale mancanza
dei presupposti giuridici.
L’eccezione preliminare d’inammissibilità deve essere disattesa, per il rilievo che già nella comparsa di costituzione, datata 24.03.2004 e depositata nell’udienza presidenziale, la difesa resistente, oltre a ribadire le conclusioni precedentemente rassegnate nel procedimento ex art.
710 c.p.c. (pag. 2), proponeva espressamente come «ulteriore domanda» la determinazione di «un risarcimento danni alla madre per il danno psicofisico dalla stessa
subito, e che si riserva di documentare anche sottoponendosi a CTU, a causa della privazione del rapporto
con il proprio figlio» (vedi pag. 3 atto citato).
La medesima domanda è stata poi riproposta puntualmente, sia all’atto della prima precisazione delle conclusioni (foglio allegato a verbale del 9.7.2001), sia in occasione della definitiva spedizione della causa a sentenza
(udienza di p.c. del 19.02.2004) ove la richiesta risarcitoria era articolata sotto il duplice profilo del «danno
biologico e morale», la cui concreta determinazione è
stata rimessa alla valutazione equitativa del Tribunale.
La domanda così formulata corrisponde ai tradizionali
canoni di definizione del danno non patrimoniale, ove
la tutela risarcitoria del danno biologico - derivante da
una lesione dell’integrità psicofisica di un soggetto - veniva data sulla scorta di un collegamento tra l’art. 2043
c.c. e l’art. 32 Cost., mentre il danno morale soggettivo inteso come sofferenza immediatamente connessa con la
commissione di un illecito - era riconosciuto solo nei ristretto limite delineato dall’art. 2059 c.c., cioè in presenza di un fatto qualificabile come reato.
Se si dovesse rimanere nei binari così tracciati dalla giurisprudenza fino ad epoca recente, il Tribunale non potrebbe che rilevare, quanto al profilo del danno biologico, che nel presente giudizio è mancata qualsiasi allegazione documentale circa l’esistenza per la sig.ra F. di una
patologia clinicamente definibile, tale da potersi valutare come lesione, temporanea o permanente, della sua integrità psicofisica, e attribuibile sotto il profilo eziologico
alla condotta antigiuridica ascritta dalla resistente all’ex
marito.
Non è neppure stata richiesta, a tal fine, una CTU medico/legale, in difetto della quale il Collegio deve ritenere del tutto insussistente - per mancanza di dimostrazio-
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
ne e anche di concreta enunciazione - il dedotto danno
biologico.
Quanto al danno morale, la domanda dovrebbe invece
essere accolta solo sulla base dell’accertamento, in
astratto, della responsabilità del sig. R. per il reato di cui
all’art. 388 c.p., ossia della mancata esecuzione dolosa
del provvedimento dell’autorità giudiziaria riguardante
l’esercizio del diritto di visita al minore del coniuge non
affidatario.
Più di recente, tuttavia, la giurisprudenza ha elaborato
una più ampia definizione del danno non patrimoniale,
giungendo a superare, attraverso l’enunciazione di importanti principi in tema di tutela dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, i limiti posti dalle precedenti interpretazioni.
Questo Collegio ritiene, allora, che la definizione della
presente controversia, sul punto della pretesa risarcitoria
avanzata dalla sig.ra F., debba essere ancorata ai suddetti
principi, che la Corte di Cassazione, Sez. III Civ., ha meglio delineato con la pronuncia n. 8827 del 7- 31 maggio
2003:
«In tema di risarcimento del danno, ogniqualvolta si verifichi la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, il pregiudizio consequenziale integrante il danno
morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche
se il fatto non sia configurabile come reato.
Il riconoscimento dei diritti della famiglia, di cui all’art.
29 della Costituzione, va inteso … nel più ampio senso
di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto genitoriale ispira, generando bisogni e doveri, ma anche dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni
e significati. Allorché un fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando..
una determinante riduzione, se non un annullamento
delle positività che dal rapporto parentale derivano, il
danno non patrimoniale, consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita, … deve trovare ristoro
nella tutela apprestata dall’art. 2059 del c.c., in caso di
lesioni di un interesse costituzionalmente protetto».
Anche se il caso specifico trattato dalla Corte, e altre
ipotesi considerate nella motivazione della medesima
sentenza, riguardavano il tema del danno derivante dall’uccisione o dalla grave menomazione fisica di un congiunto, va sottolineato che i principi enunciati in quella
decisione si attagliano perfettamente anche all’odierno
giudizio, giacché l’interesse qui fatto valere dalla sig.ra F.
coincide con «quello della intangibilità della degli affetti e della reciproca solidarietà in ambito familiare, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività
realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella
peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la
cui tutela è ricollegabile agli art. 2, 29 e 30 della Costituzione».
Nel caso in esame, appare indubbio che la compromissione sofferta dalla sig.ra F. nella sfera dei propri rapporti
con il figlio minore, attraverso l’interruzione di ogni ap-
prezzabile relazione negli ultimi dieci anni, integri la lesione di un diritto personale costituzionalmente garantito, e rappresenti quindi un fatto costitutivo del diritto al
risarcimento dei danni non patrimoniali, sotto l’aspetto
sia del danno morale soggettivo (patema d’animo), sia
dell’ulteriore pregiudizio derivante dalla privazione delle
positività derivanti dal rapporto parentale.
Detto danno potrà così trovare congruo risarcimento
anche indipendentemente dall’accertamento, in via puramente astratta ed incidentale, di una responsabilità
penale (e quindi del riconoscimento di una volontà dolosa del sig. R. di eludere i provvedimenti che regolavano i rapporti tra il figlio e la madre non affidataria), sulla
semplice verifica del connotato colposo della condotta,
idoneo a sostenere l’imputabilità dell’evento lesivo secondo i criteri di cui all’art. 2043 c.c.
La difesa del sig. R. contesta anche nel merito la fondatezza della pretesa di controparte, negando che il ricorrente sia stato in qualche modo responsabile di avere impedito lo svolgimento delle relazioni tra madre e figlio;
nello scritto conclusionale ed in sede di discussione sono
stati svolti argomenti critici in ordine alle motivazioni
dell’ordinanza collegiale del 27.12.2001, con lo scopo di
confutare il giudizio negativo espresso dal Tribunale nei
confronti del genitore affidatario e di porre in luce, per
converso, le grave carenze personali della sig.ra F.
Si è così sostenuta la valenza positiva dell’opera educativa svolta dal R., il quale avrebbe fatto quanto possibile
per assecondare i tentativi di ripresa dei rapporti, occupandosi un prima persona per l’accompagnamento del
bambino e prestando tutta la collaborazione richiesta
dagli operatori.
Tali argomenti devono essere qui definitivamente disattesi, ritenendo il Collegio di riaffermare la complessiva
validità delle osservazioni contenute nell’ordinanza del
27.12.2001, dovendo solo darsi atto che - essendo quel
provvedimento incentrato sulla valutazione dell’idoneità del R. a mantenere il ruolo di genitore affidatario non erano stati posti allora in dovuto risalto gli indubbi
limiti già riconoscibili nella personalità della F. ed era
stato obbiettivamente trascurato il dato fondamentale,
assunto poi nelle osservazioni conclusive delle CTU R.
e M., circa la responsabilità di entrambe le figure genitoriali nella determinazione di quel «fallimento ambientale» che ancora oggi impedisce la ricostruzione di un rapporto di N. con la madre.
È errato - dunque - ritenere che il R. sia l’esclusivo responsabile della prolungata interruzione delle relazione
madre-figlio (ma questo invero non è mai stato affermato dal Tribunale), ed è probabilmente eccessivo imputare al ricorrente una dolosa volontà di distruzione della figura materna agli occhi del bambino.
Non è però assolutamente accettabile la tesi della difesa
ricorrente che vorrebbe individuare nel comportamento
della F. la causa prevalente, se non esclusiva, dell’atteggiamento di ostilità e di rifiuto manifestato da N. verso la
madre stessa, mentre il padre sarebbe stato tutt’al più vit-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
853
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
tima di un proprio intimo senso di sfiducia circa le effettive capacità di accoglienza della ex moglie, attraverso il
quale sarebbe stato «inconsciamente» trasmesso un
messaggio di sfiducia recepito dal bambino.
I fatti esposti nelle osservazioni dei diversi operatori, che
si sono succeduti nella gestione dei rapporti tra le parti,
convergono in modo univoco nel rilievo che il sig. R.
non ha mai dato un reale contributo positivo all’evoluzione della relazione di N. con la madre, esplicitando, sia
con comportamenti di rigida chiusura emotiva, sia con
aperte dichiarazioni, anche alla presenza del bambino, la
sua radicale sfiducia sull’utilità degli interventi di mediazione in atto.
Già nella relazione della dott. G. in data 10.11.1997 si rilevava, infatti:
«Sin dall’inizio del processo si è presentata la difficoltà di
stabilire e mantenere una condizione di reale collaborazione da parte del padre, affinché si ponessero le migliori condizioni alla libera e spontanea espressione del bambino.
… N. sapeva di venire a pronunciarsi circa la propria volontà di rivedere la madre. Questo è quanto esplicitato
direttamente dal padre in presenza della psicologa al
bambino...
L’avvio pertanto è risultato difficile, data la grande responsabilità decisionale di cui N. si sentiva investito...»
… «il sig. R. esplicita l’intenzione di eliminare definitivamente la madre, sig.ra F., dalla mente e dalla vita affettiva di N.
Ritiene infatti che i riferimenti del bambino ad una figura materna siano in relazione a persona diversa dalla madre».
Nella successiva relazione dell’anno 1998 si leggeva
inoltre:
«Oggi la figura della madre agli occhi del bambino è fortemente danneggiata...
È necessario che il padre, verso cui N. ha una forte dipendenza, cambi la sua intima convinzione negativa
verso la sig.ra F. e trasmetta al figlio un messaggio positivo nei riguardi della madre, altrimenti ogni rapporto anche imposto, sarà negativo per il figlio».
Ebbene, nei cinque anni successivi, il giudizio degli operatori e dei CTU nei confronti del sig. R. non si è sostanzialmente modificato, né vi è traccia di un mutamento di atteggiamento da parte del padre.
Al contrario, in alcune decisive circostanze - quando ancora pareva possibile la rinascita di una relazione affettiva tra N. e la madre, tra la fine dell’anno 1998 e l’inizio
del 1999 - l’intervento del sig. R., e di altre figure femminili appartenenti al suo ambito familiare (come la madre e la compagna dell’odierno ricorrente), ha prodotto
risultati semplicemente distruttivi.
Per brevità di esposizione, il Collegio rimanda alla lettura delle relazioni del Servizio Spazio Neutro di Milano,
già ampiamente richiamate nell’ordinanza del
27.12.2001.
Da tali relazioni il Tribunale trae e conferma il proprio
854
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
convincimento circa l’esistenza di un rigido condizionamento dal minore nell’approccio con la madre, determinato, oltre che da dinamiche psicologiche interne del
bambino che pure gli psicologi hanno rilevato, dall’atteggiamento di aperta sfiducia, se non proprio di avversione, del sig. R., e delle persone a lui vicine, rispetto agli
interventi degli operatori.
Il Collegio deve poi riaffermare che l’interruzione dei
rapporti tra madre e figlio, avvenuta negli ultimi mesi
del 1995, non conseguì ad una deliberata scelta di abbandono della sig.ra F., la quale ritenne invero di sospendere per un certo tempo le visite di fronte a gravi
manifestazioni di ostilità da parte del bambino (vedi dich. davanti al Giudice Tutelare in data 16.11.1996), non
mancando però di rivolgersi tempestivamente all’autorità giudiziaria, sia con un atto di querela, sia con ricorso
al Tribunale per i Minori e al Giudice Tutelare (cfr. doc.
in atti).
In conclusione, se nella valutazione delle responsabilità si devono assumere tanto le omissioni e le mancanze da parte del padre, quanto i limiti della personalità,
le discontinuità e le carenze emotive della madre, ciò
non può certo condurre ad un giudizio di assoluzione
del sig. R., ma al più alla considerazione del concorso
delle diverse condotte nella causazione dell’evento
pregiudizievole, al fine della graduazione del risarcimento secondo la regola fissata dall’art. 1227, richiamato dall’art. 2056 c.c.
Non si può neppure affermare, sotto tale ultimo profilo,
che le due condotte abbiano avuto un effetto equivalente nella determinazione del persistente rifiuto di N. nei
confronti della madre.
Se da un lato, infatti, va considerato che la sig.ra F. oggi
stia scontando i limiti della propria risorse emotive e motivazionali, nonché i disagi psicologici indotti da una separazione che fu il frutto di una sua decisione, appare
chiaro, dall’altro lato, che tali limiti e disagi non possono porsi - sotto il profilo dell’efficacia causale e nella valutazione della gravità della condotta - in rapporto di
equipollenza con le mancanze e le resistenze ascrivibili al
R., se non altro perché, essendo egli il soggetto della famiglia più forte psicologicamente e più influente sul
comportamento del figlio, sarebbe stato oltremodo decisiva la sua positiva partecipazione al recupero della funzione genitoriale materna.
In conclusione, il Tribunale ritiene che il sig. R., nella sua
veste di genitore affidatario, sia venuto meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare, ma
anzi di favorire la partecipazione dell’altro genitore alla
crescita e alla vita affettiva del figlio, e che tale condotta
antigiuridica abbia provocato un grave pregiudizio al diritto personale della sig.ra Fossa alla piena realizzazione
del rapporto parentale con N., senza contare il danno che
ne risulta inferto al medesimo minore per la perdita dell’insostituibile relazione affettiva con la madre.
L’annullamento della funzione genitoriale materna, oggi
ancora in atto, porta al riconoscimento di un grave dan-
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
no morale ed esistenziale per la titolare del diritto, per il
cui risarcimento a carico del R. il Tribunale, pur tenendo conto del concorso di responsabilità della stessa parte
lesa, ritiene congruo l’importo di Euro 50.000, avuto ri-
guardo ai parametri oggi utilizzati nel distretto di Milano
per la liquidazione dei danni per la perdita o le gravi lesioni dei congiunti.
... Omissis...
IL COMMENTO
di Giulio Ramaccioni
La nuova interpretazione del danno non patrimoniale
trova applicazione anche nell’ambito dei rapporti familiari. La sentenza in commento è una delle prime
decisioni che riconoscono la risarcibilità del danno
non patrimoniale sofferto dal genitore non affidatario
per gli ostacoli frapposti all’esercizio di visita dall’altro genitore.
La richiesta di risarcimento del danno biologico e morale proposta dal genitore non affidatario che si vede impedire dal genitore affidatario ogni rilevante relazione con il
figlio minore: questo in estrema sintesi il thema decidendum
posto al vaglio del Tribunale di Monza.
Inquadrando la specifica problematica all’interno dei
precedenti rappresentati dagli ultimi orientamenti espressi
dalla Corte di Cassazione nelle (ormai celebri) sentenze
«gemelle» nn. 8827 e 8828 del 2003 (1) e, de plano, confermati dalla Corte costituzionale nella sentenza 11 luglio
2003, n. 233 (2), il Tribunale di Monza ha riconosciuto,
nella pronuncia che si commenta, la risarcibilità del danno
morale soggettivo (patema d’animo) e dell’ulteriore danno
esistenziale in favore della madre (genitore non affidatario), quale conseguenza della condotta illecita dell’altro genitore che ha, di fatto, annullato la funzione genitoriale
materna, impedendo pervicacemente ogni «apprezzabile
relazione» (3) tra il figlio minore e la madre.
1. Il fatto
Cerchiamo di delineare la fattispecie.
In sede di separazione consensuale dei coniugi (siamo
nel marzo 1995) il figlio minore viene affidato al padre e
viene concordato tra le parti un adeguato regime di frequentazioni tra il bambino e la madre secondo condizioni
che ebbero, però, regolare attuazione soltanto per alcuni
mesi (fino all’ottobre 1995).
Successivamente infatti - anche a seguito del comportamento fortemente ostativo del padre - nessuna relazione
madre-figlio si è più realizzata e tale anomala situazione si è
protratta nel tempo.
Molteplici (anche attraverso le forme previste dall’art.
710 c.p.c.) e vane sono state le iniziative giudiziarie proposte dalla madre, tese a recuperare il rapporto con il figlio.
Si arriva in questo quadro di «fallimento ambientale»
(4) al giudizio di divorzio.
Il Tribunale di Monza, infatti, con sentenza non defi-
nitiva, emessa in data 16 novembre 2000, disponeva lo
scioglimento del matrimonio civile contratto dai coniugi,
rimettendo la causa sul ruolo per la decisione in ordine ai
provvedimenti consequenziali: nessuna questione di ordine
economico si pone tra gli ex coniugi, il punctum dolens riguarda, infatti, esclusivamente i rapporti delle parti con il
figlio minore e la richiesta di risarcimento del danno non
patrimoniale proposta dalla madre per essersi vista completamente precludere (dall’ex coniuge) ogni relazione con il
proprio figlio.
Note:
(1) Cass. 31 maggio 2003, n. 8827, in Foro it., 2003, I, 2273; in Corr. giur.,
2003, 1017; in Guida al dir., 2003, n. 25, 38. Cass. 31 maggio 2003, n.
8828, in Foro it., 2003, I, 2772; in Corr. giur., 2003, 1017; in Guida al dir.,
2003, n. 25, 49. entrambe possono leggersi anche in questa Rivista, 2003,
816 ss., con note di F. D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di cassazione e il danno alla persona; G. Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non
patrimoniale: le scelte della Corte di cassazione; A. Procida Mirabelli di Lauro, L’art. 2059 c.c. va in Paradiso. In precedenza vi era già stata una rilettura delle regole risarcitorie in materia di danno non patrimoniale, da
parte del formante giurisprudenziale, con le tre sentenze di fila della Corte di Cassazione nn. 7281, 7282 e 7283 del 12 maggio 2003, in questa Rivista, 2003, 713, con nota di G. Ponzanelli, Danno non patrimoniale: responsabilità presunta e nuova posizione del giudice civile; in Guida al dir.,
2003, n. 22, 40. Vedi inoltre le puntualizzazioni di Cass. 1° giugno 2004,
n. 10482, in questa Rivista, 2004, 953, dove si afferma che ai fini dell’accertamento del reato è comunque necessario provare, sia pure in via presuntiva, la ricorrenza di una colpa, mentre non sarà sufficiente l’accertamento della responsabilità a titolo oggettivo; e Cass. 15-27 ottobre 2004,
n. 20814, in Guida al dir., 2004, n. 44, 20, nella quale si statuisce che nella ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 2054 c.c., vertendosi solo in ipotesi
di responsabilità oggettiva e non di presunzione di colpa, al fine del risarcimento del danno non patrimoniale, sempre nei limiti di cui all’art.
2059 c.c. (e quindi dell’art. 185 c.p.), è necessario che sia provata con
qualunque mezzo di prova ammesso dal rito civile, l’elemento psicologico
del conducente o del proprietario, salvo che si versi in una ipotesi di danno da lesioni di valori costituzionalmente protetti, nel qual caso - venuta
meno la limitazione posta dall’art. 2059 c.c. - la responsabilità oggettiva
fonda non solo il risarcimento del danno patrimoniale ma anche di quello non patrimoniale.
(2) Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233, in questa Rivista, 2003, 939 ss., con
note di M. Bona, Il danno esistenziale bussa alla porta e la Corte costituzionale
apre (verso il «nuovo» art. 2059 c.c.); G. Cricenti, Una diversa lettura dell’art. 2059 c.c.; G. Ponzanelli, La Corte costituzionale si allinea con la Corte
di cassazione; A. Procida Mirabelli di Lauro, Il sistema di responsabilità civile dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 233/03; O. Troiano, L’irresistibile ascesa del danno non patrimoniale; in Foro it., 2003, I, 2201; in Guida
al dir., 2003, n. 31, 32.
(3) La locuzione fra virgolette è di Trib. Monza 5 novembre 2004.
(4) È questa l’espressione utilizzata dal Tribunale di Monza con la sentenza del 5 novembre 2004, oggetto della presente nota.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
855
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
Ci troviamo di fronte ad una situazione in cui il genitore affidatario risultava non aver mai dato un reale contributo
positivo alla evoluzione delle relazioni del figlio con la madre, «esplicitando, sia con comportamenti di rigida chiusura
emotiva, sia con aperte dichiarazioni, anche alla presenza del
bambino, la sua radicale sfiducia sull’utilità degli interventi
di mediazione in atto» (5) da parte dei servizi sociali.
2. L’interesse
La vicenda così sommariamente ricostruita al fine di
rendere intelligibile la sentenza in commento, ha come retroterra fattuale ed emotivo quello della triste e molto diffusa esperienza comune alle separazioni o divorzi fortemente conflittuali, nei quali è il figlio minore a fare le spese della litigiosità dei coniugi.
Sotto questo aspetto, pertanto, il caso in oggetto non
presenterebbe alcun profilo di peculiare rilevanza, se non
fosse per il provvedimento esaminato, che si caratterizza
per essere una delle prime decisioni (6) che riconoscono la
risarcibilità del danno sofferto dal genitore non affidatario
per gli ostacoli frapposti all’esercizio del diritto di visita dall’altro genitore.
In questo senso il giudice lombardo affronta la vexata
quaestio della responsabilità civile da violazione dei doveri
coniugali/genitoriali, risolvendola in favore della tesi della
applicabilità degli artt. 2043 e 2059 c.c. (7), anche all’ambito dei rapporti personali fra sposi.
In particolare il Tribunale di Monza evidenzia l’esistenza di un danno non patrimoniale (sub specie di danno
morale ed esistenziale), determinato dal «grave pregiudizio
al diritto personale della madre alla piena realizzazione del
rapporto familiare». Cioè riconosce in capo alla madre il
diritto ad essere risarcita in relazione ai turbamenti prolungati, al dolore, alle ansie prodottisi in lei per non avere potuto assolvere - non per sua volontà - agli stringenti doveri
verso il figlio, né soddisfare i suoi legittimi diritti di madre a
partecipare alla crescita ed alla vita affettiva del figlio.
3. Famiglia e responsabilità civile
Per analizzare accuratamente le conclusioni a cui è
giunto il Tribunale di Monza, sembra certamente opportuno ripercorrere ed analizzare brevemente la storia recente
del rapporto tra famiglia e responsabilità civile.
In questo senso si può, senza timore di smentita, affermare che le relazioni familiari sono sempre state considerate come qualcosa di «appartato» rispetto all’ampio quadro
di relazioni tra privati che il diritto civile delinea. Attraverso l’analisi della disciplina dei rapporti legati alla appartenenza al nucleo familiare sono evidenti, infatti, tratti decisi di una zona normativa che è stata efficacemente delineata in termini di «immunità e privilegio» (8). Nessuna rilevanza, ad esempio, almeno fino a qualche tempo fa, rivestivano all’interno della famiglia i principi del diritto contrattuale o delle obbligazioni (in tal senso si doveva ricorrere
alla ambigua figura del «negozio giuridico familiare» (9),
dove l’elemento personale appariva sempre e necessariamente preminente rispetto al quello patrimoniale).
856
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Note:
(5) L’inciso tra virgolette è sempre di Trib. Monza, cit.
(6) Per una prima ricognizione della giurisprudenza favorevole alla applicazione della clausola generale di responsabilità nella valutazione delle
condotte inter-familiari, si segnalano, senza pretesa di completezza, le
pronunce riguardanti i seguenti argomenti:
- Le situazioni relative alla violazione dell’obbligo di assistenza morale,
materiale ed educativa del minore da parte del genitore, Cass. 7 giugno
2000, n. 7713, in Fam. e dir., 2001 159; Trib. Venezia 30 giugno 2004, in
Il Merito, 2005, 17; App. Bologna 24 ottobre 2003-10 febbraio 2004, inedita, con particolare riferimento alla richiesta di risarcimento dei danni
proposta dal figlio nei confronti del padre naturale che si era, sin dalla nascita del figlio, sottratto agli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c.
- Le ipotesi di responsabilità per infedeltà (particolarmente odiosa ed
oltraggiosa nelle forme) da parte del coniuge, Trib. Roma 17 settembre
1989, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, 559; Trib. Monza 15 marzo
1997, in Fam. e dir., 1997, 462; Cass, sez. I, 19 giugno 1975, n. 2468,
inedita.
- I casi di violazione del diritto di assistenza, Trib. Milano 10 febbraio
1999, in Fam. e dir., 2001, 185, il quale afferma il principio della risarcibilità ex art. 2043 c.c. dei danni da violazione dei doveri coniugali, pur rigettando, nel caso di specie, la richiesta di risarcimento del danno proposta dalla moglie nei confronti del marito per essere venuto meno al proprio dovere di assistenza nella sfera affettiva e segnatamente in quella della sessualità; Trib. Firenze 13 giugno 2000, in Fam. e dir., 2001, 161; e ora,
da ultimo, Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, in Corr. giur., 2005, 921, con
la quale si è ritenuto il marito obbligato a rifondere il danno patrimoniale e non patrimoniale subito dalla moglie che aveva contratto il matrimonio ignara della impossibilità ad avere rapporti sessuali completi con il
marito, che dolosamente aveva taciuto tale circostanza.
- Il riconoscimento del c.d. mobbing familiare, App. Torino 21 febbraio
2000, in Foro it., 2000, I, 1555.
- I casi di contagio genetico, Cass. 14 giugno 2001, n. 30425, in Guida al
dir., 2001, n. 33, 41.
- Le fattispecie riguardanti i danni derivanti dalla violazione dei diritti di
visita, sul figlio, spettanti al genitore, Trib. Roma 13 giugno 2000, in Dir.
fam. e pers., 2001, 209.
- Non sono, inoltre, mancati anche riconoscimenti presso i giudici penali circa l’ammissibilità della costituzione di parte civile del genitore non
affidatario, in relazione ad ipotesi di elusione del provvedimento del giudice (art. 388, comma 2, c.p.), in presenza di comportamenti ablativi o limitativi di fatto dell’esercizio della potestà genitoriale, posti in essere dall’altro coniuge e tradottisi in un pregiudizio o in un ostacolo al diritto di
vedersi assicurare quella sufficiente possibilità di rapporti con il figlio, garantiti dal provvedimento giurisdizionale, Cass. pen. 3 marzo 1989 - 2
giugno 1989, in Cass. pen., 1990, II, 1338.
(7) L’opzione ermeneutica della applicabilità del combinato disposto degli artt. 2043 e 2059 c.c., anche nei casi di lesione di interessi esclusivamente di natura non patrimoniale, emerge con tutta evidenza nelle due
sentenze nn. 8827 e 8828 del 2003, in questa Rivista, cit.; in Foro it, 2003,
cit.; in Corr. giur., 2003, cit.; in Guida al dir., 2003, cit., in cui si afferma
che il risarcimento del danno non patrimoniale «postula tuttavia la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043. L’art. 2059 non delinea una distinta figura di illecito produttivo di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura
dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge, anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a quelli patrimoniali nel caso di congiunta lesione di interessi di natura economica e non economica)».
(8) L’endiadi è utilizzata da P. Rescigno, Immunità e privilegio, in Persona e
comunità. Saggi di diritto privato, Bologna, 1966, 379, in cui si afferma che:
«Le due parole proposte, immunità e privilegio, possono apparire almeno
oscure, o anacronistiche, e destinate a suscitare - nella coscienza di chi le
ascolta, o le legge, usate da un giurista del nostro tempo - un senso di disagio e di diffidenza».
(9) Al riguardo, ancora in tempi relativamente recenti, F. Santoro Passarelli, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, 1 ss.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
Questa resistente tendenza (dovuta a diverse ragioni
di ordine storico-sistematico (10)) del diritto di famiglia ad
essere impermeabile rispetto al diritto comune era destinata ad esprimersi al massimo livello nei confronti dell’area
della responsabilità civile (11); sicuramente l’area del diritto civile sentita come più estranea al diritto della famiglia.
In tal senso, la ratio della tesi largamente maggioritaria
(sia in giurisprudenza (12) che in dottrina (13)), si reggeva
essenzialmente sul ragionamento per cui il diritto di famiglia è un’isola (14) con regole proprie in cui il principio generale del neminem laedere non ha in alcun modo diritto di
ingresso.
Su questo solco tematico, infatti, il leit motiv che si ripeteva e si ripete, ormai in modo tralatizio, riguarda proprio
l’incompatibilità della disciplina dei rapporti legati alla appartenenza al nucleo familiare con le regole e le valutazioni tipicamente proprie della responsabilità civile. Tanto
che si è efficacemente avuto modo di affermare che: «ciò
che è illecito tra estranei non lo sia tra familiari, che dove
chiunque è responsabile non lo sia il marito, la moglie, il
padre, la madre o il figlio. In presenza dello stesso fatto, il legame familiare tra il colpevole e la vittima ne cancella l’illiceità, lo sottrae alla valutazione del diritto, lo nasconde
agli occhi del giudice» (15).
Una delle ragioni di tale incompatibilità era da rinvenire, certamente, nella configurazione classica della responsabilità civile, quale area del diritto civile destinata,
più di ogni altra, a tutelare esclusivamente la condizione
isolata dell’individuo nei contatti con il suo simile estraneo.
In questa angusta e storica (16) dimensione, la responsabilità aquiliana mal si prestava, appunto, ad offrire
tutela ai rapporti tra persone per definizione non estranee.
Ad una analisi più attenta, poi, tale atteggiamento incline ad individuare in capo al coniuge (e comunque all’interno del nucleo familiare) una sorta di immunità da responsabilità civile, sembra far venire alla luce l’esistenza, in
subiecta materia, di forme giuridiche latenti, di fatto non
Note:
(10) Ragioni che resteranno al di fuori dal nostro ambito di ricerca, ma le
cui linee portanti possono essere individuate, senza velleità di completezza bibliografica, in A. Cicu, Il diritto di famiglia, Teoria generale, Roma,
1914, 106, in cui si evidenzia la significativa affinità tra la disciplina dei
rapporti familiari ed il diritto pubblico; in A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania, vol. VIII,
1948-49, 40, nel quale la famiglia - vista come realtà pregiuridica - viene
rappresentata con la celebre immagine dell’«isola che il mare del diritto
può lambire, ma lambire soltanto»; in P. Rescigno, L’individuo e la comunità familiare, in Persona e comunità. Saggi di diritto privato, vol. II (19671987), Bologna, 1988, 237, in cui l’autore avverte che la «famiglia rimane certamente l’organismo meno permeabile all’intervento» dello Stato;
«ogni pretesa che superasse il naturale modo di essere della famiglia sarebbe quindi antistorica. È questo verosimilmente (…) il significato della formula società naturale che la costituzione usa solamente per la famiglia»; per una più ampia indagine sulle diverse concezioni della famiglia,
ed in particolare, della famiglia come società naturale cfr. G. Furgiuele,
Libertà e famiglia, Milano, 1979. Inoltre, sul potere autoregolatorio e sui limiti culturali che riscontra il modello naturale di famiglia, cfr. L. Scillitani, La famiglia come «stato di diritto»: uno sguardo antropologico, in Riv. in-
tern. filosofia dir., 1995, 587; infine, per una analisi attuale della famiglia e
del processo di «privatizzazione» che la coinvolge, si rimanda a M.R. Marella, La contrattualizzazione delle relazioni di coppia. Appunti per una rilettura, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 57.
(11) Sulla immunità della famiglia dalle regole dettate in materia di responsabilità civile cfr. le riflessioni di P. Rescigno, L’individuo e la comunità
familiare, cit., 414 ss., e nel quadro di una più ampia indagine sull’illecito,
cfr. la posizione di P. Trimarchi, voce Illecito (diritto privato), in Enc. dir.,
vol. XX, Milano, 1970, 102. E successivamente cfr. S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984.
(12) Per una sintetica ricognizione del formante giurisprudenziale sul
punto, cfr. Cass. 22 marzo 1993, n. 3367, in GCM, 1993, 535, e Cass. 6
aprile 1993, n. 4108, in Giust. civ. Mass.,1993, 624, in cui si è affermato:
«dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affidamento dei figli e della casa
coniugale), solo un diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei
confronti dell’altro, quando ne ricorrano le circostanze specificatamente
previste dalla legge. Tale diritto esclude la possibilità di richiedere, ancorché la separazione sia addebitabile all’altro, anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa». E queste sono state, in particolare, le ragioni addotte dalla Suprema Corte: «ciò non
tanto perché l’addebito del fallimento del matrimonio ad uno soltanto
dei coniugi non possa mai acquistare - neppure in teoria - i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto
inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un
bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede più propria), deve escludersi - proprio in omaggio
al principio secondo cui «inclusio unius, esclusio alterius», - che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità
aquiliana ex art. 2043 c.c.». Si discostano però da tale orientamento fondato sul convincimento che le regole che disciplinano la materia familiare costituiscano un sistema chiuso e completo, la risalente Cass. n.
2468/1975 ed inoltre Cass. n. 5866/1995. Va infine richiamata la recentissima sentenza n. 9801 del 10 maggio 2005, in Corr. giur., 2005, 921,
con nota di De Marzo, La Cassazione e la responsabilità civile nelle relazioni
familiari, con cui la prima sezione civile della Cassazione ha ritenuto il
marito obbligato a rifondere il danno patrimoniale e non patrimoniale
subito dalla moglie che aveva contratto il matrimonio ignara della impossibilità ad avere rapporti sessuali completi con il marito, che dolosamente aveva taciuto tale circostanza.
(13) Sull’orientamento che vede nel rapporto coniugale una relazione
sottratta a norme e principi di diritto comune e per delle osservazioni critiche a questa impostazione, cfr. P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal
matrimonio e la separazione dei coniugi, in Tratt. dir. priv. 3, diretto da P. Rescigno, Torino, 1982, 11 ss.
(14) La felice metafora dell’«isola» è come già visto, di A.C. Jemolo, La
famiglia e il diritto, cit., 40. Tale espressione è stata, poi, plasticamente, «rivisitata» da F.D. Busnelli, il quale ha evidenziato come oggi dall’isola che
il mare del diritto doveva limitarsi a lambire si è passati, forse, all’arcipelago: si fa riferimento alla relazione presentata da F.D. Busnelli al Convegno Nazionale di Lecce, 24-25 settembre 2004, sul tema «I modelli familiari tra diritti e servizi» il cui titolo evoca proprio il passaggio dall’isola all’arcipelago. Sempre sul punto specifico, cfr. L. De Luca, La famiglia oggi,
ora in Id., Scritti vari di diritto ecclesiastico, vol. I, Padova, 1997, 542, il quale afferma: «Non so se Jemolo ripeterebbe oggi quanto scriveva nel 1949
e cioè che “la famiglia appare … come un’isola che il mare del diritto può
lambire, ma lambire soltanto”». Evidenzia il superamento della suddetta
matafora, M.R. Marella, La contrattualizzazione delle relazioni di coppia. Appunti per una rilettura, in Riv. crit. dir. priv., cit.
(15) F. Giardina, Per una indagine sulla responsabilità civile nella famiglia, Pisa, 1999, 16.
(16) A tal proposito si rimanda per i necessari approfondimenti a S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 25, in cui l’Autore rileva che tale dimensione storica trova le sue radici nello «scarso interesse della scienza giuridica italiana per i problemi della responsabilità
civile». Dello stesso avviso è F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità
civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 646, in cui si parla di «lungo sonno della dottrina».
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
857
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
verbalizzate dal formante legale, ma scrupolosamente osservate come principi di diritto (17).
Nel nostro sistema, infatti, la cogenza della regola della immunità non è mai dipesa dall’esistenza di un chiaro ed
inequivocabile principio di diritto, ma, piuttosto, è dovuta
alla attività interpretativa del formante dottrinale, il cui atteggiamento prevalente è da sempre stato quello di considerare la famiglia come un gruppo chiuso in cui rendere effettivo il vecchio adagio popolare «i panni sporchi si lavano in casa»: le crisi fra i componenti della famiglia non devono uscire all’esterno, ma vanno risolte, all’interno, in base a regole proprie.
Ciò che veniva e viene sottolineato per poter giustificare sotto il profilo giuridico tale modus operandi è, come sopra evidenziato, la configurazione classica della responsabilità civile, quale istituto di diritto civile volto (naturalmente) a tutelare la condizione isolata dell’individuo nei contatti con il suo simile estraneo, e che, pertanto mal si presta
ad offrire tutela ai rapporti tra persone legate da vincoli familiari.
La questione così «confezionata» era ed è, come facilmente intuibile, di grande spessore non solo teorico, ma
anche pratico. Ed il sostanziale oblio (18) in cui essa è stata lasciata per molti anni suscita perplessità su entrambi
questi piani.
Oggigiorno, però, si ha la netta impressione che questa tendenza stia registrando una «brusca sterzata» (19).
Infatti, la dottrina più recente ha cominciato a manifestare un certo qual interesse per il problema, dimostrando
una propensione a consentire l’accesso della responsabilità
civile nell’ambito dei rapporti coniugali (20).
Si è iniziato, grazie anche alle indicazioni provenienti
dalla riforma del diritto di famiglia (21), con sempre più vigore a «trattare» i torti del tipo di quelli affettivo-familiari,
con strumenti di tipo aquiliano.
Si è allora guardato - mutando completamente l’approccio metodologico classico - alla responsabilità civile
come l’istituto che sembra essere il più versatile a rispondere alle molteplici istanze di tutela che provengono dall’interno della famiglia (22).
Ma, prima di tutto, ciò che è avvenuto sembra essere,
Note:
(17) Diversamente da ciò che accade nel nostro sistema, tali regole inespresse sono in altri paesi verbalizzate: in common law ad esempio, era stato elaborato - sulla scorta della dottrina della unity of spouses (ossia della
fusione dell’identità legale di marito e moglie, per cui la esistenza legale
della donna era sospesa durante il matrimonio o, almeno, era incorporata in quella del marito) elaborata da Blackstone nel 1765, secondo cui:
«con il matrimonio, il marito e la moglie sono per legge una sola persona:
il che equivale a dire che l’esistenza reale o l’esistenza legale della donna
durante il matrimonio è sospesa, o al massimo è incorporata o consolidata in quella del marito» - il principio della interspousal immunity, a fronte
del quale i danni causati da un coniuge nei confronti dell’altro non potevano determinare responsabilità. Tale regola della immunità, ormai verbalizzata (tanto da divenire vera e propria regula juris), si radicò così fortemente nella giurisprudenza e fu così sentita che il mutamento sarebbe
potuto avvenire esclusivamente con un intervento del legislatore; cosa
che avvenne in Inghilterra con la Law Reform (Husband and Wife) Act,
del 1962, nella quale viene espressamente attribuito a ciascun coniuge il
858
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
diritto di agire per il risarcimento nei confronti dell’altro «come se essi
non fossero sposati». Per una analisi esauriente e più approfondita dal
punto di vista comparatistico, si rinvia a S. Patti, Famiglia e responsabilità
civile, cit., e più recentemente a R. Torino, Il risarcimento del danno in famiglia: profili comparatistici, in P. Cendon (a cura di), Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, Parte Tredicesima, Cap. I, Padova, 2004,
2673-2721.
(18) Seppur con riferimento specifico al tema della responsabilità civile,
di «lungo sonno della dottrina» parla F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 646.
(19) L’inciso fra virgolette è di G. Ferrando, Rapporti familiari e responsabilità civile, in P. Cendon (a cura di), Trattato Persona e danno, parte III, Le
persone deboli, i minori, i danni in famiglia, Milano, 2004, 2777.
(20) A parte lo scritto pionieristico di S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, cit., e il successivo contributo di P. Morozzo della Rocca, Violazione dei
doveri coniugali: immunità o responsabilità?, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 605629, la maggior parte dei contributi dottrinali sul tema sono successivi agli
anni ottanta, ed anzi si collocano sul finire degli anni ’90. Per una rapida
ricognizione dei più recenti interventi specifici in materia, si segnalano,
senza pretesa di completezza: G. Facci, Il “nuovo danno non patrimoniale”
nelle relazioni familiari, in Fam. e dir., 2005, 304-311; G. De Marzo, Riconosciuto il risarcimento del danno al genitore non affidatario per l’interruzione di
ogni relazione con il figlio, in Fam. e dir., 2005, 82-84; M. Pini, Riflessioni e
perplessità su risarcibilità e criteri di liquidazione del danno non patrimoniale a
favore del figlio, in Il Merito, 2005, 23-27; P. Cendon, Dov’è che si sta meglio
che in famiglia?, in P. Cendon (a cura di), Trattato Persona e danno, parte III,
Le persone deboli, i minori, i danni in famiglia, Milano, 2004, 2719-2773; G.
Ferrando, Rapporti familiari e responsabilità civile, cit., 2775-2796; P. Cendon e G. Sebastio, La responsabilità civile fra marito e moglie, in P. Cendon
(a cura di), Trattato Persona e danno, parte III, Le persone deboli, i minori, i
danni in famiglia, Milano, 2004, 2797-2873; V. Pilla, Gli obblighi coniugali e
la responsabilità civile, in P. Cendon (a cura di), Trattato Persona e danno,
parte III, Le persone deboli, i minori, i danni in famiglia, Milano, 2004, 29093009; S. Baldassari, La violazione dell’obbligo di contribuzione al mantenimento, in P. Cendon (a cura di), Trattato Persona e danno, parte III, Le persone deboli, i minori, i danni in famiglia, Milano, 2004, 3011-3076; R. Torino, Il risarcimento del danno in famiglia: profili comparatistici, cit., 26732721; P. Cendon e G. Sebastio, La crisi dell’immunity rule nei torti in famiglia, in P. Cendon (a cura di), Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, Parte Tredicesima, Cap. II, Padova, 2004, 2723-2790; A Fraccon,
La responsabilità civile fra coniugi: questioni generali e singole fattispecie, in P.
Cendon (a cura di), Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia,
Parte Tredicesima, Cap. II, Padova, 2004, 2791-2850; F. Piccalunga, Famiglia, malattia, abbandono e responsabilità civile, in Fam. e dir., 2003, 198
ss; G. De Marzo, Responsabilità civile e rapporti familiari, in De Marzo - Cortesi - Liuzzi, La tutela del coniuge e della prole nella crisi familiare, Milano,
2003, 579 ss; L. Bozzi, Scene dopo un matrimonio: violazione dell’obbligo di fedeltà e pretese risarcitorie, in questa Rivista, 2003, 1130 ss.; F. Ruscello, La tutela del minore nella crisi coniugale, Milano, 2002; M. Dogliotti, La famiglia
e l’«altro» diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, in
Fam. e dir., 2001, 164-170; M. Bona, Violazioni dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile?, in Fam. e dir., 2001,
189-209; M. Dogliotti e A. Figone, La disciplina positiva e i problemi attuali,
in P. Cendon (a cura di), Le persone, I, Persone fisiche, Torino, 2000, 89 ss.
(21) Si pensi al Capo IV del Titolo VI del Codice civile, il quale ha radicalmente mutato la dinamica dei rapporti familiari, determinando il passaggio (epocale) da una famiglia fondata sulla autorità e sulla supremazia
di un capo (il marito, cioè il pater familias), ad una famiglia intesa come
società di eguali, nella quale deve essere sancita (e tutelata) la pari dignità
di tutti i suoi componenti, i quali hanno all’interno di essa uguale diritto
all’autorealizzazione. In tal senso si pensi ad esempio: i) all’art. 143 c.c., il
quale ribadisce, senza più la riserva dell’art. 29, comma 2, Costituzione,
l’uguaglianza dei coniugi, precisando che essi con il matrimonio acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri; ii) all’art. 144 c.c. che
concretizza, da punto di vista dinamico, il principio di parità tra i coniugi, ponendo la regola sovrana del consenso nel determinare il governo
della famiglia.
(22) Tale mutamento di prospettiva non è, però, scevro da conseguenze
sul piano sistematico, che saranno analizzate nei §§ 4 e 5.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
in realtà, un ripensamento, forse ancora non del tutto consapevole, dei confini dell’area segnata dal Libro I del Codice Civile, «delle persone e della famiglia». Un’ area che oggi non appare più segnata dai concetti classici e consolidati su cui poggia la nostra tradizione, ma che deve, invece,
fare i conti con l’individuo (23), le sue esperienze, le sue
istanze, le sue attitudini, le sue relazioni, i suoi affetti... il suo
essere.
In altre parole, come emerge dalla sentenza in commento, sembra che sia la tutela della persona umana nella
sua stessa esistenza (e quindi anche nella partecipazione al
nucleo familiare) ad affiorare in controluce. Tutela che non
può, ictu oculi, essere limitata semplicemente a causa del verificarsi del torto all’interno dei confini familiari, anzi, secondo la recente giurisprudenza di merito, è proprio in tale
ambito, dove almeno in linea generale la persona dovrebbe
sentirsi (più) al sicuro, protetta dal mondo esterno - e pertanto, inevitabilmente, tende ad abbassare le proprie difese
- a dover essere più incisiva la tutela nei confronti di eventuali aggressioni della sfera personale.
Tale mutamento di prospettiva non deve però indurci
in errore.
Quando, come di recente spesso accade, si sente parlare delle situazioni afferenti l’ambito familiare in termini
di «nuovi danni», bisogna prestare molta attenzione.
La novità non sta nel danno in sé, nella sua struttura
normativa. Il danno che si verifica all’interno delle mura
domestiche (ad es. cagionato dal genitore al figlio per mancanza di ogni cura morale e materiale) non è infatti strutturalmente diverso dal danno che si può verificare al di fuori
della famiglia.
Il sintagma «nuovi danni» va invece riferito al contesto in cui il danno viene arrecato. La novità sta tutta nella
struttura sociale in cui il torto affiora, ed è questo che spinge
parte della dottrina e la recente giurisprudenza di merito a
propendere per il ricorso all’armamentario rimediale offerto
dalla responsabilità civile (24): ormai (necessariamente)
svincolato dalla opzione ermeneutica classica che lo vedeva
quale strumento atto a tutelare esclusivamente la condizione isolata dell’individuo nei contatti con il suo simile «estraneo», ma, invece, considerato come il più idoneo ad offrire
una tutela adeguata ed effettiva ai diritti fondamentali dei
singoli nei rapporti «interni» al nucleo familiare.
Non si tratta pertanto di nuove figure di danno, ma
soltanto di nuove fattispecie in cui il danno alla persona
viene arrecato.
4. I diritti della famiglia e le identità personali (25)
Da quanto sin qui detto emerge con chiarezza l’attuale approdo cui è giunta la recente giurisprudenza di merito:
il «pieno» utilizzo del rimedio aquiliano all’interno delle
mura domestiche.
Di questa nuova impostazione risente la sentenza in
commento, che si colloca (26) sul solco tracciato dalle sentenze nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 (27) della Suprema Corte, le quali, come è noto, hanno rivisitato radicalmente (28) il tema del danno alla persona.
Questa in estrema sintesi la nuova opzione ermeneutica offerta dalla Cassazione con le due famosissime sentenze del maggio 2003:
(i) Centralità assunta nel nostro ordinamento, ex art.
2 Costituzione, dai diritti inviolabili dell’uomo.
(ii) Interpretazione del danno non patrimoniale come
categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso
un valore inerente alla persona (29).
(iii) Conseguente rilevanza, ai fini dell’ammissione al
risarcimento ex art. 2059 c.c., dell’ingiusta lesione di un inNote:
(23) Per una analisi delle dinamiche sociali che hanno portato l’ordinamento giuridico ad occuparsi dei rapporti familiari/affettivi, innanzitutto
per salvaguardare i diritti fondamentali dei singoli, cfr., di recente, D.
Messinetti, La famiglia tra status e diritti fondamentali, in Riv. dir. civ., 2005,
2, 137-154.
(24) Sono note le «tappe» precedenti del percorso evolutivo effettuato
dalla responsabilità civile:
a) in primis quale istituto che svolgeva efficacemente il suo ruolo (storico)
a tutela della proprietà (del diritto di proprietà come «archetipo aquiliano» parla C. Salvi, La responsabilità civile, in Tratt. dir. priv., a cura di G.
Iudica e P. Zatti, Milano, 1998, 73.
b) poi quando l’illecito civile si apre, nella dimensione offerta dal riferimento alla categoria del diritto assoluto, verso la tutela della persona (sul
legame tra responsabilità aquiliana e lesione di un diritto assoluto e sul
suo superamento attraverso una revisione critica della tradizionale concezione dell’ingiustizia del danno, cfr. gli scritti classici di R. Sacco, L’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043, in Foro pad., 1960, 1420 ss.; P. Schlesinger, L’«ingiustizia»del danno nell’illecito civile, in Jus, 1969, 360 ss.; F.D.
Busnelli, La lesione del credito da parte dei terzi, Milano, 1964. Per ulteriori
opportuni approfondimenti sul tema della tutela della persona si rimanda
a A. Cataudella, La tutela civile della vita privata, Milano, 1972 e, più di recente, a D. Messinetti, Recenti orientamenti sulla tutela della persona, in Riv.
crit. dir. priv., 1992, 173 ss.).
(25) Il titolo e parte del tema del paragrafo sono frutto di un illuminante
colloquio avuto con il Prof. Davide Messinetti nel corso del ciclo di seminari su «I nuovi diritti della personalità», dallo stesso tenuti a Pisa presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Giuridici e di Perfezionamento, nell’ambito del corso generale di introduzione al diritto comparato.
(26) È lo stesso Tribunale di Monza ad affermare che: «Più di recente, tuttavia, la giurisprudenza ha elaborato una più ampia definizione del danno
non patrimoniale, giungendo a superare, attraverso l’enunciazione di importanti principi in tema di tutele dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, i limiti posti dalle precedenti interpretazioni. Questo
Collegio ritiene, allora, che la definizione della presente controversia, sul
punto della pretesa risarcitoria avanzata dalla sig.ra F., debba essere ancorata ai suddetti principi».
(27) Per i riferimenti bibliografici, vedi supra, nota 1.
(28) Tanto che, seppur con riferimento specifico a Cass. 31 maggio 2003,
n. 8828, l’intervento della Cassazione è stato, icasticamente, definito di restyling da P. Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà.
Impressioni di lettura su Cass. 8828/2003, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 385 ss.
(29) Per tale via argomentativa, successivamente, la Corte costituzionale, con la nota sentenza 30 giugno-11 luglio 2003, n. 233, (per i riferimenti bibliografici vedi supra, nota 2) è giunta ad individuare, nominatim,
le singole voci di danno che fanno parte della «galassia» del danno non
patrimoniale, che sono: 1) il danno morale da reato, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima, come ingiusta sofferenza contingente di ordine psicologico; 2) il danno biologico, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito alla integrità psicofisica della persona, conseguente ad un accertamento medico; svincolandolo così da quella che fino ad oggi era stata ritenuta la sua sedes materiae: l’art. 2043 c.c.; 3) il danno esistenziale, derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
teresse inerente alla persona, dal quale conseguono pregiudizi non suscettibili di valutazione economica.
(iv) Irrilevanza dello schermo della illiceità penale del
fatto, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale,
slegato così dal laccio formale del necessario riferimento alla norma penale (art. 185 c.p.).
Ancorando la propria decisione a tali principi, i giudici lombardi si disinteressano consapevolmente della eventuale rilevanza penale della fattispecie posta al loro vaglio,
per concentrare la loro attenzione nella ricerca dell’interesse meritevole di tutela pregiudicato dalla condotta del convenuto.
In tale prospettiva, viene messa ad esponente la definitiva preclusione, in capo alla madre, dell’esercizio della
«funzione genitoriale materna», conseguente alla condotta
del genitore che con il suo comportamento ostile frapponga ostacoli alla partecipazione dell’altro genitore alla crescita ed alla vita affettiva del figlio.
Inoltre, l’ordine di idee prospettato dalla sentenza annotata, ci permette di cogliere, a mio parere, un ulteriore
passaggio di questa riflessione: la (tutela della) identità della persona ed il conseguente superamento della teoria tradizionale degli status (30). Se, infatti, l’obiettivo della indagine inizia a concentrarsi sull’individuo in sé stesso, sulle
sue variegate relazioni - ed in tal senso si può certamente
leggere l’affermazione del Tribunale di Monza secondo cui,
nel caso di specie, è stato arrecato un grave pregiudizio «al
diritto personale» della madre «alla piena realizzazione del
rapporto parentale» con il figlio - allora ciò che affiora è un
valore intangibile di identità, valore che pertiene alla persona in quanto tale nelle infinite relazioni che oggi definiscono il suo essere nella società, e quindi anche nella famiglia.
Tale impostazione, però, porta con sé due evidenti
conseguenze:
a) da una parte coinvolge pienamente la teoria tradizionale degli status, evidenziando la necessità di un suo ripensamento;
b) dall’altra, comporta una apertura del diritto di famiglia al diritto comune, con conseguente ingresso (come
nel caso di specie) della responsabilità aquiliana nel delicato ambito dei rapporti personali fra i coniugi.
Per quanto attiene al profilo sub a), è da rilevare che
nella accezione classica, attraverso l’istituto dello status si
indica una situazione soggettiva che esprime la posizione di
un soggetto nei confronti di altri soggetti nell’ambito di
una collettività organizzata (31). Il termine status, infatti,
calato all’interno del nucleo familiare, era ed è un concetto evocativo, riassuntivo di un gruppo di persone, una sorta di terminale concettuale che permette l’individuazione
di una serie di rapporti che si esplicano nell’ambito della famiglia. Si pensi in tal senso, per esempio, al concetto di potestà, che serve ad evidenziare i poteri ed i doveri reciproci
che si intrecciano nel rapporto familiare e che fanno capo
al genitore (32).
Gli status, pertanto, se utilizzati nella prospettiva classica, producono l’effetto di cristallizzare situazioni, condi-
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
zioni, rapporti di potere e doveri, mostrando in tal modo inevitabilmente - una scarsa tenuta di fronte a ai rapporti
che si svolgono nella attuale società, caratterizzati, invece,
da «una fortissima componente di versatIlità, mobilità e
modificabilità» (33).
Meglio allora spostare l’indagine sul valore di identità
che caratterizza ogni individuo e conseguentemente sulla
tutela della persona in quanto tale, nella sua propria dimensione dell’essere. È allora il valore giuridico della persona ad emergere con forza; un valore, appunto, individualizzato ed individualizzante, che identifica in modo netto
ciascuna persona, i suoi rapporti con gli altri … la sua stessa esistenza.
