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RASSEGNA STAMPA
venerdì 27 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
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IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it del 27/03/15
Il ballo nelle strade di Milano liberata
L’idea per festeggiare il 25 aprile
Bande musicali, nove orchestre, fuochi d’artificio. Migliaia di persone
nel 1945 si ritrovarono a danzare tra le vie della città e il Parco
Sempione
di PAOLO RASTELLI
«Il sole indugiava ancora all’orizzonte e le rondini garrivano nel cielo del Castello che già
le avanguardie del pubblico affluivano verso i viali del Parco ad assicurarvisi posizioni di
favore….». Comincia così l’articolo del Corriere d’Informazione del 15 luglio 1945, un
minuscolo colonnino (ma tutto il quotidiano, per scarsità di carta, usciva con due sole
pagine in quei mesi di pace appena ritrovata dopo cinque anni di guerra), dedicato al
grande ballo collettivo organizzato il giorno prima al Castello Sforzesco di Milano per
festeggiare la fine delle ostilità.
L’iniziativa ebbe un successo strepitoso, tanto da restare incisa nella memoria della città.
Ed è per questo che, per celebrare il 70° anniversario della Liberazione, Radio Popolare
ha avuto l’idea di replicare la festa di allora allargandola però a tutta l’Italia (case, piazze,
strade, teatri, ovunque ci sia la voglia di ballare e cantare). «Abbiamo chiesto la
collaborazione di Arci, Anpi (l’associazione partigiani) e Insmli (gli istituti di storia della
resistenza) - spiega Danilo De Biasio a nome dell’emittente milanese - per lanciare l’idea:
tra un mese esatto, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, dalle 10 in poi, cercheremo di far
ballare più gente possibile in tutte le città e i paesi, fino a intonare, tutti insieme, allo
scoccare della mezzanotte, un canto collettivo. L’iniziativa, che si chiama “Liberi anche di
cantare e ballare”, ci è sembrata un modo non scontato per celebrare tutti coloro che
hanno lottato per la nostra libertà. Non abbiamo ancora scelto la canzone, ma
probabilmente sarà Bella ciao che in tutto il mondo è identificata con la resistenza italiana
al nazifascismo».
Settant’anni fa l’idea di far ballare la città dopo i lutti e gli odi della dittatura e della guerra
civile fu di Antonio Greppi, il primo sindaco socialista della Milano liberata. Noi oggi
festeggiamo la liberazione il 25 aprile, ma, per chi la visse, quella giornata di 70 anni fa
tutt’altro che una festa: per le strade si sparava ancora, era in corso la caccia a nazisti e
fascisti, ci furono allora e nei giorni successivi giustizia e vendetta che culminarono in
piazzale Loreto con i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi appesi a testa
in giù alla longarina di un distributore di benzina. Greppi decise quindi che in qualche
modo era ora di chiudere la stagione dell’odio e di festeggiare, nel vero senso della parola,
il ritorno alla libertà. Come luogo delle danze fu scelto il Parco Sempione e come giorno il
14 luglio, la festa nazionale francese per la presa della Bastiglia, in segno di solidarietà e
amicizia con i maquisards , i partigiani francesi che avevano combattuto contro tedeschi e
collaborazionisti del governo di Vichy.
La sfilata in centro a Milano degli uomini della brigata partigiana Abrami (Divisione Val
Toce) dopo la Liberazione - La festa del 14 luglio del 1945 a Milano (foto tratta dal
settimanale L’Europeo)
L’organizzazione della «Festa della fraternità e del popolo» (questo il nome completo, un
po’ magniloquente ma l’epoca lo esigeva) fu affidata da Greppi a Paolo Grassi (in quel
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momento critico teatrale del quotidiano socialista l’Avanti ) e Giorgio Strehler, che poi con
il Piccolo Teatro sarebbero diventati due giganti della cultura italiana. Le poche foto
dell’epoca mostrano l’Arco della Pace imbandierato con i vessilli delle Nazioni alleate
(Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica) e con il tricolore italiano. La
celebrazione partì con gli inni nazionali, poi la Canzone del Piave, quindi l’Inno dei
lavoratori (vietato da anni e le cui parole erano di Filippo Turati). Poi iniziò la festa «vera»,
cui parteciparono migliaia di persone. Così la descriveva un articolo dell’Europeo : «Al
Parco sette piste da ballo, nove orchestre, tre palloni frenati e fuochi d’artificio. Ma lo
spettacolo più vivo fu in periferia, con decine di orchestre e di bande che percorrevano la
città in autocarro. Fisarmoniche, violini, chitarre, grammofoni suonavano nelle piazze. E la
gente ballava. Ballavano ricchi e poveri, vecchi e bambini. Tutta Milano ballò nelle strade,
fino oltre l’alba, sotto i lampioncini e le bandiere…».
Chissà se tra un mese succederà lo stesso. A Radio Popolare ci sperano. In sedici città
(per ora), da Milano a Lecce e da Reggio Emilia a Barletta, i circoli Arci si stanno
muovendo per organizzare le danze. «Abbiamo aderito - spiega Francesca Chiavacci,
presidente dell’Arci - perché ci sembra una bella iniziativa che riporta tra noi in modo un
po’ più fresco l’ora della Liberazione». E anche la macchina organizzativa dell’Anpi è in
azione. «È un’iniziativa simbolicamente forte - dice Carlo Smuraglia, numero uno
dell’Associazione - che si aggiunge a quelle tradizionali e che dà il senso di una comunità
viva e vivace che vuole andare avanti con fiducia e coraggio».
http://www.corriere.it/cronache/15_marzo_26/ballo-strade-milano-liberata-l-ideafesteggiare-25-aprile-f74a2e6c-d3eb-11e4-9231-aa2c4d8b5ec3.shtml
Da Repubblica.it del 27/03/15
Il sabato speciale di Landini &C. Operai,
studenti e movimenti in piazza a Roma
Appuntamento dalle 14 a piazza Esedra. Il corteo arriverà a piazza del
Popolo
di CARMINE SAVIANO
I COLORI somigliano a quelli del primo Obama e del manifesto in quadricromia disegnato
da Shepard Fairey ed entrato negli annali della comunicazione politica. Una suggestione
che porta con se anche la volontà di declinare in Italia quelle parole d'ordine, speranza e
cambiamento, che ormai rappresentano il lessico basilare di ogni tentativo riformistico. Si
presenta così la Coalizione Sociale che sabato 28 aprile Maurizio Landini e la sua Fiom
guideranno nella manifestazione che dalle 14 attraverserà il centro di Roma: da piazza
Esedra fino a piazza del Popolo. Con uno slogan, "Unions!", richiamo alle origini del
movimento sindacale e alla lotta per creare un fronte comune che, a partire dalla "dignità e
dalla libertà del lavoro", si ponga in contrapposizione con le politiche del governo di Matteo
Renzi.
Ma quali sono i confini della Coalizione di Landini? Perché se il centro di gravità è
rappresentato dal sindacato dei metalmeccanici e dal corpo grosso della Cgil di Susanna
Camusso, i satelliti sono numerosi e si aggiungono ora dopo ora: studenti, associazioni
per la difesa della Costituzione e della legalità, esponenti della lotta per ampliare la libertà
di stampa e d'espressione. Un cantiere aperto unito da rivendicazioni comuni e da alcuni
distinguo. Insieme si chiede un miglioramento delle condizioni del lavoro dipendente, il
reddito minimo, la riduzione dell'età pensionabile e dell'orario di lavoro, la reale
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cancellazione del precariato, la lotta all'evasione fiscale e alla corruzione, un impegno
concreto per il diritto alla salute e allo studio. I distinguo riguardano soprattutto la qualità
delle adesioni al progetto: perché molte delle sigle coinvolte pur "prestando una doverosa
attenzione" hanno deciso di non partecipare in via ufficiale lasciando una sostanziale
libertà di coscienza a dirigenti e soci.
Paradigmatico, nel contesto, il caso di Libera. L'associazione di don Ciotti - seguita su
questa strada da Arci, Anpi e Articolo 21 - ha scelto il confronto con Landini su temi
specifici. Chiara, in merito, una nota dell'ufficio di presidenza in cui si legge: "Libera non
partecipa a nessuna coalizione sociale. Abbiamo raccolto, come sempre facciamo, l'invito
a incontrarsi per affrontare singole questioni di comune interesse: la lotta alle mafie e alla
corruzione, saldando questo impegno con quello contro povertà e disuguaglianze,
alimentate dalla crisi economica". Ma non manca chi, come Libertà e Giustizia, ha
ufficialmente sposato la piattaforma programmatica della Coalizione Sociale: "LeG c'è" si
legge sul sito dell'associazione guidata da Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky una
cui lettera sarà letta dal palco di piazza del Popolo.
Poi studenti, bancari, movimenti di chi lotta per la casa. Con la manifestazione che sarà
aperta dallo striscione preparato da Fincantieri. Tutti accomunati dalla medesima lettura di
fase: il Jobs Act, oltre a rappresentare un momento di svalutazione dei diritti di chi lavora,
ha aperto una questione democratica il cui simbolo è un Parlamento sostanzialmente
esautorato dalla propria funzione e schiacciato sulle decisioni dell'esecutivo guidato da
Renzi. Un governo che, negli occhi del sindacato di Landini, oramai è solo propaggine di
Confindustria e dei "poteri forti". Basta cercare l'ultimo numero del mensile della Fiom,
"iMec": in copertina Renzi e Marchionne. Titolo: "I due caporali". Parola che se
pronunciata da un sindacalista non può non rimandare allo sfruttamento tout court dei
lavoratori.
Dopo i satelliti c'è il pianeta politica. Anche qui, le adesioni sono state numerose: ma se
Rifondazione Comunista e l'Altra Europa con Tsipras partecipano in blocco, le altre forze
di sinistra o centro-sinistra saranno rappresentate solo da singoli esponenti. Ci saranno
Nichi Vendola e lo stato maggiore di Sinistra Ecologia e Libertà. Ma l'attesa è per i volti del
Partito Democratico che sceglieranno di mettersi in marcia in un corteo che fa della critica
al segretario del Pd la propria ragione sociale. Rosy Bindi, Pippo Civati e Stefano Fassina
hanno già annunciato la loro partecipazione. Bisognerà vedere, in piazza, se saranno
seguiti da altri compagni di partito.
Sul palco allestito in piazza del Popolo gli interventi che precederanno quello di Landini
sono numerosi. Molto atteso il discorso di Stefano Rodotà. Poi Giuseppe De Marzo
(Libera-campagna reddito), Domenico Maugeri (Tavolo Verde), Giacomo Zolezzi (Rete
della conoscenza), Giovanna Cavallo, movimento per la casa (Action). Gino Strada,
fondatore di Emergency, sarà in collegamento telefonico dalla Sierra Leone. Tutto sulle
note de "Il muro del Canto", gruppo che riproporrà i canti storici del movimento operaio.
Uno sguardo alle radici per recuperare la linfa capace di irrorare una stagione nuovamente
guidata da quel "Al lavoro, alla lotta" che non smette di essere pronunciato ogni qual volta
un sindacato scende in piazza.
http://www.repubblica.it/economia/2015/03/27/news/il_sabato_speciale_di_landini_c_oper
ai_studenti_e_movimenti_in_piazza_a_roma-110592838/
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Da Io Donna del 27/03/15 (iodonna.it)
Servizio civile: un'opportunità per crescere. E
imparare
Non è un lavoro, è un anno dedicato alla formazione e alla crescita
individuale in ambiti più diversi: assistenza, beni culturali, potrezione
civile e ambiente. Il 16 marzo scorso è stato pubblicato il bando
nazionale e l’elenco degli enti tra cui scegliere. Ci si può iscrivere entro
il 16 aprile
di Benedetta Verrini
AAA 29.972 giovani cercasi. Il 16 marzo scorso è stato pubblicato il bando nazionale 2015
per il servizio civile, aperto a ragazzi e ragazze dai 18 ai 28 anni che desiderino vivere
un’esperienza al servizio della comunità, nell’ambito dell’assistenza, della protezione
civile, dell’ambiente, del patrimonio artistico e culturale, dell’educazione e promozione
culturale fino al servizio civile al'estero.
Il servizio civile dura un anno e prevede un compenso di 433,80 euro netti al mese. Non è
un lavoro, è un anno dedicato alla formazione e alla crescita individuale. Ma che apra o no
un’opportunità diretta verso il mondo del lavoro, il servizio civile è importante perché "è
una delle poche esperienze in cui i ragazzi giovani possono mettersi alla prova in una
realtà nuova, con un adulto tutor a disposizione, all’interno di una cornice definita di
regole", commenta Licio Palazzini, presidente della Consulta nazionale degli enti per il
servizio civile – Cnesc. "È un’esperienza di lavoro in team, perché ogni progetto di servizio
civile prevede almeno 4 giovani coinvolti", prosegue. "Infine, anche se la crisi economica
morde il non profit così come accade in tutti i settori, e magari impedisce di trasformare il
servizio civile in un trampolino diretto verso il lavoro, di certo rende questi giovani davvero
concorrenziali rispetto agli altri, in qualsiasi ambito decideranno di lavorare”.
Secondo un recente rapporto (www.rapportogiovani.it) promosso dall’Istituto Toniolo in
collaborazione con l’Università Cattolica, il favore dei giovani verso il servizio civile è molto
alto (79,5%) e la grande voglia di partecipazione sociale è confermata dalle motivazioni: la
gran parte lo considera un’occasione di crescita personale (96%) e di arricchimento delle
competenze utili per la vita sociale e lavorativa (95%), di diventare cittadini attivi (94%) e
infine di esprimere valori di solidarietà (93%). La remunerazione mensile non è l’aspetto
più importante (anche se raggiunge una percentuale comunque piuttosto elevata, 87%).
C’è tempo fino al 16 aprile (ore 14) per effettuare domanda all’ente prescelto e passare
alla fase di selezioni. È importante sapere che è possibile presentare una sola domanda di
partecipazione per un unico progetto di Servizio Civile Nazionale, da scegliere tra quelli
inseriti nel bando nazionale o nei bandi regionali e delle provincie autonome, a pena di
esclusione dalla selezione. Ancora, la domanda va presentata direttamente all’ente che
realizza il progetto prescelto, occorre quindi consultare il sito web di quell’ente. Tra le sigle
che assorbiranno il maggior numero di volontari si trovano l’Unione italiana ciechi, le
Misericordie, Anpas, Arci, Confcooperative, la Caritas, l’Unione delle Pro Loco. Ma tra le
associazioni presenti nel bando nazionale ci sono molte altre realtà, espressione di
diverse forme di impegno sociale, da Avvocati di Strada all’Accademia Vesuviana,
dall’Avis alla Lega del Filo d’Oro.
