1 CONVEGNO “ALLA SCUOLA DEL CORPO TRA LIBERTA` E

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1 CONVEGNO “ALLA SCUOLA DEL CORPO TRA LIBERTA` E
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CONVEGNO
“ALLA SCUOLA DEL CORPO TRA LIBERTA’ E TRADIZIONE”
17 OTTOBRE 2015- BRESCIA
Essere corpo nell’orizzonte della differenza sessuale
Prof.ssa Wanda Tommasi
Per me, parlare del corpo significa parlare della differenza sessuale, innanzitutto della donna.
Riferirsi alla donna è indispensabile perché nella storia della filosofia occidentale
tradizionalmente è stata proprio la donna a essere schiacciata sul versante della corporeità, in
una riduzione a corpo che la poneva sul confine con l’animalità, mentre l’uomo, all’opposto, si
elevava e si proiettava verso lo Spirito, mettendo fra parentesi il proprio essere corpo. A lungo,
simbolicamente, è stata la donna a portare maggiormente il peso del corpo: poiché lei è capace
di generare, questo legame con la maternità l’ha posta, sul piano delle rappresentazioni
culturali e simboliche, in un legame inscindibile col peso della corporeità, una corporeità molto
vicina all’animalità.
Inoltre, come ho già accennato, parlare del corpo vuol dire trattare della differenza sessuale,
della differenza di essere donne/uomini, perché è prima di tutto nel corpo che questa
differenza si iscrive (oltre che nelle rappresentazioni simboliche e culturali). Il corpo, diverso
biologicamente, è vissuto anche diversamente dai due sessi, è elaborato in modo diverso dalla
cultura e dall’ordine simbolico, dando luogo a ruoli differenziati a seconda del genere di
appartenenza. A tale proposito vorrei ribadire una cosa, che riguarda non i ruoli codificati a
seconda del genere, ma proprio la differenza sessuale, nell’intreccio inscindibile di natura e
cultura che la caratterizza: nella storia del pensiero filosofico che ci sta alle spalle c’è un vuoto
di pensiero a proposito della differenza sessuale, un’assenza di pensiero riguardante il due della
differenza, e questo vuoto di pensiero è stato riempito abusivamente addossando solo alla
donna il peso della corporeità e della differenza sessuale stessa.1
Poiché l’uomo è stato rappresentato come l’esemplare più perfetto dell’identità umana, la
donna è stata vista come la sola portatrice della differenza sessuale, una differenza dall’uomo
che la rendeva un po’ meno umana del maschio e che la poneva più vicina all’animale. Mentre
l’identità umana, teoreticamente, non è altro che il gioco della differenza sessuale, è costituita
cioè dall’essere uomo/donna, invece nella tradizione patriarcale che ci sta alle spalle l’uomo –
maschio – occupava abusivamente tutto lo spazio dell’umano, e la donna era vista, in quanto
differente dall’uomo, come un essere umano con il segno meno (come dice ad esempio
Aristotele quando afferma che la donna è un maschio mancato).2 Non voglio dilungarmi né
recriminare, perché in fondo questa è una tradizione androcentrica e talvolta misogina che è
finita con la fine del patriarcato e che oggi non ha più corso; volevo solo sottolineare come
l’assenza di pensiero della differenza sessuale nella tradizione filosofica che ci sta alle spalle
abbia comportato un vuoto di pensiero anche a proposito della differenza di essere corpo, di
essere corpi sessuati di uomini e donne. A questo ha posto rimedio, in tempi più vicini a noi,
fra le altre cose, la psicanalisi, che ha molto interrogato il corpo e la sessualità, ma che lo ha
fatto, almeno in Freud, privilegiando il corpo e la sessualità maschile, e modellando a partire
da questa anche l’esperienza femminile.
Per dare un’idea di che cosa possa significare, parlando del corpo, rendere conto della
diversa esperienza dei due segnati dalla differenza sessuale, vorrei fare riferimento all’opera di
Luce Irigaray, che in Etica della differenza sessuale si propone appunto di rimediare all’assenza di
pensiero della tradizione riguardo alla differenza di essere donna/uomo. Richiamo in breve
alcuni concetti introdotti da Irigaray. Il primo è quello di “trascendentale sensibile”, un
1
Su questo, rimando al mio testo I filosofi e le donne. La differenza sessuale nella storia della filosofia, Tre lune,
Mantova 2001.
2
Cfr. ivi, pp. 57-64.
2
concetto con il quale l’autrice indica una trascendenza, un divino che passa attraverso il corpo,
rendendo conto così dell’incarnazione del divino stesso.3 Il trascendentale sensibile s’incarna
nei due della differenza sessuale che, nel loro differire, costituiscono l’identità umana:4
quest’ultima può così elevarsi verso la trascendenza, verso il divino, senza dover rinnegare la
propria corporeità, la propria incarnazione. Il trascendentale sensibile è un divino fedele al
corpo che noi siamo.