Ecco perché, secondo tale impostazione, si rivela essenziale - nell’ambito dei rapporti inter-familiari - spostare
il campo di indagine dal concetto di status a quello di identità: per le ricadute che esso determina sul piano delle tutele e dei rimedi approntati dall’ordinamento a protezione
degli interessi meritevoli. Proprio in questa nuova prospettiva, sembra, a chi scrive, debba essere letto, quanto recentemente e significativamente sostenuto da autorevole dottrina, e cioè: «che mentre la violazioni di precisi doveri ricollegati all’esistenza di uno status comporta esclusivamente l’azionabilità di rimedi che potremmo definire di tipo
procedurale, la lesione dell’identità - spostando l’attenzione
dell’interprete dal piano del dovere a quello dell’interesse
leso - consente al danneggiato di azionare rimedi di carattere risarcitorio e, dunque, di ottenere una tutela tendenzialmente completa e sostanziale delle sue ragioni» (34).
In questo modo si renderebbe possibile una tutela rimediale di carattere risarcitorio effettiva della identità delNote:
(30) Oggi nessuno dubita più del definitivo tramonto della visione autoritaria e gerarchica della famiglia, in cui dominavano incontrastati fino a
qualche tempo fa gli interessi pubblici o superiori; in cui lo status costituiva una cerniera fondamentale tra famiglia e ordinamento, assicurando a
quest’ultimo lo strumento attraverso il quale modellare la struttura della
prima. Nella logica dello status diventava centrale la posizione di un soggetto nei confronti di altri soggetti considerati non come singoli, ma come appartenenti ad una collettività organizzata.
(31) Per una messa a punto della nozione cfr. P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, 212; G. Alpa, Status e
capacità, Roma-Bari, 1993, 3, e per una interessante rilettura all’interno
della famiglia stessa cfr. L. Lenti, Una nota sul concetto di status, in Scritti in
onore di R. Sacco, II, Milano, 1994, 657.
(32) Sul contenuto della potestà genitoriale e sui doveri e poteri in essa
ricompresi si rimanda alla recente riflessione di A. Di Florio, L’abuso della potestà genitoriale, in P. Cendon (a cura di), Trattato Persona e danno, parte III, Le persone deboli, i minori, i danni in famiglia, Milano, 2004, 25742604.
(33) In questi termini si esprime D. Messinetti, La famiglia tra status e diritti fondamentali, cit. In tal senso, inoltre, illuminante, è l’analisi sociologica offerta da Zygmunt Bauman, in La società sotto assedio, Bari, 2003, nel
quale viene utilizzata la locuzione «modernità liquida», proprio al fine di
fotografare la nostra epoca come una dimensione temporale caratterizzata dalla relatività di ogni rapporto umano, dalla debolezza dei legami interpersonali e dal superamento delle relazioni familiari ed affettive tradizionali.
(34) D. Messinetti, La famiglia tra status e diritti fondamentali, cit.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
le persona anche nell’ambito dei rapporti che si svolgono
all’interno del nucleo familiare.
Tale pregevole approccio metodologico, legato alla
endiadi individuo/famiglia, è destinato ad avere ricadute
assai complesse sul sistema del diritto di famiglia.
Veniamo così ad affrontare la seconda questione, sopra evidenziata sub b), nella quale i profili problematici aumentano. Trascorrere, infatti, da un approccio culturale
nettamente pubblicistico ad una concezione della famiglia
in senso privatistico, cioè completamente aperta al diritto
patrimoniale privato (ed ai suoi istituti di riferimento quale in particolare - per ciò che interessa in questa sede - la responsabilità extracontrattuale), è in grado di determinare
conseguenze sistematiche notevoli.
In questo senso utilizzare lo schema di cui all’art. 2043
c.c. alle violazioni degli obblighi coniugali può infatti produrre effetti fortemente corrosivi delle strutture interne ed
ormai sedimentate del nucleo familiare, andando a scalfire
l’idea tradizionale secondo cui la famiglia persegue, ed ha a
perseguire, la solidarietà e non l’interesse egoistico degli individui che la compongono. Il rischio è infatti quello di
spezzare il principio di solidarietà ed assistenza reciproca
che ispira il rapporto matrimoniale, in nome della tutela
dei diritti fondamentali e delle libertà individuali della persona (35).
Inoltre, trapiantare l’armamentario rimediale offerto
dal diritto comune (in materia di illecito aquiliano) all’interno del nucleo familiare significa, inevitabilmente, porre
in essere una opera di giuridicizzazione di situazioni e di
scelte attinenti alla sfera intima, affettiva, emotiva, sessuale; scelte che innervano e caratterizzano i rapporti familiari, e che appaiono legate imprescindibilmente alla libertà
del singolo nella famiglia e, pertanto, risultano difficilmente riconducibili entro lo schema normativo predisposto
dall’art. 2043 c.c., se non a pena di una compressione evidente della sfera di libertà dell’individuo e delle sue libere
scelte in ambito familiare.
5. Conclusioni e problemi aperti
Come si è dunque avuto modo di vedere, per lungo
tempo nel nostro ordinamento sia il formante dottrinale,
che quello giurisprudenziale, si sono mostrati sostanzialmente concordi nel sostenere un atteggiamento contrario
alla risarcibilità dei danni cagionati dal mancato adempimento dei doveri derivanti dal matrimonio. Tuttavia le più
recenti pronunce giurisprudenziali - in particolare dei giudici di merito, e la sentenza in commento va annoverata fra
queste - cominciano, con sempre maggior decisione, ad
ammettere chiaramente la possibilità di una effettiva tutela risarcitoria per i danni che si verificano all’interno delle
mura domestiche.
Un fenomeno nuovo, dunque, all’orizzonte: l’innesto
dello schema della responsabilità aquiliana all’interno della famiglia, quale formazione sociale che deve essere intesa
come strumento di realizzazione, sviluppo e tutela della persona (36), della sua identità individuale.
Attraverso tale impostazione si mira a spostare l’atten-
zione sui diritti delle persone che fanno parte del nucleo familiare. Questi diritti, secondo tale tesi, non possono essere esclusi da qualunque, sostanziale, forma di tutela, solo
perché minacciati o lesi da soggetti che appartengono al
gruppo sociale famiglia. Questi diritti, anzi, proprio perché
ineriscono alla persona umana, portatrice di valori di identità irrinunciabili, necessitano di una accurata protezione
proprio nei confronti delle aggressioni poste in essere da un
altro componente del gruppo familiare.
Per tale via argomentativa si renderebbe possibile una
tutela rimediale di carattere risarcitorio effettiva della identità delle persona anche nell’ambito dei rapporti che si
svolgono all’interno del nucleo familiare.
È però vero che i recenti approdi a cui è giunta la giurisprudenza di merito possono, da altra parte, creare problemi di «tenuta» del sistema, probabilmente non ancora
completamente «sviscerati» in tutte le possibili implicazioni.
Consentire l’ingresso libero e senza filtri della responsabilità civile nel delicato ambito dei rapporti che si realizzano all’interno del nucleo familiare pone evidenti problemi di coerenza e sistematicità.
Alcuni rapidi esempi possono esserci di aiuto.
Si pensi alla possibile domanda di risarcimento del
danno ex art. 2043 c.c. effettuata dalla donna (ma potrebbe
essere ovviamente anche l’uomo), e fondata sul totale disinteresse sessuale mostrato dal marito nel corso della convivenza matrimoniale, dovuto ad una patologia di cui soffriva e sconosciuta dalla moglie al momento del matrimonio (37).
Note:
(35) I termini del problema saranno chiariti in modo approfondito al successivo § 6.
(36) L’argomento è stato di recente trattato da P. Zatti, Familia, familia/e
- Declinazione di un’idea. La privatizzazione del diritto di famiglia, in Familia,
I, 2002, 32.
(37) Il caso è effettivamente accaduto ed è stato posto al vaglio del Tribunale di Milano in questi termini: un signore non più giovanissimo di
età, essendo ormai trascorsi tre anni dalla omologazione della separazione legale avvenuta nel 1991, agiva in giudizio per la dichiarazione di
cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto nel 1965. La moglie si costituiva in giudizio aderendo alla domanda attorea, ma in via
riconvenzionale chiedeva l’accertamento e la conseguente declaratoria
della responsabilità ex art. 2043 c.c. dell’ex marito, con la condanna
dello stesso al risarcimento dei danni subiti. A fondamento della sua
pretesa risarcitoria, la donna, esponeva: i) di non avere mai avuto rapporti sessuali durante il fidanzamento con il futuro sposo; ii) che fin dal
primo giorno del matrimonio il marito avrebbe palesato un totale disinteresse sessuale nei suoi confronti e che tale situazione si sarebbe protratta per tutta la convivenza durata per oltre venti anni; avendo, nel
corso di tale lungo periodo, avuto solo in quattro occasioni una relazione sessuale, anche se in modo del tutto incompleto; iii) che il medico
curante del marito, su richiesta di quest’ultimo, l’aveva informata, a circa un anno di distanza dal matrimonio, della patologia di cui soffriva il
coniuge; iv) di avere subito, a seguito di tale comportamento del coniuge, un danno alla vita di relazione ed un danno biologico; danni patiti
per la frustrazione dell’aspettativa di maternità; v) che il comportamento posto in essere dal marito andava inquadrato come violazione del dovere di assistenza nella sfera affettiva ed in quella della sessualità (cfr.
Trib. Milano 10 febbraio 1999, in Fam. e dir., 2001, 185, con nota di M.
(segue)
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
861
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ CIVILE
O ancora alla eventuale richiesta risarcitoria - a seguito del fallimento del matrimonio - di chi dei coniugi (di solito la donna) si sia dedicato totalmente o prevalentemente alla famiglia, sacrificando le proprie potenzialità professionali e reddituali per il buon andamento del comune menage e a vantaggio delle prospettive di successo dell’altro
coniuge (38).
Note:
(segue nota 37)
Bona, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della
responsabilità civile?). Vedi ora, da ultimo, Cass 10 maggio 2005, n. 9801,
862
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
cit.: con questa decisione la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una
donna avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Palermo aveva
respinta la sua richiesta di risarcimento danni nei confronti dell’ex marito, affetto da una malformazione sessuale che non aveva mai fatto curare e della quale non aveva mai parlato alla donna. La Corte ha sottolineato che il marito con tale comportamento compie «una violazione
della persona umana intesa nella sua totalità, nella sua libertà e dignità,
nella sua autonoma determinazione al matrimonio, nelle sue aspettative di armonica vita sessuale, nei suoi progetti di maternità, nella sua fiducia in una vita coniugale fondata sulla comunità, sulla solidarietà e
sulla piena esplicazione delle proprie potenzialità nell’ambito di quella
peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela risiede negli articoli 2, 3, 29 e 30 della Costituzione».
(38) Anche se il caso trattato non riguarda una richiesta risarcitoria, v. ad
esempio Cass. 20 dicembre 1995, n. 13017, in Giust. civ., 1996, I, 1694.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
Autodeterminazione del paziente
Responsabilità medica
da difetto di informazione
TRIBUNALE DI VENEZIA, Sez. III, 4 ottobre 2004
Giud. Simone - M. P. c. U.S.S.L. 13
Consenso informato - Diritto all’autodeterminazione del paziente - Onere della prova - Danno esistenziale.
(c.c. artt. 1218, 1176, 2059)
Lede il diritto di autodeterminazione del paziente in ordine alla propria salute, ed è conseguentemente tenuta a risarcire il danno esistenziale ex art. 2059 c.c., la struttura sanitaria che, pur avendo fatto sottoscrivere al ricoverato il modulo per il consenso informato, non fornisce adeguate informazione in merito
ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili all’intervento chirurgico, in relazione anche alla natura
dell’operazione e al livello culturale ed emotivo del paziente. L’onere probatorio relativo all’adempimento
contrattuale dell’obbligo di informazione incombe ex artt. 1218 e 1176 c.c. sulla struttura sanitaria, anche
in considerazione del fatto che, all’epoca dei fatti, quest’ultima era tenuta a conservare i dati personali del
paziente ai sensi della legge 675/96.
Svolgimento del processo
... Omissis...
Motivi della decisione
Non è in discussione in questa sede la sussistenza, o no,
della responsabilità della struttura sanitaria convenuta
in ordine alla adeguatezza delle prestazioni rese in occasione dell’intervento di sostituzione valvolare mitro-aortica, quanto l’inadempienza da parte dei sanitari da quella dipendenti rispetto all’obbligo di informazione in ordine ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili
all’intervento. Complicazioni, queste ultime, in fatto verificatesi nell’immediatezza del decorso post-operatorio e
consistite in un fenomeno di emiparesi ed afasia.
Per quanto, come emerso nel corso dell’istruttoria, all’attrice sia stato fatto sottoscrivere in data 24.2.1998 il modulo per il consenso informato anestesiologico e chirurgico (cfr. il doc. 4 del fascicolo dell’attrice), la questione
oggi in esame non può certo ridursi all’espletamento di
un passaggio di natura burocratica. Infatti, il consenso
deve essere il frutto di una relazione interpersonale tra i
sanitari ed il paziente sviluppata sulla base di un’informativa coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello
di conoscenze di quest’ultimo. In altri termini, la conformità della condotta dei sanitari rispetto all’obbligo di
fornire un adeguato bagaglio di informazioni deve essere
valutata non tanto sul piano tecnico-operatorio, quanto
sulla natura dell’intervento, sull’esistenza di alternative
praticabili, anche di tipo non cruento, sui rischi correlati e sulle possibili complicazioni delle diverse tipologie di
cura tali da compromettere il quadro complessivo del paziente, segnando il passaggio, come icasticamente osser-
vato da una prestigiosa dottrina, dalla fase dell’assenso a
quella del consenso, ossia del convergere delle volontà
verso un comune piano di intenti.
In tal senso l’art. 31 dell’allora vigente codice di deontologia medica (approvato il 24-25 giugno 1995) disponeva che: «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato. Il consenso, in forma scritta nei
casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente, è integrativo e non
sostitutivo del consenso informato di cui all’art. 29. Il
procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico
che possano comportare grave rischio per l’incolumità
del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in
caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna
documentazione del consenso». Infatti, in base all’art.
29 citato: «Il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e
delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia, nella consapevolezza
dei limiti delle conoscenze mediche anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta. Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico, possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
863
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
sono in grado di recepire ed accettare, evitando superflue precisazione di dati inerenti agli aspetti scientifici.
Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o
tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza. La volontà del paziente,
liberamente e attualmente espressa, deve informare il
comportamento del medico, entro i limiti della potestà,
della dignità e della libertà professionale. Spetta ai responsabili delle strutture di ricovero o ambulatoriali, stabilire le modalità organizzative per assicurare la corretta
informazione dei pazienti in accordo e collaborazione
con il medico curante».
Una volta chiarito che il problema della relazione informativa tra medico e paziente, nel costituire parte integrante del contratto di assistenza sanitaria intercorrente
tra il paziente e la struttura sanitaria, non potendo lo
stesso più essere chiuso in un obbligo di natura precontrattuale attinente al piano dell’art. 1337 c.c., né ridursi
a quello meramente accessorio e strumentale rispetto alle prestazioni di diagnosi, di cura o di esecuzione dell’eventuale intervento chirurgico, per essere assurto al livello di piena autonomia nell’ambito del diritto all’autodeterminazione in ordine all’esistenza dell’individuo,
senza per questo costituire l’elemento scriminante dell’attività medica, non resta che verificare se ed in quali
termini siffatta obbligazione sia stata adempiuta nell’ambito degli incontri che hanno indotto la paziente a ricoverarsi ed a sottoporsi all’intervento di sostituzione valvolare.
Non v’è bisogno di alcun riscontro per sostenere che versandosi in campo contrattuale l’onere della prova in ordine all’adempimento dell’obbligo di informazione incomba sul soggetto convenuto (cfr. Cass. 23-05-2001, n.
7027). Il teste G., dirigente medico presso il reparto di
cardiochirurgia dell’Ospedale di Mirano, ha affermato:
«parlai con la sig.ra M. e le rappresentai i rischi connessi
al tipo di intervento cui doveva sottoporsi. Si trattava
comunque di un intervento di routine. Considerato che
la signora aveva già avuto un episodio di embolia cerebrale, probabilmente le dissi che vi era il rischio di lesioni permanenti, tant’è che ho fatto eseguire una Tac cerebrale e un EEG. La visita preoperatoria con la sig.ra M.
durò circa un’ora, probabilmente le dissi che si trattava di
un intervento di routine. Non ricordo se la signora manifestò paura per l’intervento. Posso riferire che se la signora manifestò paura per l’intervento la tranquillizzai».
Sennonché le indicazioni appena riferite sono contraddette da quanto dichiarato dalla teste M. L. (sorella dell’attrice), la quale presente durante la prima visita fatta
dal dott. G. ha riferito: «ricordo che il dottore illustrò
tutto l’intervento, disse che il ricovero sarebbe durato 10
giorni e che mia sorella sarebbe stata in sala rianimazione per tre giorni. Nulla disse in merito al rischio di lesioni permanenti…Ricordo che qualche giorno prima dell’intervento il dott. G. chiamò mia sorella per dirle che
864
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
poteva ricoverarsi. Poiché mia sorella aveva paura dell’intervento il dott. G. la rassicurò. Ciò posso riferire per
averlo appreso da mia sorella. Ero presente al momento
della telefonata…». Che l’attrice fosse particolarmente
impaurita per l’operazione (reazione pienamente comprensibile) emerge anche dalla testimonianza del M. (figlio dell’attrice), il quale ha ricordato che il giorno del ricovero per tranquillizzare sua madre, dopo una conversazione dal tono colloquiale, il dott. G. disse che si trattava di un intervento di routine e le mostrò altri pazienti già operati in precedenza. Il dato, apparentemente relegabile nel quadro delle reazioni soggettive, in realtà rileva proprio al fine di calibrare l’ambito di estensione
della prestazione informativa al fine di promuoverne la
massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche, come espresso nell’art. 29 del codice citato.
Nessun apporto a sostegno della difesa di parte convenuta sovviene dalla testimonianza dell’anestesista
(dott.ssa D. A.), la quale, come appreso, provvide a raccogliere la sottoscrizione della paziente sul modulo indicato. La teste ha precisato che (la M.) «era una paziente
ansiosa per cui con qualche difficoltà ho potuto effettuare la visita anestesiologica…la visita l’ho effettuata due
giorni prima dell’intervento, e in tale occasione ho fatto
sottoscrivere il modulo per il consenso informato. Riconosco nel doc. 4 attoreo il modulo per il consenso informato. Ho informato la M. in ordine ai rischi dell’operazione ma dal punto di vista anestesiologico, indicandole
l’attività cui sarebbe stata sottoposta a partire dalla cannula al successivo risveglio…Non mi sono occupata dei
profili cardiologici, poiché esulanti le mie competenze».
Da tali indicazioni non appare provato, dunque, l’espletamento della prestazione informativa in ordine ai rischi
ed alle possibili complicazioni dell’intervento. Nozioni
che, come già detto, debbono essere somministrate in
funzione della capacità di comprensione della paziente.
Ciò non è avvenuto in occasione della visita eseguita dal
dott. G., tant’è che lo stesso ha riferito di aver probabilmente informata la paziente in ordine al rischio di lesioni permanenti, pur dichiarando di aver rappresentato i
rischi connessi al tipo di intervento, emergendo dalle dichiarazioni delle teste M. una indicazione di segno contrario. Ciò può significare o che l’informazione non fu
resa affatto ovvero non fu espressa con linguaggio pienamente comprensibile da chi tecnico non è. In ogni caso
un’informazione fornita in modo non pienamente comprensibile dall’interlocutore, nella sostanza non è in grado di assolvere la sua funzione ed equivale ad una non
informazione, ossia l’esatto contrario del dovuto.
Ad ogni modo non può non rilevarsi come il minor livello di interesse della teste M., rispetto alla posizione
del dott. G., ben giustifichi in questa sede la preminenza
riservata al suo racconto.
Si consideri ancora che il fatto stesso che il modulo per
il consenso sia stato fatto sottoscrivere il giorno del ricovero, avvenuto il 24.2.1998, è rappresentativo di una
non adeguata valorizzazione del problema da parte della
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
struttura sanitaria, tanto più che, come appreso, il consenso fu raccolto dall’anestesista, dando per scontata la
definizione della questione sul piano cardiologico. Ma
così non è stato.
Senza per questo voler contraddire quanto riferito più
sopra, probabilmente al fine di rendere meno problematica la prova relativa, sarebbe stato quanto mai opportuna, come peraltro segnalato dal C.T.U., una maggiore
puntualizzazione in ordine ai rischi ed ai possibili sviluppi all’interno dello stesso modulo. Questo lo si afferma
non tanto per svilire al piano cartaceo il problema in
esame, ma per meglio calibrare la stessa possibilità di
prova diretta o contraria, dovendo comunque valutarsi
le modalità ed il tipo di informazioni rese al paziente.
Siffatta affermazione si basa su una regola di distribuzione dell’onere della prova in base alla prossimità delle
parti rispetto alla fonte di prova. È evidente che pretendere in capo al paziente la puntuale allegazione e la dimostrazione del tipo di informazione resa (sebbene nel
caso di specie, la teste M. ha fornito un quadro sufficientemente chiaro) pare irrealizzabile non foss’altro per l’evidente asimmetria informativa esistente tra le parti. Per
contro, esigere dalla struttura sanitaria di documentare e
conservare traccia di quanto effettuato, anche in considerazione del trattamento e della conservazione dei dati
personali ai sensi dell’allora vigente legge 675/1996 (ed
ora del d.lgs. 196/2003), appare, oltre che più ragionevole, certamente in linea con la regola di cui all’art. 1218
c.c., da leggersi in unione con l’art. 1176, comma 2, c.c.
(cfr. Cass. 23 maggio 2001, n. 7027; sez. unite 30 ottobre
2001, n. 13533; 10-5-2002, n. 6735; 28-5-2004, n.
10297).
In altri e più diretti termini, l’affermazione di responsabilità della convenuta non si basa su una regola inferenziale, che trae dalla scarsità di dati disponibili il difetto di
diligenza del personale, quanto piuttosto dal fatto che a
causa di tale assenza di informazioni non è dato sapere
cosa sia stato comunicato alla paziente e, quindi, far ritenere assolto l’obbligo di informazione.
Nell’ambito di una vicenda di natura contrattuale, laddove, come nel caso di specie, emerga una situazione di
carenza di prova in merito all’ambito delle informazioni
rese alla paziente, non v’è spazio per una discussione in
merito alla sussistenza del nesso di causa sul piano dell’an
(cfr. indicativamente Cass. 13-12-2001, n. 15759), ponendosi a valle il problema correlabile alla c.d. causalità
giuridica ex art. 1223 c.c., che presuppone la già avvenuta identificazione dell’evento oggetto di addebito. Evento, quest’ultimo, da intendersi come inadempimento rispetto all’obbligazione informativa, come tale incidente
in via diretta sul diritto della paziente all’autodeterminazione in ordine alle scelte involgenti la propria salute,
poco rilevando sapere come l’attrice si sarebbe comportata qualora avesse avuto piena contezza in ordine ai rischi di complicazioni, stimati nell’ordine del 20% da
parte del consulente. Quello che rileva è che la M. non
è stata in condizioni di esprimere un consenso realmen-
te informato, non senza rilevare che l’eventuale prova
diretta a dimostrare che, quand’anche informata, la paziente avrebbe optato per l’intervento a fronte dell’elevato rischio connesso alla sua condizione di soggetto affetto da stenosi mitro-aortica incombeva sulla convenuta (cfr. Cass., sez. III, 10-05-2002, n. 6735).
A questo punto, una volta accertata l’inadempienza della convenuta rispetto all’obbligazione contrattuale, sebbene da più parti si è rilevato che quello del consenso
informato esula il piano strettamente contrattuale, ossia
è un problema ben diverso da quello che attiene al procedimento di formazione dell’accordo contrattuale, fondandosi sulla natura stessa dell’attività medica, occorre
passare all’esame dell’ambito delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili.
Al riguardo il giudizio di valutazione, esulante il piano
della causalità materiale, perché involgente quello della
causalità giuridica deve operarsi in base all’art. 1223 c.c.
In altri termini, il criterio di selezione delle conseguenze
risarcibili, che come autorevolmente sostenuto involge
un problema di opportunità, non può essere governato
in base agli stessi parametri che sovraintendono al piano
della causalità naturale ed in primo luogo secondo il criterio della condicio sine qua non. È pur vero che in base al
giudizio controfattuale basato sull’eliminazione mentale
dell’antecedente l’evento in concreto accaduto (emiparesi ed afasia) non si sarebbe verificato, ma in quest’ordine di idee, allora, dovrebbe trovare piena applicazione
una valutazione basata sulla comparazione dei rischi, ossia confrontare il rischio di complicazione collegato all’intervento con la possibile evoluzione del quadro di salute della paziente nel caso contrario.
In questa prospettiva la bilancia del giudizio dovrebbe
pendere dal lato della convenuta, considerato che secondo il consulente tecnico d’ufficio la patologia da cui
era affetta la M. era soggetta ad inevitabile evoluzione
sfavorevole a breve, sì da giustificare pienamente l’intervento.
Sennonché una tale prospettiva risulta fuorviante, posto
che finisce per non tenere conto del fatto che l’inadempimento non investe le modalità di esecuzione dell’operazione chirurgica, ma l’obbligazione informativa, con il
rischio di mettere in secondo piano l’interesse oggetto di
tutela: il diritto alla scelta della paziente. Non ignora il
giudicante che ben più autorevoli consessi hanno ritenuto il nesso di causa tra la lesione della salute, legata alla complicazione di un trattamento clinico, e la violazione dell’obbligo di una piena informazione da parte dei
sanitari (cfr. Cass. 6.10.1997, n. 9705; 24.9.1997, n.
9374; App. Genova 5.4.1995). Osserva al riguardo lo
scrivente che una tale affermazione, probabilmente, è il
frutto di una configurazione del consenso del paziente
quale scriminante dell’operato del medico. Impostazione, quest’ultima, ormai da tempo recessiva, per essere
stato da tempo portato in esponente che l’attività medico-chirurgica si autogiustifica in funzione della sua utilità sociale, mentre il consenso attiene al piano dei dirit-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
865
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
ti della personalità e, più nel dettaglio, quello all’autodeterminazione in ordine alla propria salute. Diversamente argomentando si dovrebbe dare piena cittadinanza
anche alle nostre latitudini ai casi di wrongful life (come
accaduto oltralpe nel caso affrontato da Cour de Cassation, ass. plen. 17.11.2000, in Nuova giur. civ. comm.,
2001, I, 209), ossia alla pretesa risarcitoria del soggetto
che nasce affetto da gravi patologie a seguito dell’erronea diagnosi prenatale con la correlativa perdita per la
partoriente della possibilità di decidere in ordine alla opportunità, o no, di interrompere la gravidanza.
Seguendo la traiettoria prescelta dal giudicante, comunque allegata dall’attrice, ma allargata al piano della salute, appare possibile circoscrivere l’ambito del pregiudizio
di natura non patrimoniale (l’allegazione fatta in comparsa conclusionale alle spese per la futura assistenza è
tardiva rispetto a quanto dedotto nel limite per la formazione del thema decidendum) a quello correlato al piano
esistenziale, da intendersi come riparazione correlata alla privazione del diritto alla scelta consapevole da parte
della M. Data la particolarità delle prestazioni, in quanto incidenti sulla sfera personale dell’individuo, non è
possibile escludere la risarcibilità di una tale posta di
danno in base all’art. 1225 c.c., posto che, pur non essendo possibile operare una stima economica esatta del
pregiudizio connesso alla lesione di un interesse non patrimoniale, comunque la natura dell’attività svolta deve
dare per scontato che la prestazione involge la sfera dell’individuo, sicché il pregiudizio di natura non patrimoniale può essere risarcito senza dover necessariamente far
leva su un concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Infatti, la rilettura in chiave costituzionale dell’art. 2059 c.c. operata dalla Cassazione (senten-
ze 31.5.2003, nn. 8827 e 8828) fa sì che anche in ambito contrattuale possa darsi rilievo a pregiudizi di natura
non patrimoniale, sempre che i correlativi interessi possano ritenersi inclusi nell’ambito di tutela del contratto.
Al riguardo, consapevole della mancanza di una scala
parametrata su basi oggettive o che quantomeno siano
in grado di tradurre in termini economici oggettivi il
pregiudizio patito, non resta che una valutazione puramente equitativa, liquidando all’attualità il danno patito dall’attrice nella somma di Euro 100.000. Su tale somma, inoltre, saranno dovuti gli interessi legali dall’evento al saldo.
Tale valore, per quanto stocastico, tiene conto della specificità del caso di specie, posto che l’operato dei sanitari anche se non censurabile sul piano delle modalità di
esecuzione dell’intervento, comunque ha finito per
espropriare l’attrice del suo diritto a scegliere in ordine
alla propria esistenza. Ora in una visione della libertà come assenza di «coercizione» da parte di terzi, non può
non rilevarsi come quello all’autodeterminazione in ordine alla propria salute costituisca un valore primario di
rango costituzionale, da cui non si può prescindere, pena
la rinuncia al valore di base della nostra società.
La domanda proposta, pertanto deve essere accolta e,
per l’effetto, l’U.L.S.S. 13, in persona del Direttore generale p.t., deve essere condannata al pagamento, a titolo di risarcimento danni, della somma di Euro 100.000,
oltre gli interessi legali dall’evento al saldo.
Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.
Spese di C.T.U. a definitivo carico della convenuta.
Sentenza provvisoriamente esecutiva per legge.
... Omissis...
CONTENUTI E FUNZIONI DEL CONSENSO INFORMATO: AUTODETERMINAZIONE
INDIVIDUALE E RESPONSABILITÀ SANITARIA
di Simona Cacace
Oggetto dell’articolo è la natura della responsabilità,
civile e penale, del medico che abbia effettuato un
trattamento sanitario senza il consenso del proprio
paziente, ovvero senza aver prima informato questi
dei rischi presentati dall’operazione programmata ed
in seguito effettivamente realizzatisi.
La paziente M. P. si sottopone ad un intervento chirurgico di sostituzione valvolare mitro-aortica: durante il
decorso post-operatorio insorgono, però, gravi complicanze, tali da determinare l’incapacità della donna a provvedere a se stessa. Nello specifico, la visita medico-legale rileva
che la signora è «praticamente impossibilitata a muoversi»,
riuscendo a deambulare solo «trascinando faticosamente
866
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
l’arto inferiore destro», mentre quello superiore destro appare «perennemente flaccido». Ancora: l’attrice non è più
«in grado di pronunciare correttamente le parole» e presenta una «marcata confusione mentale» associata a «frequenti stati depressivi con cambio d’umore». Peraltro, detto difficile quadro clinico - le cui possibilità di miglioramento futuro risultano essere «praticamente inesistenti» troverebbe la propria eziologia non nell’inadeguatezza delle
prestazioni rese dal personale sanitario o nella natura colposa dell’esecuzione dell’operazione sotto accusa, bensì nella realizzazione dei pericoli naturalmente insiti nell’intervento stesso, la cui esistenza era però stata taciuta alla paziente. Di conseguenza, «accertata la responsabilità dell’équipe medica (...) per violazione dell’obbligo di consenso
informato», M. P. domanda, nella misura di lire
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
200.000.000, la riparazione di tutti i danni subiti - esemplificativamente: biologico, alla vita di relazione, morale, materiale.
Il consenso (dis)informato:
uso e abuso della modulistica
Ai sensi del Codice deontologico del 14 ottobre 1998
(Capo IV, Informazione e consenso, art. 30, Informazione al
cittadino, primo comma), «il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi,
sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue
capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche» (1).
Coerentemente, il successivo art. 32 (Acquisizione del consenso) prevede che «il consenso, espresso in forma scritta
nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le
possibili conseguenze delle stesse sull’integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà
della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo
informativo di cui all’art. 30. Il procedimento diagnostico
e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumità della persona devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una
opportuna documentazione del consenso».
Nella fattispecie concreta in esame, la paziente sottoscrive, prima di affrontare l’intervento (ma solo il giorno
del suo stesso ricovero: chiaro indice, questo, di una non
adeguata valorizzazione, da parte della struttura sanitaria,
delle problematiche e dei fattori di pericolo connessi all’operazione), il modulo per il consenso informato anestesiologico e chirurgico, «peraltro neppure interamente compilato». Tuttavia, il giudice veneziano esclude che il caso portato alla sua attenzione e al suo giudizio possa «ridursi all’espletamento di un passaggio di natura» meramente «burocratica», dal momento che un indiscriminato ricorso alla
modulistica (pur se redatta con diligenza) rischia di distorcere la natura tipicamente fiduciaria cui è (o dovrebbe essere) improntato il rapporto medico-paziente, senza peraltro
garantire l’esatta previsione e anticipazione delle innumerevoli varianti della realtà clinica (2). La difficoltà di una
genuina comunicazione, difatti, si rivela quale causa principe dello snaturarsi della relazione di cura «in un incontro
impersonale anonimo, ed umanamente disimpegnato, tra
prestatore e fruitore dell’opera» (3).
A questo proposito, si ricordino i risultati di una ricerca realizzata in Gran Bretagna una ventina d’anni fa su duecento pazienti, i quali avevano accordato il loro consenso
scritto a diversi interventi terapeutici. Il giorno dopo aver
firmato, solo il 60% del campione intervistato aveva effettivamente compreso la natura della cura proposta e pianificata, mentre appena il 50% era in grado di decodificare
qualcosa di quanto riportato nel modulo sottoscritto e non
più del 40% affermava di averlo letto attentamente (4).
Peraltro, la sottoscrizione di M. P. sul modulo per il
consenso informato è raccolta dal solo medico anestesista,
il quale provvede altresì, contestualmente, all’esplicazione
dei «rischi dell’operazione, ma dal punto di vista anestesiologico» (indubbiamente, l’unico di sua competenza), indicando alla paziente «l’attività cui sarebbe stata sottoposta a
partire dalla cannula al successivo risveglio». La signora, di
conseguenza, viene lasciata praticamente sola, dinanzi al
formulario da leggere e firmare, senza che il medico cardiologo, in precedenza, le avesse prospettato i concreti pericoli di lesioni permanenti (quantificabili nella misura del 2025%) - ma, anzi, dopo che quest’ultimo l’aveva ampiamente tranquillizzata, in tono colloquiale, circa la natura meramente routinaria dell’operazione programmata.
Più specificatamente, il Tribunale rileva come il personale sanitario non sia stato in grado di assolvere l’onere
della prova a proposito dell’avvenuto adempimento dell’obbligo d’informazione, ovvero come non abbia dimostrato di aver esposto i rischi esistenti o, ancora, di averli presentati nella maniera che fosse la più accessibile e comprensibile per la paziente stessa. Da questo punto di vista, è
evidente la concreta utilità, anche (e forse soprattutto)
quale mero strumento probatorio, di un modulo sufficientemente puntuale e dettagliato in ordine ai possibili pericoli e sviluppi dell’atto medico, laddove pretendere che sia il
Note:
(1) Ancora, l’art. 30 Codice deontologico così prosegue: «Ogni ulteriore
richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta.
(...) Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter
procurare preoccupazione e sofferenza alla persona devono essere fornite
con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere
elementi di speranza (...)».
(2) Cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, parere del 20 giugno 1992, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, pag. 9.
(3) Ibidem. Peraltro, per il Comitato Nazionale per la Bioetica il consenso scritto deve essere ritenuto, allo stato attuale, «un dovere morale del
medico in tutti quei casi in cui le prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche in ragione della loro natura (per il rischio che comportano, per la durata del trattamento, per le implicazioni personali e familiari, per la possibilità di opzioni alternative tra le quali va anche compresa la eventualità
di scelta di un altro medico curante o di altra struttura sanitaria) sono tali da rendere opportuna una manifestazione inequivoca e documentata
della volontà del paziente. Il documento attestante il consenso può consistere semplicemente in poche espressioni che indicano la natura della
prestazione ovvero in un formulario che può contenere anche l’informazione su possibili rischi, fornita peraltro con modalità che tengano conto
degli eventuali riflessi psicologici negativi sul paziente»: idem, 13-14.
(4) ADVAR (Associazione Domiciliare Volontaria Alberto Rizzotti), 2°
Convegno Scientifico, Informazione e consenso informato del paziente.
Continuità e cambiamento nella pratica della medicina, 20 novembre 1993,
Treviso, relazione di M. C. Medina, 37-38. A tale proposito, sia qui consentito rinviare a S. Cacace, Informazione, consenso e rifiuto di cure: (il)liceità del trattamento sanitario e (im)possibile conciliazione fra diritti del paziente e libertà del sanitario, in G. Comandè (a cura di), Diritto privato europeo e
diritti fondamentali, Torino, 2004, 86-87, dove si sottolinea come l’esasperata burocratizzazione del rapporto medico-paziente, tipica dell’esperienza statunitense, non sia che una delle conseguenze di un esacerbato atteggiamento di medicina «difensiva», utile a tutelare il medico, più che
ad aiutare e garantire il malato. Cfr. altresì A. Fiori, Medicina legale della
responsabilità, Milano, 1999, 131.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
paziente ad allegare e dimostrare il tipo di (dis)informazione di cui è stato destinatario sembra «irrealizzabile, non foss’altro per l’evidente asimmetria informativa esistente tra le
parti. (...) In altri e più diretti termini, l’affermazione di responsabilità della convenuta non si basa su una regola inferenziale, che trae dalla scarsità di dati disponibili il difetto
di diligenza del personale, quanto piuttosto dal fatto che, a
causa di tale assenza di informazioni, non è dato sapere cosa sia stato comunicato alla paziente e, quindi, far ritenere
assolto l’obbligo di informazione».
In conclusione, l’ente ospedaliero manca di provare
che fra l’ammalata e il personale sanitario incaricato sia intercorsa una vera e propria «alleanza terapeutica», dove l’elemento cartaceo è solo una tappa (certo utile alla consapevolezza del paziente e all’autotutela del medico) di un
rapporto umano in continua evoluzione, in cui il rispetto
dell’autodeterminazione individuale è costante punto di riferimento, congiuntamente alla sensibilità, alla cultura e
all’esperienza personale e peculiare del singolo (5). La lettura e la sottoscrizione di un modulo preconfezionato, di
conseguenza, mai dovrebbero esser disgiunte da una comunicazione orale che, protratta nel tempo, consenta altresì le
opportune delucidazioni in ordine alla terminologia, spesso
di un esasperato tecnicismo, adottata dal formulario stesso.
L’infermo, infatti, non vuole certo appropriarsi delle competenze mediche, né colmare l’inevitabile divario di conoscenze scientifiche: così, laddove eccessivamente tecnica,
l’informazione rischia di diventare non solo asettica, perché «tutta filtrata attraverso la griglia della razionalizzazione, con totale esclusione dello scambio emozionale» (6),
ma anche ansiogena, in quanto incomprensibile. Di contro, l’antica definizione del medico quale vir bonus sanandi
peritus delinea un professionista mai tecnocrate, che sia in
grado di cogliere la condizione umana ed esistenziale del
paziente, nonché di coltivarne l’imprescindibile autonomia, coerentemente ad un modello di beneficialità in cui una
disposizione di solidarietà si traduce nell’impegno morale
del sanitario ad agire nell’interesse del malato.
Tutela dell’autodeterminazione del paziente:
disciplina contrattuale e nesso causale
Il giudice veneziano evidenzia come la relazione informativa medico-paziente costituisca parte integrante del
contratto di assistenza sanitaria intercorrente tra codeste
parti, negandone pertanto la natura precontrattuale, ex art.
1337 c.c., o meramente accessoria e strumentale. A tale
proposito, è opportuno ricordare come il consenso ad un
trattamento sanitario non si identifichi necessariamente
con quello occorrente alla conclusione di un contratto: in
primo luogo, perché il malato gode del diritto ad autodeterminarsi anche laddove il rapporto professionale con il
medico non derivi da un vincolo contrattuale; secondariamente, pure nell’ipotesi in cui sussista un legame di tale natura, il consenso non può esaurire la propria rilevanza al
momento dell’accordo con il terapeuta (consenso al contratto), ma si rinnova nel tempo con il procedere delle cure e in seguito all’acquisizione di nuove, aggiornate infor-
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
mazioni (consenso al trattamento) (7). In questo modo,
l’obbligo di informazione gravante sul medico acquista un
rilievo autonomo rispetto all’adempimento della prestazione in sé considerata, anche e soprattutto sotto il profilo della responsabilità imputabile al professionista stesso. Più
chiaramente, questi può venir condannato sia per violazione delle leges artis attinenti all’esecuzione vera e propria dell’atto sanitario, pur avendo correttamente raccolto il consenso informato del proprio paziente, sia per lesione dell’autodeterminazione del malato, a dispetto di una realizzazione secondo modalità tecnicamente perfette dell’intervento stesso. Così, la stessa Corte di Cassazione (8) ha sostenuto (in una pronuncia espressamente menzionata dalla
sentenza in esame) che «nell’azione di adempimento, di risoluzione e in quella risarcitoria, il creditore è tenuto a provare soltanto l’esistenza del titolo, e non anche l’inadempienza dell’obbligato, a meno che non si deducano, non già
l’inadempimento, ma l’inesatto adempimento o la violazione di un obbligo accessorio», escludendo altresì che la violazione del dovere d’informazione del medico sia tale da
comportare tale disciplina derogatoria, in ragione, appunNote:
(5) Cfr. V. Chiodi, Il consenso del paziente nella teoria medico-legale, in
AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982, il quale sottolinea come
esistano «persone di animo forte, le quali si sdegnerebbero di essere ingannate, e pazienti deboli, come tanti di noi purtroppo, i quali hanno bisogno di essere affettuosamente ingannati», ricordando altresì la frase di
un giurista francese, secondo cui «il medico più bravo è quello che riesce
a far sopportare al malato l’operazione più difficile, facendogli credere che
si tratta di curare una malattia di nessun conto».
(6) ADVAR, Informazione e consenso informato del paziente, cit., relazione
di M. C. Medina, 43 ss., la quale sottolinea altresì come l’informazione
possa poi essere indiretta (nell’ipotesi in cui i pazienti acquisiscano informazioni sulla diagnosi della loro malattia attraverso la prescrizione delle
terapie), aggressiva (per esempio, laddove la comunicazione avvenga in
spazi collettivi invece che privati, quali le corsie o i corridoi, oppure per
telefono, oppure nel caso in cui ci si limiti ad un solo incontro), ricattatoria (prospettazione di una terapia quale l’unica valida ai fini della guarigione), selettiva (maggiore rispetto per l’autodeterminazione dei soggetti
istruiti, colti e paganti), menzognera, sospesa (se il malato non è in grado,
almeno per il momento, di sopportare la verità), carente, eccessiva, disomogenea (nell’eventualità in cui l’informazione resa da un operatore sia
differente rispetto a quella fornita da altri appartenenti alla medesima
équipe curante). Leggasi, inoltre, M. Paradiso, Il dovere del medico di informare il paziente. Consenso contrattuale e diritti della persona, in AA.VV., La
responsabilità medica, cit., 145-146, secondo cui l’informazione non deve
estendersi a tutti i rischi genericamente connessi alle terapie mediche e,
in particolar modo, alle operazioni chirurgiche, ma può ritenersi esaustiva laddove comprenda quei pericoli correlati, nello specifico, al trattamento proposto e alla sua omissione. Di contro, i rischi di carattere generale assumerebbero rilevanza solo laddove le peculiari condizioni di salute del malato innalzino in misura considerevole le percentuali di verificazione di gravi effetti collaterali.
(7) S. Tommasi, Consenso informato e disciplina dell’attività medica, in Riv.
crit. dir. priv. 2003, 556 ss., la quale sottolinea altresì come tale distinzione sia funzionale all’esigenza di tutelare l’interesse del singolo in via autonoma rispetto alle vicende del contratto: così, per esempio, la conclusione del contratto con il medico non obbliga il malato a sottoporsi ad un
trattamento, né il rifiuto di un determinato atto terapeutico comporta
necessariamente il venir meno del contratto eventualmente stipulato tra
sanitario e paziente.
(8) Cass. 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it., 2001, I, 2504, con nota di
R. Pardolesi.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
to, della sua natura autonoma, e non meramente accessoria
o strumentale.
Nel caso di specie, è proprio la mancata ottemperanza
all’obbligo informativo (e, conseguentemente, la lesione
della libertà d’autodeterminazione di M. P. in ordine alle
scelte concernenti la sua stessa salute) a sostanziare l’inadempimento contrattuale del debitore-medico, senza che
possa o debba rilevare conoscere come la malata avrebbe
concretamente deciso, laddove fosse stata adeguatamente
edotta circa quel 20% e più di rischi realizzabili. In questo
senso, ciò che importa è che la paziente non sia stata posta
nelle condizioni di esprimere un consenso realmente informato, mentre incomberebbe sempre e soltanto sul convenuto l’eventuale, specifica dimostrazione che la degente,
anche se a conoscenza dei pericoli in seguito verificatisi,
avrebbe poi comunque optato per la sottoposizione all’intervento.
Pertanto, ai fini della determinazione del danno risarcibile, il Tribunale neppure procede alla verifica della sussistenza o meno di uno specifico nesso eziologico fra l’inadempimento, da parte del personale sanitario, dell’obbligo
di esporre alla paziente i pericoli, pur rilevanti, di lesioni
personali gravi e l’effettiva lesione della sua libertà d’autodeterminarsi (9). Ciò in ragione della nota distinzione fra
una «causalità giuridica», ex art. 1223 c.c., «che presuppone la già avvenuta identificazione dell’evento oggetto di
addebito» e una «causalità naturale», soggetta, quest’ultima, al noto criterio della condicio sine qua non.
Infatti, la previsione del risarcimento dei soli danni
conseguenza «diretta e immediata» attiene all’individuazione di un nesso eziologico fra l’inadempimento e i suoi riflessi economici (pregiudizievoli) sul patrimonio del danneggiato (10). A tale proposito, la giurisprudenza è solita
accogliere la teoria della «regolarità causale», mentre dal
contenuto dell’obbligo inadempiuto e dallo «scopo» della
norma violata trae utili criteri ai fini della precisazione della sfera di rischi sin dall’inizio ragionevolmente imputabili
al debitore. Detta «regolarità» giuridica, peraltro, viene desunta non da labili nozioni empiriche o probabilistiche,
bensì dal contenuto e dall’oggetto del rapporto contrattuale stesso. Di conseguenza, è risarcibile non solo quel danno
che trovi il suo presupposto, secondo una serie causale normale, nel singolo inadempimento, ma anche quello che sia,
in relazione allo specifico titolo del rapporto contrattuale,
normativamente imputabile ad un determinato debitore. Il
contenuto della prestazione dovuta, dunque, non è soltanto funzionale all’accertamento degli estremi dell’inadempimento, ma delimita altresì l’area dei rischi implicitamente
assunti con il contratto, contribuendo, pertanto, a definire
l’entità dei danni risarcibili.
Nello specifico, il giudice circoscrive e limita l’ambito
del pregiudizio di natura non patrimoniale a quello relativo
«al piano esistenziale, da intendersi come riparazione correlata alla privazione», a danno di M.P., «del diritto alla
scelta consapevole». La riparazione di siffatto danno anche
in ambito contrattuale, infatti, diviene possibile grazie alla
nuova lettura dell’art. 2059 c.c. (11), che consente il risar-
cimento di danni a carattere non economico laddove i relativi, lesi interessi possano ritenersi inclusi nell’ambito di
tutela del contratto. Dal momento che, in definitiva, appare arduo rinvenire un’attività che involga la sfera individuale in misura maggiore rispetto alle prestazioni sanitarie,
il pregiudizio non patrimoniale può liquidarsi, in questo caso, senza dover necessariamente ricorrere al concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Il consenso quale scriminante: risarcimento
del danno biologico e responsabilità penale
del medico
Il Tribunale predispone dunque, come sopra accennato, la riparazione del pregiudizio (danno-evento, quantificato in euro 100.000) derivante all’attrice dall’avvenuta
violazione «del suo diritto a scegliere in ordine alla propria
esistenza», quale «valore primario di rango costituzionale».
Di contro, si esclude, al contempo, qualsivoglia risarcimento del pregiudizio alla salute (danno-conseguenza), sofferto
in ragione delle lesioni personali gravi conseguenti all’intervento e il cui pericolo era stato celato alla paziente.
L’esclusione della possibilità di delineare un danno
biologico in capo alla malata ha luogo in consapevole contrasto con un orientamento giurisprudenziale apparentemente consolidato (12), apertamente sconfessato, però, dal
giudice veneziano, quale «frutto di una configurazione del
consenso del paziente in funzione di scriminante dell’opeNote:
(9) A tale proposito, si ricordi, per esempio, l’avverso orientamento di
Trib. Brescia 13 maggio 2003, in questa Rivista, 2003, 1228, con commento di S. Cacace, Ancora a proposito di nascite indesiderate, dove viene
esclusa la possibilità di accertare la sussistenza di un nesso causale fra la
mancata informazione e la realizzazione del pregiudizio.
(10) U. Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991, 639 ss. A questo riguardo,
cfr. Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 (per la quale v. infra, nota 11): «l’art.
1223 cod. civ. (...) limita il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito, ma (...) viene inteso, secondo costante giurisprudenza (sent. n. 89/52; n. 373/71; n. 6676/92; n. 1907/93;
n. 2356/00; n. 5913/00), nel senso che la responsabilità deve essere estesa ai danni mediati e diretti, purché costituiscano effetti normali del fatto illecito».
(11) Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828, in questa Rivista, 2003, 816
ss., con commenti di F. D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, di G. Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di Cassazione e di A. Procida Mirabelli di Lauro, L’art. 2059 c.c. va in Paradiso; Corte cost. 11 luglio 2003, n.
233, in questa Rivista,. 2003, 962, con nota di G. Ponzanelli, e in Corr.
giur., 2003, 1028, con nota di M. Franzoni, Il danno non patrimoniale, il
danno morale: una svolta per il danno alla persona.
(12) In particolare, in materia, di (affermazione di) un dovere d’informazione anche circa i rischi di verificazione eccezionale: App. Firenze 11 luglio 1995, in Foro it., 1996, II, 188-194, con commento di M. Polvani, Indicazioni giurisprudenziali e considerazioni critiche sul consenso all’attività medica; Cass. 6 ottobre 1997, n. 9705, in Giust. civ. Mass., 1997, 1862; App.
Genova 5 aprile 1995, in questa Rivista, 1996, 215-225, con commento di
R. De Matteis. Detta ultima sentenza viene successivamente confermata
in sede di giudizio di legittimità: Cass. 24 settembre 1997, n. 9374, in Riv.
it. med. leg., 1998, 821-830, con commento di F. Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L’informazione dev’essere dettagliata o sommaria?.
Leggasi, infine: A. Fusaro, Il consenso all’anestesia non si presume, in La
nuova giur. civ. comm., 1997, I, 577-583, nota a Cass. 15 gennaio 1997.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
869
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
rato medico». La posizione così adottata svela la ragione
concreta per cui si sia praticamente omesso un qualsiasi accertamento in ordine al nesso eziologico, il cui problema si
era in passato posto alle Corti nei termini di un esame e di
una verifica della causalità sussistente fra la mancanza di un
consenso informato del paziente e il danno biologico da
questi subito. A tale proposito, per esempio, la Corte d’appello di Milano riteneva giustamente la lesione del diritto
del malato alla propria autodeterminazione quale «termine
iniziale di una sequenza causale che vede, come termine finale, la lesione del diritto alla salute, come può agevolmente dedursi dal fatto che, rispettato quel diritto, o non si
sarebbe verificata la grave e irreversibile lesione, ovvero se
ne sarebbe trasferito il relativo rischio contrattuale al paziente stesso» (13). Pertanto, il mancato rispetto dell’autodeterminazione del malato (al quale è stata negata la possibilità di scegliere) trasferisce i rischi dell’operazione sul professionista, il quale si assume la responsabilità anche delle
conseguenze infauste dell’intervento, indipendenti da una
sua condotta colposa, quasi si trattasse di un’obbligazione di
risultato in ordine all’esito dell’atto terapeutico (14).
Al contrario, laddove si opti per la sola liquidazione
della lesione all’autodeterminazione individuale, la violazione del diritto del malato a scegliere consapevolmente
sembra essere in re ipsa rispetto all’avvenuto accertamento
della mancata ottemperanza, da parte del medico, del suo
dovere d’informazione, senza che appaiano, quindi, necessarie particolari disquisizioni in ordine al nesso di causalità.
Ciò in ragione, appunto, della convinzione che il consenso
riguardi il solo «piano dei diritti della personalità» (in modo specifico, «quello all’autodeterminazione in ordine alla
propria salute»), mentre l’attività sanitaria troverebbe la
propria autogiustificazione nell’utilità sociale che peculiarmente la caratterizza (15). Si tratterebbe, di conseguenza,
della radicale atipicità del trattamento medico-chirurgico,
espressione di una «attività altamente sociale», «autolegittimantesi» e certo non necessitante del ricorso ad una qualche causa di giustificazione codificata (16). Senza voler, in
questa sede, addentrarsi in questioni di natura prettamente
penalistica, è sufficiente tuttavia ricordare come lo Stato riconosca sì, tuteli ed incoraggi la professione sanitaria (fornendo altresì i mezzi, anche finanziari, necessari al suo esercizio), ma solo laddove questa risponda al paradigma «normale» del trattamento eseguito da personale abilitato, in
conformità alle leges artis e previo consenso informato del
paziente (17).
In materia, la giurisprudenza della Cassazione penale
appare irrimediabilmente divisa: infatti, se le più che note
sentenze Massimo (18), Barese (19) e Firenzani (20) sposano, sostanzialmente, la convinzione secondo la quale «la
mancanza del consenso (opportunamente «informato»)
del malato (...) determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in
violazione della sfera personale del soggetto e del suo decidere se permettere interventi estranei sul suo corpo» (21),
il più recente caso Volterrani (22) rinnega apertamente e
overrules detto precedente orientamento. Pertanto, se la
870
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Note:
(13) App. Milano 2 maggio 1995, in Foro it., 1996, I, 1418, con nota di
S. Fucci: nel caso di specie, in seguito alla sottoposizione ad intervento
chirurgico, il paziente riportava la paresi degli arti superiori e la paralisi
completa di quelli inferiori. I giudici così concludevano: «alla stregua delle deduzioni che tutte qui precedono, deve ritenersi inverata la fattispecie
di inadempimento contrattuale, (...) accertati la violazione di un obbligo
giuridico contrattuale ed il verificarsi di un danno, attraverso la lesione di
un fascio di diritti soggettivi, eziologicamente connessi tra loro (...)».