A questa pagina il Bando nazionale e l’elenco degli enti, oltre ai singoli bandi regionali:
serviziocivile.gov.it
http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2015/giovani-servizio-civile-50325542229.shtml
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Da La stampa – Torino 7 del 27/03/15
FILM E DIBATTITO SULLA LAICITA' DELLE
ISTITUZIONI AL CIRCOLO DEI LETTORI
La Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, in collaborazione con Arci Torino
presenta il "Manifesto per la laicità" al Circolo dei Lettori. Alla serata a ingresso libero, che
si aprirà alle 18 con la proiezione del film "Laicite' Inch' Allah!", introdotto dalla regista
Nadia El Fani, prenderanno parte al successivo dibattito (inizio previsto per le 21) anche
Inna Shevchenko (Ucraina) presidente di "Femen" e Marieme Helie Lucas (Algeria),
portavoce di "Secular is women's issue".
http://www.lastampa.it/2015/03/26/torinosette/eventi/film-e-dibattito-sulla-laicita-delleistituzioni-al-circolo-dei-lettori-dew6d5gHAmHIDjHK1d4odJ/pagina.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Repubblica.it del 26/03/15
Tunisi, al via il Forum sociale mondiale:
10mila persone in piazza per la pace
Si è aperto a Tunisi il Forum Sociale Mondiale. L'apertura degli incontri ha avuto un
prologo con una grande manifestazione che ha scelto come luogo simbolo il museo del
Bardo, dove è stata consumata la strage dei turisti. All'evento hanno partecipato, in nome
della pace, oltre diecimila persone accomunate tutte dallo slogan: "La Tunisia resterà in
piedi"
(Fotografie di Sara Prestianni)
Link alla fotogallery
http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/26/foto/tunisi_al_via_il_forum_sociale_mondiale_10
mila_persone_in_piazza_per_la_pace-110545863/1/?ref=HREC1-20#1
Da il Sole24ore.com del 26/03/15
A Tunisi parte il Forum sociale mondiale: più
di 70mila i partecipanti
di Roberto Da Rin
Da Porto Alegre a Tunisi. Il Social Forum mondiale 2015 si è aperto ieri, al Campus Farhat
Hached El Manar, dieci giorni dopo l'attentato jihadista al Museo del Bardo.
Più di 70mila persone parteciperanno a seminari, convegni, eventi culturali di vario genere.
Tutti temi legati all'altermondialismo.
Il motto della giornata inaugurale è stato questo: «Popoli di tutto il mondo uniti per la
libertà, l'uguaglianza, la giustizia sociale e la pace. In solidarietà con il popolo tunisino e
tutte le vittime del terrorismo, contro ogni forma di oppressione».
I partecipanti, inoltre, hanno espresso solidarietà alle vittime dell'attacco fondamentalista.
Nei prossimi giorni il Forum darà vita ad una specifica commissione chiamata a redigere la
“Carta internazionale altermondialista contro il terrorismo”.
Non si parlerà solo di giustizia sociale e fiscale, ma anche di tematiche legate all'ambiente.
A tale proposito la Coalition Climate 21 (che ha preceduto l'apertura del Forum) ha
discusso lungamente di come preparare la mobilitazione in occasione della prossima
COP21, la Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici, che avrà luogo a Parigi il
prossimo novembre. Sarà affrontata anche la questione palestinese, soprattutto dopo la
vittoria del Likud ad Israele. Mustafa Barghouti, politico e medico attivo nelle
Organizzazioni non governative, ha detto ieri: «Siamo qui come palestinesi per esprimere
la nostra solidarietà al popolo tunisino, ma anche per promuovere la nostra lotta contro
l'apartheid imposta da Israele». Tra le delegazioni presenti a Tunisi anche quella
proveniente dall’Algeria.
Vittorio Agnoletto, attivista sociale e già eurodeputato nelle liste di Rifondazione
comunista, descrive la polizia tunisina, spaccata in tre parti: « La prima, minoritaria,
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sostiene la democrazia. La seconda parte simpatizza verso settori islamici integralisti. La
terza, maggioritaria, è a favore di un regime forte».
Tuttavia l'impressione, secondo Agnoletto, è che a Tunisi vi sia uno sforzo nazionale per
tornare alla normalità.
http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-03-26/a-tunisi-parte-forum-sociale-mondialepiu-70mila-partecipanti--163328.shtml?uuid=ABADSnFD
Da Redattore Sociale del 26/03/15
Il Forum sociale nella culla della primavera
araba, per sostenere le popolazioni
La Tunisia è una nazione felice di accogliere Il Forum sociale mondiale.
Lo si è notato anche dalla marcia iniziale di apertura, con tanto di
riapertura simbolica del museo Bardo dopo l’attentato terroristico
TUNISI - Possiamo sperarlo. Lo conferma la Tunisia di questi giorni: una nazione
scioccata e ferita per le vittime del Bardo, ma anche orgogliosa delle libertà conquistate
con il sudore di una rivoluzione e 4 anni di tentativi di regolarizzazione della politica. Una
nazione felice di accogliere il Forum Sociale Mondiale, e un Paese che non nega
l'evidenza del diffuso fanatismo religioso ma che vuole combatterlo con determinazione.
Insieme ai tunisini, non si lasciano intimorire decine di migliaia di partecipanti all'evento,
che hanno voluto confermare la propria presenza a Tunisi, dopo e nonostante la strage del
Bardo. D'altra parte, con l'eccezione dei luoghi del Forum e intorno al Parlamento, non si
vedono molte divise in giro per la città, ma le strade sono affollate di gente comune che va
avanti nella vita di tutti i giorni, con normalità.
La memorabile marcia di apertura, in ricordo delle vittime del Bardo e solidarietà con il
popolo tunisino, si è conclusa proprio nella piazza del Parlamento, per la cerimonia di riapertura simbolica del Museo. In migliaia hanno gridato per tre ore sotto una pioggia
battente “Fuori il terrorismo dalla Tunisia, Siamo tutti tunisini, Solidarietà con i popoli del
mondo intero”. E sorprende il numero elevato di manifestanti tunisini, spalla contro spalla
con i rappresentanti di movimenti e associazioni dei 5 continenti.
Dopo il Sudamerica, varie tappe europee e africane, il processo del Forum ha ultimamente
scelto la culla delle Primavere come propria casa, con una prima edizione nel 2013. Una
scelta dettata allora dall'esigenza di sostenere le popolazioni del Nordafrica nel postrivoluzione, accompagnando il processo di apertura democratica e premendo perché la
maturazione di pieni diritti civili colmasse quel vuoto lasciato dal fallimento dei regimi
repressivi. Oggi, l'esigenza sentita è soprattutto quella di riflettere sulla diffusione della
violenza terroristica nel mondo arabo, ricercando le possibili soluzioni alla precarietà
economica e di prospettive, riconosciuta tra le principali cause della diffusione del
fanatismo religioso soprattutto tra i giovani. Accanto ad essa, sempre in agenda i temi
tradizionali del processo del Forum come la protezione dell'ambiente, la promozione delle
donne e dei giovani, la libertà di associazione e di stampa, l'immigrazione, la solidarietà
con il popolo palestinese.
Sono in tanti giunti al Forum per formulare una proposta credibile all'attenzione di Governi
e Organizzazioni economiche internazionali, per disegnare insieme un mondo diverso, un
mondo che ripudi la guerra, un mondo più equo nella distribuzione delle risorse e
nell'accesso alle opportunità. E allora sì, un altro mondo è possibile, se continuiamo a
desiderarlo. (Silvia Koch)
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Da Vita.it del 26/03/15
Social Forum, il giorno del popolo Saharawi
Di Giada Frana
Incontro con Mohamed Cheikh Lehbib, segretario generale del
sindacato UGT Sario, Unione Lavoratori Saharawi
La seconda giornata del Forum Sociale mondiale a Tunisi ha visto meno partecipanti
rispetto alla giornata di apertura, a causa della pioggia che ha funzionato un po' da
deterrente. Ciononostante nell`aria si respirava un clima di solidarietà senza confini.
Noi abbiamo incontrato Mohamed Cheikh Lehbib, segretario generale del sindacato UGT
Sario, Unione Lavoratori Saharawi, che ci ha parlato della situazione del popolo saharawi.
Come mai avete deciso di partecipare al Forum Sociale Mondiale 2015?
Siamo venuti dal Sahara Occidentale per parlare della nostra situazione. Rappresentiamo
diverse associazioni saharawi: associazioni giovanili, associazioni femminili, lavoratori, per
i diritti dell'uomo. Vogliamo parlare ai partecipanti di questo forum del nostro diritto
all'autodeterminazione e della situazione difficile dei cittadini, lavoratori, donne e giovani
saharawi nei territori occupati nel Sahara dell'Ovest. Il Sahara Occidentale è stato colonia
spagnola dal 1884 fino al 1975, quando la Spagna ha lasciato il territorio e ha ceduto il
territorio tra Marocco e Mauritania. Il Fronte Polisario (il movimento di lotta contro il
colonialismo, ndr), è stato creato nel 1973 e iniziò una guerra. Nel 1979 la Mauritania
ratifico un accordo di pace e riconobbe la Repubblica Araba Saharawi Democratica
(RASD). Ora la Repubblica Saharawi è un membro dell'Unione africana e i suoi
ambasciatori sono presenti in tutto il mondo. Ormai nessuno stato riconosce la sovranità
del Marocco nel Sahara Occidentale.
Come vivono i cittadini saharawi nei territori occupati?
Queste persone vivono sotto un regime militare: ogni giorno si assiste a violazioni di diritti
contro donne, lavoratori, giovani. Le autorità marocchine rifiutano le visite delle delegazioni
internazionali, del parlamento europeo o di associazioni umanitarie. Queste ultime hanno
redatto diversi rapporti in cui si riportano questi rifiuti.
Quali sono le vostre richieste?
Vogliamo porre fine alle violazioni dei diritti nei confronti dei cittadini saharawi nei territori
occupati e chiediamo che il nostro popolo possa scegliere il suo futuro attraverso un
referendum. Le Nazioni Unite sono presenti e vogliono organizzare un referendum, ma il
Marocco non vuole: sa che perderebbe. I saharawi sono così divisi tra i territori occupati e
i campi per i rifugiati in Algeria. Ma il nostro popolo ha il diritto di poter scegliere il suo
futuro, non vogliamo la soluzione di autonomia proposta dal Marocco. Vogliamo un
referendum con il quale decidere tra autonomia, integrazione e indipendenza.
http://www.vita.it/it/article/2015/03/26/social-forum-il-giorno-del-popolo-saharawi/131889/
Gli studenti siriani al Social Forum: «Il
terrorismo arriva dall'estero»
Di Giada Frana
Intervista al leader dell'Unione Nazionale degli Studenti Siriani: «Turchia, Arabia
Saudita e Qatar operano contro l'interesse del nostro popolo»
Al Forum Sociale Mondiale è presente anche uno stand di studenti siriani, membri
dell'Unione Nazionale degli Studenti siriani, per sensibilizzare sulla situazione del loro
Paese. Abbiamo parlato con uno di loro, Motei, di Damasco, dottorando a Tunisi.
Qual è lo scopo della vostra associazione?
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Siamo degli studenti siriani e abbiamo organizzato questo stand per parlare di ciò che sta
accadendo in Siria. Siamo con il popolo siriano, non siamo né con l'una né con l'altra
fazione. Siamo con tutto il popolo e vogliamo che ci sia una fine a quello che sta
succedendo. Siamo contro il terrorismo, lo Stato Islamico e le milizie di Jabhat al Nusra o i
salafiti. Siamo per un governo, per il bene del popolo siriano, per tutte quelle persone che
sono morte perché erano pro o contro Assad.
In che senso siete con lo Stato?
Siamo con lo Stato siriano, con il sistema in generale, un sistema di leggi, con le
organizzazioni e le istituzioni siriane. Non siamo con Assad, non siamo con Baghdadi o chi
altro.
Cosa chiedete per la Siria?
Chiediamo la fine del conflitto e la fine delle ingerenze esterne. Lasciateci trovare una
soluzione per proteggere il nostro Paese. Vogliamo che si crei una situazione di equilibrio.
La situazione in Siria è diventata complicata negli ultimi anni a causa di gruppi
estremisti che si sono infiltrati. Come può riuscire il popolo siriano a fronteggiarli
da solo?
Noi siriani abbiamo avuto la volontà e le persone che si sono opposte e hanno combattuto
questi estremismi, Daech (come viene chiamato lo Stato Islamico) e via dicendo. Il
problema è che ci sono molti Stati che facilitano l`ingresso di questi terroristi. Ad esempio
la Turchia, l'Arabia saudita, il Qatar non aiutano la Siria su questo versante, ma agiscono
contro l`interesse dello stesso popolo siriano.
I siriani in Tunisia sono numerosi?
No, non sono molti, c`è una piccola comunità che è venuta qui dopo lo scoppio del
conflitto in Siria.
http://www.vita.it/it/article/2015/03/26/gli-studenti-siriani-al-social-forum-il-terrorismo-arrivadallestero/131884/
del 27/03/15, pag. 45
Fisco e solidarietà. Gli enti del volontariato e dello sport dilettantistico
possono candidarsi fino al 7 maggio
Sono aperte le iscrizioni per ottenere il cinque
per mille
MILANO
Iscrizioni del cinque per mille 2015 aperte fino al 7 maggio. Con la circolare 13/E diffusa
ieri, l’agenzia delle Entrate ha dettato la tabella di marcia delle candidature per gli enti del
“volontariato” e per le associazioni sportive dilettantistiche, sia per quest’anno, sia per il
futuro. Il canale telematico è aperto da ieri.
In palio ci sono i 500 milioni stanziati dalla legge di stabilità 2015 (legge 190/2014, articolo
1, comma 154), che ha anche reso stabile il contributo destinato ogni anno con le
dichiarazioni dei redditi agli enti non profit, alle università, agli enti della ricerca scientifica
e sanitaria, alle attività sociali dei Comuni, alle associazioni sportive dilettantistiche.
Così, da ieri e fino al 7 maggio possono candidarsi alla ripartizione del cinque per mille
che sarà assegnato dai contribuenti con le prossime dichiarazioni dei redditi (anche da chi
accetterà il 730 «precompilato»), le Onlus, gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose
che hanno stipulato patti, accordi o intese con lo Stato, le associazioni di promozione
sociale (anche quelle riconosciute come Onlus parziali), le organizzazioni di volontariato,
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le cooperative sociali, le associazioni e fondazioni che operano senza fine di lucro negli
stessi settori di attività delle Onlus.
Quanto alle organizzazioni non governative, l’agenzia delle Entrate precisa che possono
iscriversi negli elenchi del cinque per mille quelle che erano già riconosciute idonee in
base alla legge 49/1987, alla data del 29 agosto 2014 (data di entrata in vigore della
nuova legge quadro sulla cooperazione internazionale, che ha rivisto le regole per
l’iscrizione delle Ong all’anagrafe delle Onlus). Le “vecchie” Ong - che prima erano Onlus
di diritto - potranno accedere all’erogazione del cinque per mille 2015 una volta che sarà
accertata l’avvenuta iscrizione all’anagrafe delle Onlus, secondo le nuove disposizioni.