Un’altra immagine di Irigaray vicina alla dimensione del corpo, in questo caso al corpo
femminile, è quella del “mucoso”:5 è un’immagine del sesso femminile, visto come poroso,
come una soglia sempre dischiusa ma anche capace di ri-toccarsi e di consentire così il ritorno
della donna presso di sé; non è un’immagine particolarmente felice, a mio avviso, ma la
ricordo comunque perché è un tentativo da parte dell’autrice di elaborare a livello dell’ordine
simbolico un elemento del corpo e della sessualità femminile. Quello della sessualità femminile
è un ambito in cui il simbolico è piuttosto carente: mentre la sessualità maschile ha avuto una
rappresentazione simbolica adeguata, invece quella femminile è stata poco rappresentata
simbolicamente, almeno nella cultura occidentale. Mentre ad esempio Freud, sostenendo la
centralità del fallo in psicanalisi, dava conto a livello simbolico del corpo e della sessualità
maschile, pensando poi quella femminile solo a partire da quella maschile già delineata,
Irigaray cerca di correggere questa stortura androcentrica, proponendo delle immagini fedeli al
corpo e alla sessualità femminili: l’immagine del mucoso, benché non molto felice per le sue
risonanze immaginarie, è una di queste. Altre sono proposte dalla stessa autrice in altri testi,
come quella delle doppie labbra - le labbra del viso e quelle del sesso -, che contrassegnano la
differenza femminile. Si tratta di pensare qualcosa, di dare vita a un simbolico, facendolo
subentrare al vuoto, alla voragine, al niente con cui spesso è stato rappresentato il sesso
femminile.
Forse la rappresentazione simbolica più promettente riguardo al due della differenza sessuale
è, sempre in Etica di Irigaray, quella dedicata alla fecondità della carezza: in una rilettura de Il
visibile e l’invisibile di Merleu-Ponty e di Totalità e infinito di Lévinas, Irigaray propone una
fenomenologia della carezza come punto di partenza per la ricostituzione del tessuto simbolico
dell’eterosessualità.6 Mentre in passato c’era stata un’appropriazione simbolica del femminile
da parte del maschile, accompagnata da una presa di possesso e da un assoggettamento, ora è
il tempo, secondo l’autrice, di cogliere, come suggerisce Lévinas nella sua fenomenologia
dell’eros, la fecondità della carezza: una carezza che non si appropria dell’altro, che lo avvicina
con il tatto anziché con uno sguardo oggettivante e appropriativo, che lo/la lascia essere nella
sua alterità irriducibile, nella sua differenza. Un’etica della differenza sessuale dovrebbe avere
al centro una relazione non appropriativa ma rispettosa della differenza di colui/colei che è
dell’altro sesso: un altro, un’altra accostata con il tatto che l’alterità richiede. Riscoprire la
fecondità della carezza permetterebbe di giungere alle nozze fra i due della differenza sessuale
3
Cfr. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, tr. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1985,
p. 91.
4
Ovviamente, i due della differenza sessuale non escludono l’ermafroditismo ovvero l’intersessualità, caso piuttosto
raro ma comunque esistente. Dal momento che, oltre all’essere donna o uomo esiste anche l’intersessualità, si dovrebbe
dire che i sessi sono tre, ma io insisto sul due, nella convinzione che ciò che si discosta dal modello più alto di umanità
(il maschio) sia da porre dal lato del secondo termine della differenza sessuale; questo secondo termine è incarnato in
primo luogo dall’essere donna, ma senza escludere l’intersessualità. C’è chi dice oggi, sulla base della teoria del gender
e delle sue derivazioni, fiorenti soprattutto in ambito angloamericano, che i sessi sono ben più di due (o tre), e invoca al
proposito l’elenco LGBT (che può anche allungarsi). Tuttavia, in questo caso la distinzione non è fatta sulla base della
differenza anatomica ma delle preferenze sessuali (un uomo resta uomo anche se è gay e una donna resta donna anche
se è lesbica). Personalmente, non condivido affatto dal punto di vista concettuale questa moltiplicazione dei sessi,
benché essa sia sicuramente in linea con il politicamente corretto oggi imperante.
5
Cfr. ivi, pp. 87-88.
6
Cfr. ivi, pp. 117-163.
3
senza appropriazione né dominio, nel rispetto dei limiti e della differenza che li separa ma che
al tempo stesso è ciò che permette loro di incontrarsi.