(14) Cfr. M. Chabas, L’obligation médicale d’information en danger, in JCP,
2000, 459.
(15) Cfr. M. G. Gallisai Pilo, Consenso dell’avente diritto, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, 1987-1999, 71-83; C. Pedrazzi, Consenso dell’avente diritto, in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 140-153; C. F. Grosso, Consenso dell’avente diritto, in Enc. giur., Roma, 1988, e M. G. Maglio - F. Giannelli, Il consenso dell’avente diritto, in Riv. pen., 2003, 575-684.
(16) F. Viganò, Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 167 ss. Cfr. altresì G. Caruso, Il trattamento medico-chirurgico arbitrario tra «lettera» della legge e «dimensione ermeneutica» del fatto tipico, in Ind. pen., 2003, 1013-1049.
(17) Ibidem, 168.
(18) App. Firenze 18 ottobre 1990, in Giust. pen., 1991, II, 163 ss., con
nota di G. Iadecola, In tema di rilevanza penale del trattamento medico-chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, e Cass. 21 aprile 1992, in
Cass. pen., 1993, 63 ss., con commento di G. Melillo, Condotta medica
del paziente arbitraria e responsabilità penale. I giudici di seconde cure, in
particolare, così si esprimono: «(...) emerge in maniera evidente un principio basilare al quale l’attività del medico deve ispirarsi e, comunque,
sottomettersi: il consenso del malato. Ciò che, in parole assai semplici,
significa poi che nulla il medico può fare senza il consenso del paziente
o addirittura contro il volere di lui. (...) Praticando dunque alla paziente
un intervento da questa non autorizzato e non voluto (...), con conseguenze per lei estremamente cruente ed invalidanti (...), l’imputato pose in essere consapevolmente e volontariamente una condotta che sul
piano giuridico integra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della lesione volontaria (...). E poiché da tale delitto voluto è conseguita, come effetto non voluto, la morte della persona (...), ne
deriva la penale responsabilità dell’imputato per il reato di omicidio preterintenzionale».
(19) Cass. 9 marzo 2001, n. 28132, in Cass. pen., 2002, 517 ss., con nota
di G. Iadecola, Sulla configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale in
caso di trattamento medico con esito infausto, praticato al di fuori dell’urgenza
e senza consenso del paziente.
(20) Cass. 11 luglio 2001, n. 26446, in Cass. pen., 2002, 2041 ss., con nota di G. Iadecola, Sugli effetti penali della violazione colposa della regola del
consenso nell’attività chirurgica.
(21) Cass. 11 luglio 2001, cit.
(22) G.i.p. Trib. Torino 10 ottobre 1998, in A. Cadoppi - S. Canestrari (a
cura di), Casi e materiali di diritto penale, Milano, 2003, 85 ss.; App. Torino
10 maggio 2000, id., 92 ss.; App. Ass. Torino 3 ottobre 2001, in id., 97 ss.
e Cass. 29 maggio - 11 luglio 2002, in id., 105 ss., in Riv. it. dir. proc. pen.,
2003, 604 ss., con nota di G. Lozzi, Intervento chirurgico con esito infausto:
non ravvisabilità dell’omicidio preterintenzionale nonostante l’assenza di un
consenso informato, e in Cass. pen., 2003, 2659 ss., con commento di G.
Iadecola, Ancora in tema di rilevanza penale del consenso (del dissenso) nel
trattamento medico-chirurgico. A parere dei giudici di legittimità, in particolare, l’attività medico-chirurgica corrisponde ad un «alto interesse sociale (...), che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute riconosciuto ad ogni individuo, per il bene di tutti, dall’art. 32
della Costituzione della Repubblica e lo fa autorizzando, disciplinando e
favorendo la creazione, lo sviluppo e il perfezionamento degli organismi,
delle strutture e del personale occorrente. Per ciò stesso, questa azione,
ove correttamente svolta, è esente da connotazioni di antigiuridicità anche quando abbia un esito infausto» e a prescindere dalla volontà del paziente in merito all’esecuzione del trattamento. Infine, cfr. C. Marincovich, Consenso del paziente e responsabilità penale del chirurgo: un contrasto da
risolvere, in Riv. pen., 2003, 935-936.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
volontà del paziente diviene decisiva «solamente quando
sia espressa in forma negativa (dal momento che «la condotta di chi cura, ponendo così in essere un’attività riconosciuta lecita ex se, non può essere equiparata, sotto il profilo oggettivo, alla condotta di chi lede»)», «il medico è legittimato a sottoporre il paziente (...) al trattamento terapeutico che egli giudichi necessario alla salvaguardia della
salute dello stesso, anche in assenza di un esplicito consenso». Ciò in ragione, addirittura, della «irrilevanza della adesione di volontà dell’infermo», nonché della «natura intrinseca dell’attività sanitaria», cui l’ordinamento attribuisce un rilievo anche costituzionale. In conclusione, «deve
necessariamente escludersi che il medico possa essere chiamato a rispondere in sede penale dei presunti danni cagionati alla vita o all’integrità fisica e psichica del soggetto sul
quale ha operato a regola d’arte, unicamente (sic!) per l’assenza del consenso».
In attesa che le Sezioni Unite intervengano a sanare
tale contrasto giurisprudenziale, sia qui concesso sottolineare come l’orientamento Volterrani sembri addirittura
ignorare il secondo comma dell’art. 32 della nostra Carta
fondamentale, che radicalmente esclude l’imposizione di
un qualsiasi trattamento sanitario se non per disposizione
di legge, fermi restando, anche in quest’ultimo caso, i limiti del rispetto della persona umana. Infatti, il medico che
proceda ad un’operazione chirurgica senza aver, in proposito, correttamente informato il proprio paziente, viola sia
l’imperativo della generica volontarietà della sottoposizione ad un atto sanitario sia l’ossequio dovuto alla libertà e all’autodeterminazione individuale.
Dalle parole della Suprema Corte, d’altra parte, riemerge l’antiquata ed inveterata concezione paternalistica
del rapporto terapeuta-malato, le cui tentazioni sono evidentemente dure da scalzare: «la pratica sanitaria (...) è
sempre obbligata, per non dire forzata. Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti altrui non
opera per passare il tempo (...): lo fa perché non ha scelta,
perché quello è l’unico giusto modo per salvare la vita del
paziente (...). Sembra lecito, allora, prospettare l’esistenza
di uno stato di necessità generale e, per così dire, «istituzionalizzato», intrinseco, cioè, ontologicamente, all’attività
terapeutica».
Rimangono, tuttavia, gli strumenti del diritto civile,
grazie ai quali, se già si liquida il danno non patrimoniale da
lesione dell’autodeterminazione individuale, opportuna sarebbe l’affermazione della risarcibilità del danno biologico,
quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento contrattuale (o dell’illecito aquiliano, a seconda di come
si voglia configurare l’eventuale responsabilità del professionista e la natura del rapporto che lega di volta in volta il
medico al paziente) derivante dal violato dovere d’informazione (che in questo caso non concerneva, d’altra parte,
rischi a bassa od eccezionale verificazione, ma pericoli che
si sarebbero concretizzati con ben un 20-25% di probabilità).
Secondo il già menzionato, ultimo orientamento giurisprudenziale (23), infatti, il danno biologico trova il suo
referente normativo nell’art. 2059 c.c., quale mortificazione del bene salute e conseguenza di qualsiasi attentato alla
sfera individuale d’integrità psicofisica (24), altresì risarcibile al di là della configurazione, o meno, di una condotta
penalmente rilevante. Detta riparazione, d’altra parte, non
solo appare coerente al dettato dell’art. 1223 c.c., ma sembra tanto più dovuta laddove si tratti, come nel caso di M.
P., di un intervento (effettuato senza consenso) causa di lesioni personali gravi per il paziente (esulando dal presente
discorso, pertanto, l’ipotesi del trattamento con esito fausto
ma eseguito a prescindere dalla volontà del malato).
In conclusione, l’argomentazione del giudice veneziano sembra davvero non lineare laddove ritiene giustamente irrilevante, al fine del risarcimento del danno da lesione
all’autodeterminazione, sapere come l’attrice si sarebbe
comportata se adeguatamente informata, mentre esclude la
liquidazione delle lesioni personali frutto diretto della stessa violazione del diritto a scegliere. Diritto, quest’ultimo,
che comprende, si badi bene, anche la possibilità di adottare decisioni assolutamente irrazionali e svincolate dalla
condotta standardizzata dell’uomo medio, conformemente
ad una reale tutela della libertà individuale, consacrata dall’art. 13 Cost.
Note:
(23) Cass. 31 maggio 2003, n. 8827; Cass. 31 maggio 2003, n. 8828, e
Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233, cit.
(24) Sia consentito rinviare a S. Cacace, Il danno non per trattamento sanitario senza consenso, in G. Ponzanelli (a cura di), Il «nuovo» danno non
patrimoniale, Padova, 2004, 185-196.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
871
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
CONSENSO INFORMATO: TUTELA DEL DIRITTO ALLA SALUTE
O DELLA LIBERTÀ DI SCELTA?
di Giorgia Guerra
Il paziente che, sebbene sottoposto ad intervento chirurgico incensurabile, non riceve preliminarmente
una corretta ed esaustiva informazione nel pieno rispetto della sua condizione psico-emotiva, è leso nel
suo diritto di autodeterminazione. Tale libertà di
scelta è tutelata con l’istituto del consenso informato, oggi chiaramente ispirato al principio personalistico costituzionalmente garantito. Nell’introdurre la
nuova prospettiva in base alla quale l’inadeguata
informazione è ipotesi autonoma di violazione del
consenso informato, idonea a configurare l’obbligazione risarcitoria ex art. 2059 c.c. in capo alla struttura sanitaria, la sentenza crea una complessa e criticabile spaccatura con la realtà sanitaria. Nella
prassi, infatti, l’espressione del consenso informato
del paziente si è finora rivelata strettamente connessa alla realizzazione dello scopo curativo auspicato, e
non alla tutela della libertà di autodeterminazione
generalmente intesa.
La sentenza in epigrafe riconosce, e liquida generosamente in via equitativa, il danno esistenziale arrecato al paziente dalla lesione del proprio diritto di autodeterminazione in ragione dell’inadeguata informazione medica ricevuta, a prescindere dal riscontro di una colpa professionale addebitabile ai medici curanti. La condanna risarcitoria, almeno sul piano formale, non patrimonializza la lesione all’integrità fisica che la paziente aveva riportato a seguito
dell’intervento. Per comprendere il singolare esito della
pronuncia in esame è allora opportuno ripercorrere sommariamente la vicenda processuale che l’ha propiziata.
Ad un anno di distanza dal ricovero per «doppio vizio
valvolare con embolia cerebrale», una paziente si sottopone alle visite mediche necessarie per sostenere un secondo
intervento presso un reparto di cardiologia ospedaliero. L’operazione chirurgica, eseguita per la «sostituzione valvolare
mitro-aortica», è considerata - come emerge dalla ricostruzione dei fatti prodotta da entrambe le parti - un intervento di routine. Durante il decorso post-operatorio le condizioni della paziente peggiorano per l’insorgenza di gravi
complicazioni (un ictus embolico), finché alla donna viene
diagnosticata una emiparesi destra con afasia motoria.
La paziente, che a causa delle condizioni fisiche soffre
una marcata confusione mentale, frequenti sbalzi di umore,
stati depressivi e difficoltà di pronuncia, agisce in giudizio
per ottenere il risarcimento del danno subito, lamentando
che i sanitari dipendenti dalla struttura sanitaria, pur avendo eseguito un’operazione chirurgica incensurabile dal
punto di vista tecnico, avevano inadempiuto l’obbligo di
informarla circa i rischi e le possibili complicazioni correlabili all’intervento. L’informazione preventiva del caso
872
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
avrebbe dovuto prospettare il rischio di contrarre le lesioni
permanenti che la paziente malauguratamente aveva finito
per riportare.
A seguito dell’istruttoria e valutato l’an ed il quantum
dell’informazione trasferita dai sanitari alla paziente, anche
con riferimento allo stato emotivo ed alla sua capacità di
comprensione, il Tribunale lagunare rileva che il «consenso informato» formulato nell’occasione dalla paziente, attestato dalla firma sull’apposito modulo raccolto dall’anestesista, non poteva essere considerato idoneo, perché non del
tutto aderente alla proposta terapeutica. La struttura sanitaria viene quindi condannata per inadempimento contrattuale, rilevando l’impossibilità di accertare quale fosse
stato nella circostanza il reale flusso di informazioni trasmesso alla paziente dai sanitari. La difficoltà di procurarsi
la documentazione necessaria ai fini decisionali per fare
piena luce sul quadro dell’informativa effettivamente trasmessa alla paziente gioca a sfavore della struttura convenuta, cui viene imputato il danno in base agli artt. 1218 e
1176, comma 2 c.c. La domanda risarcitoria viene dunque
accolta, quantificando i danni equitativamente: la clinica è
condannata a rifondere alla paziente il danno, che la sentenza assume «correlato al piano esistenziale», in base all’art. 2059 c.c., in quanto, non risultando assolto l’obbligo
informativo relativo alle possibili complicanze post-operatorie, risulta compromessa la libertà di scelta della paziente
in ordine al diritto, costituzionalmente garantito, di autodeterminarsi nella scelta di sottoporsi ad un trattamento sanitario.
La modalità relazionale medico-paziente
nell’informazione sui rischi connessi
al trattamento sanitario
La natura ed il contenuto dell’obbligo di informazione
sono analizzati nel caso in esame da un punto di vista soggettivo, valorizzando sul piano argomentativo le peculiari
caratteristiche psico-fisiche della paziente protagonista della vicenda. I criteri necessari per definire l’estensione e
l’ampiezza dell’informazione dovuta vengono desunti anche dalle componenti caratteriali del paziente, circostanza
che rende ancor più delicato assolvere un compito già di
per sé non agevole, soprattutto quando si tratta di definire,
nell’ambito di un giudizio ex post come quello risarcitorio,
l’ambito e la natura dei rischi connessi al trattamento,
identificando in tal modo il parametro tecnico atto a far
funzionare la regola di responsabilità applicata. Oggi il dibattito sui rischi terapeutici che possono derivare dalla
scelta chirurgica, dal piano terapeutico intrapreso o anche
dall’utilizzo della strumentazione tecnologica adottata per
il trattamento medico, rimette in discussione la qualità e
l’estensione del set informativo idoneo a riempire di contenuti il diritto del paziente di conoscere quanto effettiva-
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
mente necessario per esprimere (non già un semplice assenso, ma) una scelta condivisa in ordine al proprio destino
esistenziale (1).
La giurisprudenza di merito meno recente, in tema di
rischi derivanti da trattamenti terapeutici ed interventi
chirurgi, diversificava la portata dell’informazione in base
al tipo di intervento, a seconda, cioè della natura elettiva,
o non, dell’intervento, per distinguere la chirurgia estetica
dagli altri interventi a scopo terapeutico (2). L’orientamento più recente (3), invece, al quale aderisce la decisione in
esame, abbandona tale distinzione per valorizzare altri parametri attinenti alla soggettività del paziente. Queste nuove linee guida, ispirandosi al valore, costituzionalmente
protetto, della libertà di scelta del paziente, definiscono più
accuratamente l’estensione dell’informazione (4).
Quando il giudizio pone l’accento sulla dimensione
soggettiva del consenso, per tener conto delle particolari
caratteristiche del paziente, viene compromessa la possibilità di seguire in punto di motivazione un’argomentazione
che si giovi di standards comportamentali definiti ex ante,
siano essi parametrati alla figura del ragionevole paziente
ovvero a quella del medico diligente (5). Se invece il giudizio si spinge a considerare la sfera soggettiva del paziente,
anche le disposizioni relative all’informazione ed al consenso informato, previste dal codice di deontologia medica
approvato il 24-25 giugno 1995 (come aggiornato nel
1998) diventano una guida per far funzionare l’opzione interpretativa prescelta. L’art. 29 del codice, in particolare,
raccomanda al medico il dovere di «dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena ed idonea
informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia
e della mancata terapia, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche
(…)», mentre il successivo art. 31 aggiunge che «(…) il
procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico che
possano comportare grave rischio per l’incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di
estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso».
Alla luce di queste norme deontologiche la valutazione dello stato emotivo della paziente protagonista del caso
in rassegna - risultata, dalle testimonianze ascoltate, particolarmente impaurita ed emotiva - rileva, come viene affermato nella sentenza in commento, «al fine di calibrare
l’ambito di estensione della prestazione informativa, al fine
di promuovere la massima adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche». I rischi illustrati connessi all’intervento, dei quali nel caso di specie manca una precisa esteriorizzazione probatoria, vengono quindi valutati anche in base
alle caratteristiche personali della paziente, senza applicare
una rigida procedura di comparazione dei rischi, ossia senza
confrontare i rischi reificatisi nella circostanza ed il «rischio
di complicazione collegato all’intervento con la possibile
evoluzione del quadro di salute della paziente nel caso contrario», un confronto che avrebbe probabilmente dischiuso
Note:
(1) Lo attesta la ricchezza dei contributi dottrinali dedicati al tema del
consenso informato nell’ultimo lustro, fra cui in prima approssimazione si
segnalano: U. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile. Analisi di un
concetto sul tema del danno da contagio per via trasfusionale, Padova, 2004,
268-312; C. Lalanne - V. Landi, Il consenso al trattamento sanitario, in La
responsabilità medica. Le responsabilità contrattuali ed extracontrattuali, per
colpa ed oggettive, del medico e degli enti sanitari (privati e pubblici), a cura di
U. Ruffolo, Milano, 2004, 259; G. Passacantando, Il principio del consenso
e l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico, in Riv. it. med. leg., 2003,
67; V. B. Muscatiello, Il consenso dell’uomo qualunque (i diritti presi poco sul
serio), in id., 2003, 549; G. Azzali, Trattamento sanitario e consenso informato, in Ind. pen., 2002, 925; S. Tommasi, Consenso informato e disciplina
dell’attività medica, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 555; P. Frati - G. Montanari Vergallo - N. M. Di Luca, Gli effetti del consenso informato nella prospettiva civilistica, in Riv. it. med. leg., 2002, 1034; L. Bocchi, Il consenso al trattamento medico-chirurgico e la corretta informazione, in Ragiusan, 2002, fasc.
222, 262; S. Marzot, Il consenso informato nei trattamenti sanitari: alcune
considerazioni sul consenso nell’attività medica terapeutica, in Sanità pubblica,
2002, 1173; F. Giunta, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 377; A.
Stillo, Malpractice: il consenso informato, in Contratti, 2001, 1173; C. Pederzoli, Il consenso al trattamento medico e la capacità di agire del paziente, in
Ragiusan, 2001, fasc. 210, 162; R. Natoli, Consenso informato e obbligazioni di risultato tra esigenze di compensation ed esigenze di deterrence (nota a
Cass. 10 settembre 1999, n. 9617), in questa Rivista., 2000, 730; A. Donati, Consenso informato e responsabilità da prestazione medica, in Rass. dir.
civ., 2000, 1-47; M. Bellonzi, Il consenso informato nei trattamenti sanitari:
un contributo della difesa civica, in Nuova rass., 2000, 730; A. Fiori - G. La
Monaca, L’informazione al paziente ai fini del consenso: senza più limiti (nota
a Cass., sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318), in Riv. it. med. leg., 2000, 1302;
E. Calò, Il consenso informato: dal paternalismo all’autodeterminazione, in
Notariato, 2000, 183.
(2) Adottano tale distinzione Cass 12 giugno 1982, n. 3604, in Giust. civ.,
1983, I, 939; Cass. 8 agosto 1985, n. 4394, in Giur. it., 1987, 1136. Quest’ultima, a detta della dottrina che condivide la diversificazione del contenuto dell’informazione a seconda delle varie specializzazioni, «ha segnato un’epoca (perché) nella motivazione teorizza la diversità dell’obbligo
informativo posto a carico del chirurgo estetico rispetto a quello gravante
sul terapeuta in generale: se quest’ultimo può limitarsi alla semplice menzione dei «possibili rischi ed effetti delle terapie suggerite o degli interventi chirurgici proposti», il chirurgo estetico (…) deve orientare la sua
attività di informazione nel senso della effettiva possibilità di conseguire
tale risultato», così Stillo, Malpractice: il consenso informato, op. cit., 1173.
(3) Cfr. Cass. 25 novembre 1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913, con
nota di E. Scoditti, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale; per identità di ratio decidendi v. Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, in questa Rivista,
1997, 178, con nota di Carbone; App. Genova 5 aprile 1995, in questa
Rivista, 1996, 215, commentata da R. De Matteis.
(4) Lo notano Lalanne - Landi, Il consenso al trattamento sanitario, op. cit.,
259.
(5) Attraverso la prospettiva oggettiva riferita al paziente si dovrebbe far
riferimento al complesso di comportamenti che avrebbe assunto il paziente ragionevole, quale modello astratto; se invece la valutazione oggettiva viene rivolta all’agire del medico si dovrebbe far riferimento a ciò
che lo stesso sarebbe stato tenuto a spiegare in base all’insieme delle sue
conoscenze scientifiche. I problemi sorgono in entrambe le ipotesi: nella
prima, la varietà delle reazioni dell’uomo medio ragionevole renderebbe
assai difficile il compito di individuare un unico standard di comportamento; nella seconda, la comprensione delle informazioni tecnico-scientifiche trasmesse dal medico sarebbe, nella maggioranza dei casi, in buona parte incomprensibile al paziente. Per una descrizione dettagliata dei
modelli oggettivi, e dell’utilizzo degli stessi da parte delle Corti d’oltreoceano, v. L. Noah, Informed Consent and the Elusive Dichotomy Between
Standard and Experimental Therapy, in 28 Am. J. L. and Med. 361 (2002).
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
873
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
margini assolutori alla struttura sanitaria in questione, in
considerazione del fatto che nel giudizio in questione risultava versata in atti la testimonianza resa dal consulente tecnico d’ufficio in merito al fatto che in assenza dell’intervento la patologia dell’attrice avrebbe avuto un’inevitabile
decorso infausto.
Il quomodo dell’informazione trasmessa nella circostanza viene quindi modulato sulle capacità di percezione,
emotive e culturali, del paziente. L’estensione dell’informazione deve, in ogni caso, considerare i rischi particolari che
il soggetto correrebbe scegliendo di non sottoporsi all’intervento, anche nelle ipotesi di operazione di routine, com’è
accaduto nella vicenda veneziana (6). Solo quando l’informazione sarà «completa», estesa cioè anche ai rischi del
«non-intervento» (oltre alle prevedibili complicanze legate all’intervento (7)), il paziente sarà messo nelle condizioni di esprimere un reale consenso «informato». Con la
completa comprensione delle complicazioni associabili ai
due scenari conseguenti alla sua scelta, il paziente avrà aderito alla proposta diagnostica-terapeutica, con una consapevolezza ben più estesa di quanto un modulo cartaceo è in
grado di esprimere (8).
Risarcibilità del danno da omessa informazione:
quale l’interesse giuridico protetto?
Tramontata la lettura del consenso informato alla luce del concetto di scriminante imperniato sull’art. 50 c.p.
(9), la natura del consenso del paziente sembra oggi ispirarsi al principio personalistico, ricavato da una lettura combinata degli artt. 13 e 32, comma 2 della Costituzione. In
questa chiave di lettura il consenso informato del paziente
diventa manifestazione, costituzionalmente garantita, del
diritto di libertà di scelta, iscrivendosi a pieno titolo nel novero dei diritti della personalità, per poi prestarsi ad una vasta gamma di applicazioni giurisprudenziali (10), ove l’intervento è eseguito a regola d’arte, ma l’inadeguata informazione dei sanitari fa sorgere un’autonoma ipotesi di responsabilità ex art. 2059 c.c.
Le categorie giuridiche proposte dalla giurisprudenza
che ha funzionalizzato il consenso informato all’esigenza di
tutelare la libertà di scelta del paziente (in modo del tutto
indipendente dalla sussistenza di danni alla salute (11))
non sono pacificamente accettate in dottrina (12). Più preNote:
(6) Si veda Cass. 24 settembre 1997, n. 9374, in Riv. it. med. leg., 1998,
821, con nota di F. Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L’informazione deve essere dettagliata o sommaria?, op. cit., 825; Trib. Roma 6 dicembre 2000, in Gius, 2001, 2425.
(7) La giurisprudenza ha esteso la responsabilità del sanitario anche per
omessa informazione sull’inadeguatezza della strumentazione di cui dispone la struttura ospedaliera, v. Cass. 16 maggio 2000, n. 6318, in Riv. it.
med. leg., 2000, 1300, annotata da A. Fiori e G. La Monaca. Nel caso di
specie una partoriente non era stata avvisata del maggior rischio che correva in assenza dell’ausilio di uno strumento non disponibile nella struttura ospedaliera.
(8) Sulla relatività del valore che il modulo cartaceo prestampato manifesta v., tra gli altri, M. Portigliatti Barbos, Il modulo medico di consenso
874
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
informato: adempimento giuridico, retorica, finzione burocratica, in Dir. pen.
e proc., 1998, 894; E. Manni - V. Bonito, I moduli per il consenso informato: una lettura critica, in Bioetica, 1995, 62; Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, op. cit., 272 ss., con particolare riferimento agli «articolati moduli di ricezione del consenso» che vengono fatti sottoscrivere a
quanti si sottopongono alla terapia trasfusionale. Per qualche accenno
comparatistico v. F. Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L’informazione deve essere dettagliata o sommaria?, cit., il quale riferisce che il problema dell’inadeguatezza del modulo burocratico, spesso scarsamente dettagliato, è stato avvertito anche negli Stati Uniti. Per cercare di ovviare
a tali lacune un’azienda del New Mexico, la IN-Forms Inc. di Albuquerque
ha commercializzato centocinquantasei moduli per altrettanti diversi tipi
di patologie, contenenti quanti più dettagli possibili, che comprendevano brevi spiegazioni sull’organo che si sarebbe sottoposto ad operazione
(es. collocazione, funzione ecc.), descrivevano l’intervento, elencavano i
rischi e la loro frequenza statistica, le possibili evoluzioni della patologia
in assenza di intervento, i rischi addizionali ed alternativi, prevedendo
poi la firma, oltre che del diretto interessato, anche di un testimone.
(9) La riduttività di tale concezione è avvertita in App. Milano 30 aprile
1991, in Foro it., 1991, I, 2855; Cass. 25 novembre 1994, n. 10014, cit.;
Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it., Rep. 1997, voce Professioni intellettuali, n. 122; Cass. 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it., I, 2504, con
nota di P. Pardolesi, anche in questa Rivista, 2001, 1156, con commento
di M. Rossetti, I doveri di informazione del chirurgo estetico; Cass. 11 luglio
2001, n. 1577, in Cass. pen., 2002, 2041, con nota di G. Iadecola; contra
v. App. Milano 18 aprile 1939, in Foro it., Rep. 1939, voce Responsabilità
civile, nn. 144 e 145; Trib. Milano 1961, in Temi, 1961, 141; e più recentemente in App. Genova 5 aprile 1995, cit. Per i riferimenti bibliografici
attinenti al consenso del paziente come causa di giustificazione v. Del
Corso, Il consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1987, 536; A. Manna, voce Trattamento medico-chirurgico, in
Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992, 1281; S. Ramajoli, Intervento chirurgico con esito infausto senza che sussistano lo stato di necessità e il «consenso
informato» del paziente: conseguenze penali a carico dell’operatore, in Giust.
pen., 1996, II, 124; contra G. Iadecola, Sugli effetti penali della violazione colposa della regola del consenso nell’attività chirurgica, nota a Cass. 11 luglio
2002, n. 1572, in Cass. pen., 2002, 2044.
(10) Tra questi, sono molti i casi risolti attraverso il richiamo alla libertà
di autodeterminazione in ordine alla procreazione. È lo stesso Tribunale
veneziano a menzionare la sentenza d’oltralpe, Cour de Cassation, Ass.
plén., 17 novembre 2000, relativi ai noti casi di mancata sterilizzazione e
wrongful birth. La sentenza francese è pubblicata in Nuova giur. civ. comm.,
2001, I, 209, con nota di commento di E. Palmerini, Il diritto a nascere sani e il rovescio della medaglia: esiste un diritto a non nascere affatto?, e postilla di F. D. Busnelli, 215.
(11) Si noti la divergenza tra l’astratta argomentazione e ciò che è fin’ora
accaduto realmente: dai precedenti giurisprudenziali risulta che i Tribunali sono stati chiamati a riconoscere un’autonoma obbligazione risarcitoria dovuta alla lesione della libertà di scelta da inadeguata informazione, in fattispecie nelle quali si erano sempre verificati anche danni alla salute. Fin’ora la pretesa in esame è sempre stata avanzata laddove, nonostante l’intervento fosse stato eseguito a regola d’arte, il paziente aveva
comunque riportato conseguenze pregiudizievoli alla propria salute.
(12) Tra i primi ad avvertire il problema C. Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno, V, Responsabilità civile e tutela dei diritti, Milano, 1998, 117, spec. 129 ss. L’A. descrive due
ipotesi: nella prima non è fornita un’informazione adeguata ed il «paziente subisce un’alterazione negativa del suo stato di salute senza che al medico sia
imputabile un inadempimento della prestazione»; nella seconda, «pur fornita
adeguatamente l’informazione, l’intervento medico sortisce risultato infausto
imputabile al medico.» (id., 129) Le soluzioni prospettate dall’autore nei
due casi sono diverse. Mentre la seconda ipotesi viene inquadrata nel modello tradizionale di responsabilità medica, la prima ipotesi «sembra trovare autonoma configurazione proprio per il rilevare della violazione dell’obbligo di informazione nel momento in cui l’esito negativo dell’intervento medico
non sia frutto di maldestrezza»(id., 129). La riflessione sulla prima ipotesi
prende le mosse dall’osservazione dei due diversi beni giuridici a cui tendono l’obbligo di informazione e l’obbligo principale di prestazione, «onde diverse sono le lesioni che rispettivamente derivano dall’uno e dall’altro obbligo». (id., 129).
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
cisamente, i dubbi riguardano l’identificazione dell’interesse giuridico protetto dall’istituto del consenso informato.
Le motivazioni della sentenza in epigrafe non fanno
menzione del danno alla salute come conseguenza dell’omessa informazione, la quale così appare essere funzionale
alla tutela dell’autodeterminazione dell’individuo in quanto tale. Le obiezioni dottrinali a questa ricostruzione sono
di varia natura. Alcuni hanno rilevato che il diritto al consenso informato non è indisponibile, come invece dovrebbe essere un diritto inviolabile; non si tratta inoltre di un
diritto assoluto, ma di un diritto relativo, che postula una
prestazione di facere, e non una mera astensione in capo al
sanitario, il quale si deve in ogni modo attivare fornendo
esaurienti informazioni affinché la scelta del paziente possa
essere effettivamente libera e consapevole sotto ogni aspetto, terapeutico e chirurgico (13).
Altri, valorizzando lo scopo ultimo e quindi il bene
giuridico che il consenso informato mira a tutelare nel contesto nel quale viene richiesto, hanno respinto l’idea di leggere nel consenso informato l’espressione di una libertà di
scelta generalmente intesa. L’atto del paziente che autorizza l’azione del sanitario è funzionalmente connesso allo
scopo curativo che il paziente vuole perseguire aderendo alla proposta terapeutica, per migliorare la propria condizione di salute. Inoltre l’eventuale inadempimento in ordine
all’informazione dovuta dal medico appare, in una prospettiva di ripartizione dell’alea terapeutica, direttamente connesso al mancato trasferimento del rischio che deriva dalla
naturale asimmetria informativa esistente tra le parti (14).
Tale visione non sembra essere stata condivisa dal Tribunale veneziano, laddove la sentenza in commento afferma: «il consenso attiene al piano dei diritti della personalità e, più nel dettaglio, quello all’autodeterminazione in
ordine alla propria salute (…). Ora in una visione della libertà come assenza di «coercizione» da parte di terzi, non
può non rilevarsi come quello all’autodeterminazione in
ordine alla propria salute costituisca un valore primario di
rango costituzionale, da cui non si può prescindere, pena la
rinuncia al valore di base della nostra società».
Natura dell’obbligo informativo
e onere della prova
La natura attribuita all’obbligo informativo dalla sentenza in epigrafe segue il nuovo orientamento giurisprudenziale, recentemente definito in termini di «contrattualizzazione a tappe forzate» (15), che sembra aver permeato
ogni aspetto della responsabilità medica. La giurisprudenza
più recente ha cessato di attribuire natura precontrattuale
ex art. 1337 c.c. all’obbligo informativo (16), assegnandogli
invece rilevanza contrattuale autonoma (17), e non accessoria, perché inerente la natura specifica dell’attività medica, così valorizzando un primo orientamento giurisprudenziale milanese, poi condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale l’obbligo informativo è indipendente
sia dal procedimento di formazione che da quello di esecuzione del contratto (18). Con l’attrazione dell’obbligo
informativo nella sfera contrattuale, tutti gli elementi del
relativo giudizio di responsabilità assumono a loro volta le
caratteristiche proprie degli elementi della responsabilità
contrattuale. Il Tribunale veneziano prende atto di questa
realtà, mostrandosi particolarmente attento a definirne le
conseguenze sul piano della ripartizione degli oneri probatori. Aderendo alla giurisprudenza più recente in materia
(19), la quale prende le mosse dalla già ricordata Cass. 23
maggio 2001, n. 7027 (20), la Corte finisce così per porre il
peso dell’incertezza processuale a carico della struttura convenuta.
Ad ulteriore conforto di questa scelta, viene ricordato
che la struttura sanitaria è tenuta, in virtù della normativa
sulla privacy, al trattamento ed alla conservazione dei dati
personali dei pazienti, espressa dalla legge 675/1996 vigente all’epoca del ricovero della paziente. Questa seconda argomentazione viene utilizzata nella sentenza anche per sostenere che la responsabilità a carico dei sanitari non discende da una «regola inferenziale», ma è dovuta al fatto
Note:
(13) Così Frati - Montanari Vergallo - Di Luca, Gli effetti del consenso
informato nella prospettiva civilistica, op. cit, 1034.
(14) Così U. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, op. cit., 280-294,
che conforta la proposta interpretativa avanzata con il dato giurisprudenziale comparato.
(15) L’espressione è di U. Izzo, Il tramonto di un «sottosistema» della r.c.: la
responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in
questa Rivista, 2005, 130, 137. Sulle tappe che hanno scandito questo
processo di contrattualizzazione della responsabilità medica, v. C. Castronovo, Le due specie della responsabilità civile ed il problema del concorso, in
Europa e dir. priv., 2004, 69 spec. 89 ss., cui adde, da ultimo, R. De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?, in questa Rivista, 2005, 34.
(16) In questi termini invece Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, cit.; Trib.
Genova 3 gennaio 1996, in questa Rivista, 1996, 215, con nota di Benedetti; App. Bologna 21 novembre 1996, in Riv. it. med. leg., 1998, 586.
(17) Cass. 29 marzo 1976, n. 1132, in Foro it., Rep. 1977, voce Professioni intellettuali, n. 35; Cass. 26 marzo 1981, n. 1773, ivi, voce cit., n. 59; Cass.
8 agosto 1985, n. 4394, in Foro it., 1986, I, 121, con nota di A. Princigalli, rappresenta il landmark italiano in materia di consenso informato;
Cass. 6 ottobre 1997, n. 9705, in Resp. civ. e prev., 1998, 667, con nota di
Citarella.
(18) Cfr. Trib. Milano 14 maggio 1998, in Resp. civ. e prev., 1998, 1623,
con nota di B. Magliona, e per esteso in Nuova giur. civ. comm., 2000, I,
92; Cass. 23 maggio 2001, cit.
(19) Negli anni novanta, la giurisprudenza poneva l’onere della prova del
mancato o incompleto assolvimento del dovere di informazione a carico
del paziente; v. tra le altre, Cass. 29 gennaio 1993, n. 1119, in Foro it.,
1993, I, 1469; App. Milano 30 aprile 1991, in Foro it., 1991, I, 2855; Cass.
25 novembre 1994, n. 10014, cit.; Cass. 6 ottobre 1997, n. 9705, cit.;
Cass. 9 gennaio 1997, n. 124, in Foro it., Rep. 1997, voce Prova civile in
genere, n. 5. Il Tribunale aderisce al più recente indirizzo secondo il quale
in base al combinato disposto degli articoli 1218 e 1176 c.c. trasferisce l’onere della prova in capo alla struttura sanitaria (v. Cass. 23 maggio 2001,
cit.; Cass. 10 maggio 2002, n. 6735, in Foro it., Rep. 2002, voce Professioni intellettuali, n. 112; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297, in Mass., Rep.
2004, voce Professioni intellettuali, n. 28).
(20) La sentenza in epigrafe riferendosi implicitamente ai criteri proposti
dalla sentenza della Cassazione del 2001, sembra applicare con particolare attenzione quello relativo alla vicinanza della prova, in base al quale il
fatto deve essere provato dalla parte a cui si riferisce, a ciò unendosi il fattore specifico del minor costo relativo a soddisfare l’onere in oggetto gravante proprio sulla stessa parte considerata obbligata per responsabilità
contrattuale.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
875
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
che «a causa di tale assenza di informazioni non è dato sapere cosa sia stato comunicato alla paziente e, quindi, far ritenere assolto l’obbligo di informazione» (21). L’argomento - cui la sentenza accenna per rafforzare un iter motivazionale che, nell’allocare il peso processuale dell’incertezza
sulla struttura convenuta, appare comunque applicare de
plano la già illustrata ripartizione dei temi probatori imposta
dalla rilettura dell’art. 1218 c.c. fatta propria dalle Sezioni
Unite nel 2001 - è suscettibile di approfondimento, soprattutto alla luce dell’entrata in vigore del d.lgs. 196/2003, intitolato, com’è noto, «Codice in materia di protezione dei
dati personali». Proprio partendo dalla necessità di dare un
senso compiuto al «diritto alla protezione dei dati personali», quale diritto non funzionale alla mera tutela della riservatezza e dei connessi diritti della personalità dell’interessato, in dottrina è stata recentemente proposta una teoria in
base alla quale l’imputazione della responsabilità per il danno lamentato in un giudizio risarcitorio, ove l’attore sia impossibilitato a provare la fondatezza della sua pretesa a causa della lacunosità delle informazioni che lo riguardano e di
cui il convenuto risulti essere titolare, potrebbe essere fatta
transitare attraverso l’art. 15 del Codice appena ricordato,
il quale scandisce la clausola di imputazione dei danni cagionati per effetto del trattamento (e, dunque, anche della
distruzione) di dati personali (22).
Il revirement giurisprudenziale in tema di allocazione
dell’onere della prova (23) nell’ambito della responsabilità
medica appare già una consolidata realtà giurisprudenziale
(24), che uniforma l’assetto probatorio (25), applicando il
medesimo ad ogni giudizio di inadempimento contrattuale, a prescindere dalla qualificazione contenutistica della
domanda. Ne consegue che la struttura della regola scandita dall’art. 1218 c.c. opera, in casi come quello in commento, accollando alla struttura sanitaria l’onere di dimostrare il contenuto e le caratteristiche dell’informazione
trasmessa ai pazienti. Dal canto suo, l’azienda sanitaria assolve l’onere in questione solo provando, con gli ordinari
mezzi probatori, ogni singolo e complesso aspetto dell’informazione medica proferita, e le circostanze emozionali in base alle quali il paziente (ansioso, timoroso, o risk
averse che sia) ha espresso la sua adesione al trattamento
sanitario. Ma i classici mezzi di prova (la testimonianza o
la prova scritta, ossia il solo generico modulo, espressione
del consenso del paziente) non appaiono più sufficienti a
soddisfare una prova così complessa (26). In altri termini,
il supporto cartaceo non appaga l’esigenza di immortalare
ogni particolare riferito dal medico al paziente in merito
all’intervento da affrontare, e neppure la reazione che quest’ultimo, in base alle proprie caratteristiche soggettive,
dovrebbe trasmettere senza lasciar spazio ad interpretazioni postume, attestando inequivocabilmente il grado di
comprensione raggiunto rispetto a quanto riferito. I rimedi alle inefficienze del consenso espresso mercé il mero
modulo cartaceo, possono provenire dall’applicazione della moderna tecnologia (27): la registrazione audiovisiva
delle informazioni scambiate si candida a costituire l’unico
mezzo idoneo a conservare i dati relativi ai dialoghi inter-
876
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
corsi tra le parti, necessari per un’eventuale futura verifica,
e fedele ricostruzione, dell’incontro terapeutico. La revisione di quanto accaduto e memorizzato attraverso gli strumenti multimediali, considerando la loro validità ai fini
probatori (28), renderebbe esattamente comprensibili le
modalità attraverso le quali le parti si sono rapportate in
quel determinato momento, anche con riguardo allo stato
psico-fisico del paziente. L’utilizzo della tecnologia interattiva presenta numerosi potenziali benefici. Oltre a conserNote:
(21) Tale assenza, cui si aggiunge il fatto che la convenuta avrebbe dovuto provare anche l’indispensabilità dell’operazione per meglio addurre le
sue ragioni (v. Cass. 10 maggio 2002, n. 6735, cit.) induce il Tribunale a
ritenere superfluo trattare la causalità giuridica ex art. 1223 c.c., in quanto non sussistono gli elementi necessari per analizzare la «sussistenza del
nesso di causa sul piano dell’an».
(22) Per approfondimenti sulla presunzione di responsabilità in caso di
assenza di prove necessarie per verificare la pretesa dell’attore, e sulla connessa teoria del danno da perdita di prove fondata sulla disciplina del
d.lgs. 196/2003, si rinvia ad Izzo, La precauzione nella responsabilità civile,
op. cit., 153 ss., spec. 160-172.
(23) In materia di inadempimento contrattuale ed onere della prova v.,
oltre alla già menzionata sentenza Cass. 23 maggio 2001, n. 7027, cit.,
l’interpretazione proposta in Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in
Contratti, 2002, 118, con commento di U. Carnevali; anche in Contr. e
impr., 2003, 903, con commento di G. Visintini, La Suprema Corte interviene a dirimere un contrasto tra massime (in materia di inadempimento e onere probatorio a carico del creditore vittima dell’inadempimento); ed in Corr.
giur., 2001, 1565, con commento di V. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro.
(24) Per una migliore comprensione della complessiva operazione giurisprudenziale di allineamento della responsabilità medica alla responsabilità civile generale, v., in prima battuta, le recenti sentenze della terza
sezione della Cassazione che hanno rivisto i tratti essenziali della responsabilità medica: Cass. 4 marzo 2004, n. 4400, in questa Rivista, 2005,
45 ss., con commento di M. Feola, Il danno da perdita di chances di sopravvivenza o di guarigione è accolto in Cassazione, e L. Nocco, La «probabilità logica» del nesso causale approda in sede civile; Cass. 19 maggio 2004,
n. 9471; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n.
11488, in questa Rivista, 2005, 23, con commento di R. De Matteis, La
responsabilità medica ad una svolta?.
(25) L’operazione giurisprudenziale viene definita di «formattazione a
basso livello della distribuzione dei temi di prova» da Izzo, Il tramonto di
un «sottosistema» della r.c., op. cit.
(26) La stessa sentenza in epigrafe dimostra che i Tribunali pretendono la
prova dell’esaustiva informazione inerente ogni singolo aspetto relativo
al trattamento sanitario. Per interessanti considerazioni sul tema v. P. H.
Schuck, Rethinking Informed Consent, in 103 Yale L. J. 899, 921 (1994).
(27) Con riferimento alla moderna tecnologia digitale, v. U. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, op. cit., 310 ss.; F. H. Miller, Health Care
Information Technology and Informed Consent: Computers and the DoctorPatient Relationship, in 31 Ind. L. Rev. 1019 (1998). Rispetto alla videoregistrazione analogica, la qualità dell’approccio medico-paziente fornita
dalle tecnologie digitali si perfezionerebbe in ragione della migliore possibilità di interagire, come annota A. J. Rosoff: «free from the constraints of
a linear format, the pace of learning can be faster or slower, depending on the
patient’s prior knowledge of the subject matter and his or her ability to digest the
information presented. Further, the program can incorporate exercises to verify
the patient’s comprehension at various stages of the presentationª. Così A. J.
Rosoff, Informed Consent in the Electronic Age, in 25 Am. J. L. and Med.
267 (1999).
(28) Sul valore probatorio, ormai pacifico, conferito al bit v. G. Pascuzzi,
Il diritto dell’era digitale. Tecnologie informatiche e regole privatistiche, Bologna, 2002, 76 ss.
GIURISPRUDENZA•RESPONSABILITÀ MEDICA
vare traccia dell’avvenuto espletamento del dovere medico di informare il paziente, la tecnologia in questione è in
grado di offrire al paziente candidato ad un intervento
elettivo o comunque non urgente l’opzione di dialogare
con il medico anche in asincrono, e di costruire la propria
adesione informata alla proposta terapeutica pur essendo
situato in un luogo fisicamente diverso da quello del sanitario (29).
La registrazione della procedura relativa al consenso
informato su supporto digitale agevolerebbe notevolmente
l’assolvimento dell’onere della prova in capo alla struttura
sanitaria: la stessa ritualizzazione probatoria del momento
della raccolta del consenso non tarderebbe a manifestare il
suo effetto precauzionale nella prassi, responsabilizzando i
protagonisti dell’incontro terapeutico ben più di quanto
oggi possa fare un lapidario invito a sottoscrivere un modulo prestampato. Si tratterebbe, in definitiva, di un valido
ausilio per aumentare il grado di fiducia fra medico e pa-
ziente, e così favorire l’instaurazione di un rapporto veramente collaborativo fra i protagonisti dell’incontro terapeutico.
Note:
(29) La funzione è analizzata, con riferimento alle esperienze statunitensi da P. Brensilver, E-Formed Consent: Evaluating the Interplay Technology
and Informed Consent, in 70 Geo. Wash. L. Rev. 613, (2002). L’Autore, illustrando alcune esperienze, tra le quali quella del dott. Harold D. Portnoy, un medico che ha sviluppato un sito web predisposto per dare informazioni e raccogliere il consenso informato, mette in luce i numerosi benefici delle web-based transactions correttamente utilizzate, tra le quali
elenca l’aumento del tempo a disposizione del paziente per valutare quanto riferito, la maggior garanzia dell’anonimato, e la diminuzione del rischio da omissione d’informazione, in quanto oltre al colloquio audiovisivo con il medico, il paziente può disporre di un sito web che raccoglie
tutte le informazioni necessarie inerenti la sua patologia. L’Autore non
dimentica comunque di elencare i possibili rischi del sistema, quali la
mancanza di interazione faccia a faccia tra le parti, la possibile violazione
della confidentiality tra medico e paziente, le difficoltà di alcuni pazienti di
accedere alla tecnologia.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
877
GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
Diffusione dell’immagine di persona non nota
Diritto all’immagine:
fra uso non autorizzato del ritratto
e lesione della privacy(*)
TRIBUNALE DI ROMA 12 marzo 2004
Giud. Fanti - B. c. Media Plus Group S.r.l.
Persona fisica e diritti della personalità - Immagine (di persona non nota) - Fatto svoltosi in pubblico - Diffusione
dell’immagine - Pertinenza con il fatto svoltosi in pubblico - Insussistenza.
(c.c. artt. 10, 2043; Legge 22 aprile 1941, n. 633, artt. 96 e 97)
Non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 97 l.a. (relativa alla possibilità di effettuare la riproduzione dell’immagine collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico) ove l’immagine
sia stata ripresa in una delle occasioni o dei contesti menzionati dalla disposizione, ma la stessa venga diffusa senza che vi sia un nesso di pertinenza rispetto all’evento, in quanto l’interesse sociale alla conoscenza del fatto svoltosi in pubblico deve non soltanto sussistere al momento della fissazione dell’immagine, ma anche seguire tutto l’arco temporale di divulgazione di essa, connotando, sia pure in versione rievocativa dell’evento iniziale, tutti i successivi episodi di riproduzione.
Persona fisica e diritti della personalità - Immagine - Dato personale - Utilizzazione non autorizzata - Forma del
consenso - Illiceità.
(c.c. artt. 10, 2043; Legge 22 aprile 1941, n. 633, art. 96; d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 23)
Poiché l’immagine rientra fra i dati personali protetti dalla normativa sulla privacy, il consenso al suo utilizzo non può essere tacito o implicito (secondo quando stabiliva la giurisprudenza formatasi sulle disposizioni dettate dalla legge sul diritto d’autore in materia di diritto all’immagine), ma deve essere espresso
ai sensi dell’art. 23 del Codice della privacy.
Danni in materia civile - Immagine - Dato personale - Utilizzazione non autorizzata - Prova liberatoria - Risarcimento del danno non patrimoniale.
(c.c. artt. 10, 2043, 2059; Legge 22 aprile 1941, n. 633, art. 96; d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15)
Anche il risarcimento del danno non patrimoniale (disciplinato dall’art. 15, comma 2, del Codice della privacy) va riconosciuto tutte le volte in cui il responsabile della violazione non ha provato di aver adottato
tutte le misure idonee ad evitarlo (per come prescritto dall’art. 15, comma 1, per il danno patrimoniale).
Svolgimento del processo
... Omissis ...
Motivi della decisione
La domanda attorea appare fondata, essendo incontrovertibile come la pubblicazione del B. sia avvenuta in
mancanza di consenso.
Né appare in alcun modo ravvisabile alcuna delle fattispecie di libera utilizzazione dell’immagine altrui anche
in mancanza di consenso previste dalla legge sul diritto
d’autore, segnatamente quella - allegata dalla convenuta
- secondo cui la liceità della pubblicazione della foto sarebbe correlata al fatto che la stessa venne scattata in occasione di «fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse
pubblico o svoltisi in pubblico».
Presupposto logico indefettibile affinché venga in consiNota:
(*) La presente nota riproduce un’analoga riflessione pubblicata in Temi
romana, 2004, 277 ss.
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derazione tale ipotesi è che non soltanto l’immagine sia
stata ripresa in una di tali occasioni o contesti, ma che vi
sia un nesso di pertinenza attuale tra la diffusione dell’immagine e l’evento nell’ambito del quale la stessa
venne scattata. L’interesse sociale alla conoscenza del
fatto svoltosi in pubblico deve non soltanto sussistere al
momento della fissazione dell’immagine, ma anche seguire tutto l’arco temporale di divulgazione di essa, connotando, sia pure in versione rievocativa dell’evento iniziale, tutti i successivi episodi di riproduzione; ne consegue che non si ricade nell’ipotesi eccezionale - tassativa
e di stretta interpretazione - ogni qualvolta l’immagine,
quantunque ripresa in connessione ad un evento pubblico, sia diffusa in un ambito divulgativo del tutto estraneo
al medesimo.
Nel caso di specie è palese come non vi sia collegamento alcuno tra l’articolo - concernente la TV via satellite
ed illustrativo delle varie offerte di canali sia «in analogico» che «in digitale» - e l’immagine del B., ripresa nell’ambito dei campionati mondiali di calcio avvenuti nel
1994 negli USA, derivandone, anche a prescindere dalla avvenuta manipolazione della foto, l’inconfigurabilità
dell’ipotesi di libera utilizzazione del ritratto ravvisata
dalla convenuta.
Prevede in proposito l’art. 10 c.c. che «qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli
sia stata esposta o pubblicata fuori del caso in cui l’esposizione o pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero
con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso,
slavo il risarcimento del danno».
Deriva, dunque, da tali norme che per pubblicare o
esporre l’immagine di una persona occorre in via generale il suo consenso e che, in mancanza dello stesso e fuori dalle ipotesi previste dall’art. 97 Legge Autore, l’interessato che abbia visto pubblicare o esporre la sua immagine possa ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere la
cessazione del comportamento lesivo ed il risarcimento
del danno.
L’art. 23 del decreto legislativo 30/6/2003, n. 196 («Codice in materia di protezione dei dati personali») - che
ha abrogato e sostituito le analoghe disposizioni contenute nella legge 675/96 - ha inoltre introdotto il principio secondo cui il consenso alla pubblicazione di propri
dati personali (nel novero dei quali rientra senz’altro, costituendone addirittura una delle espressioni più rilevanti, il ritratto) debba essere espresso, non potendo neppure farsi ulteriormente riferimento alla giurisprudenza formatasi antecedentemente con riferimento al cosiddetto
consenso implicito o tacito, tale intendendosi la volontaria sottoposizione ad un servizio fotografico, presuntivamente destinato, per le modalità stesse delle riprese,
alla successiva diffusione e pubblicazione (criterio dell’uso prevedibile; cfr. per tutte Cass. 5175 del 10/6/1997).
Essendo incontestata l’assenza del consenso espresso da
parte del B. alla pubblicazione del proprio ritratto, deve
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ritenersi nella specie senz’altro verificato un illecito di
natura extracontrattuale sulla base del combinato disposto degli artt. 96 Legge Autore e 2050 (richiamato dall’art. 15, comma 1, d.lgs. 196/2003), senz’altro ascrivibile alla convenuta che ha provveduto alla pubblicazione
sul proprio giornale sulla base di un atteggiamento psicologico colposo, senza dare dimostrazione alcuna di
avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Venendo alla determinazione del danno risarcibile, rileva il giudicante come in linea generale la lesione del diritto all’immagine involga unicamente il risarcimento
del danno ex art. 2050 e non anche ex art. 2059 c.c., in
assenza di ipotesi di reato (cfr. Cass. 5790/1979), danno
peraltro che non può ritenersi automaticamente risarcibile, ma che dev’essere provato secondo le regole ordinarie (per l’insussistenza del danno in re ipsa vedi Cass.
4366/2003).