La stessa legge 125/2014 ha inserito tra i settori di attività delle Onlus la «cooperazione
allo sviluppo e solidarietà internazionale»: possono quindi iscriversi negli elenchi del
cinque per mille anche gli enti che si iscrivono nell’anagrafe delle Onlus perché attive in
questo settore.
Il 14 maggio l’agenzia delle Entrate pubblicherà gli elenchi provvisori degli enti del
volontariato e dello sport dilettantistico iscritti al beneficio. Entro il 20 maggio gli enti
potranno segnalare eventuali errori, e il 25 maggio saranno pubblicati gli elenchi
aggiornati.
Resta il termine del 30 giugno per inviare la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà,
che attesta la permanenza dei requisiti ed è condizione necessaria per essere ammessi
alla ripartizione del cinque per mille.
del 27/03/15, pag. I (inserto Sblianciamo l’Europa)
Coalizioni sociali
Donatella della Porta
Analisi. Se i movimenti del 2011 erano quelli dei precari, negli anni
seguenti a scendere in piazza è stata la classe impoverita
Gli studi sui movimenti sociali hanno sviluppato un insieme di strumenti utile ad affrontare
l’azione collettiva durante periodi normali, ovvero periodi ordinati. I sistemi a cui si sono
principalmente rivolti sono le cosiddette democrazie avanzate, aventi forme di welfare
sviluppate. Le teorie proposte si sono principalmente orientate verso la spiegazione
dell’impatto di queste strutture sui movimenti collettivi. La principale aspettativa è che le
proteste coinvolgano opportunità e risorse.
In realtà, sappiamo molto meno delle questioni che sono di fondamentale importanza per
analizzare il tardo neoliberalismo ed il relativo malcontento, come: movimenti in periodi di
crisi, quando la protesta è scatenata più da minacce che da opportunità; movimenti in
periodi straordinari, ovvero movimentati, quando l’azione cambia le relazioni; movimenti
come processi, come produttori delle proprie risorse e fonte di empowerment.
L’attività di ricerca in economia politica ha indicato alcune caratteristiche generali del
neoliberalismo: l’emergenza di un libero mercato come ideologia, che indirizza le politiche
non verso il ritiro dello stato dal mercato, bensì verso la riduzione degli investimenti nei
servizi sociali che diminuiscono le disuguaglianze, e porta protezione al posto del
capitalismo finanziario; la privatizzazione dei beni pubblici ed il salvataggio delle banche;
la flessibilizzazione del mercato del lavoro, affiancato però a forti attività di
regolamentazione, che aumentano le opportunità di trarre vantaggi speculativi.
Questi sviluppi hanno chiare conseguenze sulle basi sociali della politica del conflitto
contemporanea. Entrambe le ondate di protesta del 2011 e del 2013 hanno infatti causato
nuove tensioni nelle basi sociali della politica del conflitto.
11
Nel 2011 i manifestanti sono stati generalmente considerati, per la maggior parte, come
membri di una nuova classe precaria, che era stata fortemente colpita dalle politiche di
austerità. Diversamente da quelli del 2011, le proteste del 2013 sono state interpretate
come fenomeni del ceto medio.
Le informazioni collezionate sul background sociale dei manifestanti non hanno
confermato in modo inequivocabile né la tesi della mobilitazione di un nuovo precariato, né
quella di un movimento della classe media. In tutte le manifestazioni sono rappresentati
una vasta gamma di background sociali: dagli studenti ai lavoratori precari, dai lavoratori
manuali e non manuali alla piccola borghesia e ai professionisti. Maggiormente popolate
da giovani e figure di elevata istruzione, le manifestazioni hanno anche osservato la
partecipazione di altre coorti di età.
Le varie proteste coinvolgono diverse classi sociali, ma non sono un fenomeno tra classi.
Tendono piuttosto a riflettere alcuni cambiamenti nella struttura delle classi sociali che
hanno caratterizzato il neoliberalismo e la sua crisi: in particolare, la proletarizzazione
delle classi medie e la precarizzazione dei lavoratori. Quanto al primo fenomeno, molti
studi indicano il declino del potere della classe media, con le tendenze alla
proletarizzazione della piccola borghesia indipendente (come ad esempio la
trasformazione delle strutture commerciali che portano all’eliminazione dei negozianti
indipendenti a favore delle multinazionali); dei liberi professionisti (attraverso processi di
privatizzazione dei servizi, creazione di aziende oligopolistiche e de-professionalizzazione
attraverso la Taylorizzazione dei compiti); dei dipendenti pubblici (attraverso la riduzione
dello status e del salario, e attraverso la flessibilizzazione del contratto, etc).
Per quanto riguarda quest’ultima, la precarizzazione colpisce i dipendenti privati nei settori
industriali (attraverso la chiusura dei tradizionali settori fordisti, oltre alla flessibilizzazione
delle condizioni lavorative), come nel settore terziario, con l’aumento del lavoro informale,
di lavori scarsamente retribuiti, e di condizioni di lavoro precarie.
In sintesi, anziché mobilitare una singola classe sociale, le manifestazioni hanno mobilitato
cittadini con diversi background sociali. I movimenti degli anni 2000 sono stati infatti visti
come segni di comune opposizione alla mercificazione degli spazi pubblici, in un tentativo
di costituzione comunitaria.
Nella mobilitazione di queste vaste e variegate basi sociali, i movimenti sociali in tempi di
crisi devono far fronte a specifiche sfide, tra cui la simbolica sfida della costruzione di un
nuovo soggetto; la sfida materiale di mobilitare risorse limitate; la sfida strategica di
influenzare un sistema politico estremamente chiuso.
Anche se non totalmente limitate da esse, le risposte del movimento alla crisi sono infatti
strutturate sulla base delle risorse materiali esistenti (come succede nelle reti di
movimento), e anche da risorse simboliche (espresse come cultura del movimento).
Questo implica una limitazione delle opzioni disponibili, ma scatena un processo di
apprendimento in termini di lezioni dal passato.
Anche se certamente limitati dalle strutture esistenti, una caratteristica dei movimenti nei
periodi di crisi è la loro capacità di creare risorse attraverso l’invenzione di nuove strutture,
nuovi sistemi organizzativi e nuove forme di azione. In questo senso, per capire le
condizioni per l’azione di conflitto, l’attenzione deve spostarsi a ciò che è stato individuato
come divenire: non esistono ancora le identità, né sono state costituite; le reti si sono
riformate attraverso il superamento di vecchie scissioni. In periodi straordinari, a causa
della rottura di vecchie identità e di vecchie aspettative, emerge un nuovo spirito: i
movimenti sociali esprimono allora, prima di tutto, il diritto di esistere.
Lo sviluppo di uno spirito nuovo è stato osservato nelle piazze occupate, che hanno
caratterizzato il nuovo repertorio di proteste. Esse rappresentano infatti spazi per la
formazione di una nuova soggettività, basata sulla ricomposizione di precedenti scissioni e
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l’emergenza di nuove identità. Le manifestazioni sono quindi da vedere come produttrici di
entità emergenti, che vanno al di là dei propri elementi costitutivi. L’attenzione sul divenire
affiora attraverso le pratiche che sottolineano l’importanza degli incontri – infatti, viene
celebrata nelle varie piazze la diversità delle persone.
In questo senso, come indicato dal percorso evolutivo di Grecia e Spagna, anche se
apparentemente in ritirata, le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e
sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è
evoluta nelle strade.
(Traduzione di Alessandro Castiello D’Antonio)
del 27/03/15, pag. III (inserto Sbilanciamo l’Europa)
Un altro passo verso la primavera europea
Comitato coordinamento Blockupy
Il documento. Dalle proteste anti-Bce Francoforte fino a Berlino, per
portare la disobbedienza civile nel cuore dell’Europa. E lanciare un
messaggio alla Germania
Il disgelo è iniziato non appena la primavera europea si è annunciata. Il ghiaccio del
regime della crisi europea – dei memoranda della Troika e delle spietate politiche
d’impoverimento – sta chiaramente mostrando delle crepe. Quella che sembrava senza
alternative e doveva essere applicata solo tecnocraticamente è ritornata sulla scena
politica come una questione aperta. L’Europa del capitale e dell’austerità, l’Europa del
«preside tedesco» e dei «compiti assegnati a casa» è stata finalmente sfidata.
In primo luogo e prima di tutto, questo è merito dei movimenti del Sud Europa, delle loro
mobilitazioni di massa, del loro coraggio e spirito. Non difendono solo la propria
sopravvivenza, ma sono anche fonte d’ispirazione per milioni di persone in tutta Europa,
perché una società oltre le sofferenze del capitalismo è possibile. Tutto questo è stato
confermato dalla coraggiosa decisione del popolo greco che, nelle elezioni del 25 gennaio
scorso, ha votato contro la Troika e la miseria dell’austerità.
In contrasto con ciò che l’immaginario delle stagioni suggerisce, è però del tutto incerto se
all’inverno dell’austerità seguirà o meno la primavera della democrazia e della solidarietà.
Stiamo invece vivendo il colpo di coda del vecchio ordine, che sta superando ogni limite
nel suo ricatto, al fine di sottomettere la Grecia, e in sostanza tutti quanti, alla dittatura dei
rendimenti sul mercato finanziario. Lo diciamo ancora una volta: se loro vogliono il
capitalismo senza democrazia, noi vogliamo la democrazia senza il capitalismo!
In questa situazione la coalizione Blockupy, insieme ai gruppi e le reti europee, ha lanciato
la mobilitazione a Francoforte il 18 marzo, nel cuore della bestia e nell’occhio
apparentemente tranquillo del ciclone, al fine di bloccare la cerimonia di apertura del
nuovo edificio della Banca Centrale Europea, e di trasformare la loro festa in un festival
dei movimenti europei e in una decisa resistenza collettiva alle politiche dominanti della
crisi. Il semplice annuncio della mobilitazione è stato sufficiente per trasformare la
cerimonia di apertura in un piccolo, ridicolo evento in tono minore, e per costringere la Bce
a ritirarsi nella sua roccaforte, sorvegliata da 10.000 agenti di polizia e fortificata col filo
spinato.
Circa 6.000 attivisti, mille almeno dei quali provenienti da altri paesi europei, sono scesi
nelle strade attorno al nuovo edificio della Bce, lo hanno circondato riuscendo
efficacemente a bloccarne le quotidiane attività, hanno sfidato la polizia, che ha immerso
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l’intero quartiere in un’acre foschia di gas lacrimogeni. Non tutte le azioni che hanno avuto
luogo quella mattina si sono svolte come previsto e concordato. Ci siamo già espressi
criticamente a questo proposito, e ci sarà ancora molto da discutere e valutare. Lo faremo
all’interno del movimento e tra gli attivisti.
Le 30 mila persone che hanno partecipato alla grande, colorata e determinata marcia di
protesta del pomeriggio ha respinto tutti i tentativi di dividere Blockupy e il movimento,
costringendoci a prendere le distanze gli uni dagli altri. Al comizio conclusivo Naomi Klein
ha ben riassunto il terreno comune di tutti coloro che protestano quando ha richiamato
l’attenzione della Bce: «Voi siete i veri vandali. Voi non date fuoco alle macchine, voi state
mettendo a fuoco il pianeta».
Sappiamo che in Germania è finora mancato un movimento di massa contro le politiche di
impoverimento. Conosciamo gli effetti della propaganda razzista di alcuni settori della
politica, del quotidiano Bild e di altri media contro il popolo greco. Eppure con il 18 marzo
abbiamo lanciato un messaggio inequivocabile anche in Germania, dove anche il clima sta
diventando più caldo e più ventoso. Dove vi è una crescente opposizione alle politiche di
Merkel, Schäuble e Gabriel. Il messaggio era udibile a Madrid, a Roma, ad Atene e in tutto
il mondo. In queste città è stato visto come un segno d’incoraggiamento e di solidarietà,
che noi in cambio consideriamo una richiesta a continuare e intensificare la protesta e la
resistenza contro il regime di austerità.
Blockupy rappresenta il movimento che porta la protesta di massa e la disobbedienza
civile nel cuore del regime della crisi europea ed è aperto alla partecipazione di tutti.
Blockupy si è trasformato in uno spazio transnazionale e su scala europea, nel quale
possiamo sviluppare e riflettere su una pratica condivisa contro le politiche della crisi e per
una comune Europa solidale dal basso. E questo è esattamente il punto da cui ripartiamo.
Perché, sebbene la primavera europea si stia avvicinando, ora più che mai sono
necessarie azioni che disperdano le nubi e il gelo per aiutare il sole ad aprirsi un varco.
Invitiamo tutti per decidere insieme sui prossimi passi da intraprendere. Un grande
incontro delle attiviste e degli attivisti avrà luogo i prossimi 9 e 10 maggio a Berlino. Dopo
questo, incontri si svolgeranno in tutta Europa – e insieme continueremo. Perché il regime
della crisi europea ha più centri della sola Bce e noi crediamo che sia giunto il momento di
compiere insieme un nuovo passo avanti.
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ESTERI
del 27/03/15, pag. 3
Bombe saudite contro lo Yemen
Chiara Cruciati
Yemen. Coalizione di 10 paesi, guidata dall'Arabia Saudita e l'Egitto,
lancia operazione contro la ribellione sciita. Plauso Usa, condanne da
Damasco e Teheran
Piovono bombe saudite sullo Yemen: nella notte tra mercoledì e giovedì Riyadh ha
annunciato l’inizio dell’operazione Tempesta Decisiva. Le vittime civili a Sana’a, secondo il
Ministero della Salute yemenita, sono almeno 25, di cui 6 bambini. In campo sono scese le
monarchie del Golfo, i regimi sunniti, per soffocare la ribellione della minoranza sciita
Houthi. I primi raid, lanciati a poche ore dall’occupazione Houthi di una parte di Aden e la
fuga del presidente Hadi, hanno smentito le dichiarazioni di Washington e Riyadh che
(mentre i carri armati sauditi venivano dispiegati al confine) parlavano ancora di «azione
difensiva».
Sono 100 i jet da guerra e 150mila soldati che l’Arabia Saudita ha messo a disposizione
del fronte anti-Houthi. O meglio, di quello anti-Iran. Perché in gioco non c’è la stabilità del
paese più povero del Medio Oriente o le richieste della minoranza sciita: in gioco c’è il
controllo di una zona strategica per il transito del greggio delle petromonarchie verso
l’Europa, attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb (una media di 3,4 milioni di barili al
giorno). Immediata è stata la reazione dei mercati finanziari: il prezzo del petrolio è
aumentato del 4%, schizzando sopra i 58 dollari al barile, e le borse europee hanno chiuso
in negativo, trascinate dal segno meno di Wall Street.
Ma in gioco c’è soprattutto l’avanzata militare e diplomatica iraniana nella regione. Tanto
minacciosa per gli equilibri mediorientali da far schierare contro la ribellione degli Houthi
oltre dieci Stati: Emirati Arabi, Bahrain, Kuwait, Qatar (ovvero il Consiglio di Cooperazione
del Golfo al completo, fatta eccezione per l’Oman), Egitto, Giordania, Sudan, Pakistan,
Marocco, Turchia e Stati Uniti, che hanno messo a disposizione servizi di intelligence e
logistici. Il Cairo ha già inviato 4 navi da guerra per «mettere in sicurezza il golfo di Aden»
e annunciato il probabile lancio di un’offensiva via terra accanto alle truppe della famiglia
Saud.