Fatte queste considerazioni preliminari, vorrei ora trattare il tema del corpo a partire da
un’altra autrice contemporanea, che non ha tematizzato la questione della differenza sessuale,
ma che ha molto interrogato l’essere corpo sia nella sua esperienza vissuta sia nel suo pensiero:
si tratta di Simone Weil. In Weil, la dimensione dell’essere corpo (i fenomenologi direbbero
Leib, corpo vissuto, contrapposto a Körper, corpo come oggetto) è molto interrogata sia nelle
pratiche, dall’esperienza di fabbrica a quella del lavoro contadino, sia nel pensiero.
Weil individua diverse accezioni del corpo: accennerò ad alcune di esse, quelle che mi
sembrano più importanti per noi oggi. Il primo significato è quello del corpo come limite, un
significato importantissimo ai nostri giorni, in una società che ha perduto il senso del limite e
che alimenta illusioni di onnipotenza. Già nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione
sociale, scritte nel 1934, alla vigilia dell’ingresso in fabbrica, Weil osserva che la società
contemporanea sprofonda nella dismisura, nell’illimitato: mutamenti quantitativi crescenti e
sempre più accelerati hanno prodotto una trasformazione qualitativa, cosicché nulla è più a
misura dell’essere umano. Queste variazioni quantitative abnormi sono inafferrabili per il
pensiero, perché, mentre nelle macchine e nelle catene di intermediari sociali le quantità
possono essere accresciute all’infinito, invece per l’essere umano ci sono dei limiti invalicabili,
dati innanzitutto dal corpo, e poi dal tempo, dalla durata della vita umana e dalla rapidità
media del pensiero. Scrive Weil: per noi “certe unità di misura sono date e sono rimaste fin qui
invariate, ad esempio il corpo umano, la vita umana, l’anno, la giornata, la rapidità media del
pensiero umano. La vita attuale non è organizzata a misura di tutte queste cose”. 7 Qui il corpo
è ricordato come limite, come misura, indispensabile correttivo rispetto allo sprofondamento
della società attuale nella dismisura.
Questa idea del corpo-limite è preziosa: a essa si collega un altro significato che il corpo
assume nel discorso di Simone Weil, quello del corpo come mediazione rispetto al mondo e
come contatto con la necessità. Questo significato è collegato alla centralità del lavoro,
soprattutto di quello manuale, nel pensiero di Simone Weil: il lavoro, a patto che sia compiuto
in modo non alienato, quindi ben diverso dal lavoro alla catena di montaggio sperimentato da
Weil in fabbrica, il quale è definito invece come una schiavitù, è un contatto cosciente con la
necessità del mondo. In questo significato, il lavoro compare come mediazione con la realtà
del mondo, come un intermediario prezioso che ci dà il senso della realtà: infatti il lavoro
permette di sfuggire all’immaginazione, ai fantasmi interiori, ai deliri dell’io e, consentendo di
usare le leggi della necessità in modo attivo e cosciente, può agire sul mondo nella maniera
efficace. “Perdere l’illusione del possesso del tempo. Incarnarsi. L’uomo deve fare l’atto di
incarnarsi perché è disincarnato dall’immaginazione”.8
Il significato del corpo come misura è assolutamente centrale per Simone Weil: esso è la
prima possibilità di apertura al mondo, di contatto autentico con la realtà. Mentre quasi
sempre in noi “la realtà del mondo è fatta dal nostro attaccamento, è la realtà dell’io, trasferita
da noi nelle cose”,9 invece per entrare davvero in contatto con la realtà esteriore, non con le
proiezioni dell’io, occorrono la mediazione del corpo e quella del lavoro manuale. Il corpo
come intermediario è necessario non solo per avere un contatto reale con il mondo, ma anche
per far sì che qualsiasi mutamento nel nostro modo di pensare e di vedere le cose non sia
illusorio. Per cambiare davvero il proprio modo di pensare, occorre una pratica, una
modificazione che attraversi il corpo e che lo coinvolga attivamente: “Il mondo è un testo a più
significati, e si passa da un significato all’altro mediante un lavoro. Un lavoro a cui il corpo
prende sempre parte, come quando si impara l’alfabeto di una lingua straniera, tale alfabeto
Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, tr. it. di Giancarlo Gaeta, Adelphi,
Milano 1983, p. 109.
8
Simone Weil, Quaderni, vol. II, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 138.
9
Ivi, p. 273.
7
4
deve penetrare nella mano a forza di tracciare le lettere. Al di fuori di questo, ogni mutamento
nel modo di pensare è illusorio”.10 Il lavoro del corpo dunque come banco di prova per il
pensiero.