Rileva peraltro il giudicante come il sopra citato Codice
abbia introdotto - all’art. 15, sostitutivo dell’art. 29 legge
675/1996 - la possibilità di risarcire il danno non patrimoniale «anche nei casi di violazione dell’art. 11 del medesimo decreto» (ove si prevede, tra l’altro, che i dati
personali debbano essere trattati «in modo lecito e secondo correttezza»). Ne deriva che sotto tale profilo può
dirsi risarcibile anche il danno non patrimoniale derivante dalla illecita riproduzione dell’immagine altrui, tale illiceità dovendo giudicarsi concretata sia con riferimento alla mancanza di consenso ed all’assenza delle
eventuali condizioni che consentano di prescindervi
dettate dalla medesima legge, sia con riguardo alla violazione del diritto all’immagine ex art. 96 Legge Autore.
Tanto premesso, la domanda risarcitoria avanzata dal B.
appare accoglibile sotto il dedotto profilo del danno non
patrimoniale, rilevandosi come, in assenza di oggettivi
riscontri rilevanti sotto il profilo patrimoniale, non possa pervenirsi ad una liquidazione di tale voce di danno
neppure in via equitativa.
Venendo, invece, alla determinazione del danno non
patrimoniale, lo stesso va equitativamente liquidato avuto riguardo della concreta entità del fatto, alla avvenuta contraffazione della foto ed alla entità del petitum
doloris verosimilmente risentito - nella misura di Euro
4.000,00, con gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al soddisfo.
Non appare viceversa accoglibile la domanda di condanna della controparte alla pubblicazione di «una lettera aperta di scuse», trattandosi di un facere chiaramente inesigibile in via coattiva.
Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza e si
liquidano come in dispositivo.
... Omissis...
GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
IL COMMENTO
di Bruno Tassone
Ove l’immagine (di una persona non nota) sia stata ripresa durante una manifestazione sportiva e sia successivamente diffusa senza che vi sia alcun nesso di
pertinenza rispetto all’evento, vengono integrati gli
estremi della violazione non solo del diritto all’immagine di matrice codicistica, ma pure (secondo la sentenza oggetto del commento) del diritto alla privacy,
essendo il ritratto di un soggetto da considerarsi a tutti gli effetti quale dato personale. Ma se si interpreta
in tal modo la disciplina inerente il diritto da ultimo
menzionato, prima ancora che rispetto alle singole
questioni che sorgono in materia di diritto all’immagine, occorre porsi una serie di interrogativi sul ruolo del
Codice della Privacy, sulla sua testuale ed in parte ineludibile pervasività, sugli scenari futuri - relativi ai diritti della personalità - che esso lascia intravedere.
1941, n. 633) detta agli artt. 96 e 97 alcune disposizioni che
integrano la disciplina codicistica del diritto all’immagine,
chiarendo che il ritratto altrui non può essere «esposto, riprodotto o messo in commercio» senza il consenso dell’interessato, a meno che non ricorra una delle ‘esimenti’ di cui
al secondo dei due articoli appena citati, a tenore del quale
la riproduzione dell’immagine può essere giustificata «dalla
notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di
giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti,
cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico»
(purché l’esposizione o messa in commercio dell’immagine
non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche
al decoro nella persona ritrattata) (1).
La convenuta afferma appunto che la pubblicazione
della predetta fotografia è lecita in quanto la stessa è stata
scattata nel corso di eventi riconducibili all’ultima parte
della disposizione, ma il tribunale capitolino è di contrario
avviso. Al riguardo, il giudice rileva che «presupposto logico indefettibile affinché venga in considerazione tale ipotesi è che non soltanto l’immagine sia stata ripresa in una di
tali occasioni o contesti, ma che vi sia un nesso di pertinenza attuale tra la diffusione dell’immagine e l’evento nell’ambito del quale la stessa venne scattata». In effetti - precisa ancora il Tribunale - «l’interesse sociale alla conoscenza del fatto svoltosi in pubblico deve non soltanto sussistere al momento della fissazione dell’immagine, ma anche seguire tutto l’arco temporale di divulgazione di essa, connotando, sia pure in versione rievocativa dell’evento iniziale,
tutti i successivi episodi di riproduzione» (2).
Come dire - in sostanza - che una cosa è usare l’immagine della mascotte (senza il suo consenso) all’interno di un
Sebbene attraverso una motivazione (decisamente
troppo) stringata, la sentenza che si commenta tocca profili della tutela dei diritti della personalità oltremodo delicati e problematici, con particolare riguardo ad alcuni - per
certi versi insospettati - punti di intersezione fra la protezione dell’immagine di stampo codicistico e quella del diritto alla privacy.
Prima di addentrarci nelle fitte maglie dei problemi
evocati, la lineare fattispecie concreta. Nel corso dei mondiali di calcio del 1994, l’attore viene ripreso e fotografato (in
numerose occasioni ufficiali) nella sua qualità di mascotte
della nazionale di calcio italiana mentre indossa un costume
tipico e si destreggia nell’uso di due piatti (da musica). A cinque anni di distanza una delle immagini scattate durante le
competizioni nordamericane viene pubblicata sul mensile
«Satellite» - del quale la convenuta è editrice - accanto ad un
articolo dal titolo «L’Italia in chiaro» ed in versione contraffatta, dato che al posto dei predetti strumenti musicali nelle
mani dell’attore si trovano due parabole satellitari. Il tutto
avviene senza che sia stato ottenuto il consenso dell’effigiato
e di qui la sua azione risarcitoria, la quale si appunta sia sulla
lesione del diritto all’immagine che su quella della privacy.
La convenuta si costituisce in giudizio eccependo la ricorrenza delle esimenti di cui all’art. 97 l.a., l’insussistenza
di un pregiudizio all’onore e alla reputazione dell’attore,
nonché la non riconducibilità dell’immagine fra i dati personali tutelati dalla legge 675/1996.
Proprio l’esame delle difese della convenuta consente,
per un verso, di ripercorrere l’iter motivazionale seguito dal
giudice e, per l’altro, di meglio illustrare le complesse tematiche chiamate in causa dalla decisione de qua.
Note:
1. Sulla ‘esimente’ di cui all’art. 97 l.a.
e sui limiti del consenso di cui all’art. 96 l.a.
(2) Nel medesimo senso, Trib. Torino 2 marzo 2000, in Resp. civ. prev.,
2001, 174, nonché Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, in Foro it., 1987, I, 889,
relativa al noto caso del tifoso ripreso durante una partita di calcio in un
momento di grande apprensione e la cui immagine era stata poi - per sei
anni - usata nella sigla della popolare rubrica televisiva «90° minuto».
Com’è noto, la legge sul diritto d’autore (22 aprile
(1) Si tratta invero delle disposizioni alle quali implicitamente rinvia
l’art. 10 c.c. nello stabilire che «qualora l’immagine di una persona [...] sia
stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona […], l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni».
Per completezza, vanno altresì ricordate le varie ipotesi contemplate dalla disposizione di cui all’art. 21 l. marchi (r.d. 21 giugno 1942, n. 929) con
riguardo alla necessarietà del consenso del titolare del diritto (o dei suoi
eredi o parenti) nel caso in cui si vogliano registrare come marchio il nome o il ritratto di una persona; rilevando, tuttavia, che la disposizione è
stata rimpiazzata dall’art. 8 del Codice della Proprietà Industriale (d.lgs.
30/2005), il cui comma 1 stabilisce che «I ritratti di persone non possono essere registrati come marchi senza il consenso delle medesime e, dopo la loro morte, senza il consenso del coniuge e dei figli; in loro mancanza o dopo la loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti, e, in
mancanza o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso».
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servizio che si sofferma sulla competizione tenutasi negli
USA nel 1994 o che ripercorre la storia dei Campionati del
Mondo; altra cosa è utilizzare l’immagine scattata durante
quelle gare «in un ambito divulgativo del tutto estraneo» e
- si potrebbe aggiungere, con una notazione sulla quale si
dovrà ritornare - in un contesto in cui sembra venire in risalto un mero fine di lucro dell’utilizzazione, con conseguente insussistenza degli interessi informativi superindividuali che l’art. 97 l.a. vorrebbe tutelare (3).
Peraltro, in difetto di un chiaro accertamento dello
scopo appena menzionato - che dovrebbe togliere dal giro
ogni problema di ambito di utilizzazione - la fattispecie concreta indurrebbe a riconsiderare il tema della «decontestualizzazione» dell’uso dell’immagine, essendo ad esempio possibile chiedersi se non fosse lo stesso costume indossato dall’effigiato (tale da renderlo volutamente un ‘simbolo’ di quei
Mondiali) a determinare di per sé il contesto del ritratto e,
quindi, se ad essere oggetto di riproduzione non sia stata
l’immagine dell’attore ma (a ben vedere) l’evento (4).
Tuttavia, poiché l’interrogativo ci porterebbe inevitabilmente sul piano del conflitto fra diritti di foggia (o interpretazione) monopolistica ed usi consentiti (con connessa
considerazione dei costi transattivi legati all’interpretazione
delle esimenti di cui all’art. 97 l.a.), sullo stesso non ci si può
soffermare in questa sede e mette conto procedere oltre.
A prescindere dall’applicabilità della esimente di cui
si discorre, altro interrogativo riguarda poi l’eventualità che
sia la stessa ‘volontaria esposizione’ dell’attore a poter giustificare l’uso del suo ritratto, essendo lecito domandarsi se
non si possa rinvenire nella consapevole decisione di assumere un ruolo che lo avrebbe portato sotto riflettori dei media di mezzo mondo un elemento dal quale dedurre la sussistenza del consenso richiesto dall’art. 96 l.a. (5).
In effetti, secondo quanto ha precisato la giurisprudenza, nella materia di cui si tratta un ruolo lo gioca pure il
criterio dell’uso prevedibile, in base al quale (nella decisione della Suprema Corte richiamata dal Tribunale capitolino) si è affermato che «sottoporsi spontaneamente ad una
serie di fotografie presso un’agenzia fotografica (al di fuori di
una specifica commissione) implica, in generale, un consenso tacito alla diffusione della propria immagine» (6). Ed
il criterio, evidentemente, può avere un peso anche per vagliare la consapevole e volontaria partecipazione ad eventi
di rilievo pubblico. In sostanza, sebbene nel caso di specie
non sia stata utilizzata l’immagine di un personaggio (di per
sé) famoso e non si pongano i delicati problemi connessi al
rapporto fra il c.d. right of publicity e le esimenti di cui all’art.
97 l.a. (ed al difficile bilanciamento fra diritto all’immagine
della persona nota e diritto all’informazione), dalla stessa
condotta dell’attore si potrebbe desumere un’autorizzazione
all’uso della sua immagine (7).
Note:
(3) In effetti, secondo quanto si evince dalla decisione in commento, il
servizio al quale la foto era accostata mirava sostanzialmente ad illustrare
le offerte di determinati canali in analogico e digitale, e non ad informare il pubblico su un determinato evento.
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(4) Sul problema in questione Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, cit., nonché
la nota redazionale che l’accompagna, ove ampia citazione dei precedenti sul punto.
(5) In tal modo ci si sposta dall’orbita dell’art. 97 in quella dell’art. 96, in
quanto il fondamento della esimente di cui alla prima disposizione non
ha evidentemente carattere ‘consensualistico’ ed è, invece, da rinvenire
nella ricorrenza di un interesse superindividuale che comporta la compressione di quello del titolare dell’immagine (la quale opera a prescindere dall’opposizione o dal gradimento che il ritrattato manifesti rispetto alla diffusione della sua effige). Nel senso che «le ipotesi previste nell’art.
97 della l. 22 aprile 1941 n. 633 sul diritto d’autore, nelle quali l’immagine della persona ritratta può essere riprodotta senza il consenso della persona stessa, sono giustificate dall’interesse pubblico all’informazione»,
Cass. 28 marzo 1990, n. 2527, in Giust. civ., 1990, I, 2369, con nota di A.
Marini, Da Sofia Loren a Stefania Sandrelli: evoluzione o involuzione della
giurisprudenza?, la quale specifica anche che le stesse «avendo carattere
derogatorio del diritto all’immagine, sono di stretta interpretazione». Su
tale ultimo profilo, si vedano altresì Trib. Firenze 13 maggio 1996, in Foro it., Rep. 1997, voce Persona fisica, n. 89; Trib. Roma 22 dicembre 1994,
id., 1995, I, 2285; Cass. 6 febbraio 1993, n. 1503, id., I, 1617; Trib. Roma
11 giugno 1991, id., 1992, I, 1957, con osservazioni di M. Chiarolla; Cass.
2 maggio 1991, n. 4785, id., 1992, I, 831, con nota di M. Chiarolla, Alla
scoperta dell’America, ovvero: dal diritto all’immagine al «right of publicity»;
App. Roma 8 settembre 1986, id., 1987, I, 919, con nota di R. Moccia;
Cass. 15 marzo 1986, n. 1763, cit.; Cass. 10 novembre 1979, n. 5790, id.,
1980, I, 81, con nota di R. Pardolesi.
(6) Così Cass. 10 giugno 1997, n. 5175, in Foro it., 1997, I, 2920, con osservazioni di M. Chiarolla. Sul criterio dell’uso prevedibile si veda anche
Pret. Roma 16 giugno 1990, in Foro it., 1992, 1958, con osservazioni di
M. Chiarolla.
(7) Con riguardo al right of publicity - rimanendo necessariamente sul filo
dell’accenno -, ci si può limitare a ricordare che, tutelato inizialmente solo quale diritto della personalità, il diritto all’immagine ha nel tempo visto ampliarsi la sua operatività grazie ai contributi del formante giurisprudenziale e dottrinale, i quali si sono preoccupati di tutelare dallo sfruttamento abusivo ad opera di terzi l’immagine pubblica di personaggi famosi anche dal punto di vista patrimoniale. A tal fine si sono prese le mosse
dalla disciplina codicistica e da quella della l.a. cercando di offrirne un’interpretazione estensiva e volta a discernere un profilo negativo preordinato alla salvaguardia dei beni ‘personali’ del titolare del diritto ed uno
positivo volto a consentire uno sfruttamento economico del ritratto. Alla fine di un percorso concettuale che ha seguito diverse strade (anche
‘secondarie’ e non ripercorribili nell’economia di queste brevi note), con
l’avallo della Suprema Corte (Cass. 2 maggio 1991, n. 4785, cit.) si è infine configurata l’esistenza di un vero e proprio property right sull’immagine, cioè un diritto avente ad oggetto (se si accetta la contaminazione semantica di recente proposta) una new res assimilabile per molti versi ai diritti posti a tutela della proprietà intellettuale, tendenzialmente attribuito solo alle persone dotate di una certa notorietà. In buona sostanza, attraverso la costruzione di cui si tratta ciò che si assume esser leso non è il
diritto che ha il personaggio noto (così come chiunque altro ed indipendentemente dalla sua fama) a non vedere riprodotti il proprio nome e la
propria immagine - al fine di «proteggere l’interesse di questi alla non conoscenza altrui (in forma diffusa) o, se si preferisce, alla non-pubblicità o
non-circolazione delle proprie fattezze fissate in un ritratto» (Cass. 15
marzo 1986, n. 1763, cit.) -, ma un diritto patrimoniale assoluto sulla propria immagine. Proprio per questa via (anche alla luce dell’evoluzione
mediale dell’ultimo cinquantennio e del progressivo ampliarsi dell’importanza del mercato pubblicitario) dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto come autonomamente tutelabile il valore economico, spesso ingente, del diritto de quo, prendendosi a prestito dai Paesi di Common Law
anche il nomen del nuovo ius excludendi alios (per vari riferimenti al riguardo, sia consentito il rinvio a B. Tassone, La parabola del diritto all’immagine: dal right of publicity al risarcimento del danno non patrimoniale, nota a Trib. Tortona 24 novembre 2003, in questa Rivista, 2004, 540 ss.).
Con riguardo al bilanciamento fra il diritto all’immagine e quello all’informazione, va rilevato che attraverso il riconoscimento del right of publicity si vuole proprio evitare che la diffusione dell’immagine si giustifichi
automaticamente in ragione della stessa notorietà della persona effigiata,
(segue)
GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
L’argomento de quo - già considerando l’elaborazione
tradizionale intervenuta in materia di diritto all’immagine
- si rivela tuttavia debole.
Infatti, se per un verso è rimasta isolata la tesi (formulata da non recente ed autorevole dottrina intervenuta in materia di diritto d’autore) secondo cui il consenso prestato dal
titolare del diritto all’immagine deve essere necessariamente
provato per iscritto, lo stesso è in ogni caso assoggettato a
precise limitazioni (8). Al riguardo, la giurisprudenza ha in
varie occasioni chiarito che il consenso prestato dal titolare
del diritto all’immagine al fine di consentire l’uso da parte di
terzi - seppur non assoggettato a forme sacramentali e suscettibile di essere manifestato in via implicita - rende quell’uso legittimo purché esso si mantenga all’interno dei «rigorosi limiti soggettivi ed oggettivi» entro cui il consenso è stato prestato (9); con la conseguenza che, ove venga autorizzato un determinato uso dell’immagine, questa non può essere impiegata in modo differente, come si è avuto modo di
precisare in vari casi concernenti fotografie o fotogrammi il
cui uso è avvenuto al di fuori dei limiti desumibili dal consenso del titolare del diritto (10). In sostanza, ogni singola ed
eventuale prestazione del consenso alla riproduzione di proprie immagini in un determinato ambito o contesto, ovvero
da parte di determinati soggetti, non può valere a rendere lecita la riproduzione delle stesse immagini in un contesto affatto diverso e soprattutto quando la diversa riproduzione
corrisponda ad un’operazione «contraddistinta da un’autonoma rilevanza economica» e che costituisca un «fatto commerciale a sé stante»; con la precisazione che, «nell’ipotesi di
autorizzazione all’uso dell’immagine, i limiti dell’utilizzazione devono essere ricavati dallo stesso atto di disposizione del
diritto posto in essere dall’interessato e la divulgazione deve
considerarsi lecita soltanto quando corrisponda alle condizioni di tempo e di luogo, alla finalità, alle forme e alle modalità per le quali il consenso è stato prestato» (11).
Infine, venendo al profilo inerente la «contraffazione», nonostante la terminologia usata per descrivere l’operazione compiuta sull’immagine dell’attore rievochi la tipica violazione dei diritti d’autore (e della proprietà intellettuale), nel caso di specie non vengono evidentemente in
considerazione le disposizioni che proteggono l’opera fotografica (art. 2, n. 7, l.a.) ovvero che stabiliscono un equo
compenso per l’uso della semplice fotografia (art. 87 ss. l.a.)
(12). Tuttavia, l’alterazione dell’immagine a suo tempo fissata costituisce certamente elemento che incide sulla determinazione della (in)sussistenza del consenso all’uso del
proprio ritratto.
Note:
(segue nota 7)
con la conseguenza che - ove essa non si riferisca in modo diretto ed immediato alle circostanze ed all’attività che rendono la persona ritratta nota al pubblico - l’uso si ritiene illegittimo (soprattutto quando è proprio la
notorietà ad essere sfruttata commercialmente). Ovviamente, è l’interprete a dover valutare, caso per caso, se ed in che misura una determinata diffusione dell’immagine abbia come scopo principale quello di informare il pubblico - anche solo soddisfacendone la curiosità nei confronti
dei vip - ovvero quello di ottenere esclusivamente dei guadagni, grazie al
richiamo esercitato sul pubblico stesso dall’immagine utilizzata. E va da sé
che il bilanciamento di interessi non è sempre agevole, soprattutto in
quei casi in cui il diritto all’immagine si scontra con il diritto all’informazione e, comunque, quando entrambi i profili si possono rinvenire nell’operazione portata avanti dal terzo.
(8) Ipotizza che il consenso all’uso dell’immagine possa (dover) essere
provato solo per iscritto in forza dell’art. 110 legge 633/41 in ragione delle evidenti analogie fra il diritto della personalità di cui si tratta e i diritti
di utilizzazione delle opere dell’ingegno, nonché sulla base della qualificazione del primo quale «diritto connesso con il diritto d’autore» ai sensi
dell’art. 107 l.a., Val. De Sanctis, Autore (diritti connessi), in Enc. dir.,
1959, 4, 437. Premesso che la giurisprudenza maggioritaria non accoglie
tale tesi, se ne può trovare forse una eco in Trib. Roma 7 ottobre 1988, in
Giust. civ., 1989, I, 1243, secondo la quale anche quando «non è dubbio
che vi fu l’originario consenso» del titolare del diritto all’immagine, l’uso
fatto da terzi non è comunque lecito perché «non risultano [...] pattuizioni scritte al riguardo e, quindi, si dovrebbe desumere aliunde il consenso
così ampio da valere nell’arco di molti anni e per un diverso ambito di situazioni soggettive e oggettive».
(9) Sul punto, si veda Trib. Roma 7 ottobre 1988, cit. secondo cui «il
consenso idoneo a far venir meno l’illiceità della divulgazione del ritratto
di una persona, può anche essere implicito. Poiché si tratta di un diritto
della personalità, si deve sottolineare che l’efficacia del consenso deve essere contenuta entro il rigoroso ambito della prestazione, nei limiti in cui
il consenso stesso fu dato (limite oggettivo della diffusione) e con riguardo esclusivo al soggetto o ai soggetti nei cui confronti fu prestato (limite
soggettivo)». Si vedano anche Trib. Roma 2 novembre 1994, in Corr.
giur., 1995, 975, con nota di A. Barenghi, In tema di tutela inibitoria del diritto all’immagine; Trib. Torino 14 marzo 1992, in Impresa, 1992, 1770;
Trib. Monza 26 marzo 1990, e Pret. Milano 19 dicembre 1989, entrambe
in Foro it., 1991, I, 2861 ss., con nota di O. Troiano.
In senso contrario, tuttavia, Pret. Roma 16 giugno 1990, cit., secondo cui
«se il limite del consenso non risulta esplicitamente, l’autorizzazione prestata dall’interessato alla divulgazione della propria immagine, ove non
sia in concreto limitata nel tempo o comunque sottoposta a vincoli, deve
intendersi prestata illimitatamente e subordinata solo al criterio del c.d.
uso prevedibile».
(10) Si vedano, fra le tante, Cass. 10 giugno 1997, n. 5175, cit.; Trib. Torino 14 marzo 1992, cit.; Cass. 28 marzo 1990, n. 2527, cit.; Pret. Milano
19 dicembre 1989, cit.; App. Roma 8 settembre 1986, cit., e Pret. Roma
2 gennaio 1985, in Giur. it., 1985, I, 2, 479 ss., con nota di A. Figone, Fotografando Sofia (sui limiti di compatibilità tra libertà di stampa e diritto all’immagine in relazione a personaggi noti al pubblico).
(11) Così, espressamente, App. Roma 8 settembre 1986, cit. Si veda anche Trib. Roma 2 novembre 1994, cit., secondo cui «in tale particolare
materia [...] la valutazione della volontà delle parti, e in particolare della
volontà della persona ritratta, deve condursi con la necessaria prudenza».
Inoltre, richiamando quanto detto nel testo in ordine al contesto in cui è
stato divulgato il ritratto dell’attore, si può ricordare che la necessarietà di
uno specifico consenso ai fini dell’uso commerciale dell’immagine da parte di terzi (diversi da coloro che hanno fissato l’immagine medesima)
emerge pure a seguito della attenta esegesi che la giurisprudenza ha fornito nell’illustrare il rapporto fra le ‘esimenti’ previste dalle due disposizioni
di cui si tratta. In effetti, in ragione della diversa formulazione con la quale gli artt. 96 e 97 fanno riferimento all’uso dell’immagine altrui, la giurisprudenza ha precisato che «fra le ragioni o finalità che possono giustificare la pubblicazione, senza consenso, dell’immagine di una persona nota non rientra il fine pubblicitario di prodotti di terzi, che è fine di lucro
[...]. A sostegno di ciò va per inciso rilevato anche il dato letterale emergente dal raffronto tra l’art. 96, in cui si vieta di «esporre, riprodurre o
mettere in commercio» il ritratto senza il consenso di questa salvo la disposizione dell’articolo seguente, e l’art. 97, in cui soltanto la «riproduzione», e non anche il «mettere in commercio» (chiaramente avente finalità lucrative), è l’attività che può essere giustificata nelle ipotesi ivi descritte anche senza il consenso della persona ritratta» (Trib. Roma 11 giugno 1991, cit.).
(12) Per un caso recente, in cui si controverteva dell’illegittimo utilizzo
di una fotografia scattata durante il processo agli imputati dell’omicidio di
Marta Russo, Trib. Roma 4 aprile 2003, in Dir. inf., 2004, 275 ss.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
Dunque, con la riserva sopra espressa in ordine al problema della «contestualizzazione» e solo continuando a dare (forzatamente) per buona l’impossibilità di ritenere che
fosse la stessa immagine dell’attore a recare con sé l’ambito
di fissazione (e, quindi, di sua legittima utilizzazione), gli
orientamenti sinteticamente richiamati portano ad affermare l’insussistenza dell’autorizzazione all’uso del ritratto
fatto dalla convenuta.
Infatti, anche a rinvenire nell’esposizione al pubblico
dell’attore un’implicita manifestazione dell’assenso dell’attore, la stessa va ricostruita simmetricamente a quanto visto per il «nesso di pertinenza» che deve sussistere fra la ripresa dell’immagine in occasione di «fatti, avvenimenti,
cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico» e la
sua riproduzione, con la conseguenza che - se quel nesso appunto si esclude - un impiego totalmente scisso dal contesto in cui il ritrattato si è lasciato riprendere si pone al di
fuori dell’autorizzazione (implicitamente) data dal titolare
del diritto all’immagine.
Peraltro, nel sancire definitivamente l’illegittimità
della condotta della convenuta, il giudice afferma che nel
caso di specie il consenso sarebbe dovuto essere espresso,
non potendosi richiamare la «giurisprudenza formatasi antecedentemente con riferimento al cosiddetto consenso
implicito o tacito, tale intendendosi la volontaria sottoposizione ad un servizio fotografico presuntivamente destinato, per le modalità stesse delle riprese, alla successiva diffusione e pubblicazione» (13).
Proprio tale passaggio motivazionale ci porta alla parte più problematica ed interessante della decisione.
2. L’immagine come dato personale:
in principio era il Codice. Ma quale dei due?
Come si è detto in apertura, il ritrattato non lamenta
solo la lesione dell’immagine, ma pure quella della privacy,
invocando la violazione della legge 675/1996, poi abrogata
e sostituita dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice
della privacy).
Nel ritenere fondata la domanda attorea, il giudice afferma in primo luogo che anche l’immagine rientra fra i dati personali protetti dalla citata normativa - costituendone
anzi «una delle espressioni più rilevanti» - e ponendosi così in linea con almeno un paio di precedenti (14). In tal
modo, con una motivazione nemmeno lontanamente appropriata, si pronuncia una statuizione gravida di conseguenze, spianando la strada all’applicazione della regolamentazione di cui sopra e portando a liquidare il danno subito dall’attore secondo le regole proprie del sotto-sistema
di responsabilità aquiliana elaborato nell’ambito della tutela del diritto alla privacy.
Prima di svolgere qualche riflessione sul punto - che
definire un ‘nodo’ dei diritti della personalità vuol dire peccare certamente per difetto - vediamo come prosegue la
parte motiva.
Una volta ricondotto l’uso non autorizzato dell’immagine alla citata normativa, il giudice spiega che «deve ritenersi nella specie senz’altro verificato un illecito di natura
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extracontrattuale sulla base del combinato disposto degli
artt. 96 L. Autore e 2050 (richiamato dall’art. 15, comma
I, D.Lgs. 196/2003), senz’altro ascrivibile alla convenuta
che ha provveduto alla pubblicazione sul proprio giornale
[...] senza dare dimostrazione alcuna di avere adottato tutte
le misure idonee ad evitare il danno». Inoltre - con altra
statuizione assai rilevante per la materia de qua -, immediatamente dopo si precisa per un verso come «in linea generale la lesione del diritto all’immagine involga unicamente
il risarcimento del danno ex art. 2050 e non anche ex art.
2059 c.c. [...] che non può ritenersi automaticamente risarcibile, ma che dev’essere provato secondo le regole ordinarie, [non potendosi ritenere tale] danno in re ipsa». Ma per
l’altro si rileva «come il sopra citato Codice abbia introdotto - all’art. 15, sostitutivo dell’art. 29 L. 675/1996 - la
possibilità di risarcire il danno non patrimoniale «anche
nei casi di violazione dell’art. 11 del medesimo decreto»
[...] Ne deriva che sotto tale profilo può dirsi risarcibile anche il danno non patrimoniale derivante dalla illecita riproduzione dell’immagine altrui, tale illiceità dovendo giudicarsi concretata sia con riferimento alla mancanza di
consenso ed all’assenza delle eventuali condizioni che consentano di prescindervi dettate dalla medesima legge, sia
con riguardo alla violazione del diritto all’immagine ex art.
96 L. Autore».
I dicta del Tribunale capitolino - basati su un’applicazione della normativa posta a tutela della privacy del tutto
acritica - sono forieri di notevoli implicazioni. Vediamone
due.
In primo luogo, l’operazione ricostruttiva compiuta
dal giudice porta a richiedere che il consenso all’utilizzo
Note:
(13) Nel medesimo senso della decisione in commento, Trib. Roma 28
febbraio 2003, in Dir. inf., 2003, 534. La dichiarata insussistenza degli
estremi della ‘esimente’ in parola determina ovviamente il rigetto per ‘assorbimento’ dell’eccezione della convenuta basata sul comma 2 dell’art.
97 l.a., perché è ovvio che quando l’uso dell’immagine è già di per sé illecito in quanto non giustificato dagli interessi superindividuali di cui al
comma 1 dell’articolo, non rileva la mancata lesione dell’onore, della reputazione o del decoro dell’effigiato.
(14) Si veda Trib. Milano 9 gennaio 2004, in questa Rivista, 2005, 91 ss.,
con nota di D. Covucci, in cui si richiama «la prospettiva offerta dagli
artt. 9 e 29 ultimo comma legge 975/1996» ed in cui si liquida all’attrice
a titolo di danno non patrimoniale un somma identica a quella determinata dalla pronuncia in commento (utilizzando indici assai simili, sui
quali non ci si può soffermare in questa sede), senza tuttavia approfondire le relazioni fra danno all’immagine e violazione della privacy. Altra decisione di rilievo è Trib. Roma 28 febbraio 2003, cit., ove si afferma che
«La fotografia in quanto riproduttiva della propria immagine rientra indubbiamente in quella nozione di dato personale fornita dall’art. 1 lett.
C) della legge». Per la prima decisione che riconosce il risarcimento del
danno morale in dipendenza della lesione del diritto al trattamento dei
dati personali (in ragione della pubblicazione dell’indirizzo del domicilio
di un soggetto su un quotidiano), Trib. Milano 13 aprile 2000, in Foro it.,
2000, I, 3004, mentre, per due decisioni concernenti violazioni perpetrate al di fuori dell’esercizio di attività giornalistica (sulla quale infra nel testo), Trib. Orvieto 25 novembre 2002, in questa Rivista, 2003, 281, con
nota di E. Pellecchia, Indagini sulla solvibilità e violazione delle regole sul trattamento dei dati personali, e Trib. Milano 8 agosto 2003, id., 2004, 303, con
nota di S. di Paola, Responsabilità del professionista per comunicazione ‘indebita’ di dati relativi alla stato di salute.
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dell’immagine rispetti non solo o non tanto il disposto dell’art. 96 l.a., bensì le più stringenti prescrizioni richieste dall’art. 23 del Codice della privacy (consenso libero, specifico e documentato per iscritto) (15). Quindi, come emerge
chiaramente dalla motivazione, con un ‘colpo di spugna’ si
spazza via la sopra cennata elaborazione giurisprudenziale
inerente i limiti del consenso. Ed allora di fronte all’uso dell’immagine che segue ad un atto di disposizione non incorporato in un testo contrattuale o comunque in una ‘liberatoria’ (cosa frequente quando il titolare non è persona nota
ovvero quando i tempi dell’operazione durante la quale si
cattura il ritratto del soggetto non lo consentono), non è
più dato di desumere la prova e la sfera dell’autorizzazione
dal comportamento (cioè dall’atto di disposizione implicito) del titolare del diritto. Al riguardo, non ci vuole molto
a comprendere quale sia l’impatto della nuova regola in termini di costi transattivi (ed a ben vedere, pure di incertezza del diritto, in quanto la verifica dell’applicazione delle
formalità di cui all’art. 23 del Codice dipende dalla protezione che l’attore invoca nel proporre la domanda e che
non sempre - come dimostra la casistica post legge
675/1996 - si appunta anche sulla regolamentazione di cui
si discorre).
In secondo luogo, nel postulare che la diffusione non
autorizzata dell’immagine determini tout court la violazione
delle disposizioni di cui al d.lgs. 196/2003, il giudice capitolino non solo rende applicabile il particolare regime rimediale da esso approntato - che include, si badi, anche fattispecie penali -, ma prende posizione (nel segno della protezione più ‘spinta’ del titolare dei dati e perfino in assenza di
precedenti sul punto) su una questione che aveva acceso
numerosi dibattiti sotto il vigore della legge 675/1996; in
particolare, quella concernente la risarcibilità del danno
non patrimoniale ai sensi dell’art. 29, comma 9, mercé l’applicazione dell’inversione dell’onus probandi - evidentemente più favorevole al danneggiato - di cui all’art. 2050
c.c., testualmente richiamato dal solo art. 18 (16).
E veniamo, finalmente, al punto nodale. Siamo così
certi che, pur qualificando nominalisticamente come ‘di
settore’ la disciplina del d.lgs. 196/2003, ad essa si possa di
fatto consentire di costituire il nuovo statuto dei diritti della personalità? Che per quanto si discorra a parole di natura meramente procedimentale del diritto al trattamento dei
dati personali, non si possa far nulla per evitare la ‘fagocitazione’ della disciplina codicistica (la quale - con tutte le sue
mancanze - non merita certo di essere messa da parte a colpi di elenchi di definizioni onnicomprensive)? Che il gene
di quei diritti non si debba più trovare in una storia che risale almeno ai grandi Codici Civili, ma nell’improvviso risveglio del legislatore italiano che - di soprassalto - attua la
Direttiva 95/46/CE dando alla sua disciplina una portata
certamente più ampia (e dirompente) di quella prevista in
sede comunitaria (17)?
Gli interrogativi appena cennati si scaricano immediatamente sulla decisione in commento (la cui motivazione non è certo in grado di reggerli). Invero, proprio la fattispecie concreta sottoposta all’esame del giudice induce a
domandarsi se l’elaborazione compiuta rispetto alla ratio
della disciplina di origine comunitaria non debba portare a
rimeditare sull’ambito di applicazione del Codice della privacy, sì da evitare che il sotto-sistema di regole di responsabilità civile che esso appronta non si ritenga ex se applicabile in ogni ipotesi di uso dell’effigie altrui.
Peraltro, sebbene la sentenza faccia sorgere immediatamente il quesito solo rispetto al diritto all’immagine, lo
stesso si pone - ed in primo piano - con riguardo al rapporto fra la privacy e tutti gli altri diritti della personalità. La
ragione è presto detta: per quanto ci si armi di buona volontà e si cerchi di collocare l’interprete su traiettorie diverse da quelle suggerite dall’école de l’exégèse, le definizioni
della normativa di cui si tratta non lasciano scampo.
Così, in ordine alla nozione di «trattamento» è chiaro
Note:
(15) Invero, l’art. 23 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, dispone che «1. Il
trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato. 2. Il consenso può riguardare l’intero trattamento ovvero una o più operazioni
dello stesso. 3. Il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente
individuato, se è documentato per iscritto, e se sono state rese all’interessato le informazioni di cui all’articolo 13. 4. Il consenso è manifestato in
forma scritta quando il trattamento riguarda dati sensibili». Sulla disposizione in parola, G.M. Riccio, Ad artt. 23-27, in S. Sica e P. Stanzione (a
cura di), La nuova disciplina della privacy - D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196,
Bologna, 2004, 89 ss.
(16) L’art. 18 - epigrafato «Danni cagionati per effetto del trattamento di
dati personali» - disponeva che «chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi
dell’articolo 2050 del codice civile», menzionando quindi una disposizione che riguarda il solo danno patrimoniale senza far riferimento a quello
non patrimoniale. Il quale - per converso - era invece disciplinato dall’art.
29, comma 9, secondo il quale «il danno non patrimoniale è risarcibile
anche nei casi di violazione dell’articolo 9», senza alcun richiamo, diretto o indiretto, all’art. 18. Di qui il quesito inerente la risarcibilità anche
del danno non patrimoniale richiedendo che fosse il responsabile della
violazione a provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il
danno (sulla problematica in parola sotto il vigore della legge del 1996,
per tutti, V. Colonna, Il sistema della responsabilità civile da trattamento dei
dati personali, in R. Pardolesi (a cura di), Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati personali, II, Milano, 2003, 1 ss., in particolare 55 ss., ove ampi riferimenti alla dottrina intervenuta in materia).
Al riguardo, va rilevato che sebbene l’art. 15 del Codice della privacy offra spunti maggiori per affermare che danno patrimoniale e non patrimoniale debbano essere soggetti al medesimo regime probatorio, le indicazioni del nuovo testo non sono univoche ed il problema continua a porsi
agli interpreti. Infatti, l’art. 15 del Codice dispone che «1. Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto
al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile. 2. Il danno
non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’articolo
11». È evidente che già la contiguità fra i commi - rispetto alla distanza
fra i previgenti artt. 18 e 29 - è elemento che rende più agevole sostenere
la tesi dell’unicità del regime probatorio, anche se la conclusione non è
scontata (per l’unicità di regime, con ampia illustrazione delle argomentazioni delle opposte tesi e numerose citazioni dei contributi che hanno
affrontato il tema, F. Di Ciommo, Vecchio e nuovo in materia di danno non
patrimoniale da trattamento di dati personali, in questa Rivista, 2005, 817 ss.;
per una sintesi delle diverse posizioni, P. Recano, La responsabilità civile da
attività pericolose, Padova, 2001, 343 ss.).
(17) Per spunti fondamentali ai fini di una compiuta riflessione sui temi
evocati: A. Palmieri e R. Pardolesi, Protezione dei dati personali in Cassazione: eugenetica dei diritti della personalità? (nota a Cass. 30 giugno 2001,
n. 8889), in Foro it., 2001, I, 2448.
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che sia le ampie locuzioni impiegate dall’elenco offerto dall’art. 4 del Codice (18), sia il suo carattere - secondo alcuni
- non tassativo (19), inducono a far rientrare sostanzialmente ogni uso dell’immagine all’interno dell’attività disciplinata dal Codice.
Né molte chances in più le dà la nozione di dato personale, anche se l’immagine non è specificamente menzionata dal legislatore. Per vero, la nozione usata dal Codice per
definire il «dato» oggetto del «trattamento» è assai ampia
(20), prendendo la stessa le mosse dall’onnicomprensivo
concetto di «informazione» (21). Inoltre, diversi considerando della Direttiva 95/46/CE (in particolare il 14°) intendono propiziare un’applicazione della sua disciplina proprio alle immagini (22), anche se con qualche incertezza
desumibile dal rinvio finale alla periodica relazione della
Commissione (con eventuali proposte di modifica della disciplina) (23). Peraltro, pone un interrogativo (non da poco) il requisito della idoneità del dato ad «identificare» la
persona, in relazione al quale diverse posizioni sono state
già manifestate sotto il vigore della precedente normativa.
Esso, infatti, induce a chiedersi se si possa non fare di tutta
l’erba un fascio e, quindi, se l’immagine di un soggetto possa considerarsi esclusa dal novero dei dati personali ove
non accompagnata da (altri) dati e circostanze che consentano l’attribuzione di un nome ed un cognome al ritratto
chissà dove carpito (24). L’opera in realtà non è affatto agevole - o forse è impossibile (25) - perché in tal modo il dato personale-immagine diverrebbe ‘relazionale’, cioè dipenderebbe dal possesso di altri dati e/o di adeguati mezzi in capo a chi la usa (26). Ma, se non altro, essa apre la via per ritornare sulla distinzione (spesso lasciata in ombra) fra right
to be let alone ed informational privacy, fra diritto alla riservatezza e diritto al controllo della circolazione dei propri dati.
Si è allora costretti a riconsiderare gli interrogativi sorti sotto il vigore della precedente normativa e che gli artt. 1
e 2 del Codice della privacy ripropongono ed ulteriormente stimolano con il nuovo e stentoreo riconoscimento del
«diritto al trattamento dei dati personali». E quindi a chiedersi se il diritto in questione «viva di luce propria» o se vaNote:
(18) Al riguardo, senza significative innovazioni rispetto alla legge
675/1996 (con l’eccezione del riferimento alle banche dati posto alla fine
della disposizione), l’art. 4, lett. a), del Codice stabilisce che si intende per
trattamento «qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati
anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la
registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo,
l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati».
(19) Sul carattere non tassativo dell’elencazione, in armonia con la Direttiva 95/46/CE del 24 ottobre 1995, S. Sica, Ad artt. 1-6, in Sica e Stanzione, La nuova disciplina cit., 16.
(20) Con la precisazione che nell’accezione adottata dalla normativa de
qua l’informazione deve ovviamente riferirsi ai soggetti tutelati, va ricordato che la portata del termine «informazione» è in sé assai ampia, indicando lo stesso «tutto ciò a cui l’uomo attribuisce un determinato significato» (si veda, sul punto, V. Zeno Zencovich, Informazione (profili civilistici), in Dig. civ., Torino, 1993, IX, 421 ss.).
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(21) Innovando rispetto alla legge 675/1996, all’art. 4 il Codice distingue
fra «dato personale», definito come «qualunque informazione relativa a
persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra
informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale»
(lett. b) e «dati identificativi», definiti come «i dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato» (lett. c).
(22) Così, al considerando 14 si afferma che «la presente direttiva dovrebbe applicarsi al trattamento dei dati in forma di suoni e immagini relativi a persone fisiche, vista la notevole evoluzione in corso nella società
dell’informazione delle tecniche per captare, trasmettere, manipolare, registrare, conservare o comunicare siffatti dati». Inoltre, verso l’inclusione
dell’immagine nella sfera di applicazione della Direttiva appaiono indirizzati - ragionando a contrario - pure i considerando 16 e 17.
(23) L’art. 33 della Direttiva stabilisce che «La Commissione presenta
periodicamente al Consiglio e al Parlamento europeo, per la prima volta
entro tre anni dalla data di cui all’articolo 32, paragrafo 1, una relazione
sull’applicazione della presente direttiva, accompagnata, se del caso, dalle opportune proposte di modifica [...]. La Commissione esaminerà in particolare l’applicazione della presente direttiva al trattamento dei dati sotto forma di suoni o immagini relativi a persone fisiche e presenterà le
eventuali proposte necessarie, tenuto conto dell’evoluzione della tecnologia dell’informazione e alla luce dei progressi della società dell’informazione».
(24) In effetti, sotto il vigore della legge 675/1996 si è sottolineato che
il dato è in realtà «anonimo» quando «l’informazione non sia associabile ad una persona identificata od identificabile in base ai meccanismi
fissati alla norma» e che «per l’idoneità dell’informazione ad assumere
la qualità di dato personale sembra [...] sufficiente che siano rinvenibili
altre indicazioni che, ovunque custodite e da chiunque possedute, consentano di trasformare l’informazione spersonalizzata in dato personale» (così L. Lambo, La disciplina sul trattamento dei dati personali: profili
esegetici e comparatistici delle definizioni, in Pardolesi, Diritto alla riservatezza cit., I, 87 ss., al quale si rinvia per una più ampia disamina dei problemi qui accennati in merito alla nozione di dato personale). A questo
punto ci si potrebbe allora chiedere se l’immagine di per sé - in assenza
di ogni altro dato - consenta sempre l’identificazione di una persona e,
se si optasse per la negativa, a quali condizioni essa diviene invece dato
personale. Al riguardo, si può ricordare che in sede internazionale sono
state espresse diverse posizioni (cfr. i documenti citati in Ibidem, 49), essendosi affermato che l’informazione non è dato personale quando «richiede l’utilizzo di operazioni particolarmente complesse per identificare il soggetto cui si riferisce», quando «la persona interessata non sia ragionevolmente individuabile», ovvero quando l’identificazione «necessiti di un eccessivo o irragionevole dispendio di denaro, energie,
tempo o operazioni».
(25) Nel senso che «la legge 675/1996 è applicabile a qualunque informazione personale relativa a soggetti identificati o identificabili e costituita anche da suoni o immagini ovvero compresa nel loro interno o nell’ambito di dichiarazioni o di altre forme di manifestazione del pensiero»,
Garante per la protezione dei dati personali 28 novembre 2001, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 697, con nota di M. Catallozzi, Riservatezza,
minori e test psichiatrici, ove varia citazione dei precedenti del Garante in
materia di fotografie (mentre nel caso di specie l’immagine non era quella fissata in un ritratto, bensì in un disegno). Si veda anche Trib. Roma 28
febbraio 2003, cit.
(26) Peraltro, anche se non si può negare all’immagine un’idoneità identificativa in un certo qual modo intrinseca, è proprio la nozione di identificabilità ad indurre un certo elemento di relatività nel concetto di dato personale. Ad ogni modo, per tutti i necessari approfondimenti, si rinvia (oltre che al contributo già citato alla nota 24) ai commentari alla legge 675/1996, nonché al Codice: V. Cuffaro - V. Ricciuto (a cura di), La disciplina del trattamento dei dati personali, Torino, 1997; G. Buttarelli, Banche dati e tutela della riservatezza - La privacy nella società dell’informazione,
Milano, 1997; C.M. Bianca - F.D. Busnelli (a cura di), Tutela della «privacy», in Nuove leggi civ. comm., 1999; E. Giannantonio - M.G. Losano V. Zeno-Zencovich (a cura di), La tutela dei dati personali - Commento alla
legge 675/1996, Padova, 1999; F. Cardarelli - S. Sica - V. Zeno-Zencovich
(a cura di), Il Codice dei dati personali, Milano, 2004.
GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
da funzionalmente piegato (e limitato) alla tutela di altri
diritti della personalità; nel primo caso, se l’accertamento
della effettiva lesione del bene protetto (diverso dal diritto
di natura solo procedimentale) possa rilevare ed essere recuperato in sede di distinzione fra l’an ed il quantum debeatur; se il danno morale debba essere risarcito in re ipsa, alla
stregua di un danno-evento, o se un profilo probatorio - se
del caso a livello indiziario - si vuole mantenere (27).
Come è evidente, le risposte ai predetti interrogativi
possono avere immediate ripercussioni sulla portata della
fattispecie di illecito aquiliano disciplinata dalla nuova normativa, essendo idonei ad incidere, per un verso, sull’interpretazione delle sue disposizioni e, per l’altro, anche se con
opera ermeneutica più energica, sul profilo dell’antigiuridicità della condotta (28), divisando al limite percorsi operazionali parzialmente distinti per la compensation e l’injunction.
Ma - lo si deve ripetere con energia - prima ancora
delle singole questioni appena evocate rimane un grosso
punto interrogativo sul ruolo del Codice, sulla sua testuale
ed in parte ineludibile pervasività, sugli scenari futuri relativi ai diritti della personalità, alla loro esistenza ed al numero di ore che mancano prima della loro estinzione per
accessione o per confusione (è proprio il caso di dirlo). Oggi è toccata al diritto all’immagine. E domani?
3. (Segue): ulteriori riflessioni sui rapporti
fra diritto all’immagine e diritto alla privacy
Inutile dire che il problema posto nel precedente paragrafo era ed è tutt’altro che speculativo, in quanto - anche a schivare la impegnativa equazione fra fluida circolazione delle informazioni ed assetto democratico dell’ordinamento - la partita si gioca sul delicatissimo piano del bilanciamento fra interessi costituzionalmente protetti.
Al riguardo, anche in ragione del ‘mezzo’ con il quale
è stata diffusa l’immagine dell’attore - e quindi ritornando
gradatamente a problemi più prossimi alla fattispecie concreta -, appare utile richiamare brevemente la situazione di
conflitto che ha destato maggiori preoccupazioni sotto il
vigore della legge 675/1996.
Invero, proprio considerando la già menzionata ed
ampia nozione di «trattamento dei dati personali» (la quale ricomprendeva anche sotto il vigore della legge
675/1996 sia «l’utilizzo» che la «diffusione» dei dati), ci si
era chiesti fino a che punto la propalazione di quelle informazioni potesse ritenersi lecita se avvenuta nell’esercizio
dell’attività giornalistica (29); rendendo di nuovo attuale anche a causa dello ‘strappo’ che la legge provocava nel tessuto normativo, con una disciplina di tutela ‘forte’ - un interrogativo che si era già posto lungo il travagliato cammino del diritto alla riservatezza e del diritto all’identità personale, i quali avevano sostanzialmente dovuto cedere il
passo al diritto di cronaca, ove esercitato in ossequio al celeberrimo ‘decalogo del giornalista’ (30).
A prima vista era la stessa legge a risolvere il problema
con la specifica disposizione di cui all’art. 25, la quale - tuttavia (ed a riprova della delicatezza della tematica) - si era
rivelata bisognosa di interventi non secondari, divenendo
oggetto di varie modifiche nel corso della sua breve vita.
Peraltro, nonostante le attenzioni del formante legislativo,
la norma si era da subito rivelata inidonea a risolvere i problemi di fondo che la materia presenta (31). Infatti, di là da
Note:
(27) Per le varie opzioni ricostruttive, per tutti, Sica, Ad artt. 1-6 cit., 3 ss.,
al quale si deve l’espressione posta fra virgolette nel testo e l’affermazione
- nonostante la consapevolezza del rischio di creare una «deriva risarcitoria» - dell’interpretazione maggiormente improntata al favor victimae.
(28) Per la dottrina che, sotto il vigore della legge 675/1996, si è occupata del problema inerente il rapporto fra l’art. 18 e l’art. 2043 c.c. - il quale si ripropone sostanzialmente ‘in termini’ alla luce della formulazione
dell’art. 15, comma 1, del Codice -, Di Ciommo, Vecchio e nuovo cit., 819
ss. (il quale ritiene che sia stato lo stesso legislatore a ‘tipizzare’ l’illiceità
della condotta, ma che ai fini della condanna del tort-feasor sia sempre necessario «l’accertamento della concreta materializzazione del danno inteso come lesione di un interesse giuridicamente tutelato», sì da concludere che «l’area del trattamento illecito e l’area del danno risarcibile, seppure parzialmente sovrapponibili, non coincidano»). Sulla questione si
veda anche Colonna, Il sistema della responsabilità civile cit., passim.
(29) Sull’argomento, per tutti, A. Palmieri, Trattamento dei dati personali e
giornalismo: alla ricerca di un equilibrio stabile, in Pardolesi, Diritto alla riservatezza cit., II, 337 ss.
(30) Si allude alla famosa Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259, (fra le altre) in
Foro it., 1984, I, 2711, con nota di R. Pardolesi, la quale - come è noto ha fissato i tre criteri della verità (se del caso putativa), della continenza
e della pertinenza, poi confermati da tutta la giurisprudenza successiva
(ed ai quali si può eventualmente aggiungere il quarto requisito dell’attualità, in considerazione della giurisprudenza intervenuta sul c.d. diritto
all’oblio: cfr. Cass. 9 aprile 1998, n. 3679, id., 1998, I, 1834). Sebbene in
quella ipotesi il conflitto vertesse fra diritto di cronaca da un lato e diritto all’onore ed alla reputazione dall’altro, i medesimi criteri si sono poi
usati per comporre il contrasto con l’identità personale (Cass. 7 febbraio
1996, n. 978, id., 1996, I, 1253) e con la riservatezza (Cass. 9 giugno 1998,
n. 5658, id., 1998, I, 2387).
(31) Nella sua versione originaria l’art. 25 divisava tre livelli di tutela: per
i dati sensibili concernenti la salute e la sfera sessuale, per quelli di altro
tipo e quelli concernenti i provvedimenti giudiziari di cui all’art. 24, nonché per quelli comuni. La prima modifica della disposizione è avvenuta
assai presto, cioè con il d.lgs. 9 maggio 1997, n. 123, che ha portato all’ampliamento della sua sfera di applicazione (non più operativa per i soli giornalisti professionisti). Più incisivo l’intervento avvenuto con il
d.lgs. 13 maggio 1998, n. 171, che ha ridisegnato l’impalcatura della disposizione - riducendo a due le categorie di trattamenti differenziati e,
correlativamente, distinguendo solo i dati sensibili tout court da un lato e
quelli comuni dall’altro - e che, inoltre, ha eliminato la necessità di autorizzazione del Garante (che per i primi era invece comunque richiesta).
Per quanto qui interessa, il testo definitivo dell’art. 25 stabiliva quanto segue: «1. Le disposizioni relative al consenso dell’interessato e all’autorizzazione del Garante, nonché il limite previsto dall’articolo 24, non si applicano quando il trattamento dei dati di cui agli articoli 22 e 24 è effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità. Il giornalista rispetta i limiti del diritto di
cronaca, in particolare quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo
a fatti di interesse pubblico, ferma restando la possibilità di trattare i dati
relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dall’interessato o attraverso i suoi comportamenti in pubblico. 2. Il Garante promuove, nei modi di cui all’articolo 31, comma 1, lettera h), l’adozione, da parte del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti, di un apposito codice di deontologia relativo al trattamento dei dati di cui al comma 1 del presente articolo, effettuato nell’esercizio della professione di giornalista, che preveda misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli idonei a rivelare lo
stato di salute e la vita sessuale. Nella fase di formazione del codice, ovvero successivamente, il Garante, in cooperazione con il Consiglio, prescrive eventuali misure e accorgimenti a garanzia degli interessati, che il
(segue)
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
vari rinvii ad un apposito codice deontologico (32) e dal riferimento alla «essenzialità dell’informazione» di dubbia portata precettiva (33), l’art. 25 non offriva elementi per definire con precisione i limiti entro i quali l’esercizio del diritto di
cronaca doveva prevalere sul diritto alla privacy, rimettendo
quindi la questione - necessariamente - all’elaborazione del
formante giurisprudenziale (e para-giurisprudenziale) (34).