L’ampio fronte ha immediatamente galvanizzato il governo ufficiale yemenita: il ministro
degli Esteri Yassine ha dichiarato che l’operazione proseguirà fino a quando il movimento
Houthi non accetterà di prendere parte ai colloqui di pace e non si ritirerà dalla capitale
Sana’a. Ma ad oggi il migliore dei modi per giustificare l’azione è l’accusa che pesa sugli
sciiti, ovvero lo stretto legame con Teheran che sosterebbe militarmente e politicamente
l’avanzata: «L’azione risponde alle richieste della nazione yemenita – ha detto il
presidente egiziano al-Sisi – per il ritorno alla stabilità e la salvaguardia dell’identità
araba», chiaro richiamo alla minaccia iraniana.
Riyadh ha già eliminato alcuni leader Houthi, assunto il totale controllo dello spazio aereo
yemenita, mentre venivano chiusi i porti del paese e le forze militari fedeli al governo
ufficiale riprendevano l’aeroporto di Aden. Obiettivo dichiarato, che ha subito ottenuto il
plauso Usa, è «proteggere il governo legittimo» del presidente Hadi. Una figura posta sulla
più alta poltrona yemenita dal burattinaio saudita nel 2012, subito sostenuto dagli Usa che
necessitavano di stabilità per proseguire nella guerra dei droni contro al-Qaeda, ma che
non ha mai rappresentato le reali istanze del paese. Tanto che due giorni fa (seppure i
fedelissimi continuino a smentire) è stato costretto alla fuga dall’avanzata sciita ad Aden,
15
capitale provvisoria dove si era rifugiato a febbraio, senza venir difeso dalle tribù sunnite
meridionali, né da una parte dell’esercito che ha preferito disertare per unirsi alle forze
sciite.
E se mercoledì le agenzie stampa davano Hadi in fuga in barca verso più sicuri lidi, ieri la
tv al-Arabiya ha fatto sapere che il presidente è in volo verso Sharm el-Sheikh dove nel
fine settimana si terrà il summit della Lega Araba. Hadi chiederà all’organizzazione di
intervenire per bloccare quello che ritiene un colpo di Stato sciita, stesso appello mosso in
una lettera inviata ieri all’Onu. La leadership ufficiale yemenita cerca l’appoggio della
Lega, “snobbata” dai suoi stessi membri che hanno optato per un’operazione militare
senza attendere il meeting egiziano. Poco importa: la benedizione al fronte anti-Houthi è
giunta comunque per bocca del segretario della Lega Araba, l’egiziano Nabil al-Arabi.
Dall’altra parte della barricata della guerra per procura su terra yemenita sta l’Iran e i suoi
alleati regionali. Ai raid sauditi ha subito reagito condannando l’operazione:
«Un’aggressione militare, che complica la crisi interna», l’ha definita il ministro degli Esteri
di Teheran, Mohammad Zarif, che ha promesso misure «per controllare l’emergenza
yemenita». All’Iran hanno fatto eco Damasco, Hezbollah: «Palese aggressione», dice il
governo siriano; «intervento illegittimo e imprudente», aggiunge il movimento sciita
libanese. E mentre interveniva anche il presidente russo Putin che chiede la fine
immediata dell’attacco, reagiscono anche gli Houthi che hanno organizzato ieri
manifestazioni di massa per protestare contro «la dichiarazione di guerra saudita allo
Yemen» e promesso azioni immediate.
del 27/03/15, pag. 11
Un Paese diviso fra tribù e sette diventato
santuario dei terroristi
Farian Sabahi
«Architettonicamente è il Paese più bello al mondo. La capitale Sana’a è una Venezia
selvaggia sulla polvere, senza San Marco e senza la Giudecca. La sua bellezza non
risiede nei deperibili monumenti ma nell’incomparabile disegno». Così negli anni Settanta
Pier Paolo Pasolini descrisse lo Yemen. Se la penisola araba è per lo più desertica (anche
dal punto di vista culturale), lo Yemen è un angolo ricco di storia, monumenti, cultura.
Tradizionale e inaccessibile, assomiglia all’Afghanistan. Come quest’ultimo è un Paese
tribale e instabile, un baluardo di Al Qaeda che è riuscito a mobilitare un numero crescente
di combattenti e a tessere alleanze con le confederazioni tribali.
Uno Stato strategicamente importante per l’Europa perché da Bab el-Mandeb transitano
ogni giorno 3,8 milioni di barili di petrolio provenienti dal Golfo persico: se lo stretto che
divide l’Asia dall’Africa diventasse troppo pericoloso, le petroliere dovrebbero
circumnavigare l’Africa, con un aumento dei costi di trasporto .
Economia
Complice del successo di Al Qaeda in Yemen è la crisi: le istituzioni sono fragili, la
disoccupazione altissima. Il reddito medio pro capite è di soli 1.330 dollari l’anno, dei 25
milioni di abitanti oltre la metà vive con meno di due dollari al giorno (la soglia di povertà
secondo le Nazioni Unite). Con risorse petrolifere irrisorie (133 mila barili al giorno), quello
che fu il regno della regina di Saba è il più povero tra i Paesi arabi. Scarseggia anche
l’acqua, in parte assorbita dalle coltivazioni di qat, un arbusto le cui foglie — masticate da
buona parte della popolazione — portano a stati di euforia. L’aspettativa di vita è di 63
16
anni, molti yemeniti soffrono la fame e i loro tassi di fertilità sono tra i più alti al mondo
(hanno in media quattro figli, nel 1990-95 ne avevano sette). Nell’agosto 2014 il presidente
Mansour Hadi aveva dato avvio a un ambizioso programma di riforme economiche che
prevedeva la rimozione dei sussidi all’energia, riforme nel servizio pubblico e welfare. Ma
non è riuscito a mettere in atto i buoni propositi.
Storia e politica
Lo Yemen moderno è una Repubblica presidenziale (il presidente è anche capo
dell’esecutivo) con un’Assemblea nazionale composta da membri eletti per cinque anni. È
l’unica Repubblica della penisola araba ed è nata dalla fusione, il 22 maggio 1990, tra lo
Yemen del Nord e lo Yemen del Sud. Il Nord è stato una Repubblica fin dal 26 novembre
1962 a seguito del colpo di Stato che rovesciò la monarchia il cui sovrano era un Imam
(sciita) della setta zaidita che rivendicava legittimità religiosa e politica. Già protettorato
britannico, il Sud era una Repubblica socialista indipendente dal 20 novembre 1967 e,
legato all’Urss, ha giocato un ruolo nella Guerra fredda. A presiedere fin dall’inizio la
Repubblica dello Yemen unificato è stato Ali Abdallah Saleh. Sulla scia delle primavere
arabe e in seguito alle proteste guidate dalla giornalista e attivista Tawakkol Karman
(Nobel per la pace 2011), nel novembre 2011 Saleh ha passato il testimone al suo vice,
Mansour Hadi. Dopodiché è iniziata la Conferenza del dialogo nazionale, ovvero una fase
di transizione politica conclusasi nel gennaio 2014 con la decisione di trasformare lo
Yemen in uno Stato federale. Non sono state però accolte le istanze di autonomia degli
Houthi, da una decina d’anni in conflitto con l’autorità centrale. Di conseguenza, a
settembre 2014 gli Houthi hanno lasciato la città di Saada (nel Nord) e sono scesi sulla
capitale. A fine febbraio 2015 la situazione è precipitata e il presidente Hadi ha
abbandonato la capitale per rifugiarsi ad Aden da dove mercoledì si sarebbe allontanato a
bordo di un’imbarcazione. Venticinque anni dopo la riunificazione, lo Yemen è quindi
teatro di tensioni politiche e sociali e di ricorrenti ondate di violenza che mettono a rischio
la sua unità.
Religioni, tribù e interferenze esterne
Gli yemeniti sono arabi di religione musulmana. Il 50-55% pratica l’Islam sunnita della
scuola giuridica sciafeita, mentre il 40-45% è sciita di rito zaidita (alla morte di Maometto
riconoscono suoi legittimi successori cinque suoi famigliari, chiamati Imam). In realtà le
differenze dottrinali sono irrilevanti nella vita quotidiana e a fare la differenza sono le
tradizioni, la chiamata del muezzin e la preghiera. Maggior peso hanno i legami tribali,
spesso strumentalizzati dall’ex presidente Saleh che ha governato a lungo grazie
all’amicizia con gli sheykh della famiglia Houthi (sciiti) e della famiglia Ahmar (sunniti) cui
lasciava mano libera in cambio del loro sostegno. Morti gli anziani sheykh, la situazione è
cambiata: i loro figli si sono lasciati attrarre dagli iraniani e dai sauditi. Da parte sua, Saleh
ha spesso cambiato alleanze appoggiandosi dapprima al partito islamico Al Islah
(declinazione yemenita dei Fratelli musulmani, e quindi sunnita), per poi schierarsi con gli
Houthi sul nascere della primavera araba e poi ribaltare tutto e schierarsi nuovamente con
Al Islah contro gli sciiti.
Non vanno inoltre sottovalutate le ingerenze esterne. Se oggi l’Iran appoggia gli Houthi, i
sauditi hanno condizionato la storia dello Yemen: fino al 1962 hanno sostenuto il regno
dell’Imam mentre l’Egitto favoriva un esito repubblicano; nel 1991, quando Saleh appoggia
l’invasione irachena del Kuwait, Riad espelle un milione di immigrati che con le loro
rimesse tengono in piedi l’economia yemenita; nella guerra civile del 1994 appoggiano
fazioni diverse; e ieri l’aviazione saudita ha iniziato a bombardare la capitale yemenita con
il sostegno di Bahrein e Qatar. Mentre la coalizione capeggiata dai sauditi bombarda
Sana’a, le luci si abbassano sui negoziati, in corso in Svizzera, sul programma nucleare di
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Teheran. I negoziatori dei 5+1 e il team iraniano hanno cinque giorni di tempo per
giungere a un accordo. Gli ultimi fatti in Yemen sono forse un diversivo per concludere?
Del 27/03/2015, pag. 23
Yemen, raid sauditi contro i ribelli sciiti
Alla guida di una coalizione di paesi sunniti hanno bombardato le postazioni dei
miliziani vicini all’Iran Gli egiziani: “Pronti all’intervento di terra”. Gli esperti
mettono in guardia dal rischio di una guerra regionale
ALIX VAN BUREN
L’OPERAZIONE Tempesta decisiva, guidata dall’Arabia Saudita contro i ribelli Houthi nello
Yemen, è iniziata alle due di notte con una pioggia di bombe sganciata sopra i cieli di
Sana’a, la capitale conquistata in gennaio dagli Houthi. All’alba i raid hanno bersagliato
l’area tribale dei ribelli nel Nord, e Aden nel Sud, dov’era riparato il presidente
dimissionario Hadi prima di fuggire in Arabia Saudita dov’è rispuntato ieri. «Dobbiamo
fermare l’aggressione delle milizie Houthi sostenute da potenze regionali», è sibillino il
principe al-Faisal, ministro degli Esteri saudita. Ma quando dice «potenze regionali», vuol
dire l’Iran, l’arcirivale di Riad e presunto sostenitore degli Houthi in un Paese, perdippiù,
contiguo all’Arabia. In realtà gli Houthi, che sono zaiditi, appartenenti al ramo minoritario
sciita presente quasi soltanto nello Yemen e non apparentato ai “duodecimani” di Teheran,
avanzano anche grazie all’alleanza delle forze militari fedeli all’ex presidente Saleh,
deposto nel 2012, e a un diffuso sostegno popolare contro il governo.
L’intervento militare si regge su una coalizione di 10 Paesi: in testa, le monarchie del
Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg: Arabia, Bahrain, Qatar, Kuwait, Emirati), cui
s’accodano Marocco e Giordania (in trattative per aderire al Ccg), l’Egitto tornato sotto
l’egida saudita con il nuovo re Salman, e pronto a sacrificare forze di terra «se
necessario»; infine il Pakistan, che teme l’influenza iraniana in Afghanistan ora che
l’America si ritira da Kabul. Washington osserva e però promette aiuti logistici e
Intelligence. La preoccupazione della Casa Bianca riguarda la sicurezza delle rotte
commerciali attraverso i due stretti vitali di Hormuz e di Bab el-Mandeb sul Mar Rosso. Se
quelli dovessero bloccarsi, l’intervento militare, oltre al rischio di infiammare la regione,
metterebbe in pericolo l’approvvigionamento petrolifero mondiale. Dalla Turchia, Erdogan,
alleato dei monarchi sunniti, applaude i raid contro «l’Iran e altri gruppi terroristici», e offre
aiuti logistici. Ma se Parigi e Londra sono anch’essi favorevoli, l’Unione europea si
dissocia: «L’azione militare non è una soluzione», dice Federica Mogherini. «In questo
momento critico, tutti i protagonisti regionali dovrebbero agire in modo responsabile e
costruttivo per permettere con urgenza un ritorno ai negoziati». L’Iran, mosso da intenti
diversi, è d’accordo: «L’assalto militare complicherà l’impegno di risolvere un conflitto,
destinato a infiammare le tensioni settarie che già alimentano guerre attraverso il Medio
Oriente». Dal terreno s’alza l’allarme delle associazioni dei diritti umani. Il primo raid a
Sana’a ha fatto almeno 18 morti e 24 feriti civili, donne e bambini compresi. Vicino
all’aeroporto, ha colpito diversi quartieri residenziali, e la popolazione fugge. L’attivista
Afrah Nasser avverte che i raid piombano su un Paese già afflitto dalla crisi umanitaria,
con 16 milioni di yemeniti al limite della fame e privi dei servizi essenziali. Roth, direttore di
Human Rights Watch, concorda: «I sauditi, notoriamente indifferenti ai diritti umani,
risparmino i civili nei raid sullo Yemen».
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Del 27/03/2015, pag. 23
Scontro aperto fra Riad e Teheran per
decidere i destini del Medio Oriente
RENZO GUOLO
NELLO Yemen divampa un conflitto che rischia di riverberarsi ben oltre la regione. I
bombardamenti sauditi su Sana’a, con dispiegamento di una vasta coalizione
arabosunnita pronta a intervenire, mirano a fermare l’avanzata del movimento Houthi nel
sud del paese. Se gli sciiti dilagassero verso il Golfo e Bab el Mandeb, la porta del Mar
Rosso che conduce a Suez, l’Arabia Saudita si sentirebbe strategicamente minacciata.
