carmine tedeschi, carluccio

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carmine tedeschi, carluccio
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Carluccio
Veniamo dalla notte e nella notte andiamo
(Vincente Gerbasi)
Burzaco 15 settenbre 1953
Caro Ziolonardo e Ziamarietta e cuggino Frangesco,
ti vengo affare assapere con cuesta lettera che ti scrivo annome puro
di papa e mama, siccome che loro sono alfabeti, che siamo arrivati in
Argentina tutto bene graziaddio e così speriamo di voi. Ma doppo un
viaggio mangolicani, io mi penzavo di non arrivare più.
I primi giorni sopra al bastimendo abbiamo gomitato puro il stommaco
parlanno con decienza. Inbece doppo tanti e tanti giorni di acua e cielo,
cielo e acua, il bastimendo è trasuto dentro a un mare tutto marrò,
eppoi dentro al porto di Buenossaire. Che non telo pozzo contare
cuandè. Là ci stavano a spettare con granda condendezza papa e Ciccillo
Tubbanaro, como lo chiamavano al paiese. Inbece qua si fa chiamare
don Frazisco.
Mò abbitiamo dentro a un grando paese che si chiama Burzaco e
tuttiggiorni andiamo col treno alla capitala, dove che papa fa il
ciartiniere e io faccio il manovalo, e guadanbiamo noncemalo.
Ma cè senbre cuel dolore che abbiamo lassato i cari parendi che sietovoi,
e la casa e la terra. Che sennò al paese nostro come poteva canbare
tutta la famiglia?
Cari zio e zia e cuggino vi abbracciamo a tutti, che sono il vostro
carissimo nipoto e cuggino carnale
Carluccio
Oltre che mio cugino carnale e povero, Carluccio era stato mio compagno di
giochi. Cosa che aveva preoccupato non poco i miei, perché lui era somaro e,
due volte bocciato alla terza elementare, di andare a scuola non aveva voluto
più saperne, manco se l’uccidevano di botte.
Aveva fatto il guaglione di potéca e messo alla disperazione tutti i potecàri del
paese. Non parliamo poi dell’afflizione della madre, prima che il padre riuscisse
a richiamarli entrambi in Argentina, dove era emigrato quando Carluccio aveva
sì e no due anni e io manco ero nato.
La mattina che zia Lucietta tirò il catenaccio sulla porta lebbrosa di casa sua e
consegnò la chiave a mia madre, tutti si abbracciarono e si misero a piangere.
Pure Carluccio, fino alla corriera, davanti alla gente che guardava.
Io no. Io mi vergognavo e non sapevo se si dovesse piangere di contentezza
perché quella partenza era una cosa buona, oppure di dolore perché era una
cosa brutta.
Lo seppi solo dopo, nei mesi e negli anni a venire, fino a che anch’io non riuscii
a salire con una valigia di cartone legata con lo spago su quella stessa corriera,
per tutta un’altra storia.
Quando partì Carluccio, dunque, rimasi muto e intronato, per tanto di quel
tempo che i miei genitori, impensieriti, mi portarono dal medico:
– Non tiene niente, non tiene niente ‘stu guaglione – sentenziò don Mercurio
col lungo naso peloso sopra un fetido recipiente blu – è malattia di crescita. Un
poco d’olio di fegato di merluzzo ogni tanto e gli passa.
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Dunque ce l’aveva fatta, Carluccio, ad andarsene in quell’Argentina che per
noi due era stato un territorio di scorribanda immaginaria.
Prima che partisse, quando al paese giocavamo ancora insieme, ad ogni lettera
che arrivava da quel lontano paese, vergata a nome del padre dalle
ciampedimosca di Ciccillo Tubbanàro, zia Lucietta si presentava a casa nostra
con l’aria dell’Addolorata dalle sette spade piantate nel cuore, lo scialle
strettostretto sotto la gola, e si chiudeva in camera con mia madre.
Ne uscivano una mezz’oretta dopo, entrambe col naso rossorosso.
Allora si aggiungeva un altro capitolo all’epopea che Carluccio mi stava
fabbricando nella testa. Mi raccontava per filo e per segno quello che c’era
scritto in quell’ultima lettera: che il padre viaggiava sempre con un proprietario
di vacche, di migliaia di vacche scapolate sopra una pampa che ci volevano
giorni e giorni di cavallo, come facevano quei cowboy che ammiravamo nei
giornaletti, ma con un altro nome: gaucios. Ripeteva che il padre attraversava
foreste con serpenti grossi quanto il tubo della ciminiera, capaci d’ignòttersi un
vitello sanosano; e c’erano montagne tanto alte che nessuno ce la faceva a
incrapinarsi fino a sopra, da cui si gettavano certe cascate con una nebbia
densa come il latte. Concludeva invariabilmente affermando che Buenossaire
era almeno dieci volte più grande di Roma.
– Seeeh! – facevo io, perché non volevo arrendermi tanto facilmente
all’incantesimo.
– Non ci credi? Non ci credi? Domanda allora a Filuzzo, che c’ha lo zio in
Argentina, e a Fifìna Treccapìlli che là c’ha i cugini, e a Tiadòro Malaforbice…
La sua partenza era stata per me una specie di tradimento.
Appena arrivarono poi da Burzaco quei foglietti tanto sottili che ti scappavano
di mano, in una busta dentellata di rosso e blu, mi vidi perso. Se non fosse
stato per la firma sotto gli scarabocchi, non avrei mai creduto che fossero di
Carluccio.
Burzaco? Dov’era Burzaco? Che razza di posto selvaggio poteva essere, se
c’era il treno tutti i giorni? E Carluccio non poteva farlo pure al paese nostro, il
manovale? E come faceva lo zio Minguccio a passare fiumi e praterie a cavallo,
se faceva il giardiniere?
Dopo un po’ non arrivò più nessuna lettera. E fu così che sull’immagine del mio
compagno di giochi e di viaggi immaginari cominciarono a crescere nella mia
memoria altre immagini e altre storie, come cresce la carne sopra una ferita
profonda.
Qualche anno dopo, però, mio padre ricevette la procura a vendere la casa dei
cognati, e andai con lui a sgombrare le ultime cianfrusaglie.
Di sotto al pagliericcio che era stato di Carluccio, mi capitò fra le mani un libro
tutto spaginato e coloratissimo, con su scritto a caratteri grossi L’America
Latina. Dentro, ingenui disegni pastello e poche righe di commento
raccontavano di fiumi, pianure, mandrie, cavalli, gauchos, indios, foreste,
serpenti, condor, giaguari, montagne, cascate e città.
Con quel libro, di cui avevo sempre ignorato l’esistenza, il mio cugino carnale
Carluccio era arrivato in Argentina molto prima di essere partito dal paese.
Carmine Tedeschi