Il Codice, dal canto suo, con modifiche che riguardano soprattutto la collocazione delle norme (essendo le varie deroghe al regime generale transitate dalla regolamentazione contenuta all’inizio del lungo testo nella sua Parte
II - artt. 46 ss.), non poteva ovviamente non disciplinare la
materia, il che è avvenuto ‘raccogliendo’ il disposto dell’art.
25 e riversandolo negli artt. 136-139 (35).
Peraltro, richiamando l’elemento che interessa più da
vicino il caso di specie, appare utile ricordare che con l’ultima novella l’ambito di applicazione dell’art. 25 della legge 675/1996 era stato allargato in modo significativo, aggiungendosi alla trama normativa un comma 4-bis (oggi sostituito dall’art. 136 del Codice) a tenore del quale «Le disposizioni della presente legge che attengono all’esercizio
della professione di giornalista si applicano anche ai trattamenti effettuati dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33
della legge 3 febbraio 1963, n. 69, nonché ai trattamenti
temporanei finalizzati esclusivamente alla pubblicazione o
diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero». E, inoltre, che l’ultima parte del comma 1
dell’art. 25 (oggi sostituito dall’art. 137, comma 3, del Codice) stabiliva che «il giornalista rispetta i limiti del diritto
di cronaca, in particolare quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, ferma restando la possibilità di trattare i dati relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dall’interessato o attraverso i suoi
comportamenti in pubblico».
Ebbene, seppur anticipando che i dati offerti dalla pronuncia avrebbero probabilmente portato comunque a porre al di fuori del regime appena richiamato la fattispecie
sottoposta all’attenzione del giudice (dato che, a quanto
consta, l’articolo della convenuta mirava sostanzialmente
ad illustrare le offerte di determinati canali in analogico e
digitale, con contenuto informativo difficilmente qualificabile come ‘essenziale’), le incertezze che popolano il terreno sul quale va operato il bilanciamento di cui sopra
avrebbero reso opportuna (e certamente gradita) una maggiore elaborazione motivazionale sul punto. Infatti, sebbene non sia dato di proporre un’acritica equazione fra prodotto editoriale ed esercizio del diritto (non solo di cronaca, ma in senso più ampio) alla libera manifestazione del
pensiero ex art. 21 Cost., l’allargamento delle maglie operato con la novella dell’art. 25 legge 675/1996 avrebbe perlomeno dovuto indurre il giudicante a interrogarsi sulla natura della pubblicazione sottoposta alla sua attenzione, per
poi, se del caso, escludere l’applicabilità del regime speciale
stabilito per l’attività giornalistica riproponendo argomentazioni omologhe a quelle relative al «nesso di pertinenza»
inerente l’interpretazione dell’art. 97 l.a.
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Peraltro, proprio dopo aver decretato l’estraneità della
fattispecie alla sfera di applicazione del regime previsto per
l’attività giornalistica, sorgono alcuni interrogativi sul nuovo statuto (o sui nuovi statuti?) che il diritto all’immagine
assume a seguito delle interferenze e delle commistioni che
derivano dall’applicazione della disciplina di conio più recente (oltre a quella di epoca codicistica). Infatti, sebbene
si tratti di interrogativi di portata certamente minore rispetto a quelli sollevati nel paragrafo precedente, viene
spontaneo chiedersi se anche al di fuori delle ipotesi di cui
agli artt. 25 legge 675/1996 ed ora 136 ss. del Codice della
privacy la pubblicazione dell’immagine altrui si possa comunque considerare (in certi casi) legittima. In particolare,
anche senza entrare nel merito di una eventuale ‘compeneNote:
(segue nota 31)
Consiglio è tenuto a recepire. Il codice è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale a cura del Garante e diviene efficace quindici giorni dopo la sua pubblicazione [...] 4. Nel codice di cui ai commi 2 e 3 sono inserite, altresì,
prescrizioni concernenti i dati personali diversi da quelli indicati negli articoli 22 e 24. Il codice può prevedere forme semplificate per le informative di cui all’articolo 10».
(32) Sul codice adottato in data 29 luglio 1998, per tutti, S. Nicodemo,
Il codice di «deontologia giornalistica»: una fonte atipica, in Dir. inf., 2000,
85 ss.
(33) In tal senso Palmieri, Trattamento dei dati personali, cit., 360. Diversamente, sembrerebbe, S. Vigliar, Ad artt. 136-139, in Sica e Stanzione,
La nuova disciplina, cit., 608, il quale - parafrasando in larga parte l’art. 6
del codice deontologico - afferma che in forza del principio di essenzialità
«la diffusione di notizie di rilevante interesse pubblico non comporta una
violazione della sfera privata degli interessati quando l’informazione, seppure dettagliata, sia indispensabile in ragione della originalità del fatto o
della qualificazione dei protagonisti e, soprattutto, sia rispettosa della
realtà, esponendo i fatti in forma civile e veritiera, evitando suggestioni
che vadano oltre una valutazione oggettiva di quanto divulgato ed escludendo l’indicazione di informazioni estranee o marginali rispetto all’evento posto al centro della notizia».
(34) Si veda, ad esempio, il noto caso Olcese, che, dopo il provvedimento del Garante del 19 aprile 1999, in Foro it., Rep. 2000, voce Persona fisica, n. 156, viene deciso in sede giurisdizionale da Trib. Milano, decr., 14
ottobre 1999, id., 2000, I, 649, con nota di R. Pardolesi e A. Palmieri, Protezione dei dati personali e diritto di cronaca: verso un «nuovo ordine»? (ove
ampi riferimento alla dottrina che si è occupata del problema cennato nel
testo) e poi sottoposto al vaglio della Suprema Corte con Cass. 30 giugno
2001, n. 8889, id., 2001, I, 2448, con nota di Palmieri e Pardolesi, Protezione dei dati personali, cit.
(35) Gli artt. 136-139 del Codice, per quanto qui interessa, stabiliscono
quanto segue. Secondo l’art. 136 le regole inerenti il regime di cui si discorre si applicano «al trattamento: a) effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963,
n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero
anche nell’espressione artistica». E l’art. 137 specifica al comma 2 che il
trattamento in questione «è effettuato anche senza il consenso dell’interessato previsto dagli articoli 23 e 26» e poi, al comma 3, che «in caso di
diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all’articolo 136
restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico».
GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
trazione’ fra disciplina di matrice codicistica e Codice della
privacy, appare plausibile ritenere operative anche rispetto
al dato personale-immagine le esimenti di cui all’art. 97 l.a.
perché ad ipotizzare il contrario si postulerebbe la ricorrenza di torts distinti e separati in relazione alle due discipline,
dovendosi quindi chiedere da quale lesione ed in che misura la vittima si risarcisce in applicazione dei due diversi regimi e - prim’ancora di affrontare i problemi a ciò connessi
- ammettendo che la medesima condotta possa essere
(sempre in termini aquiliani) lecita alla luce dell’uno ed illecita alla luce dell’altro.
Pertanto, in attesa che venga sciolto (magari con l’intervento del formante legislativo) il nodo inerente il senso
e la stessa esistenza del Codice della privacy nella sua forma attuale, un’opera di coordinamento che vada al di là
della semplicistica considerazione della diversità dei beni
protetti (e delle relative discipline) appare comunque opportuna (36). Pur non potendola intraprendere in questa
sede, pare comunque utile non solo richiamare l’attenzione sul dibattito sopra evocato, ma pure sollecitare una riconsiderazione delle teorie monista e pluralista; e, quindi,
dell’opzione (foriera di evidenti ricadute sulla interpretazione della normativa di livello primario) fra una lettura
dell’art. 2 della Costituzione che vi rinviene una mera formula linguistica alla quale ricondurre distinti e separati
profili di tutela della persona e una lettura che, invece, gli
affida la funzione di ineludibile ‘collante’ di aspetti a ben
vedere non scindibili, nonché di vera e propria fonte di
nuovi diritti (37).
4. Brevi note sul quantum debeatur: lesione
della privacy, lesione dell’immagine e danno
non patrimoniale
Dopo i necessari ragguagli sull’an debeatur qualche
breve commento sulla quantificazione del danno.
Nel caso di specie, come si è anticipato, non viene in
considerazione l’elaborazione giurisprudenziale inerente il
right of publicity e, quindi, non occorre tenere in considerazione i noti criteri dell’annacquamento dell’immagine e del
prezzo del consenso (che comunque, a ben vedere, costituiscono applicazione alla materia de qua dei tradizionali parametri del danno emergente e del lucro cessante) (38). Il
danno patrimoniale, dunque, è da ristorare secondo i criteri ordinari, in applicazione dei quali il tribunale accerta che
nessun pregiudizio ricorre nel caso di specie.
Più interessante, invece, la statuizione inerente il danno non patrimoniale. E ciò non perché manchino decisioni che abbiano reso operative le disposizioni di cui all’art.
29, comma 9, legge 675/1996 (poi trasposte, come sopra si
è visto, nell’art. 15 d.lgs. 196/2003), ma perché viene di
nuovo in considerazione il tema della interferenza fra le discipline (e della necessità di un’opera di coordinamento) al
quale si è appena accennato. Invero, in un precedente contributo si è posto in luce come (fino a tempi assai recenti)
la giurisprudenza si era sempre rifiutata di riconoscere alla
vittima dell’uso abusivo dell’immagine il risarcimento del
danno non patrimoniale in assenza della dimostrazione che
la condotta lesiva integrava anche gli estremi del reato
(39). Infatti, a nulla erano valsi gli sforzi della dottrina volti a dimostrare che l’art. 185 c.p. non era l’unica disposizioNote:
(36) Per un recente contributo volto ad esaminare, tra l’altro, i rapporti
fra il diritto alla privacy ed i diritti della personalità, T.M. Ubertazzi, Il diritto alla privacy - Natura e funzione giuridiche, Padova, 2004.
(37) Per l’illustrazione della concezione monista e pluralista, per tutti, M.
Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, I, Torino, 1999, 62 ss. A quanto consta, ad oggi l’ultima frontiera
della tutela dei diritti della personalità è stata posta con l’accoglimento
(anche da parte della giurisprudenza) della teoria monista. Seppur rinviando ad altra sede per gli opportuni approfondimenti, non ci si può esimere dal citare al riguardo la ‘storica’ decisione resa in materia di diritto
all’identità personale Cass. 22 giugno 1985, n. 3769, in Foro it., 1985, I,
2211 (caso Veronesi), la quale, dopo aver riconosciuto un diritto all’identità personale distinto da quello all’immagine ed al nome, ha ritenuto che «il fondamento giuridico positivo della tutela che si avverte l’esigenza di assicurare all’interesse dell’intangibilità dell’identità personale
debba individuarsi, conformemente ad un indirizzo di dottrina che va
sempre più diffondendosi, nell’art. 2 Cost.», precisando però che «pur riconducendosi all’art. 2 Cost. il diritto soggettivo all’identità personale
non si inserisce fra i diritti costituzionalmente garantiti, essendo tali soltanto quelli specificamente previsti dalle successive norme della Costituzione». Per una decisione più recente, Cass. 7 febbraio 1996, n. 978, cit.
(38) Si veda al riguardo Cass. 10 novembre 1979, n. 5790, cit., secondo
cui «deve necessariamente concludersi che il diritto di esclusiva sulla propria immagine sia tutelato nel nostro ordinamento in tutti i suoi possibili riflessi, non soltanto morali, ma anche patrimoniali, siano essi de damno vitando ovvero de lucro captando, consistano, cioè, in una perdita ovvero semplicemente in un mancato guadagno e, quindi, non soltanto quando l’interesse pratico contingente del titolare sia quello che la sua immagine non sia riprodotta in nessun caso, ma anche quando, come nella specie, tale interesse sia, invece, quello di ricevere un compenso in moneta
come corrispettivo per il consenso che «si offre di prestare», cioè per l’atto di disposizione del proprio diritto personale».
Quanto al primo criterio - probabilmente mutuato dalla giurisprudenza
formatasi in materia di marchi d’impresa e concorrenza sleale -, esso considera il rapporto di proporzionalità inversa che si instaura fra numero di
utilizzazioni del nome e dell’immagine del personaggio famoso e sua ‘forza attrattiva’: è infatti chiaro che in tal modo il bene oggetto di tutela si
‘deprezza’ al punto che il titolare del diritto è messo nella «condizione di
non poter più offrire l’uso del proprio ritratto per la pubblicità di prodotti o servizi analoghi e di avere difficoltà a commercializzare al meglio la
propria immagine anche con riferimento a prodotti o servizi del tutto diversi. Il valore commerciale dell’immagine sta anche, se non essenzialmente, nella rarità dell’uso di essa» (Cass. 2 maggio 1991, n. 4785, cit.;
cfr. anche Cass. 6 febbraio 1993, n. 1503, cit. e Cass. 16 aprile 1991, n.
4031, cit.).
Con la locuzione «prezzo del consenso» si fa invece riferimento al compenso che il titolare del diritto avrebbe ricevuto «per un analogo sfruttamento consentito ad altri» ed il lucro non percepito viene appunto commisurato al corrispettivo che, in ipotesi, l’effigiato avrebbe ottenuto in caso gli fosse stato proposto un contratto. Al riguardo, va precisato che la
giurisprudenza ha applicato il criterio de quo anche quanto l’abusiva utilizzazione era la conseguenza dell’uso dell’immagine in un momento successivo alla risoluzione di un contratto di sponsorizzazione (che prima
rendeva legittimo quell’uso), nonché nelle ipotesi in cui l’effigiato - sebbene persona dotata di una certa notorietà - non aveva mai fatto uso
commerciale del proprio ritratto (per la prima ipotesi si veda Cass. 11 ottobre 1997, n. 9880, cit.; la seconda fattispecie è esaminata da Trib. Milano 15 aprile 2000, n. 5241, con nota di B. Di Salvo, Dall’annacquamento all’inaridimento del diritto all’immagine, destinata alla Riv. dir. sport. e rimasta purtroppo inedita a causa della cessazione delle pubblicazioni della
Rivista).
(39) Il riferimento è a Tassone, La parabola del diritto all’immagine, cit., ove
le riflessioni di seguito riassunte nel testo trovano più ampia esposizione.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
ne da combinare con l’art. 2059 c.c. e che - nella specie - fra
i «casi determinati dalla legge» si dovevano ben includere
gli artt. 7 e 10 c.c. (40). Al riguardo, si era da più parti rilevato che la lesione dei diritti della personalità non poteva
sollevare dubbi in ordine al requisito dell’ingiustizia del
danno (di cui all’art. 2043 c.c.), con la conseguenza che alla specifica menzione della misura risarcitoria nelle predette disposizioni poste in apertura del Codice Civile non si
poteva affidare il ruolo di una inutile ripetizione, dovendosi invece ed appunto ritenere che si trattasse di una delle
ipotesi da ricondurre all’art. 2059 c.c. La giurisprudenza,
tuttavia, si era sempre mostrata impermeabile a tali considerazioni (41).
A poca distanza dalle famose decisioni gemelle della
Corte di Cassazione (che, nel ridisegnare il sistema del risarcimento dei danni non patrimoniali, hanno accolto una
interpretazione in parte abrogatrice dell’art. 2059 c.c. (42))
la giurisprudenza di merito ha implicitamente proposto un
cambio di rotta (43). Ed il richiamo al nuovo orientamento della Suprema Corte si rivela fondamentale. Infatti, posto che - con l’avallo del giudice delle leggi (44) - «in considerazione dei valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla
riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.» e che «una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato
valori della persona costituzionalmente garantiti» (45), è
giocoforza riconsiderare (alla luce del nuovo orientamento) la lesione dei diritti della personalità, fra i quali il diritto all’immagine.
A dire il vero, la prima sentenza che ha inaugurato il
nuovo corso suscitava qualche perplessità, non sembrando
che la fattispecie concreta esaminata davvero portasse in
esponente la lesione di interessi diversi da quelli strettamente patrimoniali dell’attore (46). Tuttavia, la decisione
Note:
(40) Nel senso che gli artt. 7 e 10 c.c. dovrebbero «in ogni caso riguardarsi come previsione specifica e configurante uno dei casi previsti dalla
legge per il risarcimento del danno non patrimoniale, di cui all’art. 2059
c.c. In caso contrario, infatti del tutto inutile apparirebbe l’inciso dell’art.
7 [e dell’art. 10], «salvo il risarcimento del danno» essendo appunto il risarcimento del danno patrimoniale già assicurato dalla clausola generale
dell’art. 2043 c.c.», Dogliotti, Le persone fisiche, cit., 176; cfr., in senso
conforme, G. Alpa e A. Ansaldo, Le persone fisiche, in Il codice civile commentato, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1996, 316.
(41) Di recente, Trib. Genova 14 dicembre 1999, in Resp. civ. e prev.,
2000, 705.
(42) Si tratta di Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in questa Rivista,
2003, 816 ss., con note di F.D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di
Cassazione e il danno alla persona; G. Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di Cassazione, e A. Procida Mirabelli di Lauro, L’art. 2059 c.c. va in paradiso. Senza nessuna pretesa di
completezza - atteso che le decisioni in parola hanno determinato la produzione di molti contributi ed hanno stimolato la scrittura di vari testi
monografici (fra i quali E. Navarretta, I danni non patrimoniali - Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Milano, 2004; M. Bona e P.G. Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, Milano, 2004; nonché P. Cendon (a
cura di), Persona e danno, Milano, 2004) - fra i commenti apparsi a poca
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
distanza dalle storiche decisioni si vedano C. Castronovo, Il danno alla
persona fra essere e avere, in questa Rivista, 2004, 237 ss.; P. Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non di perderà. Impressioni di lettura su
Cass. 8828/2003, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 2, 385 ss.; G. Ponzanelli, Le
tre voci di danno non patrimoniale: problemi e prospettive, in questa Rivista,
2004, 5 ss. Per una riflessione sul sistema bipolare e sui rapporti fra artt.
2043 e 2059 appena precedente l’inaugurazione del nuovo orientamento,
con ampi richiami di dottrina e giurisprudenza in materia, A. Procida Mirabelli di Lauro, Il danno ingiusto (Dall’ermeneutica «bipolare» alla teoria generale e «monocentrica» della responsabilità civile), Parte II - Ingiustizia, patrimonialità, non patrimonialità nella teoria del danno risarcibile, in Riv. crit.
dir. priv., 2003, 2, 219 ss., nonché Id., I «nuovi» danni e le funzioni della responsabilità civile, in questa Rivista, 2003, 461 ss.
(43) Si veda Trib. Tortona 24 novembre 2003, cit., pronunciata pochi
mesi dopo le decisioni gemelle. Più di recente - ed anche più esplicitamente sul profilo che qui interessa - Trib. Milano 9 gennaio 2004, cit.
(44) Si tratta di Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233 (in Giur. it., I, 1, 2003
1777, con nota di P. Cendon e P. Ziviz, Vincitori e vinti (dopo la sentenza n.
233/2003 della Corte Costituzionale)), la quale respinge la questione di costituzionalità dell’art. 2059 c.c. (sollevata da Trib. Roma 20 maggio 2002,
in questa Rivista, 2002, 856) nella parte in cui non consente il risarcimento del danno morale quando lo stesso sia richiesto in riferimento ad
una astratta fattispecie di reato e la responsabilità del danneggiante sia affermata sulla base di una presunzione di colpa stabilita dalla legge (analoga questione era stata poi sollevata da Trib. Genova 14 gennaio 2003, id.,
2003, 771 ss., con nota di G. Comandé, La rincorsa della giurisprudenza e
la (in)costituzionalità dell’art. 2059 c.c., e di L. La Battaglia, La storia infinita dell’art. 2059 c.c.: quale via per le «nuove» esigenze di tutela?). I giudici
delle leggi danno atto del mutamento medio tempore intervenuto nel diritto vivente (in forza delle tre decisioni gemelle Cass. 12 maggio 2003,
nn. 7281, 7282 e 7283, l’ultima delle quali si legge in questa Rivista, 2003,
713 ss., con annotazioni di G. Ponzanelli) e, per quello che qui interessa,
precisano che «in due recentissime pronunce (Cass. 31 maggio 2003, nn.
8827 e 8828), che hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e
coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla
persona, viene, infatti, prospettata, con ricchezza di argomentazioni - nel
quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale - un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.
2059 c.c., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni
danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti
alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente
garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un
accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito
in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona».
(45) Con la precisazione - riportando altri passi delle decisioni gemelle che «nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed
una tutela minima non é assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi» e chiarendo che con «il rinvio ai
casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale
ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche
alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento
nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi
natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo
livello, di riparazione del danno non patrimoniale».
(46) Ci si riferisce a Trib. Tortona 24 novembre 2003, cit. In effetti, non
si rinvenivano nella decisione elementi tali da far ipotizzare che l’attore,
l’ex campione van Basten, fosse stato leso sotto profili diversi da quello afferente al suo right of publicity, non avendo la produzione e la commercializzazione delle tre videocassette incriminate messo a rischio beni quali
«l’onore, la reputazione od il decoro della persona ritrattata», nonché - al
di fuori delle indicazioni offerte dall’art. 97, comma 2 - la sua identità personale. Ad analoga conclusione si giungeva considerando le stesse modalità dell’abuso, che non si concretava nell’abbinamento dell’effigie con
altri prodotti - in ipotesi - ex se lesivo dell’immagine dello sportivo.
GIURISPRUDENZA•DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
induceva a meditare sul rapporto fra right of publicity e danno morale, nonché a rilevare che, sebbene il riconoscimento del primo fosse da salutare sicuramente con favore
per le esigenze che esso consente di tutelare, la sua applicazione poteva risolversi, per contrasto, in un diniego di giustizia per l’uomo comune (47). Infatti, proprio in forza dell’orientamento che non riconosceva nella lesione del diritto all’immagine uno dei casi previsti dalla legge ai sensi dell’art. 2059 c.c., alla persona non nota - difficilmente in condizione di provare di aver subito un danno patrimoniale veniva precluso anche il ristoro del danno non patrimoniale (in assenza della commissione di un reato da parte dell’approfittatore).
Ebbene, al riguardo va per un verso ribadito che la tutela risarcitoria del profilo negativo o personale del diritto
all’immagine - attraverso il riconoscimento del danno non
patrimoniale - va circondata di opportune cautele, diffidando dell’indiscriminata utilizzazione della categoria del
damnum in re ipsa e stando attenti ad evitare l’implementazione di un apparato sanzionatorio che paralizzi ogni possibilità di traffico giuridico (in assenza di un reale danno subito dall’effigiato, il quale, peraltro, dato che «non tutto il
fair use vien per nuocere» potrebbe anche ricavare un involontario ma oggettivo vantaggio dalla illegittima diffusione dell’immagine (48)).
Ma per l’altro verso va osservato che l’affiancamento a
quello tradizionale di un regime che riconosce il ristoro del
danno non patrimoniale, in caso di abusiva utilizzazione
dell’immagine altrui, rende ancora meno accettabile la posizione (fino a poco tempo fa monolitica) secondo cui il
combinato disposto degli artt. 7 e 10 c.c. non è sufficiente a
dare accesso alla vittima alla tutela offerta dal (nuovo) art.
2059 c.c.
Sempre che, ovviamente, non si voglia affermare che
in principio era il Codice dell’anno 2003 e che dopo vennero la privacy, la riservatezza e tutti gli altri diritti della
personalità, con il che la parabola del diritto all’immagine
sarebbe finita ancor prima di iniziare.
Note:
(47) Sulla lesione del diritto all’immagine del quisque de populo, L. Gaudino, Il diritto all’immagine della persona qualunque, in nota a Trib. Genova
14 dicembre 1999, cit., nonché, A. Barenghi, Il prezzo del consenso (mancato): il danno da sfruttamento dell’immagine e la sua liquidazione, in Dir. inf.,
1992, 565 ss. In giurisprudenza, la recente Cass. 25 marzo 2003, n. 4366,
in questa Rivista, 2003, 978, con nota di T.M. Ubertazzi, Quanto vale l’immagine della persona non nota, al quale si rinvia per una panoramica delle
posizioni in materia.
(48) In quanto si ritiene propriamente lesivo dell’effigiato «solo quello
che si pone in diretto antagonismo e concorrenza con la fonte principale, sottraendogli utilità non più compensate dall’aumento di popolarità
del soggetto»: così Chiarolla, Alla scoperta, cit., 834, ove pure il riferimento alla matrice giuseconomica degli studi sui quali trova le proprie
basi la considerazione.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
891
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Termini di pagamento
Ritardi nei pagamenti e clausole
in deroga: protezione oltre il segno?
CONSIGLIO DI STATO, Sez. V, 12 aprile 2005, n. 1638
Pres. Elefante - Rel. Lamberti - Azienda Ospedaliera Senese c. Soc. Pharmacia Italia S.p.A.
Contratti e obbligazioni della Pubblica Amministrazione - Transazione commerciale - Lettera d’invito a presentare
la migliore offerta per la fornitura di prodotti - Termini di pagamento - Clausola in deroga all’art. 4 del d.lgs.
231/02 - Illegittimità.
(d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, artt. 4, 7)
È illegittima, per contrarietà agli artt. 4 e 7 del d.lgs. 231/02, la clausola, inserita in una lettera d’invito a
presentare la migliore offerta per la fornitura di prodotti medicinali, con cui un ente pubblico impone, a
pena di esclusione, l’aumento dei termini per il pagamento sino a novanta giorni (rispetto ai trenta giorni fissati dal decreto), in quanto introduce un indebito vantaggio per l’Amministrazione predisponente.
Contratti e obbligazioni della Pubblica Amministrazione - Transazione commerciale - Lettera d’invito a presentare
la migliore offerta per la fornitura di prodotti - Determinazione del saggio di interessi da ritardato pagamento Clausola in deroga all’art. 5 del d.lgs. n. 231/02 - Illegittimità.
(d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, artt. 5, 7)
È illegittima la clausola imposta dall’ente pubblico, a pena di esclusione, che contiene la determinazione
di un saggio di interessi, dovuti in caso di ritardo nel pagamento, inferiore a quello legale (fissato in misura pari al «saggio di interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca Centrale Europea
applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata al primo giorno del calendario del semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali»), perché foriera di una sperequazione tra le parti in sede di esecuzione del rapporto.
Fatto
... Omissis...
Diritto
I. La questione di cui è causa impinge talune clausole
della lettera d’invito alla procedura selettiva indetta dall’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena, pervenuta
alla Pharmacia Italia S.p.A. a presentare la migliore offerta per la fornitura di medicinali di sua produzione. In
accoglimento del ricorso della società, le clausole sono
state ritenute contrarie al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231
recante attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa
alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali. Nell’appello l’Azienda ripropone la questione della giurisdizione del giudice adito e contesta, nel
merito, la fondatezza della decisione.
II. L’eccezione di difetto di giurisdizione viene riproposta
sotto tre distinti aspetti: 1) gli istituti ospedalieri, al pari
delle unità sanitarie locali, hanno natura aziendale e sono pertanto soggette alla giurisdizione ordinaria in quan-
to emettono atti di natura privatistica; 2) la fornitura oggetto della lettera d’invito sfugge alle regole pubblicistiche perché sotto la soglia comunitaria e trova disciplina
nel regolamento aziendale sull’attività contrattuale; 3)
le regole seguite dall’Azienda ospedaliera nell’invito a
formulare la migliore proposta sono quelle squisitamente privatistiche dell’offerta al pubblico di cui all’art. 1336
c.c. L’eccezione è infondata sotto tutti e tre i profili addotti.
II.1. Sotto il primo aspetto non può essere riconosciuta
alcuna valenza all’evoluzione normativa subita dalla
struttura e natura delle unità sanitarie, che nella configurazione da ultimo loro impressa dal d.lgs. n. 229/1999
avrebbero perduto il carattere di ente strumentale della
regione per assumere quello di azienda con organizzazione e funzionamento disciplinati dall’atto aziendale di
diritto privato. Anche nella formulazione della «riforma Bindi» l’autonomia imprenditoriale è espressamente equiordinata alla personalità giuridica pubblica di siffatti organismi, che operano nel rispetto dei principi e
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
893
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
criteri previsti da disposizioni delle regioni, cui spetta
assicurare i livelli essenziali di assistenza. Nell’art. 3
d.lgs. n. 502/1992 come modificato dall’art. 3 d.lgs. n.
229/1999, l’aziendalizzazione assolve alla funzione del
perseguimento dei loro fini istituzionali: ha pertanto carattere strumentale, circoscritto al potere-dovere di individuare (con l’atto aziendale) le strutture operative e
di operare in base a contabilità imprenditoriale e criteri
di gestione improntati ad economicità attraverso l’equilibrio di costi e ricavi. Tali conclusioni non sono suscettibili di modifica con richiamo ai rapporti di lavori del
personale anche a livello apicale: la circostanza che il
rapporto di lavoro dei dipendenti sia regolato di criteri
privatistici, anche per quanto riguarda la scelta del direttore generale e degli altri organi di vertice non vale a
svincolare il loro operato dagli ordinari criteri che la
legge impone, il cui sindacato è devoluto al giudice ordinario o amministrativo in base agli ordinari criteri di
giurisdizione. La struttura aziendale delle Unità sanitarie non si riflette pertanto sul loro agire nell’ambito del
mercato che deve essere improntato, ove normativamente previsto a criteri pubblicistici. L’assunto trova
conferma nell’art. 33, comma 1, lett. e) d.lgs. n.
80/1998, che assoggetta alla giurisdizione del giudice
amministrativo la controversie sulle attività e prestazioni di ogni genere rese nell’espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del Servizio sanitario nazionale.
II.1. Per quanto attiene al secondo aspetto dell’eccezione, l’appellante richiama l’art. 3 comma 1 ter d.lgs.
502/1992, che nell’emendamento introdotto dal d.lgs.
n. 229/1999 prevede che i contratti di fornitura di valore inferiore alla normativa comunitaria in materia siano
appaltati o contrattati direttamente secondo le norme
di diritto privato indicate nell’atto aziendale. Sotto il
profilo della giurisdizione la norma è però derogata dall’art. 24, legge n. 289/2002, in vigore al momento in cui
la gara è stata indetta, che (come ribadito nella memoria della società Pharmacia Italia) assoggettava, senza
alcuna limitazione di soglia minima alle modalità previste dalla normativa nazionale di recepimento di quella
comunitaria le pubbliche forniture e gli appalti pubblici
di servizi delle amministrazioni aggiudicatrici individuate nell’art. 1 d.lgs. n. 358/1992 nell’art. 2 d.lgs. n.
157/1995. Il comma 1, lett. b) della disposizione annovera fra le amministrazioni aggiudicatici gli organismi di
diritto pubblico, dotati di personalità giuridica, istituiti
per soddisfare specifiche finalità d’interesse generale
non aventi carattere industriale o commerciale, la cui
attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato,
dalle regioni, dagli enti locali o la cui gestione è sottoposta al loro controllo o i cui organi d’amministrazione,
di direzione o di vigilanza sono costituiti, almeno per la
metà, da componenti designati dai medesimi: ambito
nel quale rientrano sicuramente le unità sanitarie locali
(e le aziende ospedaliere), che nonostante il loro carattere aziendale derivano la maggior parte dei loro finan-
894
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
ziamenti dalla regioni secondo il piano sanitario regionale, sono sottoposte ai controlli finanziari ad opera delle medesime, che concorrono altresì alla scelta degli organi di gestione.
III.3 Nulla prova, sotto il terzo aspetto, il richiamo
(pag. 7 dell’atto di appello) alla sentenza delle Sezioni
unite della Corte di cassazione n. 17635 del 20 novembre 2003, ricognitiva della giurisdizione ordinaria sugli
appalti pubblici di servizi di un’azienda (l’Azienda elettrica consorziale delle città di Bolzano e Merano) priva
del requisito del soddisfacimento di bisogni di interesse
generale e pertanto esclusa dall’ambito di amministrazione aggiudicatrice ex art. 2 d.lgs. n. 157/1995. Altrettanto inidoneo a sorreggere nella specie la devoluzione
della controversia all’A.G.O. è il precedente delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., SS.UU., 30
marzo 2000, n. 71), nella quale la giurisdizione ordinaria è affermata con riguardo al pagamento di forniture
di prodotti sanitari e farmaceutici effettuate da case farmaceutiche all’unità sanitaria locale e non già alle modalità di scelta del contraente, oggetto della presente
causa.
II.4. L’eccezione deve essere conclusivamente respinta
ed affermata la giurisdizione del giudice adito.
III. Nel merito l’appello è infondato e va confermata la
sentenza del T.a.r. della Toscana che ha annullato le
clausole contenute nella «richiesta di offerta per la gara
per la fornitura di prodotti vari» bandita dall’Azienda
Ospedaliera sulla scorta del contrasto con il d.lgs. n.
231/2002.
III.1. La sentenza va anzitutto confermata per l’illegittimità dell’aumento a novanta giorni del termine per pagare le forniture: la relativa clausola introduce un indebito vantaggio per l’Amministrazione dato l’automatismo della decorrenza degli interessi di mora stabilito dall’art. 4 del d.lgs. n. 231/2002. Va precisato, al proposito,
che il riferimento ivi contenuto al termine di pagamento stabilito dal contratto concerne l’automatica decorrenza degli interessi di mora e non al termine di pagamento in sé considerato, la cui congruità va valutata parametrandolo con la corretta prassi commerciale, con la
natura dei beni o servizi, con la condizione dei contraenti ed i rapporti commerciali tra i medesimi di cui al
successivo art. 7 del d.lgs., che stabilisce la nullità del relativo accordo se gravemente iniquo perché ingiustificato da ragioni oggettive. Siffatte ragioni non possono essere ravvisate nell’art. 50 della legge regionale Toscana
n. 22/2000 che stabilisce in novanta giorni il termina
massimo per la dilazione nei pagamenti delle forniture.
La legge ha infatti carattere cedevole rispetto alla direttiva 2000/35/CE, di cui il decreto legislativo in esame
rappresenta attuazione e pertanto non giustifica l’imposizione di termini più lunghi rispetto ai trenta giorni dal
ricevimento della fattura o richiesta di pagamento prescritto dall’art. 4, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 231/2002.
Oltre ad essere contrari al buon funzionamento del mercato interno salvaguardato dall’art. 14 del Trattato, il ri-
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
tardo nel pagamento del prezzo rispetto ai trenta giorni
non trova nessuna giustificazione nella circolare del Ministero dell’economia e delle finanze 14 gennaio 2003,
n. 1, la cui salvaguardia delle amministrazioni dalle conseguenze dell’indisponibilità della provvista finanziaria
non si concilia con le regole del mercato che ai fini della correttezza nei pagamenti parificano gli organismi
pubblici a quelli privati.
III.2. La sentenza è corretta anche con riferimento alla
dichiarata nullità della riduzione del tasso di interesse
dovuto dall’Azienda ospedaliera per il ritardo nel pagamento della fornitura, e allo sconto imposto al creditore in caso di pagamento anticipato da parte della Azienda. Ambedue le clausole sono state riconosciute prive di
giustificazione e sperequative fra le posizioni delle parti
in sede esecuzione del rapporto, da improntare alla parità contrattuale. A fronte delle considerazioni dell’appellante in merito alla parità contrattuale, alla possibilità di non presentare offerte negli appalti non rimunerativi e al numerus clausus delle nullità negoziali, appaiono sicuramente più congrue le considerazioni dell’appellata a sostegno della decisione, laddove sottolineano la carenza di giustificazione della modifica, in caso di responsabilità del debitore, del tasso d’interesse
previsto dalla legge, che viene ridotto notevolmente, e
dello sconto dello 0,85% mensile qualora il pagamento
venga anticipato rispetto al termine di novanta giorni.
Rispetto alla portata generale dall’art. 1 d.lgs. n.
231/2002 lo sconto qualora sia rispettato il termine di
legge è di per sé iniquo e ingiustificato al pari dello sconto sul tasso d’interesse dovuto in caso d’inosservanza del
termine, sicuramente indice di sperequazione tra le parti in sede di esecuzione del rapporto. L’appellante sottolinea come anche nei rapporti di carattere paritetico tra
privato e Pubblica Amministrazione, debba essere salvaguardato il principio di parità contrattuale connesso
ai canoni più squisitamente civilistici di correttezza ed
equità tra tutti i soggetti, oltre ai principi di imparzialità,
legalità ed efficienza, che debbono comunque improntare i rapporti tra pubblici poteri e soggetti privati. Del
tutto incongrua è l’affermazione circa l’illegittimità della sentenza per non avere rilevato che le ipotesi di nullità delle clausole contrattuale costituiscono un numero
clausus: nella specie infatti la nullità risale espressamente alla legge e precisamente all’art. 7, comma 3, d.lgs. n.
231/2002, che attribuisce al giudice, anche d’ufficio, di
dichiarare la nullità dell’accordo e, avuto riguardo all’interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale ed alle altre circostanze di applicare i termini legali e
ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo medesimo.
IV. L’appello deve essere conclusivamente respinto e
confermata la prima decisione. Le spese del presente grado sono a carico del soccombente e vengono liquidate in
euro 2.500 complessivamente.
... Omissis...
IL COMMENTO
di Chiara Medici
La giurisprudenza amministrativa torna a pronunciarsi sulle clausole in deroga alla disciplina relativa alla
lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, giungendo, con un’argomentazione ‘ondivaga’, a negare la loro validità. Benché avverta la
necessità di vagliare gli accordi che fissano termini di
pagamento superiori a quelli legali, nonché tassi di interessi dovuti in caso di ritardo inferiori a quelli di legge, alla luce dei criteri fissati all’art. 7 del d.lgs.
231/2002, il Consiglio di Stato perviene alla conclusione che tali clausole si traducono di per sé in un indebito vantaggio a favore dell’amministrazione predisponente, fomentando il disequilibrio delle posizioni
contrattuali.
Per questa via, il Collegio si pone in evidente contrasto con la ratio del d.lgs. 231/2002 che, pur avendo
quale finalità precipua quella di disincentivare prassi
commerciali lesive del corretto funzionamento del
mercato, come pure della posizione del contraente debole-creditore, non intende intaccare il principio di au-
tonomia contrattuale, ma solo scongiurarne un esercizio abusivo.
Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato è chiamato a pronunciarsi in punto di validità degli accordi in deroga alla disciplina legale sui ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali.
La vicenda origina da una procedura selettiva che segue il meccanismo della lettera d’invito a presentare la migliore offerta, indetta da un’azienda ospedaliera per il conferimento di forniture di prodotti medicinali. In tale fase
prodromica alla conclusione del contratto l’ente pubblico
imponeva, a pena di esclusione, l’accettazione delle seguenti clausole: 1. l’aumento sino a 90 giorni dei termini di
pagamento, rispetto al periodo previsto dall’art. 4 del d.lgs.
231/2002; 2. l’esclusione della responsabilità in capo alla
Pubblica Amministrazione in ipotesi di indisponibilità
delle risorse derivanti da fonti di finanza derivata; 3. uno
sconto non inferiore allo 0,85% mensile in caso di pagamento anticipato e, nell’opposta ipotesi di ritardo del pagamento, la corresponsione di tassi moratori pari alla me-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
895
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
dia del tasso Euribor 3 mesi (369) del mese precedente a
quello di cui si calcolano gli interessi aumentato di 0,75
punti e, quindi, inferiori a quelli fissati all’art. 5 del citato
decreto.
L’impresa farmaceutica aggiudicataria impugnava le
suddette clausole avanti il T.a.r. Toscana, asserendone l’illegittimità perché in palese violazione con gli artt. 4, 5 e 7
del citato decreto legislativo.
Accolto il ricorso relativamente alle clausole sub 1 e 3,
la sentenza di primo grado veniva impugnata dinnanzi il
Consiglio di Stato che, dopo aver risolto la preliminare
questione sul conflitto di giurisdizione a favore di quella
amministrativa, si rivolge ai profili di diritto sostanziale dichiarando, a parziale conferma della sentenza impugnata,
illegittime tutte le clausole contestate. Proprio da questa
parte della sentenza derivano i più stimolanti spunti di riflessione. In particolare, la clausola volta a fissare un termine di pagamento superiore ai trenta giorni normativamente previsti viene dichiarata illegittima in quanto «introduce un indebito vantaggio per l’Amministrazione dato l’automatismo della decorrenza degli interessi di mora stabilito
dall’art. 4 del d.lgs. n. 231/2002». Seppur incidentalmente,
parimenti illegittima viene considerata la clausola di esenzione della responsabilità in caso di carenza di finanza derivata, perché in contrasto con il principio della parificazione della P.A. ai privati nell’ambito dell’attività contrattuale. Infine, il Consiglio di Stato sanziona con la nullità la
pattuizione sui tassi d’interesse, accogliendo la tesi dell’appellante secondo il quale le riduzioni così fissate erano evidente indice di «sperequazione tra le parti in sede di esecuzione del rapporto».
Va detto subito che il Collegio perviene alla decisione
testé riassunta seguendo un iter argomentativo per nulla
convincente che disattende, sotto diversi profili, l’impianto e le finalità della disciplina relativa alla lotta sui termini
di pagamento. Dopo che i precedenti in materia hanno
mostrato una certa difficoltà per i giudici amministrativi
nel relazionarsi con il d.lgs. 231/02 (1), il Consiglio di Stato pare, dunque, aver perso una nuova e importante occasione per far chiarezza, in sede di applicazione, sulla disciplina contenuta nel citato decreto. Per rendere ragione di
tale giudizio, è necessario prendere le mosse da una, seppur
sintetica, presentazione della disciplina in materia di ritardi di pagamento.
Principi e regole della disciplina sui termini
di pagamento
Vale in primo luogo osservare come gli effetti prodotti dalle clausole sottoposte al vaglio del Consiglio di Stato ovvero i periodi di pagamento eccessivi lunghi, nonché la
corresponsione di tassi di interessi moratori bassi (se non
addirittura irrisori) dovuti per il ritardato pagamento - siano da tempo individuati quali cause di insolvenza e dissesto
delle piccole-medie imprese (2). Da un lato, infatti, la dilatazione dei tempi per il pagamento della prestazione aumenta lo stato di incertezza sulla consistenza patrimoniale
dell’impresa creditrice, limitandone esponenzialmente l’o-
896
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
peratività sul mercato. Dall’altro, la clausola che fissa un
tasso inferiore rispetto a quello legale viene, di fatto, a limitare gli effetti pregiudizievoli per il contraente inadempiente e, conseguentemente, disincentiva un pronto adempimento degli obblighi posti a carico del debitore.
Avverso tale discutibile prassi, il legislatore comunitario, prima, e quello nazionale in sede di recepimento, poi,
hanno ravvisato la necessità di intervenire non solo a salvaguardia dei creditori costretti a subire condizioni inique
di pagamento, ma altresì al fine di tutelare il superiore interesse dell’efficienza del mercato, che potrebbe essere lesa
dalla crisi o diminuzione di liquidità in cui i ritardi di pagamento rischiano di gettare determinate categorie di creditori (3).
Nel porsi tali finalità, la normativa di matrice comunitaria e quella di attuazione hanno individuato gli strumenti
di lotta contro i ritardi di pagamento che necessariamente
si riflettono sulle conseguenze del ritardo in modo da renNote:
(1) Le più recenti sentenze del Tribunale amministrativo che si sono pronunciate sulla disciplina relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
sono: T.a.r. Abruzzo, sez. L’Aquila, 30 aprile 2004, n. 568, consultabile sul
sito http://www.giustamm.it/new_2003/TAR_4068.htlm; T.a.r. Piemonte,
sez. Torino, sez. II, 14 febbraio 2004, n. 250, in Foro amm. Tar, 2004, 305,
con nota Gatti, Taccagna e in Giust. amm., 2004, 165, con nota di Rostagno; T.a.r. Piemonte, sez. II, 31 gennaio 2004, n. 126, in Rass. dir. farmaceutico, 2004, 106, in Foro amm Tar, 2004, 4; T.a.r. Piemonte, sez. Torino, sez. II, 5 gennaio 2004, n. 4, consultabile in http://www.giustamm.
it/new_2003/TAR_4068.htlm; T.a.r. Toscana, sez. Firenze, sez. II, 15 gennaio 2004, n. 402, con nota di commento di Colagrande, Il limite della valenza negoziale delle disposizioni del D.Lgs. n. 231/02 rispetto alla pretesa illegittimità delle clausole della lex specialis in materia di pagamenti di pubbliche
forniture, consultabile sul sito http://www.giustamm.it/new_2003/1627.htlm;
T.a.r. Piemonte 1° ottobre 2003, n. 966, in Rass. dir. farmaceutico, 2003,
1007.
(2) Già a partire dalla seconda metà degli anni novanta la Comunità europea aveva individuato nella prassi del ritardo nei pagamenti dei corrispettivi, un rilevante ostacolo allo sviluppo delle imprese operanti in ambito comunitario, un potente freno all’intensificarsi e al moltiplicarsi dei
rapporti contrattuali transfrontalieri, nonché una fonte di possibili distorsioni della concorrenza, opportunamente cogliendo ed evidenziando
che la realizzazione e il corretto funzionamento del mercato interno non
avrebbe potuto prescindere da una serrata lotta a questo fenomeno. (cfr.
Raccomandazione della Commissione del 12 maggio 1995 relativa ai termini di pagamento nelle transazioni commerciali (in GUCE n. L 127 del
10 giugno 1995, 19). Per una ricostruzione anche sotto un profilo evolutivo della direttiva n. 2000/35, tra i numerosi contributi si rinvia a: Zaccaria, La Direttiva n. 2000/35/Ce relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Studium iuris, 2001, 259 ss.; De Cristofaro, Obbligazioni pecuniarie e contratti di impresa: i nuovi strumenti di lotta contro i ritardi nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, in Studium iuris, 2003, 1 ss.; Conti, La direttiva 2000/35/Ce sui ritardi di pagamento e la
legge comunitaria 2001 di delega al Governo per la sua attuazione, in Corr.
giur., 2002, 802 ss.; Fauceglia, Direttiva 2000/35/Ce in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2001,
311 ss.; Di Marco, Una proposta di Direttiva Ue contro i pagamenti tardivi
nelle transazioni commerciali, in Società, 2000, 98.
(3) Tali linee guida sono fissate con chiarezza nei Considerando della Direttiva Ce n. 2000/35. In particolare, il legislatore comunitario ravvisa di
primaria importanza consentire a tutti gli imprenditori di poter agire in
maniera paritaria nel mercato comune facendo in modo che le legislazioni di alcuni Stati permissive ai ritardi di pagamento non pregiudichino
più la stabilità economica delle imprese e creino una distorsione della
concorrenza (cfr. 10° Considerando).
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
derlo dissuasivo (4). Così, agli artt. 4 e 5 del d.lgs. 231/2002
(che hanno integralmente recepito nel nostro ordinamento la disposizione di cui all’art. 3 delle Direttiva) è stata introdotta una disciplina contro i ritardi di pagamento particolarmente favorevole per il creditore, incentrata, rispettivamente, sulla previsione di un termine di pagamento di
trenta giorni con decorrenza automatica degli interessi moratori, nonché la previsione di un elevato tasso di interessi,
determinato in misura pari al saggio di interesse della Banca Centrale Europea, maggiorato di sette punti (5).
Si tratta, dunque, di un saggio superiore anche alla misura fissata all’art. 1284 c.c. per la disciplina delle obbligazioni in genere (6), che ha portato alla condivisibile affermazione che gli stessi assumono una funzione non solo riparatoria, ma altresì coercitiva e sanzionatoria (7).
La previsione normativa interviene direttamente sugli
aspetti contenutistici del regolamento contrattuale; e, tuttavia, non mira ad ‘espropriare’, di fatto, l’autonomia delle
parti. In tale prospettiva il 19° Considerando presenta,
quale ulteriore finalità della normativa, la lotta contro l’abuso della libertà contrattuale, con ciò chiarendo che la
norma non intende azzerare, ma semmai tutelare e valorizzare tale principio. L’enunciazione dell’esigenza di tutelare
l’autonomia contrattuale trova piena rispondenza a livello
di regola operativa nel combinato disposto degli artt. 4-5 e
dell’art. 7 del citato decreto, che introduce un sistema di
controllo sugli accordi in deroga solo qualora assumano
connotati di «grave iniquità». Giova in primo luogo sottolineare come l’art. 4 stabilisca che la scadenza del termine
di pagamento è fissato dalla legge in trenta giorni «solo se
non è stabilito dalle parti un diverso termine». Sempre
prendendo le mosse dal dato letterale delle disposizioni in
commento, la possibilità per i contraenti di determinare
convenzionalmente la misura del tasso di interesse si ricava
a contrario dalla disposizione di cui all’art. 4, comma 3, che
espressamente prevede il carattere inderogabile della determinazione ex lege del saggio di interessi per i soli contratti
aventi ad oggetto la cessione di prodotti alimentari deteriorabili. Con formula analoga l’art. 5, nel fissare il saggio legale di interessi, fa salvo il diverso accordo tra le parti.
In tal modo la legge introduce un meccanismo di etero-regolamentazione legale che non esclude, ma contempla in via (addirittura) principale, la possibilità per i contraenti di fissare un diverso termine (8). Tale ricostruzione,
che poggia rigorosamente su un’interpretazione di carattere letterale e teleologico, oltre a ricevere i consensi unanimi della dottrina (9), trova un ulteriore riscontro nel contenuto della Circolare del Ministero dell’Economia e della
Finanza del 14 gennaio 2003, n. 1 (10).
Peraltro l’autonomia contrattuale risulta garantita
non solo dalla natura dispositiva della normativa sui termini di pagamento e sulle conseguenze del suo ritardo, ma anNote:
(4) Così il 16° Considerando, ove si sottolinea come «i ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale attraente per i debitori
nella maggior parte degli Stati membri per i bassi livelli di tassi degli interessi di mora e/o per la lentezza delle procedure di recupero». Si prosegue, inoltre, ravvisando la necessità di «modificare decisamente questa situazione anche con un risarcimento dei creditori, per invertire tale tendenza e per far sì che un ritardo di pagamento abbia conseguenze dissuasive». Coerentemente a tale prospettiva, il Considerando n. 18 si pronuncia nei seguenti termini: «La presente direttiva tiene conto del problema dei lunghi termini contrattuali di pagamento, segnatamente l’esistenza di talune categorie di contratti per i quali può essere giustificato un
periodo più lungo per il pagamento, se ad esso si accompagna una restrizione della libertà contrattuale o un tasso di interesse più elevato».
(5) È stato correttamente osservata l’esistenza di uno stretto nesso logico
tra regole e principi che emerge dall’analisi dei ventitré Considerando.
Grondona, Dalla direttiva n. 2000/35/Ce al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231,
in I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, (a cura di) Benedetti,
Torino, 2003, 1. Sulla rilevanza rivestita dai principi dettati dai Considerando della direttiva si era già interrogato Zaccaria, La direttiva
2000/35/Ce relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, in Studium iuris, 2001, 259 ss. il quale osserva come «stia iniziando a porsi anche con riguardo a norme di derivazione comunitaria il
problema del rapporto fra una parte generale delle obbligazioni e la regolamentazione di determinati rapporti obbligatori (…)» problema attualmente risolto con il principio di speciale. L’Autore giunge a concludere
che «dubbi possono nascere, invece, quando si tratti di delineare il rapporto fra una normativa di derivazione comunitaria di carattere generale
e una normativa interna di carattere speciale (…). In quest’ottica (…)
grande importanza assume evidentemente l’individuazione della ratio
delle norme di derivazione comunitaria e, più in particolare, dei fini della tutela da esse perseguiti».
(6) Tant’è che si è incominciato a discorrere, forse a ragione, di una rinascita della bipartizione tra disciplina civile e disciplina commerciale. Sul
punto si rinvia alle osservazioni di Zeno-Zencovich, Il diritto europeo dei
contratti (verso la distinzione tra ‘contratti commerciali’ e ‘contratti dei consumatori’), in Giur. it., 1993, IV, 57.
(7) In tal senso si veda anche Conti, Il d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Corr. giur.,
2003, 111 il quale osserva come, «facendo assurgere il tasso legale (…) a
misura non soltanto ripristinatoria, ma anche punitiva di un contegno produttivo di danni che si propagano all’interno dei tassi commerciali».
(8) Colagrante, Il limite della valenza negoziale delle disposizioni del D.Lgs. n.
231/02 rispetto alla pretesa illegittimità delle clausole della lex specialis in materia di pagamenti di pubbliche forniture, cit., il quale osserva come la soluzione legale operi solo in via ‘suppletiva’, «per colmare una possibile lacuna negoziale e non certo di una soluzione legale che opera in via precettiva ed automatica per sostituirsi alle diverse pattuizione dei contraenti che i quali possono più o meno, discostarsi dal termine indicato in via
residuale dal legislatore delegato».
(9) In questa prospettiva si sono posti tutti i commentatori della legge, tra
cui, si segnalano: Taccagna, Limiti alla legittimità di deroghe ai termini di pagamento e ai tassi degli interessi moratori previsti dal d.leg. n. 231 del 2002, con
specifico riguardo ai contratti ad evidenza pubblica, cit., 327; Benedetti (cur.),
I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Torino, 2003; Conti, Il
d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle
transazioni commerciali, in Corr. giur., 2003, 99; Frignani - Cassano, L’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali,
in Contratti, 2003, 308 ss.; Maffei - Corsini, Nuove regole sui termini di pagamento nelle transazioni commerciali, in Dir. e prat. soc., 2002, 29; Sanna,
L’attuazione della direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i pagamenti
nelle transazioni commerciali: introduzione al d.lgs. 9 ottobre 2002 n. 231
(parte prima), in Resp. civ., 2003, 247.
(10) La Circolare pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio
2003, nel richiamare gli organi amministrativi a tenere comportamenti
improntati sui canoni della diligenza, precisa, infatti, che «(…) l’art. 4,
comma 4 e l’art. 5, comma 1, riservano rispettivamente alle parti la facoltà di concordare per iscritto un termine di pagamento superiore a quello indicato nel comma 1 dello stesso art. 4 e un saggio degli interessi per
ritardato pagamento diverso da quello fissato nel medesimo art. 5, sempre
nei limiti consentiti dall’art. 7 che sanziona con la nullità le condizioni risultanti gravemente inique nei confronti del creditore».
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
897
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
che, come già ricordato, dalla limitazione del controllo riservato ai giudici solo qualora l’abuso del potere contrattuale del c.d. contraente forte renda gli accordi in deroga
«gravemente iniqui» (11).