Perché anche questo conflitto non è che un episodio della proxy war che, da oltre tre
decenni, contrappone sauditi e iraniani. Dietro agli Houthi c’è Teheran. Dietro al
dimissionario presidente Abed Rabbo Mansur Hadi, che ha sollecitato l’intervento
internazionale a sostegno del suo ormai governo fantasma, c’è Riad. E nel duplice
scontro, per il monopolio religioso nel mondo islamico e per il ruolo di potenza regionale
egemone, tra Arabia Saudita e Iran — rispettivamente proclamatesi potenze protettrici
confessionali di sunniti e sciiti — entrambe non possono tollerare che il Nemico si insedi
alle porte di casa. Così se gli iraniani hanno blindato l’Iraq per contrastare l’Is — sostenuto
inizialmente in funzione anti-sciita da paesi del Golfo — e portato la loro difesa avanzata in
Siria attraverso i fedeli Hezbollah, così ora sono i sauditi a scatenare la guerra contro gli
alleati degli iraniani in quella che un tempo i romani chiamavano l’Arabia Felix. Il tutto in un
paese frammentato e diviso, abbandonato fisicamente anche dagli americani e in parte
controllato dal fronte sunnita jihadista, a sua volta diviso tra l’Aqap e l’Is, acerrimo nemico
sia dei “regimi empi” del Golfo, sia degli odiati “apostati” sciiti. Per gli Houthi l’intervento
della coalizione sunnita, della quale fa parte anche l’Egitto (sempre più legato a Riad dopo
il sostegno saudita alla presa di potere di Abdel Fattah Al Sisi e il comune impegno antijihadista e contro i Fratelli Musulmani), può condurre a una guerra più ampia. Anche se
bisognerà valutare le vere intenzioni di Teheran che, al di là delle scontate dichiarazioni
ufficiali, non necessariamente fa coincidere le sue opzioni strategiche con quelle degli sciiti
zaidi yemeniti. L’obiettivo di Teheran, almeno sin qui, non è stato quello di scatenare uno
scontro aperto con i sauditi bensì di alimentare un conflitto a bassa intensità, una sorta di
spina nel fianco di Riad, da conficcare o meno nell’ingombrante corpo del Nemico a
seconda dell’equilibrio complessivo nel più vasto teatro della proxy war. Anche perché
interesse primario per l’Iran è chiudere il negoziato sul nucleare, prospettiva che
porterebbe al suo riconoscimento pieno come potenza regionale. Ma un conflitto tra Arabia
Saudita e Iran in un’area così sensibile per l’Occidente, non può che portare a un
irrigidimento della Casa Bianca. Non a caso Obama ha immediatamente autorizzato aiuti
logistici e di intelligence a sostegno dell’intervento saudita. Un incendio nell’area nel quale
passa buona parte del traffico petrolifero mondiale — il prezzo del greggio è subito salito
— non può essere accettato da Washington. I sauditi accusano Teheran di essere un
attore di destabilizzazione in tutta l’area: se gli iraniani non fermassero gli Houthi, i sauditi
potrebbero facilmente presentarli come inaffidabili anche su altri dossier. A partire da
quello nucleare. È dunque prevedibile che Teheran stia attentamente valutando come
reagire all’accelerazione del conflitto. Una discussione non facile nell’oligarchia di fazioni
che detiene il potere nella Repubblica Islamica: la destra radicale, alleata ai settori
conservatori più ostili al presidente riformista Hassan Rouhani, cercherà di incitare allo
scontro. Da parte loro i riformisti, sempre bisognosi dell’avallo della guida suprema
Ayatollah Khamenei per chiudere un accordo sul nucleare, saranno portati a esplorare le
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possibilità di una soluzione negoziale. Sempre che, a Riad e al Cairo, non prevalga la
tentazione di cogliere l’attimo e determinare nuovi e più favorevoli equilibri nella regione,
che la fondazione del Califfato e il suo contenimento sul terreno da parte dell’arco sciita,
hanno spostato a favore di Teheran. Nello Yemen si gioca una partita decisiva per gli
assetti del mondo, in un conflitto niente affatto locale.
del 27/03/15, pag. 3
Le petromonarchie sunnite e Israele mai così
vicini
Michele Giorgio
Golfo. L'Arabia saudita con l'uso massiccio della forza contro i ribelli
yemeniti Houthi manda un messaggio chiaro a Tehran mentre le
trattative sul programma nucleare iraniano sono sul punto di produrre
un accordo internazionale. Riyadh e Tel Aviv unite contro la "minaccia
iraniana"
Cento cacciabombardieri, 150mila soldati mobilitati, paracadutisti in azione, navi da guerra
e mezzi corazzati. Si commetterebbe un grave errore di valutazione a giudicare questo
eccezionale dispiegamento di forza militare da parte dell’Arabia saudita, battezzato
«Tempesta decisiva», come finalizzato a sbaragliare poche migliaia di combattenti sciiti
Houthi che si muovono a bordo di pick up e sono armati di mitra e rpg, per riportare al
potere il presidente, Abed Rabbo Mansur Hadi.
L’impiego di tanta forza, l’avere messo insieme una coalizione così ampia — oltre
all’Arabia Saudita ne fanno parte Egitto, Marocco, Sudan, Emirati arabi uniti, Qatar,
Bahrein, Kuwait e Giordania (il Pakistan ci sta pensando) — la scelta di intervenire
militarmente subito, senza nemmeno attendere il vertice della Lega Araba in programma
domani e domenica a Sharm el Sheikh, non fa che indicare il vero obiettivo di Riyadh.
Re Salman dell’Arabia saudita ha dichiarato in Yemen una guerra indiretta all’Iran e allo
sciismo militante nella regione. E se il suo predecessore Abdallah non aveva esitato ad
intervenire in Bahrain con un migliaio di soldati per spegnere nel sangue le proteste
popolari contro la locale monarchia sunnita, lui non esita a mobilitare le forze aeree,
terrestri e navali per ridare Sanaa all’alleato Hadi. Mettendo insieme un fronte sunnita
pronto all’intervento, Salman ha mandato un messaggio chiarissimo a Tehran: Riyadh è
pronta ad usare la forza per ridimensionare lo status di potenza regionale riconosciuta che
l’Iran otterrà non appena firmerà l’accordo sul nucleare con i Paesi del 5+1 e la Germania,
che si sta negoziando a Losanna e giunto nella sua fase decisiva. L’attacco militare in
Yemen rappresenta anche un estremo quando velletario tentativo della monarchia saudita
di creare tensione tra Washington, che appoggia «Tempesta decisiva», e l’Iran che invece
condanna le operazioni saudite in corso in Yemen.
Gli Usa, ieri alla ripresa dei colloqui, hanno detto di vedere «un percorso per procedere e
arrivare all’accordo» mentre il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha
confermato la determinazione delle parti di arrivare all’obiettivo entro la fine del mese sul
quadro politico, prima di un accordo dettagliato entro giugno. Possibilità che non lasciano
dormire Salmam e la pletora di principi intorno a lui.
L’Arabia saudita e le altre monarchie del Golfo non avevano organizzato alcuna
«tempesta» quando i cacciabombardieri israeliani la scorsa estate scaricavano le loro
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bombe su Gaza. E non hanno messo certo in piedi una «armata» per combattere i jihadisti
dello Stato Islamico che in un pochi giorni hanno preso il controllo di larghe porzioni
dell’Iraq. Hanno solo donato qualche raid aereo alla Coalizione anti Isis voluta da
Washington.
L’attacco in Yemen spiega bene quali sono le vere priorità dei sauditi in Medio Oriente.
«Un tale impiego di forze armate e la partecipazione di tanti Paesi alla coalizione (saudita)
indica il desiderio di rivincita di Riyadh nei confronti dell’Iran e la rabbia verso gli alleati
americani decisi a trovare un’intesa sul programma nucleare iraniano», spiega al
manifesto l’analista Mouin Rabbani.
«Non è possibile pensare che lo scopo saudita sia solo quello di riavere a Sanaa il loro
alleato Abed Rabbo Mansur Hadi — aggiunge Rabbani -, re Salman sta lanciando un
avvertimento preciso a Tehran: non provare ad allargare il tuo raggio d’azione allo Yemen
che era e resta un Paese sotto il mio controllo, sotto la mia influenza e alla mia frontiera
meridionale». L’analista sostiene che la mobilitazione militare saudita è una sorta di
«azione preventiva» poiché se è vero che i ribelli Houthi godono del sostegno dell’Iran
dall’altro lato non ci sono le prove di rifornimenti di armi iraniane ai miliziani sciiti o
dell’intenzione di Tehran di provocare la caduta del presidente Hadi e in caos in Yemen.
Bab el Mandeb, «La Porta del lamento funebre». Pare che il nome di questo stretto che
congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano, che separa lo Yemen da
Gibuti di appena 32 km, derivi, secondo una leggenda, dalle lacrime versate per la
separazione dell’Africa dall’Asia.
Nella realpolitik dei nostri giorni, le lacrime non ci sono, i lamenti invece sono tanti, quelli
della stampa e dei commentatori arabi schierati contro l’Iran, così simili a quelli che si
leggono ed ascoltano in Israele.
Mai come in questi giorni Arabia saudita e Israele sono così vicini. Tel Aviv nelle settimane
passate ha fatto sapere che avrebbe giudicato una minaccia concreta la caduta «in mani
iraniane», ossia dei ribelli Houthi, di Bab al Mandeb, un transito di eccezionale importanza
per la navigazione (anche quella militare) tra il Mar Rosso e l’Oceano indiano. A maggior
ragione se si considera che lo stretto di Hormuz, la porta del Golfo, è già «in mani
iraniane». È netto il giudizio di Efraim Inbar, direttore del centro BeSa per gli studi
strategici dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv. «Israele e Arabia saudita condividono lo
stesso punto di vista: l’Iran è una minaccia molto grave per i due Paesi», ci dice «ed
entrambi criticano la linea dell’Amministrazione Obama, non capiscono perchè voglia
sdoganare e rendere potenza nucleare l’Iran rimescolando pericolosamente gli equilibri
regionali». Boaz Bismuth, editorialista del quotidiano Yisrael HaYom, vicino al governo
Netanyahu, non ha dubbi: lo Yemen «è un altro dei tanti fallimenti dell’Amministrazione
Obama».
Del 27/03/2015, pag. 2
La dinamica
Gli ultimi minuti a bordo prima della strage ricostruiti grazie alla scatola
nera. Andreas si è blindato dentro e ha iniziato la discesa verso la
montagna “Aprimi subito” gli ha urlato il collega battendo i pugni
contro la porta Il procuratore: “Non sappiamo perché, ma voleva
distruggere l’Airbus”
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Barricato nella cabina col comandante chiuso
fuori così il copilota Lubitz ha fatto schiantare
l’aereo
DA BAMBINO sognava di essere un piccolo Icaro, immaginava di pilotare aerei grandi
lassù, sopra alle nuvole, dove c’è sempre il sole. A quattordici anni aveva già imparato a
guidare un aliante biposto nel circolo di Montabaur, paesino a un’ora dall’aeroporto di
Düsseldorf. Ora che Andreas Lubitz di anni ne ha ventisette, si trova seduto a destra del
comandante, nella cabina di pilotaggio dell’A320 di Germanwings. Ha conquistato il cielo.
Sta facendo quello per cui è stato addestrato nel migliore centro di Lufthansa, superando
ogni tipo di stress test.
Piove a Barcellona quando l’aereo si alza in volo dall’aeroporto internazionale El Prat. Il
comandante Patrick Sonderheimer e il copilota devono aspettare ventisette minuti sulla
pista per traffico intenso. Alle 10.01 l’aereo finalmente decolla. Patrick e Andreas
eseguono le procedure di rito, poi si rilassano. Hanno una conversazione che gli
investigatori definiscono “gioviale”. La giornata per loro è cominciata presto. Sono partiti
alle 7.01 da Düsseldorf per atterrare nella capitale catalana poco prima delle nove.
Andreas, assunto dal 2013 come copilota nella filiale low cost di Lufthansa, ha già 630 ore
di volo alle spalle. Patrick ha volato dieci volte tanto. I due continuano a chiacchierare,
sorvolano il Mediterraneo, alle 10.27 raggiungono quota 11.400 metri, l’altitudine di
crociera, passano a sud di Tolone, danno l’ultimo messaggio ai controllori di volo di AixenProvence: «Direct IRMAR merci 18G». Nell’A320 si spengono i segnali luminosi delle
cinture allacciate, anche i 144 passeggeri cominciano a rilassarsi, aspettando lo snack che
i quattro assistenti di volo stanno preparando.
«Prendi tu il comando». Alle 10.30 Patrick si alza per andare alla toilette. Poco prima, il
comandante ha dato al copilota le coordinate per l’atterraggio previsto alle 11.55. Andreas
all’improvviso si incupisce. Parla poco, diventa “laconico” secondo gli investigatori che
hanno trascritto le registrazioni del Cokpit Voice Recorder (Cvr). E’ l’unico, impercettibile
segnale che qualcosa in lui è già cambiato. Troppo poco per insospettire il comandante
che esce. La porta della cabina di pilotaggio si chiude. Non si riaprirà mai più. Qualche
minuto dopo, Patrick bussa “dolcemente” per rientrare al suo posto. Aspetta qualche
secondo, non ottiene risposta. Attiva l’interfono. «Andreas aprimi». Silenzio. Il comandante
digita i codici che permettono di aprire la porta in casi di emergenze, come un malore di
uno dei piloti. Non funzionano. “Lock”. Andreas ha chiuso dall’interno. Ormai è solo,
padrone assoluto dell’A320 e della vita di 149 persone, tra cui una scolaresca di ragazzi
tedeschi che scherzano e ridono all’interno dell’aereo. Ancora non si sono accorti di nulla.
Nel suo piano mortale, Andreas riesce a ingannare tutti. Non vuole cadere in picchiata.
Sceglie piuttosto una discesa «lenta e regolare», attivando alle 10.31 il «flight monitoring
system». Le nuvole si avvicinano. Il comandante capisce che qualcosa di irreparabile sta
succedendo. «Andreas aprimi ». Ormai Patrick grida, prende a calci la porta blindata. Gli
assistenti di volo si avvicinano, urlano anche loro. I passeggeri delle prime file capiscono.
«Andreas apri». Silenzio. Nella trascrizione del Cvr si sentono le grida del comandante e i
messaggi dei controllori di volo all’interno della cabina. Da terra, i responsabili della
sicurezza aerea chiedono ad altri piloti in volo di tentare di agganciare il volo 4U9525 con
le frequenze radio interne. Niente. La torre di controllo di Marsiglia ordina di attivare il
codice d’emergenza (7077) che in casi disperati si invia a terra tramite trasponder. Niente.