In realtà, l’esperienza di fabbrica fu per Simone Weil la smentita della sua visione del lavoro
come afferramento cosciente della necessità e come mediazione con il mondo: tuttavia,
nonostante ciò, dopo questa esperienza lei non smise mai di cercare, oltre che le condizioni di
un lavoro più umano e non alienato, anche gli elementi che permettano di concepire il corpo
come misura del nostro approccio al mondo. Uno di questi elementi, forse il più importante,
riguarda il tempo: mentre, nel lavoro a cottimo e alla catena di montaggio, domina il tempocadenza, che impone al corpo una ripetitività ossessiva, senza pause, senza intervalli, invece lei
auspica un tempo-ritmo: quest’ultimo è veramente un tempo umano, perché comporta delle
pause, dei vuoti, in cui è possibile inserire l’iniziativa umana, l’inventiva, la libertà. Il temporitmo apparenta inoltre il corpo umano al cosmo: come i ritmi delle stagioni e della luna, così
anche il corpo ha bisogno di un ritmo, come ricorda soprattutto il corpo femminile per il suo
legame con i cicli lunari. Tuttavia il corpo-ritmo (un altro significato del corpo che troviamo in
Simone Weil), se da un lato ci fa sentire la nostra parentela con il cosmo e con la ciclicità della
natura, da un altro lato non deve farci dimenticare che noi siamo esseri umani, non stelle o
pianeti: proprio per questo, abbiamo bisogno di intervalli, di pause, in cui sia possibile inserire
la nostra iniziativa, la nostra creatività, la nostra libertà.
Il corpo-ritmo che entra in risonanza con il cosmo è contrapposto da Weil al corpopesantezza (o gravità: pesanteur nell’originale francese). C’è anche il corpo come peso,
ingombro, avvertito probabilmente come tale nell’esperienza personale dell’autrice, donna
maldestra e poco abile nella pratica manuale; come peso e ingombro forse sentiva il proprio
corpo la “platonica” Weil. Tuttavia per la verità, se probabilmente fu così nella sua esperienza
di lavoro manuale e di vita, nel suo pensiero invece la pesanteur, la gravità non è messa quasi
mai sul conto del corpo come tale, quanto piuttosto su quello dell’ego, di un io che vuole
ingrandirsi illimitatamente a scapito degli altri e che talvolta si aggrappa anche al corpo – ai
piaceri del corpo – per sfuggire al vuoto, il quale potrebbe essere invece un’occasione per la
discesa della luce e della grazia.
Occorre sottolineare tuttavia che, anche dopo la svolta mistica, la quale sembrerebbe indicare
in Weil per certi versi una fuga dal corpo e dalla carne per far prevalere lo spirito, in realtà
rimane in lei una profonda consapevolezza del fatto che il corpo resta comunque il criterio
della verità del pensiero e il luogo dell’incarnazione dello spirito. Weil parla dello spirito che si
fa materia, carne, e s’interroga su come lo spirito possa intervenire concretamente nelle leggi
della materia. Ne offre un esempio splendido un racconto, commentato da Weil nei Quaderni,
in cui si parla di una ragazza irlandese il cui fratello era stato condannato a morte e giustiziato.
Dopo l’esecuzione capitale, la sorella mangiò, per pura reazione vitale, un intero vasetto di
marmellata di fragole. Da quel momento in poi, per tutta la sua vita, quella ragazza non poté
mai più mangiare marmellata di fragole. Lo spirito era passato nel corpo ed era il corpo a
ricordarle per sempre, da quel momento in poi, la tragica morte del fratello e la propria
reazione vitale al lutto. Così commenta Weil questo racconto: “Per l’uomo che vive in questo
mondo, quaggiù, la materia sensibile – materia inerte e carne – è il filtro, il vaglio, il criterio
universale del reale nel pensiero, nell’intero ambito del reale nel pensiero, senza che niente ne
sia eccettuato. La materia è il nostro giudice infallibile”.11 Ho voluto richiamare quest’ultimo
significato del corpo, un significato che mi sembra molto bello in un’autrice per altri versi
“platonica” come Simone Weil – e quindi inclinata almeno in parte nella direzione di una fuga
dal corpo –, perché qui abbiamo non un allontanamento dal corpo verso lo spirito, ma, al
10
Simone Weil, Quaderni, vol. I, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, pp. 230-231.
Simone Weil, Quaderni, vol. IV, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 398. Sulle diverse accezioni del
corpo nell’opera di Simone Weil, mi permetto di rimandare al mio libro Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza
femminile, Liguori, Napoli 1997, pp. 43-57.
11
5
contrario, un calarsi – molto cristiano a mio parere – dello spirito nel corpo, nella materia:
assistiamo a una vera e propria incarnazione.
Infine, sempre a partire da questo racconto commentato da Weil, mi preme sottolineare in
conclusione un’ultima cosa, cioè il fatto che, quando parliamo del corpo, ci troviamo sempre
in realtà nel punto di intersezione fra corpo e linguaggio, fra corpo e ordine simbolico. Il corpo
non è mai nudo e crudo, per così dire, ma è sempre rivestito di linguaggio, è sempre
interpretato culturalmente e simbolicamente.