Per facilitare la delimitazione della nozione astratta di
grave iniquità dell’accordo, il legislatore fornisce non solo
una serie di parametri su cui fondare l’indagine (la corretta
prassi commerciale, la natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, la condizione dei contraenti e i rapporti commerciali tra i medesimi), ma vi aggiunge due esemplificazioni: l’ipotesi in cui l’appaltatore o il subfornitore
principale impongano ai propri fornitori termini di pagamento «ingiustificatamente» più lunghi rispetto ai termini
di pagamento ad essi concessi e quella ravvisabile tutte le
volte in cui l’accordo, senza essere giustificato da ragioni
oggettive, abbia come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiunta (art. 7, comma 2). È chiaro come a quest’ultima ipotesi sia riconducibile la clausola
in commento.
L’orientamento dottrinario più consolidato e convincente assume che le fattispecie descritte al comma 2 altro
non siano che esemplificazioni degli accordi gravemente
iniqui descritti, in generale, nel comma 1 (12). Ne consegue che il giudice può rinvenire nel termine più lungo l’obiettivo assorbente di procurare al debitore liquidità aggiuntiva, solo dopo aver accertato che il termine pattiziamente concordato non trova giustificazioni sulla base dei
criteri offerti dal comma 1. Si delinea così una sorta di presunzione relativa, permettendosi in ogni caso al debitore,
che voglia difendere l’accordo derogatorio, di fornire la
prova che la regola sul termine persegue obiettivi diversi (e
prevalenti su quella di fornire liquidità aggiuntiva) (13).
Solo laddove l’accordo in deroga arrechi un grave squilibrio
della posizione contrattuale del creditore, la legge conferisce al giudice il potere-dovere di intervenire nel contenuto
dell’accordo invalido, ponendolo dinnanzi all’alternativa
di ripristinare l’equità o ricondurre la pattuizione ai termini
di legge (14).
Operate tali premesse di ordine generale, è ora possibile passare all’esame del percorso argomentativo seguito
dal Consiglio di Stato in ordine alla validità delle singole
clausole per dimostrare l’assunto di partenza, ovvero la
difformità della pronuncia in commento rispetto alla discipline che, seppur sinteticamente, è stata illustrata. Per ragioni di chiarezza espositiva si procederà ad una trattazione
separata delle clausole sottoposte al vaglio dei giudici amministrativi.
Il decisum del Consiglio di Stato atto I:
la clausola sui termini di pagamento
Per quanto riguarda la clausola volta a fissare un termine di pagamento superiore ai trenta giorni legislativamente previsti, la sentenza in esame ne dichiara l’illegittimità in quanto «introduce un indebito vantaggio per
l’Amministrazione, dato l’automatismo della decorrenza
degli interessi di mora stabilito dall’art. 4 del D.Lgs n.
231/2002».
898
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Il convincimento del Collegio, seppur non completamente esplicitato, pare essere il seguente: se è vero che
in forza dell’art. 4, comma 1, gli interessi decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento, ogni giorno in più rispetto al termine di trenta giorni fissato al successivo secondo comma
si traduce in un arricchimento per la Pubblica Amministrazione corrispondente agli interessi moratori che non
maturano a favore dell’impresa fornitrice per il periodo
intercorrente tra il 31° giorno e quello pattiziamente convenuto. Tale vantaggio, a detta della collegio, sarebbe sufficiente a far dichiarare l’illegittimità dell’accordo. In altri
termini, secondo l’impostazione della sentenza in epigrafe, ogni deroga al termine di trenta giorni stabilito dal decreto legislativo creerebbe un risultato gravemente iniquo
perché foriero di un indebito vantaggio a favore della
Pubblica Amministrazione e perciò sanzionato dall’art. 7
del d.lgs. 231/2002.
In tal modo il Consiglio di Stato giunge di fatto ad affermare il carattere inderogabile dell’art. 4, uniformandosi
ad un orientamento poco condivisibile, ma che ha trovato
unanime accoglienza presso i tribunali amministrativi.
Note:
(11) La formula «gravemente iniquo» mira ad arginare attentati ‘eccessivi’ all’autonomia privata. Non basta, infatti, un semplice squilibrio nelle
posizioni contrattuali (da ritenersi fisiologico nel mondo degli scambi
commerciali), ma si richiede appunto che l’iniquità superi una certa misura. Tale previsione richiama una tecnica legislativa sperimentata anche
di recente: si pensi all’art. 1469-bis, comma 1, c.c. in tema clausole abusive nei contratti conclusi tra professionisti e consumatori, ove si parla di
«significativo squilibrio» e, più di recente, all’art. 9 della legge 192/98 sulla subfornitura che, nel sanzionare le ipotesi di abuso di dipendenza economica, si riferisce a situazioni di «eccessivo squilibrio».
(12) In realtà, un orientamento minoritario sostiene che «l’aver previsto una forma legale di iniquità per le intese disciplinate dal 2° comma
lascia ritenere che per le stesse non sia possibile valorizzare proprio quegli elementi concreti che il comma 1 aveva individuato in via generale
e dai quali sarebbe stato possibile escludere, in concreto, una situazione
di grave iniquità». Così Conti, Il d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della
direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, in Corr. giur.,
2003, 99 ss.
(13) Cfr. Benedetti, op. cit., 122; ed in senso conforme Pandolfini, La
nuova disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., 67
e Sanna, L’attuazione della direttiva, cit., 270.
(14) L’impostazione più accreditata in dottrina circa il rapporto tra le
due forme di intervento giudiziario è nel senso di ritenere che l’iter logico con il quale il giudice deve pervenire all’applicazione sostitutiva dell’accordo nullo, debba contemplare, in primo luogo, la valutazione circa
l’equità in concreto della normativa prevista dal decreto e, solo qualora
la valutazione abbia esito negativo, lo stesso potrà individuare una diversa disciplina, avuto riguardo dei parametri indicati dal comma 1 nonché all’«interesse del creditore». Tale impostazione è stata assunta da
Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, cit., 80. L’Autore, tuttavia, non nasconde una certa perplessità sull’effettività di tale alternativa, osservando come ben difficilmente il giudice comminerà una sanzione più severa rispetto a quella fissata
dalla legge, in forza della considerazione che «(…) nelle intenzioni del
legislatore comunitario, la normativa in esame è reputata idonea a contrastare il fenomeno dei ritardi nei pagamenti ed a tutelare gli interessi
dei creditori, ed esaminando il tenore letterale del verbo ‘riconduce’ che sembra alludere alla fissazione di una disciplina che in qualche modo mitighi quella legislativa (…)».
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Tutte le pronunce che precedono quella in commento
hanno ritenuto tout court configurabile la violazione degli
art. 4 e 5 del d.lgs. n. 231/2002 quale vizio di legittimità
della lex specialis nella parte relativa alla diversa indicazione dei termini di pagamento della fornitura e del relativo
saggio di interessi.
Le variegate argomentazioni esposte dai tribunali amministrativi possono riassuntivamente essere ricondotte a
due filoni: da un lato, si è negato il carattere derogabile delle clausole in parola sulla scorta del rilievo che la formazione unilaterale, che caratterizza il meccanismo di gara, impedisce il dispiegarsi sostanziale dell’autonomia privata, cui è
affidata la possibilità di derogare la disciplina legale, e risulta di per sé incompatibile con l’esercizio di tale facoltà (15).
Dall’altro, è stata dichiarata l’illegittimità della clausola
che stabilisce termini maggiori a quelli fissati dalla legge
perché essa importa un indebito vantaggio per la posizione
finanziaria dell’amministrazione fornitrice (16). Questa linea interpretativa, a cui il Consiglio di Stato pare in prima
battuta uniformarsi, si pone, tuttavia, in netto contrasto
con la ratio e le scelte di politica legislativa volute dalla
normativa di matrice comunitaria e, successivamente, da
quella nazionale che, come si è avuto modo di precisare,
ammettono, seppur entro certi limiti, la fissazione convenzionale dei termini di pagamento.
Il contrasto tra l’incipit della motivazione del Consiglio
di Stato e l’impianto normativo parrebbe, dunque, inconciliabile. Sennonché, non appena si passa a prendere in esame
la pur concisa motivazione che a quella decisione fa da scorta, ci si trova di fronte ad un discorso i cui assunti appaiono
radicalmente mutati: si precisa, infatti, che il riferimento al
termine di pagamento previsto all’art. 4 - a detta del Collegio, concernente l’automatica decorrenza degli interessi di
mora piuttosto che il termine di pagamento in sé considerato (17) - deve essere valutato «(…) parametrandolo con la
corretta prassi commerciale, con la natura dei beni o servizi,
con la condizione dei contraenti ed i rapporti commerciali
tra i medesimi di cui al successivo art. 7 del D.Lgs. 231/2002,
che stabilisce la nullità del relativo accordo se gravemente
iniquo perché ingiustificato da ragioni oggettive».
A questo punto si direbbe che effettiva intenzione dei
giudici amministrativi sia quella di discostarsi dai precedenti, richiamando la necessità di sottoporre le clausole ai
parametri valutativi individuati dall’art. 7 prima di dichiararne l’illegittimità e, conseguentemente, la nullità ai sensi
della stessa disposizione (e, quindi, escludendo che la clausola sui termini di pagamento debba ritenersi sic et simpliciter invalida perché in deroga all’art. 4). Che senso avrebbe
avuto, altrimenti, richiamare la necessità di operare un
controllo sulle clausole in deroga seguendo i parametri contenuti all’art. 7, se la mera indicazione di un termine superiore a quello di trenta giorni fosse di per sé sufficiente a far
assumere all’accordo carattere di grave iniquità a nocumento del debitore?
Ma l’incongruenza dell’itinerario argomentativo attraverso cui si snoda la motivazione del Consiglio di Stato
è, ancora una volta, dietro l’angolo.
Note:
(15) In questo senso il T.a.r. Piemonte 5 gennaio, 2004, n. 4, cit., adito
dalle imprese interessate alla gara che non sottoscrissero l’impegno, in caso di vittoria della gara, ad accettare le condizioni imposte in tema di termini di pagamento e fissazione degli interessi moratori, perveniva alla seguente decisione: «nel caso di contratti conclusi con la P.A. deve negarsi
il carattere derogabile delle clausole in tema di ritardato adempimento e
di interessi moratori in quanto la formazione unilaterale che caratterizza il
meccanismo di gara, impedendo il dispiegarsi sostanziale dell’autonomia
privata, cui è affidata la possibilità di derogare la disciplina legale è di per
sé incompatibile con l’esercizio di tale facoltà». In maniera adesiva si è
pronunciato il T.a.r. Abruzzo 30 aprile 2004, n. 568, cit., il quale attribuisce alle disposizioni di cui all’art. 4 carattere tassativo escludendo la possibilità di accordi derogatori che «presuppongono la libera manifestazione
del consenso da parte delle imprese partecipanti, dall’altra si configurano
quali clausole immediatamente lesive per la ditta che, pur partecipando,
abbia inteso di non conformarsi al termine di pagamento delle fatture e
che doveva attendersi l’esclusione della gara, così come nella specie puntualmente si è verificato». A tal proposito, a confutazione di quest’ultimo
rilievo, pare potersi osservare come l’imposizione di convenzioni a favore
del contraente forte (id est il debitore) non possa integrare un’ipotesi di
esclusione della disciplina sui ritardi di pagamento, poiché tale circostanza costituisce il presupposto per la sua applicazione (rectius per il meccanismo di tutela ivi apprestato). In tal senso si è espresso anche Conti, La direttiva, cit., 806, il quale sottolinea come l’esistenza di un «abuso della libertà contrattuale che si concreta per effetto del mancato rispetto normativamente previsti in tema di ritardo di pagamento, altro non vuol dire
che imporre dall’alto ai contraenti una regolamentazione volta a tutelare
la posizione - che si reputa più vulnerabile- in cui viene a trovarsi una delle parti del contratto - il creditore - che, di fronte al grande fornitore e/o
alla parte pubblica, può essere costretta, per ragioni di debolezza economica o conoscitiva, a dover accettare le condizioni predisposte dall’altro
contraente sapendo di non poter incidere sul loro contenuto».
(16) Cfr. T.a.r. Toscana 15 gennaio 2004, n. 30, cit., ove è stata considerata l’illegittimità della clausola che fissa termini maggiori a quelli stabiliti dalla legge perché importa un indebito vantaggio per la posizione finanziaria dell’Amministrazione fornitrice; nonché l’illegittimità della
clausola sui saggi di interesse perché non conforme al principio di parità
contrattuale dei contraenti che regola anche i rapporti tra privato e Amministrazione pubblica.
(17) Sebbene nel caso di specie vi sia perfetta coincidenza tra il termine
di pagamento e il decorrere degli interessi, preme osservare, per inciso,
come tale coincidenza non sia necessariamente imposta dal legislatore,
tant’è che i due contenuti regolamentari sono fatti oggetto di distinte pattuizioni.
Sulla possibilità di stabilire la decorrenza della mora da eventi diversi da
quelli ipotizzati dall’art. 4 del decreto legislativo, compresa la possibilità di
prevedere che gli interessi di mora decorrano solo a seguito di un atto di
richiesta del creditore, è bene operare talune sintetiche precisazioni. Il
dubbio è legittimato dal fatto che la direttiva, nel menzionare gli accordi
non conformi alle disposizioni legali suscettibili di un giudizio di grave
iniquità, non menziona il primo paragrafo dell’art. 3 lettera a) relativo all’automatismo degli interessi di mora nel caso in cui il termine di pagamento sia fissato nel contratto. Tuttavia, la stessa direttiva non limita la
possibilità di derogare alla disciplina legale, anche in relazione al momento di decorrenza della mora, nei casi in cui i termini di pagamento
non siano stabiliti nel contratto, ma siano i termini legali (art 5. 3 1, lett.
b). Non si ravvisa pertanto alcuna giustificazione per un diverso trattamento della possibilità di definire convenzionalmente la decorrenza della mora nei casi in cui il termine di pagamento sia fissato convenzionalmente. (un caso esemplificativo potrebbe essere quello legale). È stato altresì correttamente osservato che talvolta una diversa decorrenza degli
interessi moratori può essere posta anche a vantaggio del creditore (M.
Faviere, Il ritardo della p.a. nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie.
Vessatorietà degli accordi derogatori, consultabile in http:// www.diritto.it/articoli/amministrativo/faviere.htlm).
In sintesi, non v’è necessaria coincidenza tra il termine di pagamento e la
decorrenza degli interesse di mora ben potendo i contraenti far decorrere
gli interessi in un momento diverso allo scadere del termine.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
899
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
I giudici amministrativi, pur elencando (più con formula di stile che per vera convinzione) i parametri di cui
all’art. 7, omettono poi di fatto di avvalersene, arrivando,
invece, ad escludere la legittimità della dilazione di termini legali per il solo fatto che il termine di 90 giorni, pattiziamente convenuto, era contenuto in una «norma regionale cedevole rispetto alla disciplina comunitaria» (18) e,
quindi, priva di ogni potere derogatorio. In tal modo il
collegio cade in un equivoco di fondo: ravvisare la legittimità di un accordo in deroga solo qualora tale possibilità
sia concessa da una fonte legislativa con forza derogatoria
rispetto al decreto legislativo equivale, ancora una volta,
a non riconoscere agli accordi inter partes la possibilità di
introdurre termini di pagamento difformi da quelli fissati
dalla legge.
(Segue): il decisum del Consiglio di Stato atto I:
parametri valutativi e intervento del giudice
sulle clausole illegittime
Il Consiglio di Stato avrebbe dunque potuto (rectius
dovuto) superare la questione sulla legittimità dei patti in
deroga in forza di un’attenta lettura delle norme in commento, per procedere all’analisi di quello che è il vero nodo problematico della disciplina sui ritardi di pagamento,
ovvero i limiti entro cui può essere esercitato il controllo
che l’ordinamento si riserva mediane l’opera correttiva del
giudice.
Non potendo ricavare altri elementi dalla motivazione della sentenza in rassegna per quanto riguarda questo ulteriore passaggio, salvo un laconico richiamo alla grave iniquità di cui all’art. 7 - ma, vale la pena di ribadirlo, utilizzato al fine di escludere sic et simpliciter la legittimità della
clausola in esame -, cerchiamo di riflettere sul ‘dover essere’
del ragionamento seguito dal giudice.
Orbene, è evidente che nel caso di specie ci troviamo
di fronte ad una delle due ipotesi tipizzate al comma 2 dell’art. 7, ovvero quella in cui «l’accordo, senza essere giustificato da ragioni oggettive, abbia come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiunta a spese
del creditore».
Come in precedenza osservato, il collegamento tra i
commi 1 e 2 si rinviene nella locuzione «ragioni oggettive», la cui presenza deve essere valutata alla luce dei parametri valutativi di cui all’art. 7, comma 1. Dal momento
che tutte le pronunce chiamate ad applicare il d.lgs.
231/2002, nel negare la validità degli accordi in deroga, si
sono arrestate prima di poter applicare i parameri a cui la citata norma si riferisce, non rimane che avvalersi di talune
indicazioni provenienti dalla dottrina per cercare di specificare tali criteri.
Innanzitutto, la norma impone al giudice di indagare
la «corretta prassi commerciale» che regola quel determinato affare. La formula, alquanto generica, non agevola
l’attività dell’interprete: è stato a tal proposito osservato come l’espressione richieda un confronto tra il singolo accordo e le condizioni praticate nell’ambito dello stesso settore
commerciale e comunemente percepite come corrette dal-
900
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
la prassi, non potendo, dunque, recepire acriticamente «le
pratiche negoziali correnti che potrebbero essere il frutto di
un generalizzato abuso della libertà contrattuale» (19). Tale rilievo è particolarmente significativo nel caso che qui ci
occupa. Se, infatti, i numerosi casi sottoposti all’autorità
giudiziaria hanno mostrato come sia prassi della Pubblica
Amministrazione pagare le forniture a novanta giorni dalla
richiesta della fattura o dalla richiesta di pagamento, le
clausole inserite nei singoli contratti tra ente pubblico e
fornitori non possono, per ciò solo, andare esenti da valutazioni di iniquità. In questo caso la clausola sarebbe in ogni
caso ‘scorretta’ perché, con ogni probabilità, giustificata
dalla sola posizione di privilegio del debitore-Pubblica Amministrazione.
È stata altresì suggerita un’ulteriore lettura del significato di prassi commerciale, che, al di là dei generici riferimenti ad un determinato settore di mercato, consideri i
rapporti commerciali tra le parti di quel determinato contratto (20). Ma, forse, sarebbe preferibile ricondurre tale
valutazione all’ulteriore parametro individuato dalla norma, ossia alla «condizione dei contraenti ed ai rapporti
commerciali tra gli stessi».
I parametri indicati all’art. 7, di cui si è dato conto fino ad ora, non rappresentano un’elencazione tassativa,
come chiarisce la locuzione di chiusura che fa richiamo a
«ogni altra circostanza». La formula di carattere generale
lascia ampio spazio ad ulteriori valutazioni, prima tra tutte l’esame complessivo delle rispettive posizioni contrattuali. Gli accordi in deroga si inseriscono, infatti, all’interno della trama del regolamento contrattuale, composto da un complesso di clausole tra loro correlate che coNote:
(18) Sui rapporti tra d.lgs. 231/2002 e normativa di settore, sebbene la
questione non sia stata sollevata, a quanto è dato dedurre, in nessun grado di giudizio, si rammenta come la giurisprudenza amministrativa sia
orientata a dichiarare la prevalenza della disciplina convenzionale in materia di rapporti economici tra aziende sanitarie locali e farmacisti in materia di erogazione dell’assistenza farmaceutica tracciata dal d.P.R. 8 luglio
1998, n. 371 (ove, in particolare all’art. 8, si prevede il pagamento di un
acconto all’inizio dell’anno pari al 50% di un dodicesimo dei corrispettivi dovuti a fronte delle ricette spedite nell’anno precedente e la corresponsione degli interessi di mora nella misura legale, con esclusione del
maggior danno per svalutazione monetaria) rispetto a quella generale del
decreto di cui ci si occupa (cfr. T.a.r. Campania, sez. Salerno, 20 gennaio
2003, in Rass. dir. farmaceutico, 2004, 296 e T.a.r. Lazio 17 dicembre 2003,
n. 1378, id., 318.
(19) G. e S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contratti commerciali. D.lgs.
231/2002, n. 231, Milano, 2003, 27, i quali osservano che detto parametro richiama direttamente i criteri di correttezza e buona fede che costituiscono un riferimento fondamentale per la valutazione dell’abusività
degli atti o dei comportamenti nel contesto civilistico. In termini analoghi si è espresso Benedetti, L’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, in Bendetti, cit., 118, la quale osserva come «in un dato settore
possa essersi sviluppata una prassi che preveda tempi di pagamento assai
più lunghi rispetto a quelli legali, ovvero conseguenze per il ritardo meno
gravi di quelle previste dal decreto. Ma se la prassi in questione è irragionevole, la sua scorrettezza impedisce di poter ricorrere ad essa per salvare
le clausole contenute nei singoli contratti».
(20) Benedetti, L’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore,
cit., 118.
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
stituiscono l’equilibrio raggiunto dalle parti. Ne dovrebbe
conseguire che solo la considerazione del contratto nel
suo complesso consente di apprezzare un profilo di grave
iniquità.
I dati contenuti in motivazione non ci consentono di
tracciare un’esaustiva ricostruzione della complessa vicenda
contrattuale, essendo emerse solo pattuizioni a favore del
debitore-contraente forte. Pare in ogni caso potersi concludere, con un elevato grado di approssimazione, che nel caso
di specie vi sia una cospicua situazione di svantaggio per il
creditore, rappresentata dalla presenza di termini di pagamento più lunghi, di sconti in caso di pagamento anticipato e, nel caso opposto, di un tasso di interessi ridotto.
D’altro canto, è stato lo stesso legislatore ad operare
una sorta di compensazione tra le clausole sub art. 4 e art. 5
del d.lgs. 231/02. Nell’unica ipotesi in cui i termini del contratto sono imposti dal legislatore, ovvero nel caso di prodotti alimentari deteriorabili, l’art. 4 fissa un tasso di interesse superiore in presenza di un termine raddoppiato rispetto ai 30 giorni fissati al comma 2.
Conclusivamente il giudice, tenuto a valutare ogni altra circostanza, avrebbe dovuto verificare se, come spesso
accade nei contratti conclusi con un ente pubblico, tra
l’impresa e la P.A. fossero intercorsi rapporti non occasionali; in caso affermativo, il giudizio di iniquità si sarebbe
dovuto condurre con riguardo alla complessa regolamentazione comprensiva di accordi quadro e rapporti contrattuali precedenti e futuri.
Il decisum del Consiglio di Stato atto II:
la clausola in deroga alla fissazione
degli interessi moratori
Parimenti deludente si rivela la parte della sentenza
dedicata alla valutazione della clausola in deroga ai tassi fissati dal decreto legislativo all’art. 5. Anche per tale clausola, lo si è osservato precedentemente, è lasciata ai contraenti ampia libertà non solo di fissare il termine per il pagamento, ma altresì tassi di interessi moratori in misura sia
superiore, sia inferiore a quelli legali. Ed è proprio quest’ultima l’ipotesi al vaglio della pronuncia in commento. Vale,
quindi, fin da ora osservare che, ponendosi nell’ottica di favor creditoris assunta dalla normativa contro i ritardi di pagamento, gli accordi soggetti al controllo di validità, ed
eventualmente sanzionati secondo il meccanismo di cui all’art. 7, saranno unicamente quelli imposti a favore del debitore (tant’è che l’art. 7 espressamente fa menzione all’interesse del ceditore).
Nonostante i molti sforzi dottrinali intesi ad affrontare
la problematica della deroga dell’art. 5 in prospettiva di
compatibilità della legge sulla usura (21), non vi è dubbio
che, ai fini dell’applicazione del decreto legislativo, rilevi
l’imposizione di tassi sfavorevoli al debitore, su cui l’odierna
sentenza era chiamato a pronunciarsi: il problema è, dunque, quello della fissazione di un tasso di interessi troppo
basso, che di fatto comprima (sino ad annullarle) le conseguenze dell’imputazione di responsabilità in capo alla P.A.
Orbene, tornando alla pronuncia che ci occupa, la la-
conicità delle argomentazioni addotte a sostegno di tale soluzione, nonché talune incongruenze che lastricano l’iter
argomentativo della sentenza, suscitano, una volta di più,
non poche difficoltà nell’interpretare il reale intento dei
giudici.
Il Consiglio di Stato, lo si ricorda, è giunto a sanzionare con la nullità l’imposizione di interessi moratori inferiori al tasso legale, rinvenendo in tale riduzione un evidente indice di «sperequazione tra le parti in sede di esecuzione del rapporto». Anche nel condurre il giudizio sulla validità di tale accordo, il Collegio procede ad una sommaria quanto lacunosa valutazione, che fa derivare l’illegittimità dell’accordo dal mero squilibrio delle posizioni
contrattuali: nella circostanza riesce ancora più evidente,
rispetto all’ipotesi precedentemente esaminata, l’automatismo introdotto tra deroga del saggio d’interesse - squilibrio del rapporti - illegittimità della clausola. Così procedendo, si cade in un equivoco di fondo: come si è avuto
modo di precisare nella sintetica esposizione dedicata alle
finalità e ai caratteri generali del decreto legislativo, il legislatore, ben lungi dal voler restringere la libertà dei contraenti, non ha inteso introdurre un meccanismo di riequilibrio delle posizioni contrattuali che si sostituisca alla
liberta determinazione delle parti, ma si è rivolto unicamente contro l’abuso di un eccessivo potere esercitato dal
contraente che versa in uno stato di potere economico e
giuridico. Da ciò deriva che un semplice squilibrio, da intendersi peraltro del tutto fisiologico nel mondo del commercio, non può condurre alla dichiarazione di invalidità
della clausola.
La presenza di un accordo sperequativo, ben lungi dal
rappresentare la parte conclusiva dell’argomentazione del
giudice, sarebbe invece dovuta divenire il presupposto per
sottoporre la pattuizione ad una valutazione fondata sui parametri di cui all’art. 7 al fine di stabilire se si fosse, o non,
in presenza di un grave squilibrio.
A conti fatti, i giudici amministrativi optano per l’automatismo tra fissazione di saggi di interessi inferiori alla
misura legale e invalidità dell’accordo: il che, in ultima
istanza, equivale ad affermare l’inderogabilità dell’art. 5.
D’obbligo, allora, richiamare le riflessioni svolte a ridosso
della precedente clausola per quel che riguarda il corretto
percorso che si sarebbe dovuto seguire in ordine all’applicazione dei criteri valutativi e alle modalità di intervento sulla contrattazione.
Nota:
(21) Nel caso opposto, peraltro difficilmente ipotizzabile dal momento
che il c.d. contraente economicamente forte è quello obbligato alla corresponsione del prezzo, in cui le parti convengano un tasso superiore a
quello legale, si pone invece il problema della compatibilità con la normativa in materia di usura da ultimo riformata con la legge 28 febbraio
2001, n. 24 che, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale, è applicabile anche agli interessi di mora (Corte cost. 25 febbraio
2002, n. 29, in Corr. giur., 2002, 612, con nota di Carbone), con il conseguente rischio di incorrere nelle conseguenze sanzionatorie ivi comminate.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
901
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
(Segue): (a mo’ d’inciso) la clausola
di fissazione degli interessi in deroga
al cospetto dell’art. 1229 c.c.
La clausola in oggetto ci induce, peraltro, a riflettere
su un ulteriore profilo. Fino ad ora si è sempre ragionato
pensando ad una clausola gravemente iniqua, che può (anzi deve) essere corretta aumentando la sua misura sino ad
un tasso pari a quello legale (da riferirsi al saggio fissato all’art. 5 del d.lgs. 231/02) o ad una misura superiore.
Ma quid juris se la misura di un tasso inferiore a quello
legale risultasse ‘semplicemente’ iniqua? In tal caso verrebbe a crearsi una zona grigia, non coperta dal decreto legislativo, delimitata, nel suo valore massimo, dal tasso legale e,
nel suo valore minimo, dalla misura che pone la linea di demarcazione tra iniquità e grave iniquità (22). Uno schema
può servire a semplificare l’ipotesi prospettata. Posto che
attualmente il saggio fissato ex art. 5 corrisponde al 9,09%
(23), e individuando (esemplificativamente) la soglia della
grave iniquità nella misura dell’1%, si potrebbe pensare ad
un saggio di interessi convenzionale che, benché superiore
alla soglia minima dell’1%, sia comunque di un’entità tale
da apportare un ingiustificato vantaggio al contraente predisponente. Per concretizzare una simile ipotesi è necessario aggiungere, nella griglia individuata tra il 9,09% e l’1%,
un ulteriore paletto che stabilisca, all’interno di tale range,
il limite massimo per considerare la misura del tasso di interesse comunque iniqua. Verosimilmente, detto parametro dovrà essere contenuto entro i limiti del tasso di interessi moratori fissato dalla legge per le obbligazioni pecuniarie in generale - allo stato pari al 2,5% -, essendo difficilmente sostenibile che il saggio fissato dal legislatore produca effetti meno che satisfattivi per il creditore. In sintesi:
tutte le volte in cui il saggio rientrasse nella forbice ricompresa tra 1% e 2,4% il giudice non sarebbe legittimato ad
incidere sull’accordo, in forza del citato art. 7 del d.lgs.
231/2002.
Anche in tal caso, potrebbe, tuttavia, residuare una
forma di tutela per il creditore. A ben vedere, infatti, la previsione di un tasso di interessi inferiore a quello legale potrebbe risolversi, in concreto, in una limitazione del danno
risarcibile ex lege e, dunque, rivestire la natura di clausola limitativa della responsabilità. Occorre, quindi, interrogarsi,
sulla possibilità di applicare la disciplina di cui all’art. 1229
c.c. che, come è noto, sanziona con la nullità gli accordi
che eludono o limitano preventivamente la responsabilità
del debitore per dolo o colpa grave (comma 1), ovvero derivano dalla violazione di obblighi imposti da norme di ordine pubblico (comma 2) (24).
Ma il percorso appena intrapreso è lastricato da una
molteplicità di insidie. Prima tra tutte, la difficoltà di confrontarsi con il ristretto ambito di operatività riservato alla norma in commento dalla giurisprudenza. A partire dal
1992, la Corte di Cassazione ha, infatti, chiarito che solo
una limitazione di responsabilità al limite dell’irrisorio può
essere soggetta alla sanzione di nullità prevista dall’art.
1229 c.c. (25). Qualcuno potrebbe, a questo punto, obiettare che, sviluppando il ragionamento dei giudici di legit-
902
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
Note:
(22) Il problema non è passato inosservato alla dottrina più attenta che,
seppur per inciso, ha acutamente osservato come «oltre al caso di accordo difforme dalla legge, ma non iniquo (valido), possa ipotizzarsi il caso
inverso di un accordo che, pur se conforme alla legge, possa dirsi concretamente iniquo nel singolo caso». Amadio, Nullità anomale e conformazione del contratto (note minime in tema di «abuso di autonomia negoziale»),
in Riv. dir. priv., 2005, 291).
(23) Con comunicato pubblicato sulla GURI n. 11 del 15 gennaio 2004,
il Ministero dell’Economia e della Finanza, ai sensi dell’art. 5, comma 2,
d.lgs. 231/02, ha fissato nel 2,09% il saggio di riferimento per il semestre
1 gennaio-30 giugno 2005; cosicché il saggio degli interesse di mora per i
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è attualmente pari al
9,09% attesa la maggiorazione di sette punti di cui al comma 1 dello stesso art. 5.
(24) Come da tempo osserva la giurisprudenza, infatti, «una clausola è
esclusiva o limitativa della responsabilità contrattuale qualora stabilisca
che il contraente, se non adempirà puntualmente l’obbligazione promessa, non incorrerà o incorrerà solo limitatamente nelle sanzioni conseguenti alla sua inadempienza» (Cass. 5 febbraio 1971, n. 280, in Giust.
civ., 1971, I, 720). Né osta, per l’applicazione dell’art. 1229 c.c., la circostanza che nella fattispecie in esame si sia in presenza di un contratto stipulato con la P.A. Già da tempo, infatti, è stata estesa l’operatività di tale sanzione anche ai contratti con la P.A. (Cfr. Cass. 20 marzo 1982, n.
1817, in Rass. avv. Stato, 1982, I, 539: «Anche nei contratti stipulati con
la pubblica amministrazione devono ritenersi nulle e inoperanti le clausole di esonero dalla responsabilità dell’amministrazione medesima, a
norma dell’art. 1229, comma I, nel caso in cui si riferiscono ad ipotesi di
colpa grave o dolo»).
(25) Ci si riferisce alla sentenza della Cassazione del 2 giugno 1992, n.
6716, in Mass. 1992, a cui successivamente si sono uniformate le Corti di
legittimità (ex plurimis cfr. Cass. 28 luglio 1997, n. 7061, in Giur. it., 1998,
1573).
Riservandosi di approfondire l’argomento in sede più opportuna, valga
ora solo rappresentare come tale interpretazione restrittiva rischi di far inceppare l’intero meccanismo dell’art. 1229 c.c., in funzione di alter ego
dello strumento di tutela introdotto dall’art. 1384 c.c. Se, infatti, è vero
che quest’ultima disposizione codicistica introduce un sistema di controllo da parte dell’ordinamento a tutela del debitore sottoposto al peso di
una penale di ammontare «manifestamente eccessivo», prevedendo la
possibilità di ridurne l’importo, una simile garanzia è difficilmente configurabile nella speculare ipotesi in cui sia il creditore a patire una convenzione contrattuale che limiti le conseguenze dell’inadempimento. A ben
vedere, infatti, l’art. 1229 c.c., limita l’intervento correttivo del giudice
(mediante la dichiarazione di nullità e, la conseguente operatività delle
ordinarie regole sugli effetti risarcitori dell’inadempimento), alle circoscritte ipotesi di un ammontare «irrisorio» rispetto al danno derivante
dall’inadempimento, senza tenere in giusta considerazione le finalità (anche) punitive della clausola in commento. D’altro canto su tale versante
la disciplina della clausola penale tace, preferendo, a differenza di altri ordinamenti che espressamente prevedono un intervento correttivo del
giudice anche ‘verso l’alto’ (il caso più emblematico ci proviene dal sistema giuridico francese) mostrare totale indifferenza alle esigenze riequilibrative a tutela (questa volta) del creditore. Tra i molteplici contributi
sullo studio della clausola penale, tra gli Autori che se ne sono occupati
assumendo, in un’ottica più problematica, gli effetti distorsivi che potrebbe creare l’intervento correttivo del giudice, si vedano: R. Pardolesi Palmieri, Dalla parte di Shylock: vessatorietà della clausola penale nei contratti dei consumatori?, in questa Rivista, 1998, 270; Calvo, Il controllo della penale eccessiva tra autonomia privata e paternalismo, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 2000, 297; Ghedini Ferri, La riduzione della clausola penale e i valori dell’ordinamento, in Nuova giur. civ., 1991, 556. Nello specifico, sul difficile
rapporto tra l’art. 1229 c.c. e l’art. 1384 c.c. ci si permette di segnalare
Medici, Clausola penale, manifesta eccessività e riduzione giudiziale, in Riv.
crit. dir. priv., 2003, 340 (in particolare nota 47), a cui si rinvia anche per
i richiami bibliografici ivi contenuti. Per uno sguardo generale sul sistema
d’oltralpe, cfr. Paisant, La clause pénale, in Dalloz, Encyclopédie juridique,
Rép. de droit civil, 1981, 25; Cornu, Contribution à la mise en œuvre de la
clause pénale, in Dalloz, 1972, 232.
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
timità, si arriverebbe di fatto ad identificare, a livello
quantitativo, l’«irrisorietà» con la «grave iniquità» (26).
Tale contestazione può essere, in prima battuta, superata
in forza del rilievo che le due entità sono state introdotte
nel nostro ordinamento in tempi, per ambiti e finalità differenti. Ma l’argomentazione decisiva per dismettere l’equivalenza tra grave «iniquità» e «irrisorietà» è data dalla
considerazione che i criteri di valutazione di cui all’art. 7
del d.lgs. 231/2002 e quelli derivati dall’interpretazione
dell’art. 1229 c.c. non sono affatto identici. Infatti, mentre
il legislatore ancora la valutazione della «grave iniquità»
ad una molteplicità di criteri (quali la corretta prassi commerciale, la natura dei beni o servizi, la condizione dei
contraenti ed i rapporti commerciali tra i medesimi), i giudici di legittimità conducono il giudizio di «irrisorietà»
della clausola limitativa della responsabilità assumendo
quale unico parametro l’entità del risarcimento dei danni
patiti dal creditore.
La traiettoria suggerita rischia, però, di trovare un ingombrante sbarramento rappresentato da una disposizione
normativa che, nel passaggio tra regola declamatoria e regola operazionale, ha subito una sostanziale mutilazione: se
escludiamo apodittici e generici riferimenti alla nozione di
ordine pubblico, le Corti, sino ad oggi, hanno applicato
l’art. 1229 c.c. alle sole ipotesi di limitazione di responsabilità per dolo o colpa grave. In realtà, se dovessimo circoscrivere il nostro ragionamento al solo comma 1, avremmo
poco margine di discussione, essendo difficilmente configurabile, in capo alla Pubblica Amministrazione, un comportamento gravemente colposo, se non addirittura doloso.
Ed, invero, secondo l’onere probatorio imposto, il creditore che volesse contestare la validità della clausole di limitazione della responsabilità, si troverebbe di fronte al non facile compito di provare un elemento soggettivo particolarmente impegnativo.
A questo punto, è chiaro come l’attenzione debba,
necessariamente, spostarsi sul comma 2, che inficia la validità dei patti, anche in caso di colpa lieve, qualora l’accordo preventivo di esonero o limitazione della responsabilità costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico. Ed è proprio in questo ulteriore
passaggio che si annida il più rilevante ostacolo rappresentato dalla già preannunciata inoperatività della disposizione in commento. Siamo del tutto consapevoli, quindi, che s’intraprende un viaggio nel mondo dell’improbabile, ma non (si badi bene!) dell’impossibile; anzi, a detta
di chi scrive, la clausola in commento ci offre l’occasione
per ripensare ad un’ affrancazione (o recupero, che dir si
voglia) del comma 2 dell’art. 1229 c.c. Procedendo per
questa via, lo scotto da pagare è, inevitabilmente, quello
di affrontare il motivo da cui origina l’abbandono, da parte dei pratici, della disposizione in commento, ovvero la
genericità del concetto di ordine pubblico. Pur non essendo certo questa la sede opportuna per operare una
compiuta indagine su tale nozione (27), giova, per le finalità prefissate, ricordare come il concetto di ‘ordine
pubblico’, inteso quale limite imposto ai privati per scon-
giurare la violazione di quei principi fondamentali che caratterizzano l’organizzazione sociale di un certo periodo
storico, sia sempre stato letto alla luce dei dettati costituzionali (28): operazione assai rischiosa in quanto offre definizioni imprecise e incerte, anche in ragione del fatto
che si tratta di nozioni di per sé elastiche e storicamente
mutevoli (29).
Né alla denunciata genericità della nozione si sottraggono le più recenti accezioni del concetto di ordine
pubblico quale l’’ordine pubblico economico’, che, almeno apparentemente, sembrerebbe apportare un più ampio
respiro alle tradizionali impostazioni. Anche per tale tipologia di ordine pubblico (a cui sembrerebbe potersi ricondurre il caso sottoposto alla nostra attenzione), intesa nella sua duplice funzione di intervento di direzione e intervento di protezione (30), si assumono come modelli i
commi 1 e 2 dell’art. 41 Cost., con il rischio, ancora una
volta, che una formula tanto vasta quanto generica, rimanga inutilizzata.
Da queste sommarie battute sembrerebbe, dunque,
che il comma 2 dell’art. 1229 c.c. si atteggi come dichiaNote:
(26) Se così fosse, evidentemente, non permarrebbe nessun margine di
scarto per proseguire il nostro ragionamento in quanto, nell’esempio fornito le due soglie corrisponderebbero all’1%.
(27) Per una prima ricostruzione della nozione di ordine pubblico si rinvia a Ferri, voce Ordine pubblico, in Enc dir., Milano, 1980, 1053; Ferri,
Ordine pubblico, buon costume e teoria del contratto, Milano, 1970; Guarnieri, voce Ordine pubblico, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1995, 154 ss.; Panza, Ordine pubblico I, Teoria generale, in Enc. giur., XXII, Roma, 1990.
(28) Carresi, Il Contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Cicu-Messineo, Milano, 1987.
(29) Nell’ottica ora indicata è stato suggerito di esperire la verifica di legalità attraverso lo strumento offerto dai principi costituzionali, quali la
tutela della persona umana, l’ideale di uguaglianza di solidarietà, il diritto al lavoro (artt. 2, 3, 4 Cost.); l’affermazione e la tutela della libertà religiosa; l’affermazione delle libertà civili economiche e politiche (in sostanza tutte le norme contenute nella parte I, titolo 1-4 Cost.). Donisi, Il
notaio e il ‘controllo di liceità’ del regolamento negoziale, in Riv. not., 1975,
1145. il quale osserva che per la verifica di legalità occorre rivalersi sui
principi costituzionali. In questo scenario particolarmente lodevole l’apporto fornito da quella dottrina che ha incentrato i propri sforzi nella ricerca di dotare di un contenuto concreto la formula generale di cui al
comma 2 dell’art. 1229 c.c. (Visintini, La responsabilità contrattuale per fato degli ausiliari, Padova, 1965, in part. 146 ss.). Superando le resistenze
della giurisprudenza, l’Autore, nell’operare una ricognizione ad ampio
raggio sulle clausole limitative di responsabilità all’interno del codice civile, individua ad esempio in ambito di obblighi professionali, la nozione di ordine pubblico nell’«interesse della società all’esercizio corretto
delle professioni liberali, così come nell’ambito del contratto di trasporto di cose, sono state considerate norme di ordine pubblico, quelle relative alle precauzione da osservare per il trasporto di merci esplosive o infiammabili».
(30) In particolare sono stati ricondotti nel c.d. intervento di direzione la
politica del credito e il controllo dei prezzi; mentre l’intervento di protezione è stato ravvisato nelle ipotesi di tutela del contraente del contraente più debole, nelle misure a favore del consumatore.
Tra la letteratura che si è occupata nello specifico della nozione di ‘ordine pubblico economico’ si segnalano: Bessone, Economia del diritto e ordine pubblico economico tutela dei consumatori, in Giur. it., 1984, IV, 92; Id.,
Tutela del contraente debole e ordine pubblico economico. Il caso degli standards negoziali di impresa, in Giur. mer., 1986, 1261.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
903
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
razione programmatica di politica legislativa, più che come norma precettiva e concretamente operativa. Ne è testimonianza la scarsa attenzione riservata alla disposizione
in esame presso le aule giudiziarie, che ne hanno limitato
la portata alle sole ipotesi di prestazioni dirette al soddisfacimento o alla salvaguardia di interessi del creditore
quali la sua integrità fisica o morale (31) e a quelle che interessano esigenze fondamentali della persona nell’ambito della collettività e, in particolare, la repressione di illeciti penali (32).
Sennonché, a fronte di uno ‘stato dell’arte’ poco incoraggiante, in talune pronunce è possibile intravedere segnali positivi, anche se sporadici e non ancora completamente esplicitati. Sotto questo profilo, particolarmente significativa appare una decisione della Cassazione (33) da
cui sembrerebbe emergere come la dichiarazione di nullità
della convenzione parasociale di rinuncia preventiva dell’azione ex art. 2393 c.c., possa essere ricondotta alla considerazione che tali accordi, facendo venir meno l’effetto dissuasivo della potenziale esposizione degli amministratori all’azione di responsabilità, sarebbero contrari al generale interesse della corretta gestione societaria.
Col conforto di tale significativo precedente, il ragionamento seguito dai giudici di legittimità potrebbe allora
essere trasfuso alla nostra ipotesi, ravvisando nell’interesse
superiore dell’efficienza del mercato (a cui, come più volte
segnalato, la disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tende) una concretizzazione del concetto di ordine pubblico. Sicché, ricordando come uno degli strumenti di lotta contro le distorsioni patologiche del
mercato sia proprio quello di attribuire al creditore uno
strumento deterrente verso i ritardi di pagamento, tutte le
volte in cui la misura del tasso di interesse, perché inferiore
a quello legale, non assolve tale funzione, si sarebbe legittimati a ravvisare la violazione di cui al comma 2 dell’art.
1229 c.c.
In sintesi: se è vero che il concetto di ordine pubblico
è stato introdotto nel nostro ordinamento per vietare ai privati accordi lesivi di interessi generali, qualora i contraenti
fissino un tasso di interessi inferiore a quello legale, così incoraggiando il ritardo nei pagamenti con dirette ripercussioni sul buon funzionamento delle regole degli scambi
commerciali, sarebbe senz’altro ravvisabile l’ipotesi sanzionata dall’art. 1229, comma 2.
Tirando le fila del ragionamento sin qui svolto, pare
allora potersi concludere che, seppur con le precisazioni
poc’anzi operate, anche la determinazione di un saggio di
interessi fissato tra l’1% e il 2,5%, potrebbe soggiacere alla
verifica di validità in forza non più dell’art. 7 del d.lgs.
231/2002, bensì del comma 2 dell’art. 1229 c.c.
Viene, a questo punto, da chiedersi se l’aver preso in
considerazione la forbice ricompressa tra l’1% e il 2,4% ci
garantisca di aver esaurito le ipotesi in cui un saggio di interessi fissato in deroga all’art. 5 del d.lgs. determina l’iniquità dell’accordo. Fino ad ora si è riflettuto pensando ad
un saggio di interessi talmente basso da non rappresentare
per il debitore una coazione al tempestivo adempimento,
904
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
prendendo come limite massimo per valutare l’irrisorietà
della misura del tasso di interessi quello fissato dalla legge
all’art. 1284 c.c. Ma, se si considerano i valori ricompresi
tra il 2,5% e il 9,09%, ci si avvede che anche qui si può verificare un analogo risultato di disincentivo all’adempimento della prestazione debitoria. Come a suo tempo sottolineato da un’autorevole e sempre attenta dottrinaria
(34), tutte le volte in cui gli interessi di mercato (corrispondente al «reddito percentuale che deve essere pagato
su ogni prestito sicuro di denaro»), sono superiori agli interessi convenzionalmente pattuiti nell’obbligazione originaria, nel ventaglio di scelte appartenenti alla sfera del debitore, ben potrebbe apparire, sotto un profilo di soluzione efficiente, preferibile soggiacere alle conseguenze del ritardo
dell’adempimento, piuttosto che adempiere tempestivamente affrontando costi di gran lunga superiori (35). Tali
rilievi offrono un rilevante contributo per il discorso che ci
occupa, permettendoci di giungere alla seguente considerazione: un tasso di interesse convenzionale, che stia a cavallo tra il 2,5% e la misura di indicizzazione del tasso di interesse del mutuo bancario (36), potrebbe originare una siNote:
(31) Da ultimo cfr. Cass. 3 febbraio 1999, n. 915, in Arch. loc., 1999, 421
e Giust. civ., 1999, I, 2358, che in ordine a una clausola limitativa di responsabilità per i danni causati da immissioni di rumore provenienti da
un’autoclave collocata dal locatore al paino sottostante l’immobile locato, ha ritenuto la pattuizione nulla in forza della considerazione che «la
tutela della salute rileva come norma di ordine pubblico la cui violazione,
anche ai sensi dell’art. 1229, comma 2, espone l’obbligato (anche ex contractu) al risarcimento, nonostante qualsiasi patto preventivo di esclusione o limitazione della responsabilità». Già a partire dagli anni sessanta, la
Corte di legittimità si era pronunciata in senso analogo (Cass. 26 giugno
1962, n. 1645, che ravvisa nell’art. 1580 c.c. un’applicazione particolare
della regola del comma 2 dell’art. 1229 c.c., in quanto nega attuazione al
patto di esonero della garanzia per vizi quando essi «siano tali da porre in
pericolo la salute del conduttore o dei suoi familiari (…)»). In senso analogo, ma riferito all’ipotesi di cui all’art. 1669 c.c. si sono pronunciate:
Cass. 20 luglio 1962, n. 1974; Cass. 12 aprile 1957, n. 1253 e, per una fattispecie analoga estesa anche ai contratti conclusi con la P.A., Cass. 10
gennaio 1984, n. 171, in Foro it., Rep. 1984, voce Locazione, n. 170.
(32) Cfr. Cass. 9 febbraio 1965, n. 209, con osservazioni a A. Lener, secondo cui la clausola di esonero dell’ente gestore e dei ricevitori T.o.t.i.p.
per il mancato inoltro dei tagliandi delle schedine, non può essere invocata quando il mancato inoltro dei tagliandi integra il reato di appropriazione indebita commesso da un ausiliario del ricevitore. Più recentemente, per una fattispecie analoga, si è pronunciata Cass. 10 settembre 1999,
n. 9602, in questa Rivista, 1999, 1089, con nota Carbone.
(33) Si tratta di Cass. 9 giugno 1994, n. 7030, in Giur. comm., 1997, II,
99 e in Giust. civ., 1995, I, 1323.
(34) R. Pardolesi, Le sezioni unite sui debiti di valuta e inflazioni: orgoglio
(teorico) e pregiudizio (economico), in Foro it., 1985, 1265 e, in una prospettiva più spiccatamente giuseconomica, dello stesso Autore, Interessi
moratori e maggior danno da svalutazione: appunti di analisi economica del diritto, ibidem, 1979, I, 2622.
(35) L’Autore osservava, infatti, come, versando in tale ipotesi, «ritardare il pagamento dei debiti di valuta tornerebbe ad essere il modo meno
oneroso, anche se poco commendevole, di rastrellare liquidità» (R. Pardolesi, Le sezioni unite sui debiti di valuta e inflazioni: orgoglio (teorico) e pregiudizio (economico), cit., 1268.
(36) La tenuta del nostro discorso non può, peraltro, ritenersi inficiata alla luce delle più recenti modifiche apportate dai tassi di riferimento del(segue)
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
tuazione di disincentivo all’adempimento (e, in ultima
istanza di iniquità), dissimile solo quantitativamente, ma
non negli effetti, da quello riscontrato nel caso di un saggio
di interessi fissato al di sotto della soglia del 2,5%.
Conclusivamente, qualora si volesse riconoscere l’operatività dell’art. 1229 c.c., con tutte le avvertenze sopra
richiamate, l’applicazione della disciplina codicistica produrrebbe l’espunzione dal regolamento contrattuale della
determinazione convenzionale, sicché rientrerebbe in gioco la disciplina legale di cui all’art. 5 d.lgs. 231/02 da intendersi operativa tutte le volte in cui manca una previsione
convenzionale.
zione nella circolare del Ministero dell’economia e delle finanze del 14 gennaio 2003, n. 1, la cui salvaguardia delle
amministrazioni dalle conseguenze dell’indisponibilità della provvista finanziaria non si concilia con le regole del
mercato che ai fini della correttezza nei pagamenti parificano gli organismi pubblici a quelli privati» (39).
In questa parte della sentenza, i supremi giudici amministrativi disattendono la pronuncia di primo grado, che
aveva escluso l’illegittimità della pattuizione sul non apprezzabile rilievo che la carenza di approvvigionamento proveniente della finanza derivata sarebbe riconducibile all’istituto civilistico dell’inadempimento per fatto del terzo (40).
Il decisum del Consiglio di Stato atto III:
la clausola di esonero della responsabilità
Note:
Il richiamo alla disciplina di cui all’art. 1229 c.c. ci induce, infine, a rivolgere l’attenzione alla terza ed ultima
clausola inserita nel contratto, ovvero quella che individua, quale causa di forza maggiore, la carenza di approvvigionamento finanziario dalla finanza derivata. Sebbene il
Consiglio di Stato se ne sia occupato solo incidentalmente,
non essendo stata tale pattuizione impugnata dall’appellante, preme svolgere talune osservazioni al riguardo, alla luce
anche del conflitto che si è creato tra i due gradi di giudizio.
Più nel dettaglio, veniva previsto che «l’impossibilità
di provvedere tempestivamente al pagamento delle fatture
per le ragioni esposte (n.d.r. assenza di risorse disponibili
che derivano dall’approvvigionamento attraverso le varie
fonti di ‘finanza derivata’) rappresenta(sse) causa di forza
maggiore e condizione di non punibilità». Con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione nulla avrebbe dovuto corrispondere a titolo di interesse.
Tale clausola, al pari delle due precedentemente esaminate, rappresenta, quindi, una riduzione giuridica delle
tutele offerte dall’ordinamento alla ditta fornitrice. E, infatti, la diretta previsione di clausole di esclusione della
corresponsione di interessi moratori ha, quale comune denominatore con la clausola sub. art. 5, la limitazione della
responsabilità contrattuale a favore della P.A. predisponente (37).
L’esame in ordine a tale pattuizione, benché presenti
non pochi punti di analogia con il precedente accordo, merita una trattazione separata, dal momento che trova la sua
esatta collocazione nell’ambito della regolamentazione sulla responsabilità del debitore (art. 3 del decreto legislativo),
ove la novella introduce un criterio di diligenza analogo a
quello previsto all’art. 1218 c.c. (38).
Si tratta, quindi, di valutare l’ammissibilità di ipotesi
pattizie che non incidono sulle conseguenze da addebitare
al responsabile del ritardato adempimento, ma operano
nella precedente fase di non imputabilità del ritardo del pagamento (sicché deve escludersi l’applicazione del meccanismo di cui all’art. 7).