Silenzio. Andreas non risponde a nessuno. Nell’audio del Cvr si sente solo il copilota
respirare. «E’ vivo, cosciente. Ha respirato fino alla fine» dice il procuratore di Marsiglia,
Brice Robin. In realtà, Andreas è già morto dentro. Non parla. Non dice niente per tutta la
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discesa folle dell’aereo. Vede davanti a sé le valli dell’Alta Provenza attraversate dai fiumi
e, in fondo, a ormai pochi chilometri, il massiccio dei Trois-Evêchés, dove cominciano le
Alpi verso l’Italia. Neanche questa apparizione maestosa e terribile provoca in lui un
sussulto, una reazione. Suonano gli allarmi tecnici che segnalano che l’aereo si sta
avvicinando a terra. L’A320 ha funzionato perfettamente fino alla fine. I computer di volo
non sono nella testa di Andreas. Mancano ormai poche decine di secondi all’impatto. Si
sentono dei botti, forse l’ultimo disperato tentativo di sfondare la porta blindata con un
oggetto. Il Cvr registra anche le urla che provengono dall’interno dell’aereo, sempre più
forti. I passeggeri vedono dai finestrini le montagne avvicinarsi ma non possono fare
niente per salvarsi. Sono prigionieri di Andreas e del suoi sogni da bambino che si sono
trasformati in un “incubo vigile” come dicono ora gli psicologi cercando di entrare nella
mente malata del copilota.
Del 27/03/2015, pag. 4
Check-up e pratica, ma pochi test psicologici
Le compagnie di linea si affidano a centri specializzati:
elettroencefalogramma e analisi del sangue ogni anno Ma su salute
mentale, abuso di alcol e droga le regole sono meno stringenti. In Italia
gli standard più elevati
LUCIO CILLIS
Quando si tratta di controllare lo stato fisico di un pilota non si fanno mai sconti.
Dall’elettroencefalogramma, fino agli esami del sangue, le verifiche dei centri medici
specializzati in Europa sono sempre approfondite e di norma avvengono almeno una volta
l’anno fino ai 60 anni per poi raddoppiare in età avanzata. Meno stringenti appaiono,
invece, i riscontri sull’eventuale uso o abuso di alcol e droghe da parte dei comandanti
europei. C’è chi, come il nostro Paese, ha scelto di applicare norme molto severe,
obbligando i centri medici specializzati a effettuare test a campione almeno una volta o più
l’anno. Altri in Europa, invece sono di manica larga: anche in Germania i test vengono
eseguiti contestualmente al previsto check-up annuale, annullando ogni eventuale effetto
sorpresa. Ancora più labili sono poi gli accertamenti sullo stato mentale di chi ha tra le
mani la responsabilità di centinaia di vite. Da noi il test “Minnesota” oltre a un faccia faccia
medicopilota, possono mettere a fuoco l’idoneità mentale del comandante. In altri Paesi e
nella stessa Germania, questo tipo di approfondimento non è regolare e spesso non viene
nemmeno effettuato se non in seguito a richieste specifiche di colleghi dell’eventuale
soggetto “a rischio”. «Sono stato testimone di alcuni casi del genere — spiega un primo
ufficiale italiano che preferisce restare anonimo — uno in particolare avvenuto pochi mesi
fa. Un nostro collega ha improvvisamente mostrato segni di insofferenza, squilibrio verso il
comandante fino a minacciarlo ed entrando in contatto con lui in maniera violenta». Per
quel pilota è scattato immediatamente un rapporto alla compagnia e la sospensione dal
servizio. La tenuta fisica di un comandante — avvertono da tempo i piloti europei — è
fondamentale per mantenere la lucidità necessaria a portare a temine più voli al giorno. In
Europa entro la fine dell’anno, diventeranno operative delle regole sull’impiego dei
comandanti molto più “blande” anche rispetto agli standard del Nord America che su
questo, e altri punti, si è dato ormai norme molto più votate alla sicurezza. Un esempio su
tutti: negli Usa esiste un limite “minimo” di ore volate per potersi sedere sul sedile destro di
una aereo di linea, quello riservato ai piloti meno esperti. Nell’Europa che cerca di
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abbassare sempre di più i costi, non ci sono limiti minimi e può capitare, in alcune
compagnie più “spregiudicate” di vedere sedere accanto al comandante un novellino con
300 o poche più ore di volo, cioè pochi mesi di pratica. «In questi casi — il primo ufficiale
— io rabbrividisco: certi colleghi inesperti li manderei a pilotare al massimo un velivolo con
lo striscione pubblicitario, mai un aereo passeggeri».
Altro tema molto caldo quello del “pay to fly”, e cioè la scomparsa progressiva delle scuole
di volo interne alle compagnie e la tendenza a far pagare gli aspiranti piloti per poter aprire
loro le porte del mestiere. Se Lufthansa ne ha una blasonata ancora in attività ed Etihad
(Alitalia) ne sta mettendo su una che si annuncia molto professionale, altre compagnie
hanno scelto la strada della chiusura preferendo la “scuola guida” direttamente sui propri
aerei. In sostanza si tende a prendere piloti usciti da scuole di volo private (si paga da 40 a
100mila euro) per poi istruirli, in alcuni casi a pagamento, pure sui voli di linea.
Ci sono infine altri pericoli incombenti sulla tranquillità di un volo. Uno è il possibile abuso
di alcol o di droghe. Da noi le verifiche sono improvvise e a campione e avvengono da una
a tre volte l’anno senza alcun preavviso. «L’utilizzo di qualsiasi droga è ovviamente
vietato, bere con moderazione è permesso solo “fuori servizio” — conclude l’ufficiale — e
mai prima del volo».
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INTERNI
Del 27/03/2015, pag. 12
Renzi blocca la norma sul libero accesso ai
pc Sì ai droni contro il crimine
Stralciato dal decreto anti terrorismo l’articolo contestato Alfano: ne
riparleremo nella legge sulle intercettazioni
FABIO TONACCI
La polizia non potrà fare intercettazioni telematiche da remoto con i software spia. Per ora.
È stato stralciato dal testo del decreto anti-terrorismo, alla Camera per la conversione in
legge (il voto finale dovrebbe essere martedì), l’emendamento voluto dal governo sul
quale si era scatenata una bufera. Pare che sia stato lo stesso Matteo Renzi ieri mattina,
dopo la lettura dei giornali, a imporne la cancellazione, avvenuta con l’approvazione
dell’emendamento del deputato di Sel Arcangelo Sannicandro. Ma la questione è tutt’altro
che chiusa, perché il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha annunciato che se ne
riparlerà «nel disegno di legge sulle intercettazioni, già approvato dal consiglio dei
ministri». E ha definito «curioso» il comportamento di «alcuni che erano assolutamente a
favore del frugare le telefonate e sentire tutto e adesso, quando si tratta di lottare contro il
terrorismo via web, sono diventati tutori della privacy». Il punto sta tutto in quella parola,
“remoto”. Così come era indicato nell’emendamento soppresso, significava dare la
possibilità agli investigatori di utilizzare, con l’autorizzazione di un gip, trojan horse, key
logger, sniffer e altri software spia per acquisire le comunicazioni su pc e smartphone degli
utenti sospettati di vari reati, non solo terrorismo. Non c’entrano niente le intercettazioni
preventive, come invece è stato erroneamente detto. «Ma il problema rimane - spiega il
deputato di Scelta Civica Stefano Quintarelli, che per primo si è accorto dei possibili effetti
devastanti per la privacy - da remoto si arriva a controllare interamente il computer dei
cittadini sospettati, con tutto quello che c’è dentro: mail, archivi, webcam, etc». Prospettiva
che ha fatto inorridire non solo il Garante per la privacy Antonello Soro («sono in gioco
libertà e diritti fondamentali »), ma anche il giurista Stefano Rodotà: «La disinvoltura
legislativa dell’uso di un decreto legge per intervenire sui diritti fondamentali è veramente
preoccupante». In un tweet il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa Nils
Muiznieks, si è complimentato con Renzi «per aver bloccato misure antiterrorismo
intrusive». Approvato l’utilizzo dei droni per il contrasto ai reati ambientali, criminalità
organizzata e terrorismo. Non solo. Tra le novità, l’aumento a 300 unità del numero dei
soldati impiegati nella vigilanza della Terra dei Fuochi. Bocciato invece l’emendamento
della Lega Nord che vietava ai cooperanti delle ong di recarsi nei Paesi a rischio, «se non
con un nulla osta rilasciato dal ministero degli Affari esteri».
Del 27/03/2015, pag. 18
I candidati scomodi del Pd rifiutano il passo
indietro
E i big lasciano solo De Luca
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Salta convegno per lanciare l’ex sindaco di Salerno condannato
Crisafulli sfida il Nazareno: possono sempre farmi sottosegretario
ANTONIO FRASCHILLA
Sono ingombranti, provocano malumori nella base e in alcuni casi «un grande imbarazzo»
non solo in via del Nazareno ma anche a Palazzo Chigi. Si chiamano Vincenzo De Luca in
Campania, Vladimiro Crisafulli a Enna, Silvio Alessi ad Agrigento. Sono i candidati che
Matteo Renzi non vorrebbe in corsa con il Pd e che, via il vicesegretario Lorenzo Guerini,
sta cercando di convincere a fare un passo indietro. Ricevendo sempre la stessa risposta.
«Mi candido anche se me lo vieta Renzi», ripetono Crisafulli, De Luca e Alessi.
Diventando così spine nel fianco alle quali si appigliano gli oppositori esterni e interni.
A partire dal caso Campania. De Luca è piombato a Palazzo Chigi per incontrare il
presidente del Consiglio.
Alla fine è riuscito a parlare con il sottosegretario Luca Lotti e Guerini, ed entrambi lo
hanno invitato a valutare un ritiro, anche alla luce della condanna per abuso d’ufficio. De
Luca, invece, ha chiesto un «maggiore sostegno» temendo che nessuno dei big vada in
Campania. E l’annullamento della manifestazione in programma domani a Napoli alla
quale avrebbero dovuto partecipare il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il
presidente dei dem Matteo Orfini, è stato letto come un campanello d’allarme. Alla Camera
tra i renziani si vocifera di soluzioni alternative che Renzi starebbe sondando e il nome che
circola è quello del ministro Orlando. Rumors, nulla di più, che la dicono lunga sullo spirito
con il quale Renzi e i suoi si apprestano alle elezioni campane.
Altra grana è quella di Enna. Renzi è chiaro: «Crisafulli non avrà il simbolo Pd». L’ex
senatore, considerato «impresentabile» alle politiche perché intercettato in un colloquio
con un boss e alle prese con un rinvio a giudizio per una strada abusiva, adesso non ha
nulla sulle spalle perché il reato è prescritto e nel frattempo è stato eletto segretario locale.
Crisafulli ieri si è presentato alla Camera e appena ha visto Guerini lo ha raggiunto:
«Perché non mi devo candidare?», ha chiesto a un vicesegretario evidentemente in
imbarazzo, che si è defilato dicendo soltanto: «Mirello, dai, fai il bravo».
Crisafulli è netto: «Faccio un passo indietro solo se mi nominano ministro o
sottosegretario, tanto tra questi c’è chi è messo peggio di me». Grane su grane anche ad
Agrigento, dove infuriano le polemiche sul vincitore delle primarie sostenuto da un pezzo
di Fi. L’input che arriva da via del Nazareno è quello di trovare un candidato alternativo.
Due nomi sul tavolo ci sono: il presidente del tribunale Luigi D’Angelo e l’Udc Calogero
Firetto. «Ad Agrigento interverremo», dice il vicepresidente del Pd, Matteo Ricci.
«Abbiamo toccato il fondo», attacca Cesare Damiano. Dalla Sicilia alla Liguria, dove i
democratici sono alle prese con lo spettro del voto disgiunto nei confronti dell’ex Pd Luca
Pastorino contro la candidata ufficiale Raffaella Paita. Il partito avverte: «Chi vota un altro
candidato è fuori». Basterà?
Del 27/03/2015, pag. 18
Renzi: “Pronto alla fiducia sull’Italicum” Ai
dissidenti niente libertà di coscienza
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
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«Non mi fido di un nuovo passaggio in Senato. Dobbiamo approvare l’Italicum a maggio,
togliamoci il dente. Anche perché la legge secondo me non è perfettibile». Con le parole di
Matteo Renzi, comincia in salita la trattativa tra il premier e la minoranza sulla riforma
elettorale. La chiusura di Palazzo Chigi è netta, l’idea è quella di risolvere la questione
lunedì in direzione. Con un voto, con la conta mettendo in preventivo la spaccatura. Se le
parole hanno un senso, ormai il tempo dei penultimatum è finito e lo scontro con Pier Luigi
Bersani e gli altri dissidenti inevitabile. «È una questione centrale, sono pronto a giocarmi
tutto — spiega il premier ai suoi collaboratori — . Anche a chiedere il voto di fiducia».
Tocca a Roberto Speranza tentare la strada della mediazione. Ma i “colloqui di pace” sono
partiti col piede sbagliato.
Ieri mattina il capogruppo e il presidente del Consiglio sono stati chiusi due ore a Palazzo
Chigi cercando una soluzione. A Speranza Renzi chiede di dimostrare la sua capacità di
tenere unito il gigantesco gruppo parlamentare di Montecitorio «su una legge che abbiamo
discusso cento volte, abbiamo modificato in maniera sostanziale al Senato seguendo le
indicazioni della minoranza e che va approvata». Speranza però è uno dei leader
dell’opposizione interna, è stato scelto da Bersani per quel posto, ha sempre sudato per
garantire una compattezza che tenesse insieme le anime del Pd senza rallentare l’azione
del governo. Adesso è a un bivio. Senza una correzione, sa che i ribelli andranno fino in
fondo non votando la legge elettorale e generando uno strappo al limite della scissione
proprio alla vigilia delle regionali, elezioni importanti visto che si vota in 7 regioni.
Che la partita Italicum sia decisiva per il governo e per la stessa legislatura si respira nel
lungo ragionamento di Renzi oltre che in alcuni dettagli che vanno oltre il confine del Pd.
Ieri, raccontano, Gaetano Quagliariello e Maurizio Lupi hanno incontrato la capogruppo
dell’Ncd alla Camera Nunzia De Girolamo. Lei chiede un cambio di passo al partito di
Alfano, addirittura accarezzando l’ipotesi di un appoggio esterno all’esecutivo. Ma non è il
momento, le dicono i due “messaggeri”. Gli attacchi vanno fermati, il sostegno a Renzi non
è in discussione, bisogna compattarsi in vista del voto sull’Italicum. Altrimenti, è il senso
del messaggio, il tuo posto di capogruppo è a rischio. A Speranza è stato fatto capire più o
meno lo stesso. È in gioco la sua poltrona. Lui ha risposto a Renzi che è un pericolo anche
per il segretario «creare uno spappolamento nel partito alla vigilia delle regionali». In fondo
basta poco, è il ragionamento dei bersaniani. Il patto del Nazareno è finito, le riforme si
voteranno solo con la maggioranza di governo. È sufficiente garantire una quota del 70
per cento di eletti con le preferenze e l’accordo è fatto. Se si arriva alla resa dei conti,
invece, qualche “sorpresa” sul risultato delle amministrative potrebbe arrivare. In Liguria,
dove la giunta uscente è di centrosinistra, il civatiano Pastorino corre contro la candidata
renziana Paita e può azzopparla. In Veneto Alessandra Moretti ha chance maggiori dopo
la rottura nella Lega ma non reggerebbe una rottura a sua volta. Non è questa la
previsione di Renzi che vede l’approvazione definitiva della legge elettorale come una
straordinaria opportunità per la campagna elettorale.
Se la trattativa non decollasse nelle prossime ore, la minoranza ha intenzione di arrivare a
un obiettivo minimo lunedì: evitare la conta in direzione e cercare ancora una mediazione.
I tempi non sono brevissimi. L’Italicum è stato messo in calendario a Montecitorio il 27
aprile. Ma anche su questo minimo gesto distensivo Renzi nutre molti dubbi. Non vuole
tergiversare. L’assemblea di Sinistradem lo ha convinto che non ci siano margini. Bersani
sembra irriducibile, D’Alema ha chiesto «massima intransigenza su alcuni paletti». Il
segretario ha una maggioranza ampia nell’organismo, tanto vale sfruttarla subito. Il
presidente Pd Matteo Orfini, contrario alle preferenze, fa capire il clima con un
avvertimento: «La libertà di coscienza ci può essere sulla Costituzie ed è stata
riconosciuta. Non c’è invece sulla legge elettorale, che è un tema politico».
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Del 27/03/2015, pag. 20
Fitto e Verdini ormai pronti alla doppia
scissione in Fi
Nelle regioni lo spettro 10%
In Puglia il candidato designato da Berlusconi verso il ritiro se corre
l’eurodeputato. L’ex coordinatore: da noi sì alle riforme
CARMELO LOPAPA
Scenario da incubo, appunto, dal quale il leader — rimasto anche ieri ad Arcore — non
riesce a venire fuori. Se non con la tentazione della corsa solitaria: Giovanni Toti in
Liguria, Deborah Bergamini in Toscana, Mara Carfagna in Campania in caso di ritiro
(improbabile) di Caldoro. Nervosissimo per colpa di Alfano che ancora tergiversa in
Campania, sensibile alle sirene renziane. Il tutto, mentre resta in stand-by il faccia a faccia
con Salvini, che Berlusconi potrebbe avere nelle prossime ore o rimpiazzare con una
telefonata, pur di chiudere in fretta su Veneto, Liguria e Toscana. Insomma, il caos nella
strategia e nelle alleanze. Le due falle intanto si allargano, giorno dopo giorno.
Fitto, che ieri ha visto i parlamentari a lui vicini, è ormai pronto alla candidatura e dunque
al grande strappo subito dopo Pasqua nella sua Puglia. Tanto più ora che con la circolare
di Maria Rosaria Rossi ogni potere sulla composizione delle liste è stato centralizzato nelle
mani del capo e della stessa tesoriera. Altero Matteoli, spiazzato, ha cercato tutto il giorno
di contattare Berlusconi per chiedere chiarimenti e come lui tanti altri. Nelle stesse ore,
l’amministratrice volava in Trentino per depositare di persona, non concedendo alcuna
delega (questo il messaggio), il simbolo di Forza Italia per le elezioni locali. Il coordinatore
pugliese, il berlusconiano Luigi Vitali continua invece a fare terra bruciata attorno a Fitto,
piazzando altri commissari da Barletta a Brindisi. E ora la partita lì si fa incandescente.
Intervistato da Affaritaliani. it, il candidato ufficiale Francesco Schittulli fa sapere che in
caso di candidatura di Fitto, lui non sarebbe più «in campo». L’eurodeputato del resto è
sempre più lanciato. L’eventuale annuncio della candidatura in Puglia avverrebbe subito
dopo Pasqua e così l’uscita dal gruppo dei suoi (16-18 deputati, almeno una dozzina di
senatori). Ma potrebbe non essere la sola scissione in vista. Renzi ha accelerato sulle
riforme e punta a un blitz in aula per il sì definitivo all’Italicum. Verdini resta convinto che
occorra votare sì e lo ha ripetuto ai 17 deputati che hanno già firmato il documento pro
Nazareno in rotta con Berlusconi. La nascita di un gruppo di “neo responsabili” sarà la
conseguenza estrema del voto in dissenso dal gruppo. Il leader si prepara a rifondare,
Forza Italia o Forza Silvio che sia, all’indomani delle regionali. Ma cosa resterà a quel
punto? «A furia di sottolineare il profilo liberale di Fi, stiamo arrivando ai numeri del partito
liberale», ironizza ma neanche tanto Gianfranco Rotondi, altro pro riforme. «Silvio si svegli
o qui va tutto a rotoli» gli manda a dire anche un fedelissimo come Matteoli. Bisogna
sentire il fittiano Maurizio Bianconi, per misurare la distanza ormai incolmabile della
fronda: «L’unico segnale che ormai aspettiamo da Arcore sono le dimissioni da Forza Italia
e la formazione di un suo partito».
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del 27/03/15, pag. 27
Expo, 20 milioni di firme per l’appello all’Onu
Lotta agli sprechi, investimenti nella ricerca, sicurezza alimentare: ecco
la bozza della Carta di Milano Da oggi la presentazione a Firenze,
domani la chiusura con Mattarella. Martina: Italia patria del diritto al cibo
MILANO La novità è che viene chiesto a ciascuno di metterci il nome. Quindi, quando
firmi, come cittadino ti impegni ad «avere consapevolezza e cura della natura del cibo di
cui ci nutriamo», ma anche a «consumare solo le quantità di cibo sufficienti al
fabbisogno». Se invece sei un’impresa, dovrai «applicare le normative in materia
ambientale e sociale», piuttosto che «investire nella ricerca promuovendo una maggiore
condivisione dei risultati». Le organizzazioni della società civile dovranno «far sentire la
nostra voce a tutti i livelli decisionali, al fine di determinare progetti per un futuro più
sostenibile» e la politica sarà attiva sul «formulare e implementare regole e norme
giuridiche riguardanti il cibo e la sicurezza alimentare» .
Esempi, certo: perché la Carta Milano che sarà eredità di Expo è ancora in bozza. Una
bozza che verrà presentata oggi e domani a Palazzo Vecchio di Firenze, secondo
appuntamento di quel dibattito delle Idee che il 7 febbraio scorso all’Hangar Bicocca di
Milano aveva dato il via al «modello partecipativo»: 42 tavoli di lavoro su tematiche
precise, altrettanti report finali elaborati dal comitato scientifico che, su incarico di Expo e
del governo, sta predisponendo questo documento.
Il ministro Maurizio Martina, delegato all’Expo, spiega che «il nostro obiettivo è trasformare
i 20 milioni di visitatori dell’esposizione di Milano in ambasciatori del cibo». Gli argomenti
affrontati nella Carta Milano sono i modelli economici e produttivi per uno sviluppo
sostenibile in ambito economico e sociale; i diversi tipi di agricoltura rispettosi del sistema
e delle biodiversità; il cibo come fonte di nutrizione e identità socio-culturale; le pratiche
per ridurre e disuguaglianze.
Martina insiste: «Per la prima volta una esposizione universale si pone l’obiettivo di
contribuire alla discussione che si farà alle Nazioni Unite, quando si dovranno definire gli
obiettivi del Millennio ed è una scommessa per l’Italia, perché esalta anche l’ambizione del
nostro Paese ad essere la patria del diritto al cibo».
Aggiunge Salvatore Veca, coordinatore del comitato scientifico al lavoro sulla Carta, che
«stiamo preparando un documento di impegni di cittadinanza globale, perché la
sottoscrizione è richiesta a persone di tutto il mondo ed è un’assunzione di responsabilità
di fronte alle contraddizioni e ai paradossi del cibo che viene assunta da singoli, dalla
società civile e dalle imprese. Questi soggetti si rivolgono però alle istituzioni a vari livelli,
nazionali, transazionali e sovranazionali, perché a loro volta si impegnino su scelte che
mitighino queste contraddizioni e facciano rispettare i diritti affermati».
Dal punto di vista operativo, sono stati consultati Fao e Unione europea, oltre che diversi
centri di ricerca, fondazioni e università già impegnate su questo tema. In aprile la Carta di
Milano approderà in Parlamento, per una discussione straordinaria; il 15 aprile se ne
parlerà a Bruxelles e il 28 aprile il documento verrà ufficialmente presentato a Milano. Da
maggio a ottobre, durante il semestre di Expo, potrà essere sottoscritto all’interno del sito
espositivo o sul web. Il 16 ottobre, infine, la Carta verrà consegnata al segretario generale
dell’Onu, Ban Ki moon.
La due giorni di Firenze, dopo i saluti istituzionali di Martina, del commissario del
Padiglione Italia Diana Bracco e del commissario unico di Expo Giuseppe Sala, sarà
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caratterizzata dagli interventi di Emma Bonino sulla «potenza delle donne» e di Romano
Prodi sulla «geopolitica del cibo» .
Saranno trasmessi un video del Premio Nobel Aung San Suu Kyi e un collegamento col
sindaco di New York Bill De Blasio. L’incontro sarà concluso dal presidente della
Repubblica Sergio Mattarella: sarà lui ad inaugurare Expo il primo maggio prossimo. Fra
35 giorni .
Elisabetta Soglio
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 27/03/2015, pag. 25
Nelle strade della camorra dove lo Stato è
lontano “Qui è come Sarajevo”
CONCHITA SANNINO
«Se volete parlare, venite sopra. Ho due ragazzi piccoli e non li lascio neanche un minuto
qui, in mezzo al “Conocal”. Non sai mai da dove può arrivare una pallottola». Pina ha due
figli di 9 e 11 anni. Ti indica l’orizzonte. Gli stradoni sono deserti e, oltre l’istituto scolastico
blindato di cancelli, gli alloggi popolari hanno inferriate e pali marciti per la ruggine.
Intorno, fabbricati rimasti grigi dove si paga, se si pagano, 80 euro di fitto per tre camere e
cucina, dove saldare le bollette è spesso un optional e gli assistenti sociali sono 4 di
numero di fronte al dilagare di dispersione e abbandono, 300 persone in un paio di isolati.
Palazzine ai cui piedi, il giorno dopo, spicca il sangue dell’ultimo raid di camorra ancora a
terra. Tocca ai condòmini attaccare una pompa d’acqua e innaffiare. «Tanto, se
aspettiamo i servizi... ». Pensare che solo a una manciata di chilometri da qui, stessa
municipalità di Ponticelli, stessa alternanza di vita e morte, è arrivato il premier Renzi sei
mesi fa a celebrare una start up «all’avanguardia mondiale su ingegneria e elicotteri».
Invece. «Vedere quelle immagini intercettate da noi, con i ragazzi che sparano e i civili
inermi che scappano, in un lembo abbandonato della periferia cittadina, è stato come
pensare alla Sarajevo degli anni Novanta», ragiona con Repubblica il procuratore
antimafia Giuseppe Borrelli. Non basta più infatti dire Napoli est, per raccontare questo
pezzo di zattera sociale — lasciato a naufragare in mare aperto: dove le telecamere
nascoste del pool antimafia hanno ripreso scene di guerra, e dove la camorra è tornata a
uccidere esattamente il giorno dopo quel blitz con 63 arresti. Uno schiaffo allo Stato. Prima
le catture, poi altro piombo e terrore. «Occorre una pianificazione di tutte le istituzioni, un
tavolo coordinato per colmare i vuoti che da anni si stratificano — continua Borrelli —
l’unico “sportello” che qui apre le sue fauci sul territorio è la camorra. E la giustizia, la
sicurezza non può dare tutte le risposte». Non basta scrivere periferia e neanche
Ponticelli, devi dire rione Conocal, frammento criminale che non aveva neanche i riflettori
guadagnati da Gomorra: il bordo del bordo, il confine tra città e entroterra del Vesuvio. Il
posto dove il contrabbandiere Ciro D’Ambrosio è stato ammazzato mercoledì sera,
all’angolo di via Mario Palermo, all’ora in cui i lavoratori rientrano nelle palazzine e qualche
spoglio bar è ancora aperto. Spedizione di morte in cui è caduto anche un innocente,
bengalese, appena diciottenne, Hossan Jabed, mentre aspettava il suo bus: frattura del
polso, grave choc. «Ho visto un uomo fuggire, volevo solo salire sul 192, che mi avrebbe
portato a Piazza Garibaldi », racconta dall’ospedale. È solo un caso che non siano rimasti
coinvolti altri innocenti. «Io non ce la faccio più a vivere con questo incubo che si spari»,
dice Pina, «intanto mio marito lavora sei ore al giorno come vigilante, ho due adolescenti e
diventa dura litigare con loro: perché quelli vorrebbero giocare anche con un pallone per
strada e io li tengo chiusi». Anche all’istituto Archimede, tecnico commerciale e per
geometri, c’era gente che usciva a quell’ora: apre corsi serali a centinaia di genitori e
disoccupati. È la scuola che al mattino accoglie 1200 ragazzi, da cui è uscito il ballerino
emergente, il campione della tv di Amici, Vincenzo Durevole, loro piccolo eroe. A guidare
la scuola, Patrizia Scognamiglio. «Abbiamo problemi di dispersione, pochi i casi di ragazzi
border line, ma lo scenario con cui ci confrontiamo di più è quello della povertà diffusa.
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Troppe famiglie con redditi bassi, tanti padri che hanno perso il lavoro, illegalità appena
esci di qui. Se da un lato il mondo criminale diffonde esempi, o solo terrore, dall’altro lato
la scuola diventa confidenza, famiglia, ambulatorio. Tempo fa, grazie ad alcune giornate
per la salute organizzate qui da noi — rivela la preside — una madre ha scoperto un
nodulo al seno e l’abbiamo salvata ». Carenza di servizi, di sportelli territoriali. Questo è il
posto in cui, è scritto nell’ordinanza di custodia emessa dal Gip di Napoli, «lo Stato ha
abdicato al suo ruolo ».
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WELFARE E SOCIETA’
del 27/03/15, pag. 5
Poletti: «No al reddito minimo» e promette
misure contro la povertà
Roberto Ciccarelli
Robocoop. Sabato scorso il ministro del lavoro ha marciato con Libera
contro le mafie e per il reddito minimo. Ieri lo ha bocciato: «Non ci sono
risorse». Poi annuncia: «Nel 2015 boom dei contratti fissi (+79 mila)»,
anche se non conta quelli precari. E Renzi aziona la grancassa:
«L’aumento dei contratti significa più diritti»
Dopo avere passeggiato a Bologna nel corteo di Libera sabato scorso che chiedeva, tra
l’altro, l’introduzione del «reddito minimo» in Italia, in un’intervista rilasciata a «Famiglia
Cristiana» cinque giorni dopo il ministro del Lavoro Poletti ha detto «No al reddito minimo»
perché ha un costo di molti miliardi, insostenibile per l’attuale bilancio pubblico».