Questa volta il convincimento del Consiglio di Stato,
espresso a livello di obiter dictum, pare del tutto condivisibile, laddove si osserva che «il ritardo nel pagamento del
prezzo rispetto ai trenta giorni non trova nessuna giustifica-
(segue nota 36)
l’ABI. Sebbene l’introduzione dei tassi di riferimento Euribor abbiano
vertiginosamente abbassato i parametri di indicizzazione del tasso di interesse del mutuo bancario (si pensi che rispetto all’ultimo tasso ‘prime rate’ che si aggirava attorno al 7%, il tasso diffuso dalla federazione bancaria europea, per il medio periodo si aggira attorno al 2-3%), la variabilità
dell’aliquota c.d. spread rimessa all’andamento dei mercati finanziari nonché la presenza di tassi fissi sul lungo periodo che raggiungono la soglia del
4%, ci lasciano ancora margini per ragionare su tassi di interessi superiori
a quelli fissati dall’art. 1284 c.c. Volendo ancora una volta semplificare la
suddetta situazione pensando che il guadagno dell’istituto di credito in
caso di mutuo sia pari al 4%, qualora il saggio di interessi fissato dal contraente per il ritardato adempimento fosse ricompresso tra il 2,5% e il 4%
verseremo nella stessa situazione di disincentivo all’adempimento.
(37) In entrambi i casi è, infatti, ravvisabile la comune ratio di evitare o
limitare all’Amministrazione debitrice l’insorgenza di obblighi risarcitori (costituiti dagli interessi moratori) nei termini e nella misura indicati dalla legge. Prevedere una misura del saggio di interessi inferiore a
quelli fissati per legge significa, infatti, pretendere che il creditore rinunci alla corresponsione di somme di denaro che la norma gli concede. In senso conforme si è espresso anche Faviere, Il ritardo della P.A.
nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Vessatorietà degli accordi derogatori,cit.
Non è mancato, in dottrina, un puntuale rilievo circa talune incongruenze sollevate dal richiamo dell’art. 1218 c.c. nell’ambito della disciplina sui ritardi nei pagamenti (Cfr. Russo, La nuova disciplina dei ritardi di
pagamento nelle transazioni commerciali, in Contr. e impr., 2003, 445 ss.).
Innanzitutto, è stata sottolineata la difficoltà di ravvisare l’impossibilità
della prestazione in riferimento alle obbligazioni pecuniarie per le quali è
valevole il brocardo genus numquam perit. In secondo luogo, si è aggiunto,
il decreto legislativo in commento si riferisce non già alla diversa ipotesi
di un mero ritardo e, quindi, di un’impossibilità all’adempimento della
prestazione non definitivo.
(38) Tali accordi, come prima ricordato (e come la stessa amministrazione, da quel che si evince dalla motivazione, deduce), in realtà si fondano
sull’esimente di cui all’art. 3 (secondo cui il debitore deve dimostrare
«che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile») ed è volto a delimitare i confini dell’esimente.
(39) In tal modo la pronuncia in esame si contrappone all’unico precedente che si registri in riferimento al mancato pagamento dovuto alla carenza di approvvigionamento finanziario della finanza derivata quale causa di forza maggiore. Il T.a.r. Toscana, con sentenza del 15 gennaio, 2004,
n. 30, cit., ha infatti ritenuta legittima tale clausola riconducendo l’ipotesi in essa dedotta alla figura dell’inadempimento per fatto del terzo (ragione per la quale il debitore può sempre dimostrare che il ritardo non è
a lui imputabile).
(40) Cfr. T.a.r. Toscana 15 gennaio 2004, cit. Sotto tale profilo giova ricordare come la giurisprudenza abbia da tempo formulato il principio secondo il quale «perché l’impossibilità della prestazione costituisca causa
(segue)
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
905
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Non vi è dubbio, infatti, che il debitore non può invocare quale causa esimente una mera impotenza economica, salvo che essa dipenda da eventi straordinari e imprevedibili. Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire - pronunciandosi in ordine all’art. 1218 c.c., ma
con un dictum che, in forza dell’implicito richiamo, può essere esteso mutatis mutandis al nostro ambito - come in tema di obbligazioni pecuniarie l’impossibilità sopravvenuta,
quale causa non imputabile al debitore, vada ricondotta ad
un evento interamente estraneo alla sfera di controllo dell’obbligato e privo di qualunque connessione, anche soltanto occasionale, con l’attività di quest’ultimo (41). Sicché il debitore non potrà esimersi dal pagamento degli interessi di mora allegando pretese difficoltà finanziarie.
La conclusione vale anche nel caso in cui ad essere
vincolato dal rapporto contrattuale sia una Pubblica Amministrazione (42). Come si è poc’anzi sottolineato, la disciplina in commento parifica la posizione dei privati con
quella della P.A., essendo per entrambi valevole il principio
secondo cui la causa non imputabile nel ritardo nel pagamento è costituita non già da ogni fattore estraneo al debitore che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in
modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori
che, da un canto, non siano riconducibili a difetto di diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle
condizioni di poter adempiere e, dall’altro canto, siano tali
che alle relative conseguenze il debitore non possa con
eguale diligenza porre riparo (43).
La corretta interpretazione dell’art. 3 del d.lgs.
231/2002 porta, dunque, a imprimere un diverso torno alle
cause non imputabili che determinano l’impossibilità della
prestazione: da ricondursi agli impedimenti non evitabili,
nonostante il rispetto ai canoni comportamentali della diligenza (44) (si pensi, ad esempio ai disservizi postali o bancari che ritardano l’esecuzione del pagamento) (45).
Conclusioni
La pronuncia in commento, seppur non per meriti
propri, offre l’occasione per alcune conclusive riflessioni.
In particolare, preme osservare che con il d.lgs.
231/2002 il legislatore aggiunge un nuovo tassello per riconoscere tutela al contraente assoggettato all’abuso di potere contrattuale nell’ambito dei rapporti commerciali, superando così la tradizionale identificazione del contraente debole con il consumatore (46).
Note:
(segue nota 40)
di esonero del debitore da responsabilità, non basta eccepire che la prestazione non possa eseguirsi per fatto del terzo, ma occorre altresì dimostrare la propria assenza di colpa con l’uso della diligenza spiegata per rimuovere l’ostacolo frapposto da altri all’esatto adempimento» (da ultimo
Cass. 5 agosto 2002, n. 11717, in Contratti, 2003, 228, con nota di Addante).
(41) G. e S. De Nova, op. cit., 11 e, in senso conforme in giurisprudenza,
Cass. 13 agosto 1990, n. 8249, in Foro it., Rep. 1990, voce Obbligazioni in
genere, n. 35.
906
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
(42) In questo senso si è esplicitamente pronunciata la Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso di un Comune che sosteneva - al fine di
evitare la condanna a corrispondere gli interessi moratori a una società
privata - che una condanna della Pubblica Amministrazione, contrasterebbe con la finalità della legge sulla finanza locale, diretta a contenere la
spesa pubblica sotto controllo e sotto la garanzia costituita dalla copertura di bilancio. (Cass. 26 novembre 2002, n. 16683, in Foro it., Rep. 2002,
voce Contratti delle p.a., n. 137.
(43) Cass. 8 novembre 2002, n. 15712, in Giur. it., 2003, 2266.
(44) Sul punto si veda anche Stevanato - Venchiarutti, op. cit., 40 che
non precludono in astratto l’ammissibilità della deroga le clausole attraverso cui una parte si impegna a corrispondere il prezzo all’altra solo dopo
che è stato effettuato il pagamento in suo favore da parte del cliente finale (clausole “pay when pay”) o quelle che rendono l’altra parte partecipe
al rischio di insolvenza di tale cliente (clausole “if et when”). In senso
conforme Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Milano, 2003, 72, il quale osserva in riferimento a tale clausole che «sarà rilevante a presenza di eventuali previsioni concernenti l’obbligo per il contraente principale di effettuare pagamenti parziali in favore del subcontraente in misura corrispondente a quanto ricevuto dal committente, ovvero di agire tempestivamente nei confronti di
quest’ultimo e di tenere informato (o di consultare) il subcontraente, o,
ancora, la facoltà del sub-contraente di surrogarsi al creditore principale,
in caso di inerzia di quest’ultimo».
(45) Si potrebbe eventualmente pensare alla responsabilità del terzo finanziatore a titolo di illecito aquiliano. È ormai nota e sedimentata l’impostazione giurisprudenziale (e dottrinale) secondo cui la partecipazione
del terzo, estraneo al rapporto obbligatorio, all’inadempimento dal quale
nasce la responsabilità contrattuale del debitore, costituisce un illecito lesivo del diritto di credito del quale egli risponde nei confronti del titolare
del credito (Cass. 8 gennaio 1999, n. 108, in Corr. giur., 1999, 173, con
nota Carbone; in questa Rivista, 1999, 899, con nota di Poletti e in Riv.
giur. circolaz. e trasp., 1999, 52, a cui si rinvia per la consultazione dei precedenti).
(46) In passato ci si era interrogati sulla possibilità di estendere il ‘diritto
dei consumatori’ particolarmente protezionistico, anche ad altre categorie di soggetti economicamente deboli. L’interpretazione restrittiva della
definizione imposta dalla legge non lascerebbe adito a speculazioni, ma la
posizione critica della dottrina ha aperto un acceso dibattito.
Le voci che reclamano un soddisfacimento di una corretta ed equilibrata
esplicazione delle forze contrattuali mediante la normativa sui contratti
dei consumatori sono state messe a tacere dalla Corte costituzionale che
con una recente sentenza si è pronunciata per la prima volta circa la qualità di consumatore confermando l’accezione restrittive contenuta nell’ordinamento interno e nella normativa comunitaria (Corte cost. 22 novembre 2002, n. 469, in Foro it., 2003, I, 332, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 1469-bis c.c. nella parte
in cui non equipara al consumatore la piccola impresa). In sintesi, per la
Corte non sarebbe possibile attribuire la qualità di consumatore alla parte con minore potere contrattuale, indipendentemente dalla veste in cui
questa agisca. La scelta di fondo operata dal legislatore nazionale risponde a quanto dettato dalla disciplina europea, frutto di un attento bilanciamento conclusosi con l’esclusione della speciale tutela di tutti quei
soggetti che agiscono per scopi comunque connessi all’attività economica da essi svolta.
Abbandonata definitivamente la tentazione di tutelare l’impresa debole
estendendo la normativa di cui agli artt. 1469- bis ss. c.c. relativa ai contratti conclusi tra professionista e consumatore, la letteratura giuridica ha
iniziato a interrogarsi sull’opportunità e sulle modalità di apprestare una
disciplina di favore per il contraente debole che, ancorché professionista,
si trovi in una posizione di sudditanza rispetto all’altra parte. La netta distinzione che il nostro ordinamento sembra ormai riconoscere alla categoria di ‘consumatore’ rispetto a quella di ‘produttore’ pare inevitabilmente condurre allo scontato risultato di individuare un ‘diritto dei consumatori’ dotato di una propria autonomia rispetto alle altre discipline
del diritto privato e, di conseguenza, assoggettare ogni altro rapporto che
non includa la figura del consumatore al dogma dell’uguaglianza dei contraenti. Cosicché verrebbe esclusa per le altre forme di scambio sul mer(segue)
GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
La tendenza si registra non solo a livello di diritto interno (a seguito di alcuni rilevanti interventi quali l’entrata in vigore della legge sulla subfornitura che ha introdotto
nel nostro ordinamento la figura dell’ ‘abuso di dipendenza
economica’ (47) nonché, più recentemente, la tutela offerta all’affiliato nei contratti di franchising tracciata dalla legge n. 129/2004 (48)), ma anche a livello internazionale,
sulla base del richiamo operato dall’art. 3.10 dei Principi
Unidroit (49), che consente di invocare l’annullamento
del contratto o anche di singole clausole se esse, al momento della conclusione, attribuiscono «ingiustificatamente all’altra parte un vantaggio eccessivo» (50).
Non solo il citato decreto si è uniformato a tale trend,
ma - sebbene, come più volte si è ribadito nel corso dell’esposizione, il legislatore abbia posto limitazioni al potere
correttivo del giudice -, siamo ora in presenza di un intervento sicuramente più incisivo rispetto a quelli conosciuti
fino ad ora (51), tant’è che a ragione si è parlato di una
‘nuova tipologia di sindacato del giudice’ (52).
La norma di cui all’art. 7 del d.lgs. 231/2002 attribuisce, infatti, all’autorità giudiziaria un amplissimo ed inedito
potere di intervento sugli atti di autonomia privata, potendo stabilire, anche d’ufficio, previo accertamento della nullità dell’accordo gravemente iniquo, una disciplina eventualmente diversa da quella prevista da decreto in materia
di pagamento e di interessi moratori. Di talché viene superata la tradizionale limitazione imposta al giudice in fase di
eterointegrazione del contratto con una norma di fonte legislativa già preconfezionata (53), ma si estende ora alla
‘creazione’ del regolamento contrattuale nel caso concreto,
in sostituzione della volontà delle parti.
La linearità del discorso è destinata ad entrare in crisi
nel momento in cui ci si confronti con l’applicazione di tali disposizioni. È proprio nella fase ‘operazionale’ che alcuni
dubbi si fanno più insistenti. Nonostante i parametri di cui
all’art. 7 per la valutazione sugli accordi in deroga, la formula ‘gravemente iniquo’ richiama una clausola generale
che, in quanto tale, deve essere interpretata di volta in volta, in base alle specifiche peculiarità del caso concreto. Di
qui l’interrogativo se la valutazione ex post operata dal giudice possa sostituirsi alle previsioni dei contraenti (54). Il
rischio è che siano incentivati interventi giudiziali non solo, e non tanto, diretti a colpire gli squilibri economici frutto di abuso di potere contrattuale, ma volti ad operare un
controllo diffuso sull’economia del contratto.
dolesi - Caso, La nuova disciplina della subfornitura (industriale): scampolo di
fine millennio o prodromo di tempi migliori, in Riv. dir. priv., 1998, 733.
(48) Legge 6 maggio 2004, n. 129, «Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale», pubblicata in G.U. n. 120 del 24 maggio 2004.
(49) Simile soluzione si rinviene nei Principi Unidroit ove all’art. 3.10
dedicato alla c.d. Gross Disparity, la correzione del contratto non viene
giustificata se, ancorché squilibrato, non siano provate sostanziali alterazioni, «perché lo ritiene pur sempre il frutto della liberazione delle
parti». Pontiroli, La protezione del ‘contraente debole’ nei Principles of International Contracts di UNIDROIT: much ado about nothing?, in
Giur. comm., 1997, I, 603. L’Autore osserva altresì che nel sistema dei
Principles, l’eccessivo squilibrio viene visto come un’ipotesi di consenso
imperfetto, determinato dallo sleale sfruttamento di una congenita inferiorità di una parte, risolvendosi in un grave pregiudizio economico
per essa.
(50) Sanna, L’attuazione della direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: introduzione del D.Lgs.
9 ottobre 2002, n. 231 (prima parte), cit., 47; Stevanato - Venchiarrutti,
op. cit, 47.
(51) Così se l’art. 1384 c.c. nel prevedere la possibilità per il giudice di aumentare la penale manifestamente eccessiva, esercita un controllo su uno
strumento sanzionatorio, con il d.lgs. 231/2002 viene predisposto un
meccanismo di intervento direttamente sul contenuto delle obbligazioni
a carico delle parti.
(52) Faviere, Il ritardo della p.a. nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Vessatorietà degli accordi derogatori, cit.
(53) Ci si riferisce, ovviamente, ai collaudati meccanismi di cui agli artt.
1339 c.c. e 1419, comma 2. Peraltro è agevole sottolineare come, rispetto a quest’ultima disposizione normativa, l’art. 7 garantisca una maggior
tutela al contraente c.d. debole. Proseguendo le modalità d’intervento
inaugurate dal legislatore con la disciplina di cui all’art. 1469-bis c.c., si
versa in realtà, più che in un’ipotesi di nullità, in un caso di inefficacia relativa, laddove è possibile per il contraente debole espungere dal contratto la clausola lesiva senza inficiare l’intero contratto con conseguenze ancor più pregiudizievoli (come invece avverrebbe in forza del meccanismo
di cui al comma 1 dell’art. 1419 c.c.). Tra gli autori che si sono intrattenuti sulla qualifica della sanzione di cui all’art. 7, si segnalano Russo, La
nuova disciplina dei ritardi di pagamento, cit., 488 ss.; Pandolfini, La nuova
normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., 59. La
questione assume una rilevanza non solo teorica nella fattispecie rappresentata al C.d.S. nella pronuncia in esame, dal momento che, come
emerge dalla ricostruzione fattuale, le clausole contestate erano state imposte dalla P.A., a pena di esclusione.
(54) La problematica era già stata sollevata da autorevole dottrina in merito all’intervento del giudice sull’ammontare della penale manifestamente eccessiva, R. Pardolesi - Palmieri, Dalla parte di Shylock: vessatorietà
della clausola penale nei contratti dei consumatori?, cit., 270.
Note:
(segue nota 46)
cato la dotazione di particolari strumenti di tutela del contraente debole
diversi da quelli predisposti dal codice civile. Si inizia, quindi, ad affacciare, una nuova tipologia di contrattazione che si aggiunge a quella tradizionale, incentrata sulla figura del professionista quale contraente debole, che taluna dottrina ha qualificato come «terzo contratto» (Amadio,
Nullità anomale e conformazione del contratto (note minime in tema di «abuso dell’autonomia contrattuale»), cit., 303.
(47) Sulla portata generale della legge sulla subfornitura si veda R. Par-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
907
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Osservatorio di legittimità
a cura di ANTONELLA BATÀ e ANGELO SPIRITO
RESPONSABILITÀ CIVILE
Cassazione civile, sez. III, 10 maggio 2005, n. 9752 Pres. Vittoria - Rel. Purcaro - P.M. Finocchi Ghersi
(conf.) - Ministero della Pubblica Istruzione c. Piana delle Cinque Vie S.r.l. ed altri
Il personale docente degli istituti statali di istruzione
superiore (nella specie, un Istituto Professionale di
Stato) - che costituiscono organi dello Stato muniti di
personalità giuridica ed inseriti nell’organizzazione statale - si trova in rapporto organico con l’Amministrazione della Pubblica Istruzione dello Stato e non con i singoli istituti, che sono dotati di mera autonomia amministrativa per la realizzazione dei fini di istruzione pubblica. Pertanto, gli atti, anche illeciti, posti in essere
dal menzionato personale sono riferibili direttamente
al Ministero della Pubblica Istruzione e non ai singoli
istituti.
Il caso
La società che gestisce una agenzia di viaggi chiama in giudizio alcuni professori del locale liceo scientifico per ottenerne la condanna all’esborso di una somma di danaro che
la società stessa sostiene di aver dovuto versare ad un albergo parigino per i danni arrecati dagli alunni della scuola che
erano stati là portati in gita scolastica. Il giudice di pace autorizza la chiamata in causa dell’istituto scolastico in persona del suo legale rappresentante, nonché del Provveditorato agli studi e del Ministero della P.I., ed all’esito dichiara
carente di legittimazione passiva il Ministero, rigetta la domanda nei confronti dei docenti e condanna il dirigente
scolastico in solido con il liceo al pagamento della somma
in questione.
Il Ministero propone ricorso per cassazione, sostenendo che
la chiamata in causa del liceo era contraria alle norme sulla rappresentanza e personificazione delle Amministrazioni
dello Stato, in quanto il liceo era all’epoca sprovvisto di
personalità giuridica.
La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti
giurisprudenziali
La S.C. accoglie sul punto il ricorso, rilevando che all’epoca del fatto i licei scientifici erano sforniti di personalità
giuridica (acquisita solo per effetto della legge n. 59 del
1997) e che, comunque, tale questione non è rilevante, in
quanto i singoli istituti hanno una mera autonomia amministrativa, mentre il personale docente si trova in rapporto
organico con l’Amministrazione della P.I. e non con i sin-
908
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
goli istituti. Aggiunge che, in virtù del precetto dell’art. 61
della legge n. 312 del 1980, la responsabilità del personale
scolastico per danni arrecati direttamente dall’Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della
vigilanza sugli alunni stessi. Limitazione che si applica anche alla responsabilità del personale verso l’Amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza.
Tra le conformi sul tema, cfr. Cass. 17 gennaio 1996, n.
341. Cfr. anche Cass. 3 marzo 1995, n. 2463, in Giust. civ.,
1995, I, 2093, con nota di Casini, secondo la quale l’articolo 61 legge 11 luglio 1980, n. 612, ha innovato sia sotto
il profilo sostanziale, sia sotto quello processuale, la disciplina della responsabilità del personale della scuola per i
danni prodotti ai terzi nell’esercizio delle funzioni di vigilanza degli alunni, da un lato limitando detta responsabilità ai soli casi di dolo e colpa grave, con esclusione di ogni
presunzione di culpa in vigilando (art. 2048 c.c.), restando
in ogni caso a carico del danneggiato l’onere della prova
del presupposto soggettivo del fatto illecito, dall’altro prevedendo la sostituzione dell’Amministrazione al pubblico
funzionario quale soggetto passivo dell’azione di danno,
con esclusione dell’azione diretta verso quest’ultimo, come
previsto dalla precedente legislazione (T.U. n. 3/1957,
artt. 22, 23), salva l’azione di rivalsa dell’Amministrazione
che abbia risarcito al terzo il danno prodotto dal dipendente. In base ai principi che regolano la successione di
leggi (preleggi art. 11), la norma è inapplicabile ai fatti
produttivi di danno per culpa in vigilando verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore, per ciò che attiene alla disciplina sostanziale e al presupposto della responsabilità per fatto illecito. Per converso, la norma stessa è immediatamente applicabile quale ius superveniens ai giudizi
in corso, ancorché per fatti antecedenti la sua entrata in
vigore, limitatamente alla disposizione del secondo comma parte seconda che prevede la sostituzione dell’Amministrazione nell’obbligazione risarcitoria verso il terzo danneggiato, stante la sua natura spiccatamente processuale,
siccome volta ad escludere l’azione diretta del terzo danneggiato nei confronti del personale scolastico, non incidente come tale se non di riflesso sul contenuto sostanziale della responsabilità, ma solo sulle modalità attuative
della medesima.
RESPONSABILITÀ DELLA P.A.
Cassazione civile, sez. III, 31 maggio 2005, n. 11609 Pres. Lupo - Rel. Segreto - P.M. Uccella (parz. conf.) Ministero della Salute c. A. M. ed altri
GIURISPRUDENZA•SINTESI
La menomazione alla salute derivante da trattamenti
sanitari può determinare il risarcimento del danno ex
art. 2043 c.c. in caso di comportamenti colpevoli, il diritto ad un equo indennizzo ex art. 32 Cost. ove il danno sia conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale, il diritto a misure di assegno assistenziale disposte dal legislatore. In quest’ultima ipotesi si inquadra
la disciplina dettata dalla legge n. 210 del 1992, la
quale tuttavia non esclude che agli interventi da essa
previsti possa essere aggiunto il risarcimento del danno aquiliano in caso di accertata colpa comportamentale dell’Amministrazione.
Il caso
Nella controversia attraverso la quale numerose persone
che hanno subito lesioni a seguito di emotrasfusione o di
assunzione di prodotti ematici infetti chiedono (ed ottengono dal giudice di merito) il risarcimento del danno ex art.
2043 c.c., il Ministero propone ricorso per cassazione perché, nel quadro d’applicazione della legge n. 210 del 1992,
sia affermata l’esclusione della ricorrenza di siffatta ipotesi
risarcitoria.
La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti
giurisprudenziali
La S.C. respinge il ricorso, confermando la sentenza impugnata laddove ha ritenuto sussistente il comportamento
omissivo colposo del Ministero che, in violazione dei doveri istituzionali e legislativamente previsti, rese possibile la
circolazione di sangue infetto e le trasfusioni o le assunzioni di emoderivati infetti. In particolare, i giudici di legittimità hanno posto in evidenza che l’attività della P.A., anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei
limiti posti non solo dalla legge ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, sicché, in considerazione dei
principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione
dettati dall’art. 97 Cost., la stessa è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., atteso che tali principi si
pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale.
In argomento, cfr. Cass. 11 agosto 2004, n. 15614, la quale
ha stabilito che la controversia con la quale un soggetto richieda l’attribuzione dell’indennizzo di cui all’art. 2 della
legge n. 210 del 1992, come sostituito dall’art. 7 del d.l. n.
548 del 1996, ha carattere in senso lato assistenziale ed è riconducibile a quelle previste dall’art. 442 c.p.c.
Cfr., inoltre, Cass. 20 luglio 1993, n. 8069, in Foro it., 1994,
I, 455, in Giust. civ., 1994, I, 1037, con nota di Barenghi, e
in Resp. civ., 1994, 61, con nota di Busato, secondo la quale, ai fini della responsabilità sancita dall’art. 2050 c.c., debbono esser ritenute pericolose, oltre alle attività prese in
considerazione e per la prevenzione infortuni o la tutela
dell’incolumità pubblica, anche tutte quelle altre che, pur
non essendo specificate o disciplinate, abbiano tuttavia
una pericolosità intrinseca o comunque dipendente dalle
modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati. Pertanto, la produzione e l’immissione in commercio di farma-
ci contenenti gammaglobuline umane e destinati all’inoculazione nell’organismo umano, costituisce attività dotata di
potenziale nocività intrinseca, stante il rischio di contagio
del virus della epatite di tipo B, non espressamente previsto
dalla normativa riguardante gli emoderivati, ma tuttavia
compreso nell’ampia prevenzione stabilita da dette disposizioni. Ne consegue che il produttore, come l’importatore,
del farmaco, e prima ancora il produttore delle dette gammaglobuline, per liberarsi della presunzione di responsabilità contemplata dall’art. 2050 cit. devono fornire la prova,
particolarmente rigorosa, dell’adozione di tutte le misure
idonee ad evitare il danno con la verifica dell’innocuità del
prodotto mercé quei metodi, anche sperimentali, di analisi
e controllo che la scienza medica fornisce, indipendentemente dal loro costo o perfezionabilità, non bastando la
prova negativa di non aver commesso alcuna violazione
delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorrendo
quella positiva, di aver impiegato ogni cura e misura atta ad
impedire l’evento dannoso.
RESPONSABILITÀ MEDICA
Cassazione civile, sez. III, 14 giugno 2005, n. 12747 Pres. fiduccia - Rel. Talevi - P.M. Uccella (conf.) - S. A.
c. P. G.
In tema di responsabilità medica, nel caso in cui l’intervento non possa considerarsi di difficile esecuzione,
il paziente è tenuto a provare unicamente il peggioramento delle proprie condizioni successivamente all’esecuzione dell’intervento stesso, mentre costituisce
onere a carico del professionista provare di avere svolto
correttamente e diligentemente l’attività chirurgico-terapeutica richiesta dal caso.
Il caso
Una persona, avendo subito nel 1978 l’intervento estetico
di blefaroplastica e lifting, propone causa contro il chirurgo
per il risarcimento del danno. I giudici del merito, sulla base della consulenza tecnica, condannano il professionista al
risarcimento del danno.
La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti
giurisprudenziali
Il soccombente propone ricorso per cassazione, che viene
respinto, con integrale conferma delle tesi accolte dai giudici del merito, le quali possono così sintetizzarsi: che l’esecuzione dell’intervento era stata lacunosa; che la condotta
negligente del medico aveva comportato un deciso peggioramento delle condizioni del paziente (sia sul piano estetico, sia per l’insorgenza di difficoltà respiratorie); che era irrilevante la dichiarazione liberatoria rilasciata dal paziente
in relazione ad eventuali complicanze, sia perché il medico
non aveva provato di avere perfettamente informato il paziente in merito agli effettivi rischi di complicanze connesse all’esecuzione dell’intervento, sia perché il consenso al-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
909
GIURISPRUDENZA•SINTESI
l’esecuzione di un intervento chirurgico nonostante i rischi
ad esso connessi non potrebbe comunque interpretarsi come preventiva acquiescenza ad errori e negligenze eventualmente commessi dal chirurgo o dai suoi collaboratori;
che l’intervento in questione non poteva considerarsi di
difficile esecuzione, sicché, avendo il paziente provato il
peggioramento delle proprie condizioni successivamente
all’esecuzione dell’intervento, era evidente l’onere del convenuto di provare di avere correttamente svolto l’attività
chirurgico-terapeutica richiesta dal caso; che, nella specie,
il medico non aveva dato prova di tutto ciò, essendo al contrario rimasto accertato che gli interventi non erano stati
correttamente eseguiti.
In particolare, in tema di responsabilità del medico cfr.
Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Dir. econ. e ass., 1996, 669,
secondo la quale, ai sensi dell’art. 2236 c.c., la limitazione
di responsabilità ai casi di dolo o colpa grave si applica, non
a tutti gli atti del medico, ma solo a quelli che trascendono
la preparazione professionale media, altrimenti il medico
risponde anche per colpa lieve, spettando al cliente provare che l’atto del medico era di facile esecuzione e che per effetto della opera del medico egli ha subito un peggioramento delle proprie condizioni di salute, salvo per il medico, in tal caso, di provare di avere eseguito la prestazione
con diligenza.
RISARCIMENTO DANNI
Cassazione civile, sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 - Pres.
Criscuolo - Rel. Luccioli - P.M. Maccarone (conf.) - S. C.
c. B. S.
L’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati
da inderogabilità ed indisponibilità, si riflette necessariamente sui rapporti tra le parti nella fase precedente
il matrimonio, imponendo loro - pur in mancanza, allo
stato, di un vincolo coniugale ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo - un obbligo di lealtà, di
correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un
obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le
proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto.
Il caso
La sig. S., ottenuta dall’autorità ecclesiastica la dispensa dal
matrimonio contratto con il sig. B. e dal Tribunale la sentenza di divorzio per mancata consumazione, conviene in
giudizio il suo ex marito per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a
causa della sua condotta illecita e contraria ai canoni di
lealtà, correttezza e buona fede; condotta consistente nel
fatto di non averla informata prima delle nozze delle sue
condizioni fisico psichiche e della sua incapacità coeundi.
I giudici del merito rigettano la domanda, ritenendo che effettivamente l’uomo era conscio del suo problema sessuale
910
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
e volontariamente aveva omesso di comunicarlo alla fidanzata; che la donna sicuramente non avrebbe contratto matrimonio se fosse stata a conoscenza della circostanza. Tuttavia il danno ingiusto dedotto non poteva trovare altro rimedio che nell’ambito degli istituti disciplinati dal diritto
di famiglia e non attraverso la clausola dell’art. 2043 c.c. In
altri termini, i giudici ritengono che l’inosservanza del debito coniugale determinato da causa patologica non costituisca di per sé quel fatto doloso o colposo al quale collegare la lesione dell’interesse della donna a vedersi realizzata
come donna, moglie e madre, sicché l’unico evento suscettibile di essere evitato ove il promesso sposo avesse informato la fidanzata sarebbe stato il matrimonio stesso, ma tale evenienza era emendabile solo mediante annullamento
per errore essenziale sulle qualità personali o con il divorzio
per mancata consumazione che, appunto, era stato conseguito nella specie.
La donna propone, allora, ricorso per cassazione, ribadendo
la configurabilità della responsabilità aquiliana nell’ambito
del diritto di famiglia.
La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti
giurisprudenziali
Ricorso accolto dalla Cassazione con una interessantissima
decisione che, partendo dai pochi precedenti sull’argomento e passando attraverso la nuova elaborazione giurisprudenziale del danno non patrimoniale, giunge a fondare su
nuove basi la tematica del risarcimento del danno nei rapporti familiari, come conseguenza dell’omessa informazione precedente al matrimonio, da parte di uno dei coniugi,
delle proprie condizioni fisio-psichiche incidenti sull’esplicazione di normali rapporti sessuali.
In particolare, la S.C. fa perno sul superamento del modello codicistico «famiglia istituzione» ad opera del modello «famiglia comunità» voluto dal legislatore del 1975, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei componenti. In quest’ottica,
la famiglia si configura non come luogo di compressione e
di mortificazione di diritti irrinunciabili, ma come sede di
autorelazione e di crescita, segnata dal reciproco rispetto ed
immune da ogni distinzione di ruoli, nell’ambito dei quali i
singoli componenti conservano le loro essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che
come coniugi, come persone, in adesione al disposto dell’art. 2 Cost., che nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo delinea un sistema pluralistico ispirato al
rispetto di tutte le aggregazioni sociali nelle quali la personalità di ogni individuo s’esprime e si sviluppa.
Per altro verso, la sentenza in commento esalta il fatto che
i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica, non soltanto morale, con la conseguente
ravvisabilità del diritto soggettivo di un coniuge nei confronti dell’altro a comportamenti conformi a quegli obblighi. La violazione dei quali non trova la propria sanzione tipica nelle sole misure previste istituzionalmente, quali la
separazione, il divorzio, l’addebito della separazione, ecc.
Piuttosto, la funzione ed i limiti di ciascuno di quegli istitu-
GIURISPRUDENZA•SINTESI
ti rendono evidente che essi non sono strutturalmente incompatibili con la tutela generale dei diritti costituzionalmente protetti, concessi in via patrimoniale dall’art. 2043
c.c. ed in via non patrimoniale dall’art. 2059 c.c.
Tra i pochi precedenti sull’argomento, cfr. Cass. n. 2468 del
1975, la quale afferma che non può escludersi a priori che
l’adulterio, nel particolare ambiente in cui vivono i coniugi, sia causa di tanto discredito da costituire per l’altro coniuge fonte di danno, a carattere patrimoniale, nella vita di
relazione; sicché, la violazione da parte di un coniuge dell’obbligo di fedeltà può determinare un obbligo risarcitorio
in favore del coniuge danneggiato. A diversa soluzione sono pervenute Cass. n. 3367 e n. 4108 del 1993: la prima ha
affermato che, nel caso di addebito della separazione, la tutela risarcitoria dell’art. 2043 c.c. non può essere invocata
per la mancanza di un danno ingiusto, non integrando l’addebito della separazione la violazione di un diritto dell’altro
coniuge; la seconda ha osservato che dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico, soltanto il diritto all’assegno di mantenimento e non anche
quello al risarcimento del danno subito a causa della separazione imputabile all’altro coniuge.
TUTELA DEI CONSUMATORI
Cassazione civile, sez. III, 14 giugno 2005, n. 12750 Pres. Nicastro - Rel. Amatucci - P.M. Carestia (conf.) Società U. B. S.r.l. c. G. L.
solo in parte la domanda, ritenendo che l’evento lesivo sia
stato prodotto per il 50% dal difetto del fuoco e per il restante 50% dall’imperizia del sig. B. nel provocarne l’esplosione.
Il commerciante propone ricorso per cassazione, sostenendo l’inapplicabilità delle disposizioni del d.P.R. n. 224 del
1988 in considerazione della mancata prova circa la sua
colpa nelle specifiche circostanze. Aggiunge, inoltre, che
l’inapplicabilità di quelle disposizioni deriverebbe altresì
dal fatto che l’uso di quei fuochi presuppone una specifica
licenza.
La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti
giurisprudenziali
La S.C., enunciando i principi sopra massimati, ha respinto il ricorso, rilevando, tra l’altro, che sostenere l’inapplicabilità dei principi del d.P.R. n. 224 del 1988 per la mancanza di apposita licenza per l’uso dei prodotti in questione significherebbe assumere come causa di esclusione del nesso
causale tra comportamento (importazione di prodotto difettoso) ed evento (scoppio anomalo del prodotto) una
causa sopravvenuta (comportamento incauto della vittima
nella fase di accensione, presunto proprio in ragione della
mancanza di licenza) non ritenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. Ciò, in contrasto col dettato dell’art. 41
c.p. che trova analogica applicazione anche in materia civile, quanto al rapporto di causalità materiale.
Il d.P.R. n. 224 del 1988, attuativo della direttiva CEE n.
85/374, configurando una responsabilità oggettiva dell’importatore del prodotto difettoso per i danni derivatine a cagione del difetto, mira alla salvaguardia dei
consumatori dagli effetti dei vizi inerenti a prodotti lavorati immessi in circolazione da operatori economici
professionali, anche a prescindere dalla configurabilità
di elementi di colpevolezza.
Le norme volte a salvaguardare i consumatori da difetti di fabbricazione dei prodotti sono applicabili anche
nel caso in cui l’uso dei prodotti stessi è consentito solo da parte di chi sia in possesso dei prescritti titoli abilitanti all’uso; infatti, la mancanza del titolo rileva
(quando i danni siano derivati in ragione del difetto)
solo sul piano della concreta rilevanza dell’eventuale
comportamento imperito, ai fini dell’apprezzamento
del nesso causale tra difetto ed evento.
Il caso
Il sig. B. compra dei fuochi di artificio per la notte di capodanno da un commerciante che li importa dalla Cina. Durante i festeggiamenti uno di questi fuochi invece di esplodere in aria esplode nelle mani del sig. B., cagionandogli
gravi lesioni.
L’infortunato chiama allora in giudizio il commerciante per
il risarcimento del danno. I giudici del merito accolgono
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
911
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Osservatorio di merito
a cura di PAOLO L. CARBONE (*)
RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI
DI SOCIETÀ
Tribunale di Milano, sez. VIII, 15 aprile 2005, n. 1148 Pres. Ciampi - Rel. Fiecconi - Saipem S.p.A., Saipem Services Ag., Saipem Uk Ltd. c. R. S., G. D’O., C. F., A. A.,
G. G., P. P., Eredi di P. C. ed altri
Il caso
Gli amministratori della Saipem S.p.A. hanno tutti concorso nell’occultare somme appartenenti alle società del
gruppo Saipem, apparentemente destinate a finanziare i
costi di operazioni commerciali estere, ma in realtà utilizzate per la creazione di «fondi neri», in seguito utilizzati per
perseguire fini per lo più estranei all’interesse sociale.
Il meccanismo di costituzione di tali «riserve extrabilancio» era basato sul simulato perfezionamento di contratti di
consulenza, d’appalto o di intermediazione, i cui proventi
(in alcuni casi oggetto di sovrafatturazione) venivano accreditati su conti esteri, dirottati sui c.d. «conti di accumulo» e quindi utilizzati dagli amministratori per scopi differenti dall’oggetto sociale (tra cui il finanziamento di partiti
politici), nonché per il proprio arricchimento personale.
A conferma di quanto sopra esposto sono stati prodotti in
atti accertamenti di natura penale, secondo cui sono stati
complessivamente effettuati dalla società Saipem, a favore
di P. P. B. (banchiere e coordinatore delle sopra richiamate
operazioni), pagamenti senza alcuna effettiva causale e giustificazione per un importo pari, quantomeno, a sessanta
miliardi di lire.
Il pronunciamento penale ha inoltre accertato (pur limitatamente ad un dato lasso di tempo ed alle condotte censurabili sotto il profilo penale) il carattere fittizio dei contratti e il diffuso ricorso ad elaborate triangolazioni al fine di
giustificare ingenti uscite di denaro dalle casse sociali. Tali
versamenti passavano attraverso lo schermo di quattro società estere con cui le società del gruppo Saipem avevano
concluso un certo numero di contratti.
Il decisum
L’organo giudicante ha accolto le domande spiegate da parte attrice limitatamente alla minor somma quantificata
dalla medesima nella fase conclusionale, condannando gli
amministratori infedeli al risarcimento del danno di natura
contrattuale nei confronti della Saipem S.p.A. ed extracontrattuale in favore delle controllate estere. Ha invece
rigettato le domande riconvenzionali e di rivalsa interna
proposte dai convenuti.
912
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
In relazione all’azione esercitata dalla società ex art. 2392
c.c., il Tribunale adito ha evidenziato che, nell’adempimento delle obbligazioni verso la società, l’amministratore
è tenuto a dimostrare di avere osservato la diligenza derivante dalla funzione di mandatario. Tale condotta non può
prescindere da un connotato di adeguata perizia, valutato
alla stregua dell’art. 1176, comma 2 c.c., e consistente nella prudenza e avvedutezza in relazione a quelle attività, negoziali e materiali, tipicamente implicate dalla gestione societaria-commerciale.
Per quanto concerne l’aspetto soggettivo, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, spetta all’amministratore
chiamato a rispondere del proprio operato provare l’esatto
e puntuale adempimento delle obbligazioni ricollegabili alla sua funzione e, qualora si profili una situazione d’inadempimento, dimostrare che esso non è a lui imputabile ex
art. 1218 c.c.
Incombe invece alla parte attrice provare il nesso causale
tra condotta e conseguenze pregiudizievoli riconducibili in
via immediata e diretta alla presunta condotta inadempiente.
Nel caso degli amministratori della Saipem S.p.A., le società attrici sono andate oltre quanto richiesto in ordine all’onere della prova, fornendo viepiù piena dimostrazione
circa l’inadempimento degli obblighi degli amministratori.
Viene di conseguenza considerata inconsistente la linea di
difesa tracciata dai convenuti, ai quali viene contestato di
non aver fornito la prova di circostanze giustificative e dell’asserita fruttuosità per il gruppo societario degli esborsi fatti compiere in favore di partiti politici e degli stessi amministratori della Saipem S.p.A.
Pertanto la responsabilità dell’amministratore della Snam
S.p.A., formalmente estraneo alla compagine sociale ed
amministrativa della Saipem S.p.A., nei confronti di tale
(ultima) società trae titolo da un illecito concorso, con gli
amministratori convenuti in giudizio, nella creazione, a
proprio vantaggio, di fondi neri in relazione alla c.d. operazione «Transmed» (ovvero la costruzione del gasdotto sottomarino tra Italia ed Algeria).
Data per acclarata l’estraneità all’oggetto sociale degli
esborsi conseguenti ai contratti fittizi, negoziati con il concorso dei soggetti sopra menzionati, è evidente che la corresponsione di c.d. «tangenti» o, più in generale, la costituzione di fondi destinati a scopi rimasti per lo più occulti costituisce di per sé un fatto illecito e una condotta caratterizzata da profili di mala gestio, risolvendosi nella ingiustificata
Note:
(*) Con la collaborazione di Marco Carai, Andrea Giordo, Luigi Nonne
e Giovanni Sandicchi.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
attribuzione a soggetti estranei all’ente di somme sottratte
alla sfera patrimoniale della società, anche per il solo tramite di controllate operative ed estere.
Il Tribunale adito ritiene che, al contrario di quanto asserito dai difensori di parte convenuta, l’atto illecito (quale la
costituzione di un fondo nero ed il conseguente versamento di una tangente, finalizzato all’acquisizione di una commessa) non potrebbe mai essere considerato in rapporto di
strumentalità rispetto a qualsiasi oggetto sociale.
La sussistenza di un’opacità amministrativa, elevata a sistema e finalizzata ad alimentare un’occulta raccolta di danaro, la cui gestione era demandata a un terzo fiduciario (il
banchiere P. B.), viene considerata tutt’altro che legittima
e, comunque, non giustificabile sotto il profilo della compensatio lucri cum damno.
La responsabilità degli amministratori della Saipem S.p.A.
verso le controllate estere (Saipem A.G. e Saipem UK), si
configura al contrario come una responsabilità extracontrattuale (e solidale), posto che tutti gli amministratori partecipavano e traevano vantaggi, anche personali, dal sistema di creazione dei fondi neri, imponendo alle consociate
estere una sorta di vassallaggio per scopi totalmente estranei alle finalità del gruppo.
Nei confronti dell’amministratore della Snam S.p.A. viene
invece affermata la responsabilità (solidale) extracontrattuale nei soli confronti della Saipem S.p.A.
Come anticipato, vengono inoltre considerate infondate le
domande di manleva o di regresso, perché promosse nei
confronti di soggetti (Snamprogetti S.p.A.) risultati estranei alle vicende di cui è causa, oppure per l’assoluta genericità degli addebiti mossi ai sindaci e alle società di revisione, poggianti esclusivamente su una pretesa funzione di garanzia assegnata loro dalla legge.
Il richiamo dei presupposti in base ai quali gli amministratori di Snam S.p.A. sarebbero tenuti a manlevare G. G. (altro amministratore della medesima società), originanti dalla presunzione di responsabilità solidale degli amministratori della società di capitali, vengono considerati destituiti
di fondamento, poiché non si tratta di responsabilità contrattuale di un amministratore nei confronti della società
rappresentata, ma di responsabilità extracontrattuale verso
terzi per fatto proprio, rispetto alla quale non sussistono obblighi di manleva o di rivalsa a carico di chi materialmente
è rimasto estraneo alla vicenda.
Vengono infine rigettate le domande di rivalsa interna per
quote promosse tra i convenuti P. e G. Ciò in ragione del
fatto che l’istruttoria non ha consentito di evidenziare una
differente graduazione della responsabilità dei medesimi
I precedenti
In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione,
il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il
risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve
soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto
ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere
della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito
dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto
dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in
cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione
o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si
limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore
agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la
non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori,
come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul
debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento (nell’affermare il principio di diritto che precede, le
SS.UU. della Corte hanno ulteriormente precisato che esso trova un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione
o il risarcimento). Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533
in Giust. civ. Mass., 2001, 1826; in Dir. & Formazione,
2001, 1013; in Corr. giur., 2001, 1565, con nota di Mariconda; in questa Rivista, 2002, 318; in Studium Juris, 2002,
389.
In tema di responsabilità dell’amministratore di società vedi anche Cass., sez. I, 28 aprile 1997, n. 3652, in Giust. civ.
Mass., 1997, 649; in Società, 1997, 1389, con nota di Figone. Secondo tale orientamento, all’amministratore non
può essere imputato, a titolo di responsabilità ex art. 2392
c.c., di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista
economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto, eventualmente, rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio
mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le
modalità e circostanze di tali scelte), ma solo l’omissione di
quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Vedi però anche Cass., sez. I, 28 aprile 1997, n. 3652, in
Giust. civ., 1997, I, 2780, secondo cui la distrazione a proprio favore, da parte degli amministratori di società per
azioni, di somme appartenenti alla società costituisce comportamento contrario al dovere di conservazione del patrimonio sociale, dal quale consegue la responsabilità ex art.
2392 c.c.
Nell’adempimento delle obbligazioni verso la società, l’amministratore deve osservare la diligenza del mandatario,
che non può prescindere da un connotato di adeguata perizia consistente nella prudenza ed avvedutezza in relazione a
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
913
GIURISPRUDENZA•SINTESI
quelle attività, negoziali e materiali, tipicamente implicate
dalla gestione societaria - commerciale. Non è tuttavia sindacabile il merito gestorio delle scelte gestionali e delle modalità della loro conduzione, se non nella misura in cui si riscontri l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni
preventive normalmente richieste dall’ordinaria diligenza
professionale a cui ogni buon amministratore è obbligato,
secondo un criterio di prevedibilità e prevenibilità delle
conseguenze insoddisfacenti e pregiudizievoli. Trib. Milano
10 febbraio 2000, in Giur. comm., 2001, II, 326, con nota di
Tina.
In ordine alla possibilità che un atto di disposizione (nella
specie a titolo gratuito), inquadrato in un’operazione complessiva, risulti preordinato a soddisfare un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto, della società o del gruppo cui essa appartiene, vedi Cass., sez. I, 11
marzo 1996, n. 2001, in Riv. dir. comm., 1996, II, 341; in
Giur. comm., 1997, II, 129, con nota di Guidotti.
In tema di responsabilità degli amministratori di società di
capitali verso la società stessa, appartenente ad un gruppo
societario, ha rilievo (anche a prescindere dal testo dell’art.
2497 c.c. come novellato dall’art. 5 d.lgs. 17 gennaio 2003,
n. 6) la considerazione dei cosiddetti vantaggi compensativi derivanti dall’operato dell’amministratore, riflettentisi
sulla società in conseguenza della sua appartenenza al gruppo e idonei a neutralizzare, in tutto o in parte, il pregiudizio
cagionato direttamente alla società amministrata; tuttavia
non è sufficiente, al fine di escludere corrispondentemente
la responsabilità, la mera ipotesi della sussistenza dei detti
vantaggi, ma l’amministratore ha l’onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio
complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta. Cass., sez. I, 24 agosto 2004, n. 16707, in
Giust. civ. Mass., 2004, 2161.
L’amministratore di una società, il quale, al momento e per
effetto dell’assunzione delle funzioni, acquisti la disponibilità di fondi «occulti» costituiti dal precedente amministratore, e poi li impieghi o spenda, avvalendosi di quelle
funzioni, all’insaputa della società, risponde verso la società medesima non quale terzo ed a titolo di illecito aquiliano, ma, ai sensi dell’art. 2392 c.c., per inadempienza rispetto agli obblighi derivanti dal mandato ad amministrare, senza che rilevi distinguere, a questo fine, fra atti compiuti nell’interesse e nell’ambito della gestione dell’impresa sociale ed atti indirizzati a scopi personali, o comunque
non coincidenti con quelli societari. Peraltro, mentre, in
entrambi i casi, la responsabilità di cui alla citata norma è
ravvisabile per l’inosservanza del dovere di tenere la società al corrente dell’esistenza di beni sociali e degli atti di
utilizzazione di essi, con conseguente risarcibilità del pregiudizio discendente alla società stessa dall’ignoranza della
propria effettiva situazione patrimoniale e gestionale, nella seconda ipotesi, a tale responsabilità per occultamento,
si aggiunge quella per l’obiettiva sottrazione o dissipazione
dei cespiti, la quale impone il risarcimento anche del corrispondente nocumento verificatosi sulla consistenza eco-
914
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
nomica dell’ente. Cass., sez. I, 22 giugno 1990, n. 6278, in
Giust. civ., 1990, I, 2265.
RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE
DEL MEDICO
Tribunale di Roma, sez. XIII, 9 aprile 2005 - G. U. Rossetti - M. A. ed altri c. Associazione Italiana per l’Educazione Demografica (AIED)
Il caso
Con atto di citazione regolarmente notificato, M. A. e C.
A. convenivano dinanzi al Tribunale M. G. B. e l’AIED per
sentirli condannare al risarcimento del danno morale e alla salute da loro sofferto in conseguenza della mancata diagnosi, ad opera della convenuta, di un carcinoma mammario di cui era affetta la loro madre, A. M. C., che aveva costretto la stessa C. ad un intervento di quadrantectomia,
con annessa chemioterapia. Nelle more del giudizio, la stessa A. M. C. conveniva in giudizio M. G. B., esponendo i
medesimi fatti sopra riassunti, e chiedendo la condanna dei
convenuti al risarcimento dei danni patiti in conseguenza
della condotta già esposta, tra i quali anche il c.d. «danno
esistenziale». M. G. B. si costituiva regolarmente, contestando la domanda attorea. Si costituiva altresì l’AIED, allegando la correttezza dell’operato della propria incaricata,
dott.ssa B. I due giudizi, chiamati alla stessa udienza, venivano riuniti con apposita ordinanza.
Il decisum
Il giudice accoglieva la domanda della danneggiata, A. M.
C., rigettando invece la domanda come proposta da C. A.
e M. A. nei confronti di M. G. B. e AIED, e condannando
M. G. B. e AIED in solido al pagamento in favore della C.
della somma di euro 38.756,23, oltre agli interessi ed alle
spese di giudizio.
In particolare il giudice, accogliendo le domande di parte
attorea, stabiliva la sussistenza di un valido nesso causale tra
l’omissione ascritta ai convenuti e l’intervento cui l’attrice
si era dovuta sottoporre nonché l’imputabilità, a titolo di
colpa, della condotta alla convenuta.
Per quanto attiene al nesso causale, trattandosi di una condotta omissiva, il giudice applicava la regola dell’equivalenza causale temperata, disciplinata dagli artt. 40 e 41 c.p. ma
applicabile anche in tema di illecito civile e che richiede,
in primo luogo, secondo il più recente orientamento della
Cassazione, il ricorso ad un «giudizio controfattuale», ossia
a quella particolare astrazione consistente nell’ipotizzare
quali sarebbero state le conseguenze della condotta alternativa corretta omessa dal medico, ed in secondo luogo, la verifica che la condotta alternativa corretta presenti una «alta probabilità logica» di scongiurare l’evento di danno. In
facto, osservava il giudice, il giudizio controfattuale dava
esito positivo e la condotta alternativa corretta presentava
quella «alta probabilità logica» richiesta.
Per quanto attiene al requisito della colpa il giudice faceva
GIURISPRUDENZA•SINTESI
riferimento al consolidato orientamento della Suprema
Corte, applicabile anche nell’ipotesi di responsabilità professionale del medico, secondo cui è onere del convenuto
dimostrare o di avere adempiuto la propria obbligazione
contrattuale, ovvero che l’inadempimento non è dipeso da
propria colpa (ex permultis, Cass., sez. III, 23 maggio 2001,
n. 7027, in questa Rivista, 2001, 1165, con nota di M. Rossetti, I doveri di informazione del chirurgo estetico; Cass., sez.
III, 6 ottobre 1997, n. 9705, in Giust. civ., 1998). Nel caso
di specie, il giudice stabiliva come nessuna delle eccezioni
mosse dai convenuti e dai chiamati in causa fosse stata capace di superare il giudizio di colpa formulato a carico della
convenuta.
Per quanto attiene alla liquidazione del danno, questa veniva effettuata in modo differenziale, secondo la costante
giurisprudenza dello stesso Tribunale, ovvero: (a) liquidando il danno biologico effettivamente sussistente; (b) liquidando il danno biologico che verosimilmente e presumibilmente sarebbe residuato in caso di diagnosi tempestiva; (c)
sottraendo l’importo sub (b) da quello sub (a) per un valore complessivo di euro 38.756,23.
Con specifico riferimento al c.d. «danno esistenziale» che,
secondo parte attrice, sarebbe consistito nella perduta serenità, conseguente alla paura di una risorgenza del male, il
giudice invece recisamente escludeva la sussistenza di tale
danno nel caso di specie. Facendo riferimento ad una precedente pronuncia della Suprema Corte che aveva espressamente stabilito l’inesistenza della categoria del danno esistenziale come autonoma categoria di danno, il Tribunale
precisava, in ossequio a quanto stabilito dalla Suprema
Corte, che i danni non patrimoniali consistenti nella perdita o nello stravolgimento delle proprie abitudini di vita,
pur risarcibili, costituiscono però danni non patrimoniali
indistinguibili dalle sofferenze morali e di essi si deve debitamente tenere conto nella liquidazione del (unico ed unitario) danno morale, non potendo essere liquidati a parte
ed in aggiunta rispetto agli altri danni non patrimoniali.
Infine, il giudice rigettava la domanda di risarcimento del
danno non patrimoniale allegato dagli attori M. A. e C. A.
in quanto pur ammettendo, in linea teorica, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da parte dei prossimi congiunti della vittima di lesioni, egli riteneva mancante, per la stessa evidenza dei fatti, la prova accettabile di un
valido nesso causale tra l’omessa diagnosi ascritta ai convenuti e il danno non patrimoniale allegato dagli stessi attori.
Facendo riferimento alla decisione resa da Cass. 9556/02,
cit., il giudice aderiva alla tesi secondo cui «la mera titolarità di un rapporto familiare non può essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, occorrendo di
volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia
consistito e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo
svolgimento» (Cass. 9556/02).
I precedenti
Nell’ipotesi di delictum per omissionem commissum da parte
del medico, la Suprema Corte ha di recente abbandonato il
proprio tradizionale orientamento, secondo cui, nel caso di
omessa diagnosi (od omesso tempestivo intervento), il medico rispondeva del danno quante volte un tempestivo intervento avrebbe avuto «serie ed apprezzabili possibilità di
successo» (in tal senso, ex multis, Cass. pen., sez. IV, 24 febbraio 2000, Minella, in CED Cass. RV. 216732; Cass. pen.,
sez. IV, 5 ottobre 2000, in Riv. pen., 2001, 452; Cass. pen.,
sez. IV, 1° ottobre 1999, in Dir. pen. e proc., 2001, 469). Le
Sezioni Unite penali del giudice di legittimità, componendo il contrasto medio tempore insorto in seno alle sezioni
semplici, hanno abbandonato la vecchia nozione di «serie
ed apprezzabili possibilità di successo», sostituendovi quello della «alta o elevata credibilità razionale» del giudizio
controfattuale (Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n.
30328).
Con riferimento al requisito della colpa nell’ipotesi di responsabilità professionale del medico, secondo consolidato orientamento della Suprema Corte, è onere del medico
dimostrare che il danno non sussiste, ovvero non è dipeso
da propria colpa (ex permultis, Cass., sez. III, 23 maggio
2001, n. 7027, in questa Rivista, 2001, 1165; Cass., sez. III,
6 ottobre 1997, n. 9705, in Giust. civ., 1998, I, 424; nonché, per la giurisprudenza dello stesso Tribunale di Roma,
ex multis, Trib. Roma 30 novembre 2003, Plaitano c. Toscana, inedita; Trib. Roma 30 giugno 2003, Felix c. Marcorelli, inedita; Trib. Roma 1° agosto 2003, Nardozi c. Diotallevi, inedita).
Speciale menzione merita il problema del danno esistenziale come categoria autonoma di danno, rispetto al quale si
segnalano le oramai celebri decisioni della Corte di Cassazione prima (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. 31
maggio 2003, n. 8828, ambedue in questa Rivista, 2003, 816
ss.), e della Corte costituzionale poi (Corte cost. 11 luglio
2003, n. 233, in questa Rivista, 2003, 939 ss.), che hanno
avuto l’effetto, da un lato, di ricondurre qualsiasi pregiudizio non patrimoniale nell’ambito della disciplina dell’art.
2059 c.c., e, dall’altro, di eliminare il limite risarcitorio dei
«casi previsti dalla legge» nelle ipotesi in cui il danno abbia
leso interessi della persona di rango costituzionale. Con
specifico riguardo alla categoria del «danno esistenziale» è
intervenuta la stessa Suprema Corte, la quale - chiamata a
precisare il senso e la portata di quanto stabilito da Cass.
8828/03, cit., - ha chiaramente affermato l’inesistenza del
danno esistenziale come categoria autonoma di danno
(Cass., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488, in questa Rivista,
2005, 379, con nota di M. Feola, Essere o non essere: la Corte di Cassazione e il danno prenatale).
Infine, in relazione al diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale da parte dei prossimi congiunti della vittima
di lesioni, si veda Cass., sez. III, 23 aprile 1998, n. 4186, in
questa Rivista, 1998, 686 (con nota di G. De Marzo, Riconosciuta la risarcibilità dei danni morali ai congiunti del leso) che
per prima ha affermato tale diritto. Tale sentenza ha aperto
un significativo contrasto in ambito giurisprudenziale che è
stato composto, in senso favorevole, ma con prudenza, alla
risarcibilità, da Cass., sez. un., 1° luglio 2002, n. 9556, in
Dir. e giust., 2002.
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
915
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Osservatorio sulla giustizia
amministrativa
a cura di GINA GIOIA
LA P.A. È IN COLPA E DEVE RISARCIRE
IL DANNO SE OMETTE DI DISAPPLICARE
UNA NORMATIVA INTERNA CONTRASTANTE
CON QUELLA EUROPEA PREVALENTE
T.a.r. Puglia, Sez. Bari, Sez. I, 7 giugno 2005, n. 2778 Pres. Ferrari - Rel. Anastasi - Intercantieri S.p.A. c. Consorzio per la Bonifica della Capitanata di Foggia e Regione Puglia
Una società, dopo aver partecipato ad una licitazione privata indetta dal Consorzio per la Bonifica della Capitanata
con bando regolarmente pubblicato sia nella G.U. che nella G.U.C.E., avente ad oggetto l’affidamento dei lavori di
«Completamento delle opere occorrenti per la utilizzazione
irrigua delle acque reflue depurate del Comune di Cerignola», per l’importo base di lire 9.074.538.000 (oggi: euro
4.686.607,75), era stata esclusa per anomalia dell’offerta.
L’esclusione violava l’art. 30, n. 4 della Direttiva Comunitaria n. 93/37/CE, come è stato accertato con sentenza con
del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 251/2002.
Su queste premesse adiva il T.a.r. Puglia, nel contraddittorio con il Consorzio per la Bonifica della Capitanata di Foggia e la Regione Puglia, al fine di richiedere il risarcimento
danni per il mancato guadagno per l’importo di euro
468.660,77 oltre interessi e danni da svalutazione monetaria per l’illegittima esclusione dell’offerta fino al soddisfo; il
rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara nella misura da indicarsi, oltre quelle sostenute per assistenza e consulenza legale, quantificate in euro 97.705,00,
oltre IVA e CPA; per la perdita di chance, la somma quantificata in relazione alle elevate probabilità che essa avrebbe potuto ottenere l’aggiudicazione in base alle giustificazioni fornite.
Precisava a tal uopo che l’Amministrazione, dopo aver tardivamente chiesto le giustificazioni, prontamente riscontrate dalla Intercantieri, ometteva di pronunciarsi sulle
stesse e di dare corso al procedimento di verifica.
La prima questione che il Collegio si è trovato ad affrontare ha riguardato la legittimazione passiva anche della Regione Puglia, concessionaria del Consorzio della Bonifica
della Capitanata.
I giudici pugliesi hanno escluso la legittimazione passiva
della Regione e ne hanno disposto l’estromissione, argomentando dall’art. 6 del Regolamento n. 3/83 a mente del
quale «Il Consorzio concessionario resta competente della
gestione di eventuali rapporti contenziosi, in sede giurisdi-
916
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
zionale» nelle controversie instaurate da terzi avverso il
Consorzio. Non solo, ma nella fase della determinazione
della quantità del finanziamento, la Regione si avvale di
poteri discrezionali («Le maggiori spese, ivi comprese quelle per patrocinio, nei limiti ritenuti ammissibili dalla Giunta regionale, saranno riconosciute solo nel caso in cui la
vertenza non tragga origine da inadempienze colpose o negligenze del concessionario»), a fronte dei quali non può
esistere alcuna posizione di diritto soggettivo di credito dell’ente gestore (cfr. Cass., sez. un., 17 giugno 1982, n. 3945).
Ed infatti, il giudizio di legittimità sugli atti di gara - da cui
trae origine la presente controversia - si è svolto senza che
la Regione Puglia sia stata evocata in giudizio.
Nel merito, la richiesta di risarcimento del danno è stata
accolta. Il diritto al risarcimento del danno presuppone la
positiva verifica di tutti i requisiti di legge, per cui, oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata
dall’ordinamento (il «danno ingiusto»), è indispensabile
che sia accertata anche la colpa (o dolo) dell’Amministrazione. L’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo non costituisce ex se un dato sufficiente a supportare una pronuncia di condanna.
In ordine al concreto atteggiarsi del concetto di colpa della
Pubblica Amministrazione, ai fini dell’integrazione del
concetto di colpevolezza postulata dall’art. 2043 c.c., la giurisprudenza tradizionale era orientata nel senso di far discendere la presunzione assoluta di colpa (cfr. ex multis
Cass., sez. III, 9 giugno 1995, n. 6542) dall’esecuzione di un
provvedimento amministrativo illegittimo da parte di un
soggetto dotato di capacità istituzionale e di competenza
funzionale (cioè da parte di un soggetto consapevole della
violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non
scritte nella quale si risolve la colpa, secondo i criteri di cui
all’art. 43 c.p.), fino alla nota sentenza Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500. Questa ha superato il tradizionale concetto di culpa in re ipsa, mediante l’elaborazione del criterio
della cosiddetta «colpa d’apparato», che riferisce l’indagine
alla Pubblica Amministrazione come apparato impersonale e non al funzionario legittimato ad esprimerne la volontà
o ad esso legata da un vincolo di subordinazione. Da questa
nuova impostazione, tuttavia, sono emerse, in sede applicativa, alcune difficoltà derivanti dall’introduzione, nella
struttura dell’illecito, della verifica di una disfunzione amministrativa, che non sempre è causa dell’illegittimità dell’atto e risulta essenzialmente estranea al profilo psicologico dell’azione amministrativa immediatamente produttiva
del danno, oltre che inidonea a valorizzare adeguatamente
GIURISPRUDENZA•SINTESI
le circostanze esimenti, che possono essere apprezzate soltanto mediante la riferibilità soggettiva del danno alla colpevole azione amministrativa.
Conseguentemente, si è cercato di ancorare il concetto di
colpa all’apprezzamento dei vizi provvedimentali, mutuando dalla giurisprudenza comunitaria diversi indici valutativi quali «(…) la gravità della violazione in relazione all’ampiezza dei margini di discrezionalità dell’amministrazione, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni
concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel
procedimento» (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno
2001, n. 3169).
In applicazione di tali canoni valutativi, pertanto, il giudizio sulla colpevolezza dell’Amministrazione va affermato
quando la violazione risulta grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto ed in un quadro di riferimenti
normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato,
mentre va negato, viceversa, allorquando l’indagine presupposta conduce al riconoscimento di un errore scusabile
(per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto).
Successivamente i caratteri della responsabilità della Pubblica Amministrazione da attività provvedimentale sono
stati ricostruiti dogmaticamente in termini di responsabilità
da contatto sociale qualificato, precisandosi che - in analogia alle forme di accertamento giudiziale dell’illecito contrattuale o precontrattuale (e, in particolare, del criterio di
imputazione del danno definito dall’art. 1218 c.c.) - la responsabilità dell’Amministrazione per l’adozione di un atto
illegittimo può presumersi - sotto il profilo dell’ascrivibilità
del pregiudizio - da una condotta colposa dell’apparato, per
cui, il privato va ammesso alla mera allegazione del danno
patito e della sua riconducibilità eziologia all’adozione od all’esecuzione di un provvedimento viziato, con attribuzione
all’Amministrazione dell’onere di dimostrare la propria incolpevolezza mediante la deduzione di elementi di fatto e di
diritto idonei a documentare la ricorrenza di un «errore scusabile» e, quindi, a dimostrare l’assenza di colpa nel proprio
operato (Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239).
L’illecito dell’Amministrazione viene, così, configurato in
termini in qualche modo corrispondenti all’inadempimento dei doveri di correttezza, ravvisabili nella fase delle trattative (e, quindi, tipici della responsabilità precontrattuale), in modo da superare l’equivalenza dei concetti colpaviolazione grave (conf. Cons. Stato, sez. VI, 20 gennaio
2003, n. 204; Cass., sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157, che
hanno assimilato la responsabilità dell’Amministrazione
per attività provvedimentale, segnatamente nel campo lesione degli interessi c.d. pretesivi, a quella contrattuale per
violazione di diritti relativi).
Da ultimo, le suddette esigenze di semplificazione probatoria sono state ricondotte all’interno dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana - caratterizzati da una
maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggetti-
vi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela - utilizzando, per la verifica dell’elemento
soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e
2729 c.c. (elementi indiziari o indici rivelatori della colpa,
come la gravità della violazione, non intesa, quindi, come
criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al
procedimento (Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto 2004, n.
5500).
Anche in quest’ottica, all’Amministrazione spetta l’allegazione degli elementi (pure indiziari) ascrivibili allo schema
dell’errore scusabile (in coerenza con le prospettazioni di
cui alla nota sentenza della Cassazione n. 500/99), quali la
gravità delle violazioni imputabili all’Amministrazione, vista pure in relazione all’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo (che assume valenza pressoché
decisiva alla gravità della violazione), il grado di chiarezza e
precisione della norma violata, la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione, la novità di quest’ultima, ecc. (elementi indicati anche da Corte Giustizia C.E.: sent. 5 marzo
1996, cause riunite nn. 46 e 48 del 1993; sent. 23 maggio
1996, causa C-5/1994), riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in un certo senso in analogia con l’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona
fede nelle contravvenzioni, con esclusione del rilievo del livello culturale e delle condizioni psicologiche soggettive
del funzionario che ha adottato l’atto.
Ne consegue che l’esenzione da colpa può essere ammessa
soltanto in presenza di un quadro normativo confuso e privo di chiarezza, restando, altrimenti, l’Amministrazione
soggetta all’inevitabile giudizio di colpevolezza nella violazione di un canone di condotta agevolmente percepibile
nella sua portata vincolante.
In tale prospettazione, risulta condivisibile il riferimento al
criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del
professionista di cui all’art. 2236 c.c., che riconnette il grado di colpevolezza necessario ai fini della costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, tenendo, cioè, conto che l’accertamento dei presupposti di fatto dell’azione
amministrativa può implicare valutazioni scientifiche complesse o verifiche difficoltose della realtà fattuale.
Conseguentemente, se la violazione è l’effetto di un errore
scusabile dell’autorità, non si potrà configurare il requisito
della colpa, mentre, se la violazione appare grave nonché
maturata in un contesto nel quale all’indirizzo dell’Amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul
piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa
dovrà sussistere (Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2001, n.
3169; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2001, n. 6281).
Ciò appare coerente anche con la recente sentenza della
Corte di giustizia della Comunità europea 14 ottobre 2004,
C-275/03 - richiamata dalla ricorrente - che ha ritenuto illegittime ed inadeguate rispetto all’art. 2, paragrafo 1 sub c)
della Direttiva n. 89/665/CE le norme dell’ordinamento
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
917
GIURISPRUDENZA•SINTESI
portoghese nella misura in cui esigono la prova del comportamento colposo o doloso di coloro che agiscono per un
determinato soggetto appartenente alla Pubblica Amministrazione, poiché, in tal modo, il soggetto leso da un atto illegittimo rischia di essere privato della possibilità di essere
risarcito per il pregiudizio causato dal provvedimento o di
ottenerlo tardivamente a motivo del fatto che non è in grado di fornire la prova del dolo o della colpa.
Nel caso che ne occupa, è stata configurata la colpa della
P.A. per non aver applicato la normativa comunitaria in
materia. Infatti l’Amministrazione aggiudicatrice, a partire
dal 1° gennaio 1992, è tenuta a seguire il seguente subprocedimento, ai sensi dell’art 30, n. 4 della Direttiva
93/37/CE: a) in primo luogo, deve identificare le offerte sospette; b) in secondo luogo, deve consentire alle imprese
interessate di dimostrarne la serietà, chiedendo loro le precisazioni che ritiene opportune; c) in terzo luogo, deve valutare la pertinenza dei chiarimenti forniti dagli interessati;
d) in quarto luogo, deve adottare una decisione circa l’accoglimento o il rigetto di tali offerte. Tanto risulta altresì ribadito dalla stessa Corte di Giustizia nella decisione del 27
novembre 2001 (C-285/1999 e C-286/1999), proprio in relazione all’esame del precitato art. 21, comma 1-bis, della
legge n. 109/94. I requisiti inerenti al carattere contraddittorio della procedura di verifica delle offerte anormalmente basse, ai sensi dell’art. 30, n. 4 della direttiva 93/37/CE,
siano stati rispettati solo nella misura in cui siano state
compiute successivamente tutte le fasi così descritte.
La direttiva 93/37/CE ha coordinato le procedure di aggiudicazione nel settore degli appalti di lavori pubblici, proponendosi, come obiettivo fondamentale, l’apertura alla concorrenza effettiva di tutte le imprese operanti nella Comunità, che si realizza mediante il rispetto, da parte delle Amministrazioni, del principio della parità di trattamento degli offerenti, con conseguente divieto di discriminazione in
base alla nazionalità ed obbligo di trasparenza: ciò anche in
armonia con i principi di legalità, imparzialità e buon andamento della azione amministrativa, sanciti dall’articolo
97 della Costituzione, nell’ambito dei quali trovano adeguata tutela, com’è intuitivo, anche gli interessi delle ditte
le cui offerte sono state sospettate di anomalia.
Invero, l’Amministrazione è tenuta ad ammettere le imprese a far valere utilmente e dialetticamente il loro punto
di vista su ciascuno dei vari elementi di prezzo proposti,
consentendo che tale facoltà possa essere esercitata dalle
imprese nel modo più ampio e completo possibile, in modo
che esse possano presentare tutte le giustificazioni a sostegno delle offerte, senza alcuna limitazione.
La discrezionalità tecnica che connota l’operato della stazione appaltante non esclude, e anzi, al contrario, impone
la necessità che il giudizio finale di anomalia/non anomalia
dell’offerta debba essere congruamente e dettagliatamente
motivato, dando conto dell’esame di tutti gli elementi dell’offerta, e delle ragioni di attendibilità/inattendibilità dei
singoli elementi e dell’offerta nel suo insieme.
L’obbligo di motivazione si impone non solo nel caso di giudizio finale negativo, ma anche nel caso di giudizio finale
918
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
positivo, sia in ossequio all’obbligo generale di motivazione
dei provvedimenti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto
1990, n. 241), sia a tutela, negli appalti, della par condicio
dei concorrenti (Cons. Stato, sez. VI, 21 agosto 2000, n.
4502).
Se, infatti, è interesse dell’escluso poter controllare il giudizio di anomalia negativo, è interesse dei non aggiudicatari
poter controllare il giudizio positivo.
Le valutazioni operate dall’Amministrazione, nell’ambito
del subprocedimento di verifica dell’anomalia delle offerte,
costituiscono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale, di per sé insindacabile in sede giurisdizionale,
richiedendo la conduzione di un’analisi su elementi di natura tecnica, che presenta, o può presentare in relazione a
talune voci, margini di opinabilità, fatta salva, ovviamente,
l’ipotesi in cui siano manifestamente illogiche o fondate su
insufficiente motivazione o errori di fatto (Cons. Stato, sez.
IV, 29 ottobre 2002, n. 5945; Cons. Stato, sez. V, 1° ottobre
2001, n. 5188; Cons. Stato 6 agosto 2001, n. 4228; Cons.
Stato 5 marzo 2001, n. 1247; Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 2001, n. 6217, punto 3.4).
Nel caso di specie, l’Amministrazione è in colpa perché
aveva un ben preciso dovere di valutazione in ordine alla
compatibilità dell’art. 21 bis della legge 11 febbraio 1994,
n. 109 (nel testo allora vigente) con la precitata norma comunitaria e, quindi, di procedere, in caso di positiva delibazione, alla sua disapplicazione.
Va precisato che il predetto termine del 31 dicembre 1992
era già stato previsto dalla Direttiva 89/440/CEE ed era già
stato puntualmente rispettato dalla norma interna di recepimento di cui all’art. 29, comma 6 del d.lgs. 19 dicembre
1991, n. 406: quindi, la sopravvenuta direttiva 93/37/CEE,
con il precitato art. 30, comma 4, ultimo periodo, non ha
fatto altro che ribadire detto termine del 31 dicembre 1992,
da considerarsi insuperabile.
La proroga ulteriore fino alla data del 1° gennaio 1997, arbitrariamente introdotta dall’ultimo periodo del comma 1
bis dell’art. 21 della legge n. 109 del 1994, pertanto, costituisce una elusione delle preesistenti direttive 89/440/CEE
e 93/37/CEE di palmare evidenza.
La norma transitoria di cui all’ultimo periodo del comma 1
bis dell’art. 21 della legge n. 109 del 1994 - nel testo allora
vigente - andava dunque disapplicato dall’Amministrazione appaltante, in base a principi già noti ed affermati da risalente e consolidata giurisprudenza anche del giudice delle leggi (Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389; Corte cost. 18
aprile 1991, n. 168; Corte cost. 7 novembre 1995, n. 482;
Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 1991, n. 452; Cons. Stato, sez.
IV, 18 gennaio 1996, n. 54; Cons. Stato 28 agosto 1997, n.
927; Cass., sez. un., 10 agosto 1996, n. 7410), secondo cui,
in caso di contrasto tra diritto interno e diritto comunitario, la prevalenza spetta al diritto comunitario anche se la
norma interna confliggente sia stata emanata in epoca successiva, con conseguente obbligo, non solo in capo al giudice, ma anche in capo agli organi della Pubblica Amministrazione, di disapplicare le norme di diritto interno.
Invero, la giurisprudenza ha sempre costantemente ribadi-
GIURISPRUDENZA•SINTESI
to che l’obbligo di disapplicazione del diritto interno in
contrasto con il diritto comunitario fa carico non solo al
giudice, ma anche agli organi della Pubblica Amministrazione nello svolgimento della loro attività amministrativa,
anche d’ufficio ed indipendentemente da sollecitazioni o
richieste di parte (ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 18 gennaio 1996, n. 54; Cons. Stato 28 agosto 1997, n. 927; Cons.
Stato 6 aprile 1991, n. 452; Cass., sez. un., 10 agosto 1996,
n. 7410; T.a.r. Sardegna 30 dicembre 1996, n. 1908; T.a.r.
Emilia Romagna, sez. Parma, 23 luglio 1996, n. 241; T.a.r.
Veneto 24 febbraio 1997, n. 487; T.a.r. Abruzzo, sez. Pescara, 6 luglio 1996, n. 440).
Per completezza, giova ricordare che, successivamente, la
stessa Corte di Giustizia, nella sentenza emessa dalla sez. IV
del 16 ottobre 1997 in causa Vera S.p.A. c. U.S.L. n. 3 di
Genova e Romagnoli, proprio in sede di esame dell’ultimo
periodo del comma 1 bis dell’art. 21 della legge n. 109 del
1994 come modificata dalla legge n. 216 del 1995, ha ricordato alle Amministrazioni italiane che l’art. 30, comma
4, della direttiva 93/37/CEE non consente, dopo il 31 dicembre 1992, di rifiutare le offerte che presentino un carattere anormalmente basso senza previamente osservare la
procedura di verifica prevista dal primo comma dello stesso
art. 30.
Le componenti del danno da risarcire sono quelle tradizionali del damnum emergens e del lucrum cessans. A tal proposito, il Collegio osserva che la giurisprudenza amministrativa si è fatta carico dell’onere di determinazione del «lucro
cessante», individuando nell’art. 345 della legge 20 marzo
1865, n. 2248, All. F, un prezioso riferimento positivo, laddove quantifica nel 10% del valore dell’appalto l’importo
da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, nella determinazione forfetaria
ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr. ex multis Cons.
Stato 8 luglio 2002, n. 3796).
Ulteriore conferma positiva della validità di tale criterio
presuntivo è stata, poi, rinvenuta nell’art. 37 septies, comma
1, lett. c) della legge 11 febbraio 1994, n. 109, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle ipotesi in cui
la concessione venga risolta per inadempimento del concedente o venga revocata per motivi di interesse pubblico, al
concessionario spetti un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere ancora
da eseguire.
Il medesimo criterio risulta poi sostanzialmente riprodotto
dall’art. 122 del regolamento emanato con d.P.R. n.
554/99.
Invero, si è consolidato ormai un indirizzo giurisprudenziale univoco che, sulla base delle predette indicazioni normative, individua nella misura del 10% dell’importo a base
d’asta - per come ribassato dall’offerta dell’impresa interessata - l’entità del guadagno presuntivamente ritratto dall’esecuzione dell’appalto.
Occorre, però, distinguere la fattispecie in cui il ricorrente
riesce a dimostrare che, in mancanza dell’adozione del
provvedimento illegittimo, la sua offerta sarebbe stata cer-
tamente selezionata ed egli avrebbe ottenuto certamente
l’aggiudicazione della gara di cui trattasi, dai casi in cui non
è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato
l’esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata.
Invero, nella prima ipotesi, spetta all’impresa danneggiata
un risarcimento nella forma della fissazione dei criteri ai
sensi dell’art. 35 d.lgs. n. 80/98, pari al 10% del valore dell’appalto, (riveniente, come già detto, dall’art. 345 della
legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. F), ferma restando la
possibilità di conseguire una somma superiore, in presenza
della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato
maggiore di quello presunto.
Viceversa, nella seconda ipotesi, allorché il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l’aggiudicazione dell’appalto si sarebbe conclusa in suo favore, secondo le regole di gara), la somma commisurata all’utile
d’impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione
delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura. Ciò induce i giudici a ridurre in via equitativa ex art. 1226 c.c. la percentuale del risarcimento per perdita di chance dal 5% del valore dell’appalto calcolato in base all’offerta al ribasso presentato dalla ricorrente (criterio
del 10% previsto dall’art. 345 della legge n. 2248/1865, All.
F, diviso per 2, essendo il numero delle chance di aggiudicazione individuabile nel 50%, come già precisato) al 3% del
valore dell’appalto calcolato in base all’offerta al ribasso
presentato dalla ricorrente società, posto che l’utilizzazione
di maestranze ed i mezzi per l’espletamento di altri lavori ha
consentito alla ricorrente una discreta riduzione delle perdite patrimoniali subite.
Per quanto riguarda il danno emergente, spetta alla ricorrente il rimborso delle spese documentati o dei costi documentati sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la
partecipazione alla procedura di aggiudicazione (cfr. art. 2,
comma 7, della direttiva del Consiglio delle Comunità Europee del 25 febbraio 1992, n. 92/13/CEE).
RISPONDE DEL DANNO MATERIALE,
DEL DANNO ALL’IMMAGINE E DEL DANNO
DA DISSERVIZIO PROCURATO ALL’ENTE
IL PUBBLICO DIPENDENTE CHE SI ASSENTA
INGIUSTIFICATAMENTE DAL LAVORO
PERCEPENDO LA RELATIVA RETRIBUZIONE
Corte dei Conti, Sez. Liguria, Sez. giur., 19 maggio 2005,
n. 704 - Pres. D’Antino - Est. Riolo - Pubblico Ministero c. P. C. e S. R. A.
Due dipendenti della Regione Liguria sono stati convenuti
in giudizio, dinanzi alla Corte dei conti sez. giurisdizionale,
per il danno derivante dalle assenze arbitrarie e ingiustificate dall’ufficio, pari all’importo delle retribuzioni indebitamente percepite relativamente ai periodi di assenza effettivamente accertati. I predetti dipendenti, nel periodo considerato, si sono allontanati dal posto di lavoro senza regi-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
919
GIURISPRUDENZA•SINTESI
strare l’uscita mediante azionamento del dispositivo installato in corrispondenza delle uscite.
Uno dei due ha sottoscritto accordo transattivo con la Regione, obbligandosi a rifondere all’Amministrazione, a
mezzo di versamenti rateali, il danno derivante dagli addebiti penali contestatigli, quantificato dalle parti in euro
3.057,00.
Il dipendente cominciava ad onorare tale impegno eseguendo i primi pagamenti, effettuando a favore della Regione Liguria un versamento di euro 459,00, d’importo pari al danno patrimoniale per il quale è stato citato davanti
a questo giudice. In considerazione di ciò il P.M. ha chiesto
in udienza che venga dichiarata la parziale cessazione della
materia del contendere, limitatamente alla domanda di risarcimento del danno patrimoniale, mentre ha insistito
nella domanda di danno all’immagine e nella domanda di
rivalutazione monetaria e di interessi legali sull’importo già
pagato. Il Collegio esclude la responsabilità contabile del
primo dipendente con il quale l’Ente aveva transatto il
danno materiale e relativamente al quale era intervenuta
assoluzione penale dall’imputazione del reato di cui agli
artt. 81 e 640, commi 1 e 2, c.p., per insussistenza del fatto.
Il Collegio contabile, secondo l’indirizzo già espresso da
questa Sezione (sentenza n. 856 del 15 ottobre 2003), ritiene di dovere escludere l’efficacia vincolante del giudicato
penale di assoluzione nel giudizio contabile. Tale orientamento muove dalla considerazione che il nuovo codice di
procedura penale del 1988, con l’espunzione dall’ordinamento del rapporto di pregiudizialità necessaria del processo penale rispetto agli altri, è ispirato ai principi di autonomia delle giurisdizioni (civile, amministrativo-contabile e
penale) e di separatezza dei relativi giudizi. In particolare, la
Sezione, con la richiamata pronuncia, ha escluso l’opponibilità della sentenza assolutoria nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile anche nell’ipotesi in cui
l’Amministrazione si sia costituita parte civile nel processo
penale.
Nel merito, tuttavia, diversamente da quanto ritenuto dal
P.M. in udienza, il Collegio reputa sussistenti i presupposti
per dichiarare la totale cessazione della materia del contendere.
Con il suindicato atto di transazione, infatti, a fronte dell’impegno della Regione Liguria di revocare la costituzione
di parte civile nel suddetto procedimento penale, il dipendente si è impegnato a versare ratealmente la somma complessiva di euro 3.057,00, importo, questo, ampiamente superiore e completamente satisfattivo di tutti i danni per i
quali la Procura ha chiesto la condanna del P.
Le considerazioni difensive secondo le quali la sentenza penale farebbe venir meno anche i presupposti dell’accordo
transattivo, appaiono giuridicamente infondate, atteso che
l’atto di transazione è stato stipulato anteriormente alla definizione del giudizio penale e che la Regione Liguria, all’udienza del 25 marzo 2004, in adempimento all’impegno assunto, ha revocato la costituzione di parte civile nello stesso giudizio. L’obbligo del P. al versamento della somma di
euro 3.057,00 non risulta sottoposto ad alcuna condizione.
920
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
La transazione, inoltre, presuppone l’esistenza di un conflitto di pretese, a nulla rilevando il grado di soggettiva incertezza delle parti circa l’esito della lite o l’oggettivo fondamento delle pretese in conflitto, tanto è vero che la legge
esclude l’annullamento della transazione per errore di diritto, nonché l’impugnazione per causa di lesione (artt. 1969
e 1970 c.c.).
La domanda del P.M. di condanna viene, invece, accolta. È
stato accertato che il dipendente si è allontanato reiteratamente dalla sede di lavoro senza autorizzazione, omettendo
di timbrare il cartellino magnetico. Nei suoi confronti sono
state rilevate uscite mattutine della durata di 55 minuti, 40
m., 38 m., 59 m., 60 m., 95 m., 100 m., ecc. Nella fascia oraria della pausa pranzo sono state accertate uscite della durata di 239 m., 251 m., 240 m., 165 m. ecc. I pedinamenti effettuati dai Carabinieri hanno rilevato che il S. il 16 gennaio 2001 è uscito alle 10 ed è rientrato alle 10.50, trascorrendo il predetto tempo nelle vie del centro, soffermandosi
«a guardare le vetrine dei negozi che si trovavano lungo il
tragitto». Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del
Comparto Regioni - Autonome Locali 6 luglio 1995, all’art. 17, comma 1, stabilisce che «L’orario di lavoro è di 36
ore settimanali (…)»; l’art. 23, comma 3, lett. e) dispone
che il dipendente deve in particolare rispettare l’orario di
lavoro, adempiere alle formalità previste per la rilevazione
delle presenze e non assentarsi dal luogo di lavoro senza
l’autorizzazione del dirigente del servizio. L’avvenuta violazione dei doveri di servizio da parte del convenuto ha determinato un danno alla Regione Liguria, nella misura di
euro 502,00, corrispondente alla retribuzione percepita per
le ore di lavoro non prestato. Quanto al riposo compensativo non usufruito dal S., correttamente il P.M. contabile
ha ritenuto non configurabile alcuna forma di compensazione con il minor orario svolto a causa delle assenze non
autorizzate e non timbrate.
In base al punto 7 del contratto collettivo integrativo decentrato 16 novembre 2000, «la fruizione dei permessi
compensativi per le ore di straordinario autorizzate deve
avvenire improrogabilmente entro il 31 marzo 2001». La
fruizione di detti permessi, secondo il suddetto punto 7,
presuppone una richiesta preventiva al dirigente, il quale
valuta la compatibilità della stessa con le esigenze tecniche
ed organizzative del servizio.
La natura del riposo compensativo e le specifiche modalità
alle quali è subordinata la possibilità di fruire dello stesso
escludono che si possa giuridicamente configurare una
compensazione con le ore di servizio non prestato per assenze arbitrarie e ingiustificate.
Il diritto al recupero per ore di straordinario non retribuito,
maturato dal dipendente, non rileva neanche al fine di
escludere l’elemento soggettivo richiesto per il perfezionamento della fattispecie di responsabilità contabile. Per i
giudici liguri non è, infatti, ipotizzabile che la mancata timbratura del cartellino prima delle uscite non autorizzate e
non concordate, fosse preordinata alla compensazione in
argomento, in quanto l’irritualità dell’uscita, rendendo in
ogni caso non quantificabile il tempo trascorso dal dipen-
GIURISPRUDENZA•SINTESI
dente lontano dal posto di lavoro, avrebbe comunque determinato l’impraticabilità dell’auspicabile compensazione,
circostanza questa che comporta l’esclusione di ogni giustificazione per il comportamento tenuto dal dipendente. È
stata, pertanto, affermata la responsabilità del convenuto a
titolo di dolo, e conseguentemente è stato condannato al
risarcimento del danno materiale e all’immagine dell’Ente
e da disservizio. Infatti, la notizia dell’illecito ha avuto
un’ampia diffusione nel pubblico, essendo stata riportata
dalla stampa per circa 10 giorni (ne hanno parlato il Gior-
CD-ROM
nale, il Secolo XIX, il Corriere Mercantile, il Lavoro). La
divulgazione dei fatti in argomento, riguardanti il fenomeno dell’assenteismo nel pubblico impiego, generando nei
cittadini un inevitabile senso di sfiducia sulla efficienza e
serietà dell’Ufficio di riferimento, ha determinato una lesione del prestigio dell’Amministrazione. Perciò, i fatti in
questione sono tali da ingenerare nell’opinione pubblica la
convinzione che i comportamenti illeciti posti in essere dai
predetti soggetti costituiscano un connotato usuale dell’Ente di appartenenza.
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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INTERVENTI•DANNO NON PATRIMONIALE
La quantificazione
Il quantum del danno
non patrimoniale (*)
di PATRIZIA ZIVIZ
1. La questione del risarcimento del danno non patrimoniale non si presta certo a poter essere affrontata in
poche battute. È ben vero che essa è stata spesso considerata dagli interpreti come un problema secondario,
da demandare ai pratici; ma tale circostanza si lega non
tanto ad una sottovalutazione dell’importanza che riveste un simile punto, quanto piuttosto ad un’oggettiva difficoltà nell’affrontarlo adeguatamente sul piano
teorico.
A ben vedere, si tratta di analizzare quello che rappresenta lo snodo fondamentale cui appare correlata la possibilità stessa di un’attivazione della tutela aquiliana nel
settore delle perdite non economicamente valutabili. E
la soluzione, in questo campo, va ricercata nel nuovo
quadro entro il quale si colloca la riparazione del danno
non patrimoniale, a seguito della svolta giurisprudenziale del 2003.
Tre sono i punti che intendo toccare nel mio intervento:
(a) chiarire il significato che va attribuito ad un’operazione mirante a liquidare una somma di denaro a fronte
di un pregiudizio non avente valenza patrimoniale;
(b) stabilire quali siano i presupposti necessari affinché
una simile operazione possa essere correttamente effettuata dal giudice;
(c) valutare quali riflessi di ordine generale proietti l’esatto inquadramento del problema del quantum sul sistema di riparazione del danno non patrimoniale, con particolare riguardo al ruolo svolto dall’art. 2059 c.c. nell’ambito del quadro aquiliano complessivamente inteso.
2. Si tratta, anzitutto, di chiedersi cosa significhi esattamente procedere alla quantificazione del danno non patrimoniale.
Il dato di partenza essenziale è rappresentato dal fatto
che la vittima ha subito una perdita non economicamente valutabile; la definizione stessa del danno mette
allora l’interprete di fronte alla constatazione che tale
pregiudizio non può essere quantificato in denaro. Si
tratta, piuttosto, di attribuire alla vittima un arricchimento patrimoniale, destinato a controbilanciare il depauperamento non patrimoniale destinato a rimanere
definitivamente a suo carico. Il nodo da sciogliere, perciò, consiste nel commisurare in maniera adeguata la
somma destinata ad incrementare il patrimonio del danneggiato, a fronte di un danno che abbia inciso negativamente sulla sua sfera non economica. Si tratta, cioè, di
922
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
procedere ad una compensazione «impropria», in quanto mette a confronto due entità non omogenee.
Tale operazione, da parte del giudice, deve avvenire nel
segno di una garanzia di uniformità di trattamento delle
vittime: pregiudizi non patrimoniali simili dovranno trovare riscontro nell’attribuzione di un’identica quantità
di denaro. Nel contempo, si tratterà comunque di tener
conto che lesioni identiche sono suscettibili di riverberarsi in maniera differenziata sulla vittima, in ragione
della sua specifica situazione.
Ecco allora che la quantificazione del danno non patrimoniale discenderà dalla combinazione di due distinti
meccanismi: (a) conversione di una determinata perdita
non patrimoniale in una somma di denaro attraverso criteri condivisi di monetizzazione; (b) personalizzazione
della somma così ottenuta in considerazione delle caratteristiche della fattispecie concreta.
Il punto più difficile da sciogliere è, naturalmente, il primo: che consiste nel fornire al giudice (che deve procedere alla valutazione equitativa) un sistema condiviso di
conversione, capace di tradurre in denaro le perdite di
carattere non patrimoniale.
La prima applicazione effettiva di tale modo di procedere si è avuta con riguardo al danno biologico. La relativa
tabellazione, infatti, rappresenta null’altro che la traduzione in una somma di danaro della perdita non economica legata ad una certa compromissione dell’integrità
psico-fisica della vittima. Abbandonata la valutazione
equitativa pura e semplice, si colloca l’intervento dei
giudici su una scacchiera di valori condivisi, che vengono poi modulati sulla base della situazione concretamente colpita.
È sui valori offerti da questo meccanismo di conversione,
allora, che si tratta oggi di ragionare. Bisogna, cioè, riconoscere che - nell’attuale sistema - esistono dei precisi
punti di riferimento monetari per le perdite di carattere
non economico. Conosciamo, ad esempio, il valore che
ha il massimo danno non patrimoniale - corrispondente
al completo annullamento di ogni attività di carattere
personale protrattosi per tutto il corso della vita - che è
Nota:
(*) Queste pagine riproducono, nelle loro linee essenziali, l’intervento all’incontro di studio organizzato da questa Rivista il 22 ottobre 2004 presso
la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova.
INTERVENTI•DANNO NON PATRIMONIALE
fornito dal valore del danno biologico permanente del
neonato colpito dal 100% di invalidità. Conosciamo, altresì, l’impatto di un annullamento totale delle attività
non patrimoniali della vittima per la durata di un giorno
(corrispondente al valore del danno biologico temporaneo).
Ecco allora che, tenuto conto di ciò, si potrà costruire in
termini relativi il discorso, modulando la risposta in ordine al quantum delle varie voci non patrimoniali su una
base armonica (il che implica, ad esempio, che la richiesta del danno non patrimoniale per le ore perse in un’inutile attesa del volo all’aeroporto dovrà essere quantificata in misura percentuale rispetto alla somma concessa
per un intero giorno di completa inattività della vittima). Naturalmente, in questo discorso, si tratta di tener
conto della gerarchia che - nell’ordinamento - riveste la
posizione colpita in capo alla vittima; non solo, ma anche della gerarchia intercorrente tra i vari «momenti
non patrimoniali» del soggetto colpito, dove ad esempio
l’attività di svago e divertimento rivestirà - in termini
patrimoniali - una caratura certamente inferiore rispetto
alle attività di carattere familiare. Si tratta cioè di procedere ad un’opera di relativizzazione da attuare sulla base
di valutazioni che ci vengono fornite dalla coscienza sociale, e che trovano altresì puntuale riscontro entro i dati normativi che ci vengono offerti dall’ordinamento.
L’opera di quantificazione così illustrata dovrà avvenire
nel segno del principio di integrale risarcimento del danno: che, per quanto riguarda i pregiudizi non patrimoniali, significa prendere in considerazione tutte le perdite non economiche subite dalla vittima, riconoscendo
un riscontro in denaro a ciascuna di esse.
3. Al fine di portare a termine un’operazione come quella illustrata, è indispensabile rispettare un presupposto di
base: quello dell’esatta individuazione della perdita subita dalla vittima, per la quale si rende necessaria la conversione in denaro.
Ciò significa, allora, che andrà respinta qualsiasi tentazione di pervenire ad una liquidazione cumulativa del
danno non patrimoniale. Non appaiono, cioè, condivisibili quelle indicazioni giurisprudenziali le quali - sulla
base della constatazione che, ricadendo oramai tutte le
voci non patrimoniali sotto l’egida di una disciplina unitaria, non avrebbe senso operare una distinzione tra le
stesse - negano una distinzione tra le varie poste non patrimoniali.
È ben vero, in effetti, che il meccanismo di conversione
in moneta di qualunque pregiudizio di carattere non patrimoniale rimane affidato alla regola della valutazione
equitativa; ma ciò non significa che la stessa segua regole identiche in relazione a ciascuna voce non economica. I criteri di valutazione, cioè, potranno variare a seconda che si tratti di commisurare l’arricchimento adeguato a fronteggiare un turbamento interiore, ovvero
una certa impossibilità biologica, o ancora il venir meno
di una certa attività realizzatrice della persona. Le perdite non economiche scaturenti da un certo illecito non
sono destinate necessariamente a muoversi secondo una
logica di proporzionalità. Non si tratta, quindi, di duplicare il risarcimento, ma di constatare che ogni singola
componente merita una distinta quantificazione, in
quanto la valutazione equitativa sottostante alla stessa
verrà attuata secondo criteri di volta in volta differenti.
Ancor prima di tale rilievo, conta altresì il fatto che l’interprete - nell’accingersi ad attribuire un valore monetario ad un’entità non economica - deve comunque conoscere l’identità della perdita che si appresta a tradurre in
denaro. La misurazione, benché attuata al di fuori dei
meccanismi di mercato, impone di essere applicata ad
un’entità identificata in termini positivi. È questa, del
resto, l’unica strada per evitare di far scattare il risarcimento a fronte di perdite inesistenti.
Di qui, allora, la necessità, nella quantificazione del danno non patrimoniale, di tenere distinte le varie categorie, individuate dalla Corte Costituzionale: danno morale, danno biologico, danno non patrimoniale derivante
dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti. E, quanto a quest’ultima categoria, è destinata a valere l’osservazione già in precedenza formulata in termini
generali: l’interprete, nell’opera di valutazione, non può
limitarsi a considerare ciò che il danno non è, ma deve
prendere in considerazione riflessi che si prestano ad essere descritti in termini positivi. In questa chiave, allora,
si manifesta l’opportunità di fare ricorso ad un’etichetta
quale quella del danno esistenziale, sotto la quale sono
destinate ad essere prese in considerazione le compromissioni delle attività realizzatrici della persona.
Tramite una corretta distinzione delle varie voci non patrimoniali è possibile evitare di risarcire perdite inesistenti, di smascherare operazioni di dilatazione impropria di alcune voci rispetto ad altre e di garantire un inventario preciso del pregiudizio non economico effettivamente patito dalla vittima, distinto in tutte le sue
componenti. Ciascuna di queste andrà poi tradotta in
denaro seguendo l’applicazione dei parametri che meglio
si prestano a determinare l’arricchimento più adeguato
da attribuire alla vittima in corrispondenza della perdita
subita.
4. Un corretto approccio al problema del quantum, nel
settore delle perdite non economiche, consente altresì di
constatare come alla soluzione di una simile questione
appare legata la stessa attivazione del rimedio aquiliano.
Non si tratta, tanto, di registrare una presunta ostilità
dell’ordinamento verso perdite immateriali ed imperscrutabili, non verificabili con evidenza ed immediatezza; non è la volatilità del danno ad aver costituito - in
passato - un ostacolo alla sua risarcibilità, quanto il fatto
che lo strumento del denaro può apparire rimedio inidoneo a compensare pregiudizi del genere. L’eresia emerge
in maniera evidente soprattutto nel momento in cui alla generica etichetta non patrimoniale si dà un contenuto positivo: in particolare, se ci riferiamo a quella che da
sempre ha rappresentato la voce più collaudata di danno
non patrimoniale - vale a dire il patema d’animo -, si pa-
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
923
INTERVENTI•DANNO NON PATRIMONIALE
lesa pienamente la difficoltà di procedere ad una misurazione in termini pecuniari della sofferenza e del dolore
patiti dalla vittima dell’illecito.
Resta il fatto che il danno, nella sua veste di accadimento negativo già concluso, trova davanti a sé un unico rimedio: quello del risarcimento. L’ordinamento, nel momento in cui sceglie di reagire a fronte di un fenomeno
del genere, ha a disposizione esclusivamente lo strumento del denaro. In questo caso, si tratta di constatare che
la compensazione attribuita alla vittima non avviene entro un ambito omogeneo: per cui non si tratta di misurare il danno in denaro (cosa impossibile, visto che si tratta di entità non economica), ma di riconoscere che la
vittima di un simile pregiudizio potrà essere tutelata attraverso l’attribuzione di un arricchimento di ordine patrimoniale.
Una volta affrontata in questa prospettiva la questione
della quantificazione del danno non patrimoniale, possiamo guardare in un’ottica «rivoluzionaria» quanto al
ruolo spettante all’art. 2059 c.c. nel nostro sistema aquiliano.
Si sa bene come da sempre alla norma sia stato riconosciuto un ruolo limitativo in ordine al ristoro delle perdite non patrimoniali, consentito esclusivamente con
924
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
finalità afflittive nei confronti del danneggiante. Ebbene, oggi - in linea con quanto afferma la S.C. nelle sentenze che hanno segnato la svolta del 2003 - si tratta di
constatare che la disposizione appare scevra di qualunque intento punitivo nei confronti del responsabile, e
mira bensì «a consentire il risarcimento del danneggiato dal fatto illecito anche se leso in interessi non economici».
In buona sostanza, il compito dell’art. 2059 c.c. sarebbe
quello di autorizzare l’utilizzo del rimedio risarcitorio a
fronte di danni che non appaiono misurabili in denaro.
Ciò significa che - quand’anche per le perdite non economiche si pervenisse all’eliminazione di qualunque filtro risarcitorio ulteriore rispetto a quelli previsti per il
danno patrimoniale - la norma continuerebbe ad avere
un senso ben preciso: essa svolgerebbe un ruolo «autorizzatorio», consentendo al giudice di procedere ad una
quantificazione in denaro a fronte di un danno non stimabile attraverso i parametri di mercato. Si tratta, cioè,
di riconoscere che la disposizione in parola consente di
procedere ad un’operazione che non trova agganci in alcun tipo di convenzione sociale, ma che si rende necessaria per non lasciare priva di tutela la vittima di una
perdita non economicamente valutabile.
INDICI
INDICE DEGLI AUTORI
Batà Antonella
Osservatorio di legittimità.............................................
908
Bellini Elisabetta
Class actions e mercato finanziario: l’esperienza nordamericana .........................................................................
817
Cacace Simona
Contenuti e funzioni del consenso informato: autodeterminazione individuale e responsabilità sanitaria ....
866
Calabrese Michele
La (doppia) natura della responsabilità del gestore di
una pista da sci ...............................................................
840
Carbone Paolo L.
Osservatorio di merito ...................................................
912
De Marzo Giuseppe
L’assicurazione obbligatoria degli sportivi dilettanti
tra Decreti ministeriali e polizze Sportass.....................
834
Giazzi Federica
Incendio di veicoli in sosta e danni a terzi: quale forma di responsabilità?......................................................
846
Gioia Gina
Osservatorio sulla giustizia amministrativa..................
916
10 maggio 2005, n. 9752, sez. III...................................
10 maggio 2005, n. 9801, sez. I .....................................
31 maggio 2005, n. 11609, sez. III ................................
14 giugno 2005, n. 12747, sez. III .................................
14 giugno 2005, n. 12750, sez. III .................................
Tribunale
12 marzo 2004, Roma....................................................
4 ottobre 2004, Venezia, sez. III ....................................
5 novembre 2004, Monza, sez. IV.................................
9 aprile 2005, Roma, sez. XIII .......................................
15 aprile 2005, n. 1148, Milano, sez. VIII....................
Consiglio di Stato
12 aprile 2005, n. 1638, sez. V ......................................
Tribunale amministrativo regionale
7 giugno 2005, n. 2778, Puglia, sez. Bari, sez. I ............
Corte dei conti
19 maggio 2005, n. 704, Liguria, sez. giur.....................
908
910
908
909
911
879
863
851
914
912
893
916
920
INDICE ANALITICO
Assicurazioni
L’assicurazione obbligatoria degli sportivi dilettanti
tra Decreti ministeriali e polizze Sportass (Decreto ministeriale 17 dicembre 2004), con commento di Giuseppe De Marzo ....................................................................
827
Circolazione stradale
Incendio di veicoli in sosta e danni a terzi: quale forma
di responsabilità? (Cassazione civile, sez. III, 5 agosto
2004, n. 14998), con commento di Federica Giazzi .....
844
Cose in custodia
La (doppia) natura della responsabilità del gestore di
una pista da sci (Cassazione civile, sez. III, 10 febbraio
2005, n. 2706), con commento di Michele Calabrese
837
908
Tassone Bruno
Diritto all’immagine: fra uso non autorizzato del ritratto e lesione della privacy .........................................
Danni non patrimoniali
Il quantum del danno non patrimoniale, di Patrizia
Ziviz .................................................................................
922
881
Ziviz Patrizia
Il quantum del danno non patrimoniale.......................
Diritti della personalità
Diritto all’immagine: fra uso non autorizzato del ritratto e lesione della privacy (Tribunale di Roma 12
marzo 2004), con commento di Bruno Tassone............
879
922
Obbligazioni e contratti
Ritardi nei pagamenti e clausole in deroga: protezione
oltre il segno? (Consiglio di Stato, sez. V, 12 aprile 2005,
n. 1638), con commento di Chiara Medici...................
893
Guerra Giorgia
Consenso informato: tutela del diritto alla salute o
della libertà di scelta?.....................................................
872
Medici Chiara
Ritardi nei pagamenti e clausole in deroga: protezione
oltre il segno?..................................................................
895
Ramaccioni Giulio
Responsabilità civile e famiglia…un «idillio» che
continua..........................................................................
855
Spirito Angelo
Osservatorio di legittimità.............................................
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Legislazione
Decreto ministeriale 17 dicembre 2004 .......................
827
Giurisprudenza
Corte di Cassazione Civile
5 agosto 2004, n. 14998, sez. III....................................
10 febbraio 2005, n. 2706, sez. III.................................
844
837
Responsabilità civile
Class actions e mercato finanziario: l’esperienza nordamericana, di Elisabetta Bellini .........................................
Responsabilità civile e famiglia…un «idillio» che
continua (Tribunale di Monza, sez. IV, 5 novembre
2004), con commento di Giulio Ramaccioni.................
Gli atti posti in essere dal personale docente degli Istituti statali di istruzione superiore sono riferibili diret-
817
851
DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
925
INDICI
tamente al Ministero della Pubblica Istruzione e non
ai singoli Istituti (Cassazione civile, sez. III, 10 maggio
2005, n. 9752), Osservatorio di legittimità .................
Responsabilità degli amministratori di società per
occultamento di fondi sociali (Tribunale di Milano,
sez. VIII, 15 aprile 2005, n. 1148), Osservatorio di
merito ..........................................................................
Responsabilità della P.A.
Menomazione alla salute derivante da trattamenti sanitari e risarcimento del danno (Cassazione civile, sez.
III, 31 maggio 2005, n. 11609), Osservatorio di legittimità...............................................................................
Colpa della P.A. ed obbligo di risarcire il danno in caso di disapplicazione di una normativa interna contrastante con quella europea prevalente (T.a.r. Puglia,
sez. Bari, sez. I, 7 giugno 2005, n. 2778), Osservatorio
sulla giustizia amministrativa ........................................
Responsabilità medica
Responsabilità medica da difetto di informazione Contenuti e funzioni del consenso informato: autodeterminazione individuale e responsabilità sanitaria
(Tribunale di Venezia, sez. III, 4 ottobre 2004), con
commento di Simona Cacace.........................................
Responsabilità medica da difetto di informazione Consenso informato: tutela del diritto alla salute o
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DANNO E RESPONSABILITÀ N. 8-9/2005
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della libertà di scelta? (Tribunale di Venezia, sez. III, 4
ottobre 2004), con commento di Giorgia Guerra..........
Intervento di non difficile esecuzione ed onere della
prova (Cassazione civile, sez. III, 14 giugno 2005, n.
12747), Osservatorio di legittimità...............................
Responsabilità professionale del medico da mancata
diagnosi (Tribunale di Roma, sez. XIII, 9 aprile 2005),
Osservatorio di merito ...................................................
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Risarcimento danni
Doveri derivanti dal matrimonio ed obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla
quale il matrimonio è rivolto (Cassazione civile, sez. I,
10 maggio 2005, n. 9801), Osservatorio di legittimità
Risponde del danno materiale, del danno all’immagine e del danno da disservizio procurato all’ente il pubblico dipendente che si assenta ingiustificatamente
dal lavoro percependo la relativa retribuzione (Corte
dei conti, sez. Liguria, sez. giur., 19 maggio 2005, n.
704), Osservatorio sulla giustizia amministrativa ........
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Tutela dei consumatori
Difetti di fabbricazione dei prodotti e responsabilità
dell’importatore (Cassazione civile, sez. III, 14 giugno
2005, n. 12750), Osservatorio di legittimità ...............
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