Poletti ha fatto riferimento alla proposta del Movimento 5 Stelle sui 780 euro al mese,
attualmente in discussione in Commissione lavoro al Senato insieme a quella presentata
da Sel che ha un importo inferiore e un funzionamento diverso, come previsto dalla
proposta di legge popolare sostenuta dai movimenti e associazioni da cui è nata. Ma il
«niet» di Poletti è estendibile anche a quest’ultima e, in generale, alla campagna per il
reddito di «dignità» lanciata da Libera con il Bin e il Cilap, che cerca di mettere attorno a
un tavolo Cinque Stelle Sel e Pd (che ha presentato un’altra proposta) sulla base di
quattro principi: il reddito minimo dev’essere individuale, sufficiente, congruo rispetto alle
competenze al reddito e al lavoro precedente e riservato a tutti i residenti.
La richiesta sarà avanzata dalla manifestazione di domani a Roma organizzata dalla Fiom
che sostiene la campagna «reddito di dignità».
Il cerchio si chiude.
Come previsto ieri da il manifesto, Poletti sosterrà una misura contro la povertà assoluta,
coerentemente con l’impostazione neoliberista e caritatevole dei governi dell’austerità:
«Non nego l’esistenza di situazione estreme di povertà e disagio. Entro giugno
predisporremo un piano operativo per l’inclusione sociale», cioè un sussidio contro le
povertà sul modello fallimentare della «social card» o dell’irrisorio «Sia» voluto dal governo
Letta (con 40 milioni di euro in tre anni). I fondi a disposizione sarebbero di 1 miliardo nei
prossimi sei anni: 170 milioni circa all’anno. Una miseria per un sussidio contro la miseria.
Lo riconosce lo stesso Poletti: «Servono ulteriori risorse».
«Un serio ministro del Lavoro — ha risposto Nunzia Catalfo, prima firmataria della
proposta M5S — dovrebbe mettersi ad un tavolo per studiare le proposte esistenti. Le
coperture finanziarie della nostra sono state ritenute ammissibili dal Senato nella
discussione sulla Legge di stabilità». I Cinque Stelle sembrano convergere sui principi
della campagna «reddito di dignità» di Libera, Bin e Cilap, valorizzando tra l’altro alcune
caratteristiche della loro stessa proposta: erogazione individuale del reddito (e non al
capofamiglia come prevedono i sussidi contro la povertà); la congruità dell’offerta di lavoro
con il Cv del beneficiario.
Ieri la giornata di Poletti è stata segnata dall’aumento di 79 mila posti di lavoro a tempo
indeterminato. Il dato lo ha comunicato durante una conferenza stampa alla regione Lazio
sulla fallimentare «Garanzia Giovani», mentre una rappresentanza del laboratorio romano
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per lo sciopero sociale lo contestava in via Cristoforo Colombo. «Sono stati registrati nei
due primi mesi del 2015. A gennaio risultano attivati 40.500 contratti a tempo
indeterminato in più rispetto al gennaio 2014. A febbraio +38500.
Diversi giornalisti presenti hanno chiesto a Poletti se i 79 mila nuovi contratti fossero
nuove forme contrattuali o sono vecchi contratti trasformati. Poletti ha risposto di «non
sapere rispondere in dettaglio». La fonte della notizia sarebbero in realtà i dati sulle
comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Dato che la decontribuzione per le
imprese contenuta nel Jobs Act è entrata in vigore il 7 marzo, l’aumento sarebbe il risultato
degli sgravi contributivi stanziati dalla legge di stabilità. C’è tuttavia da considerare i dati
sul lavoro precario. A febbraio su 558.802 attivazioni complessive, ben 420.760 erano
precarie.
Un dato passato inosservato mentre Renzi ha azionato la grancassa: «È solo l’inizio. Ci
hanno detto di tutto in questi mesi, ci hanno accusato di voler rendere la nostra
generazione per sempre precaria. È vero esattamente il contrario: stiamo dando diritti a
chi non ne ha mai avuti». I diritti sarebbero le «tutele crescenti» previste dal Jobs Act che
prolungano sine die il precariato di cui parlano i dati.
Del 27/03/1983, pag. 11
La festa di clochard e rom per una sera in
Vaticano
IL PONTEFICE HA APERTO LE PORTE, VISITE AI CAPOLAVORI E PIZZA
PER CENA ENTUSIASMO ALL’USCITA: “CI HA ABBRACCIATI TUTTI,
HA DETTO DI PREGARE PER LUI”
Si è avvicinato, mi ha stretto le mani e mi ha detto pregate per me che sono un peccatore”.
Claudio ha le lacrime agli occhi quando ci racconta del suo incontro con papa Francesco.
“Ci pensi, lui ha detto a me che è un peccatore, lui, l’uomo più buono della Terra, il Papa
della povertà”. Claudio è uno dei 150 clochard, rom, uomini e donne che vivono ai margini
della società, che alle sette di sera escono in gruppo dalla loro visita in Vaticano. Per la
prima volta un pezzo di umanità dolente ha potuto alzare gli occhi e tuffarsi nella
maestosità dei dipinti della Cappella Sistina. Ammirare la tenebrosa bellezza del Giudizio
Universale, calpestare i mosaici che tutti i Papi hanno calpestato prima di mostrarsi al
mondo. BRUNO e la sua donna, “conosciuta per strada, quando per tetto avevo il buio del
cielo”, dice, hanno ricevuto un abbraccio di papa Francesco. “Per tutti ha avuto parole
buone, ma una frase in particolare mi ha colpito: questa è la casa di tutti”. Le ricchezze
inestimabili dei Musei Vaticani, la quiete dei giardini dove papa Bergoglio passeggia
meditando, “casa di tutti”. “Capisci – riflette Claudio – anche nostra, di gente che vive per
strada, di chi ha poco. Papa Francesco sta davvero cambiando la Chiesa”. Glielo
lasceranno fare, chiediamo? “Ci sono molte resistenze”. C’è anche un gruppo di rom.
“Viviamo nel campo della Fiera di Roma, siamo una famiglia di quindici fratelli”, ci dice una
ragazzina vestita con gli abiti buoni e i gioielli della festa. È con sua madre. “È stata una
visita meravigliosa, un regalo che la Chiesa ha voluto farci, ma la sorpresa più bella è
stata l’arrivo del Papa, è comparso all’improvviso, si è fatto abbracciare da tutti, chi aveva
il cellulare si è fatto le foto. Poi abbiamo pregato con lui”. A organizzare la visita monsignor
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Konrad Krajeski, elemosiniere vaticano, che il Papa ha voluto personalmente ringraziare.
Nel gruppo anche Tonino Sammarone della Comunità di Sant’Egidio. “Il Papa ha voluto
farci un regalo bellissimo, molti dei visitatori non avevano mai visto queste meraviglie.
Avevamo tutti le cuffie per sentire le spiegazioni delle guide. Ma il momento più esaltante è
stato quello della preghiera col Santo Padre”. MIGUEL, clochard che viene dal Venezuela,
è entusiasta. “Avevo visto solo le foto della Cappella Sistina, ma vedere i dipinti di
Botticelli, Perugino e del Pinturicchio dal vivo è davvero una emozione forte”. Antonio è
napoletano, vive a Roma da anni, come può e con poco, anche lui ha avuto per casa la
strada. “Il Papa mi ha chiesto di dove sono e io gli ho risposto orgoglioso che sono di
Napoli. Lui mi ha stretto le mani e mi ha detto Forza Napoli. No, Santità, Forza Argentina”.
Ognuno ha il suo aneddoto da raccontare, uno sguardo particolare, la mano del Papa che
si ferma per un attimo sulle guance da accarezzare, frammenti di una giornata particolare,
qualcuno ha in mano una busta bianca con del cibo. Alla fine della visita, intorno alle 18,
gli ospiti del Papa hanno consumato una veloce cena. “Pizze, mozzarelle, frutta”, ci
raccontano. “Il Papa ha voluto regalarci un pizzico di felicità”, commenta un giovane
dall’accento polacco. La giornata è finita, i giardini torneranno ad ospitare le passeggiate
del Papa, i musei e la Cappella Sistina saranno riaperti alla folla di turisti che ogni giorno
fa la fila per dire “io c’ero”. Sotto il colonnato una anziana donna. “Dormo sui cartoni, a
Borgo Pio. Peccato, volevo esserci anch’io”. Il Vaticano è troppo piccolo per accogliere il
dolore di troppi.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 27/03/2015, pag. 21
Unioni civili, primo sì: ma anche il Pd frena
Dall’adozione del figlio del partner alla reversibilità della pensione:
uguali diritti e doveri per tutte le coppie, incluse quelle dello stesso
sesso In commissione Giustizia i democratici votano con i 5 stelle, Ncd
contro. La fronda di 35 senatori dem: no all’equiparazione con il
matrimonio
MARIA NOVELLA DE LUCA
Sarà una battaglia campale e per adesso dagli esiti più che incerti. Ma essere riusciti ad
approvare, ieri, al Senato, il primo testo base sulle unioni civili omosessuali, è già, di fatto,
un cambiamento culturale. La commissione Giustizia di Palazzo Madama ha dato il via
libera, grazie a una alleanza tra il Pd e i Cinque Stelle, alla legge che tutela coppie e
famiglie gay. Pur con spaccature sia nella maggioranza che nell’opposizione, e all’interno
del Pd stesso, dove 35 senatori hanno già annunciato che chiederanno pesanti
cambiamenti della legge. Il cui impianto, al di là di quanto verrà modificato, stabilisce un
punto cardine sul fronte dell’antropologia della famiglia. Riconoscendo che esistono non
soltanto unioni tra persone dello stesso sesso, ma anche nuclei formati da due madri o
due padri. Il testo, di cui è relatrice la democratica Monica Cirinnà, è la sintesi di circa nove
disegni di legge. Prevede, innanzitutto, per le persone omosessuali che decidono di
stipulare una unione civile, gli stessi diritti e doveri di un matrimonio. In termini patrimoniali,
successori, di reversibilità, di assistenza e di sostentamento. Al momento dell’unione poi i
partner scelgono il cosiddetto “nome della famiglia”, individuandolo tra i loro cognomi. Ma
la legge prevede anche - ed è uno dei punti più avanzati ma anche più contestati - che
all’interno di una coppia con figli, il genitore “non biologico” possa adottare il figlio o la figlia
del partner. Si chiama “stepchild adoption”, è in vigore in più paesi europei, ed è una vera
forma di tutela dei bambini delle famiglie Arcobaleno. Oggi infatti il genitore non biologico
in una coppia omosessuale, non ha alcun legame “legale” con il figlio, né esiste per lo
Stato italiano. Con la conseguenza paradossale che se il padre o la madre naturale
venissero a mancare, quel bambino potrebbe essere affidato ad altri parenti o dato in
adozione. Bisogna spiegare con chiarezza che le unioni civili non permettono in alcun
modo a una coppia gay di adottare un bambino “terzo”, senza legame di sangue con uno
dei due partner. Nella seconda parte del testo si prevede una nuova «disciplina delle
convivenze di fatto». Le coppie gay che non volessero essere registrate come unione
civile, o le coppie etero refrattarie al matrimonio, potrebbero avere alcune tutele base, per
quanto riguarda l’assistenza in ospedale, il diritto di successione nell’affitto di una casa, e
altri accordi patrimoniali. Questo il testo, ma è ben difficile che le cose restino così, anzi il
cammino verso il voto dell’aula appare tutto in salita. Non se lo nasconde la relatrice
Monica Cirinnà, che pure dice di essere soddisfatta dal primo voto in commissione. Voto
ottenuto però grazie all’alleanza con M5S, bocciato da parte di Fi e dal Nuovo
Centrodestra. E se Maurizio Gasparri arriva ad affermare «avremo l’obbligo di partecipare
al Gay pride», una netta spaccatura si profila anche all’interno del Pd. Da una parte Sergio
Lo Giudice che parla di «passo storico», e Luigi Zanda di un «buon punto di partenza»,
dall’altra un gruppo di 35 senatori Pd che ha già da tempo preso le distanze.
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Senatori che avevano già firmato una proposta della storica Emma Fattorini, oggi
parlamentare. Stefano Lepri spiega le perplessità del gruppo dei 35, sottolineando
comunque che i membri del Pd della commissione Giustizia hanno votato «sì» al testo
Cirinnà. «Quello che non ci convince — dice Lepri — è l’equiparazione così netta tra le
unioni civili omosessuali al matrimonio, distaccandosi proprio da quel modello tedesco a
cui diciamo di ispirarci. Ma il punto più controverso è la stepchild adoption. Siamo sicuri di
fare veramente il bene del minore, scrivendo sul suo stato di famiglia “figlio di due madri o
di due padri”? Non sarebbe meglio, ed è quello che proporremo, pensare ad un affido per
il genitore non biologico? Per trovare un punto di equilibrio dovremo lavorare ancora». La
relatrice Cirinnà è ottimista: «In Senato abbiamo 120 voti dem, potremmo farcela.
Sperando di allargarci a chi in Forza Italia o Ncd deciderà di fare un voto di coscienza ».
Del 27/03/2015, pag. 45
Jürgen Habermas: andare oltre il fondamentalismo illuminista
“aprendo” alle comunità religiose
La mia critica della ragione laicista
JÜRGEN HABERMAS
PER potersi definire post-secolare una società deve prima essere stata secolare. Dunque
l’espressione può soltanto riferirsi alle società europee, oppure a nazioni come Canada,
Australia, Nuova Zelanda, i cui cittadini hanno visto continuamente (talora, dopo la
seconda guerra mondiale, anche drasticamente) allentarsi i loro vincoli religiosi. In questi
paesi la coscienza di vivere in una società secolarizzata si è diffusa in maniera più o meno
generale. Possiamo perciò definire la coscienza pubblica europea come “post-secolare”
nel senso che, almeno per il momento, essa accetta il persistere di comunità religiose
entro un orizzonte sempre più secolarizzato.
Finora ho adottato la prospettiva esterna dell’osservatore sociologico. Ma se noi adottiamo
la prospettiva del partecipante, allora la domanda diventa un’altra, di tipo normativo. Come
ci dobbiamo intendere in quanto membri di una società post-secolare?
Però, prima di affrontare il nucleo filosofico, lasciatemi disegnare più chiaramente il punto
di partenza da tutti accettato: il principio della separazione della chiesa dallo stato. Lo
stato costituzionale moderno può garantire la libertà religiosa solo a patto che i suoi
cittadini cessino di chiudersi a riccio dentro gli orizzonti integralisti delle rispettive comunità
religiose. Le subculture devono lasciare liberi i loro seguaci di darsi reciproco
riconoscimento nella società civile quali cittadini dello stato. Questa nuova costellazione —
tra “stato democratico”, “società civile” e “autonomia delle subculture” — diventa ora la
chiave per capire le due “ragioni” che oggi, invece di mettersi d’accordo, si stanno facendo
irrazionalmente la guerra. Infatti l’universalismo dell’illuminismo politico non dovrebbe
affatto essere in contraddizione con le sensibilità particolari di un beninteso
multiculturalismo.
Ma ciò che in questo contesto vorrei soprattutto sottolineare è una idea di società
inclusoria in cui possano armonizzare tra loro l’eguaglianza politica e la differenza
culturale. Sennonché i partiti oggi in lotta non vedono affatto questa complementarità. Il
partito dei multiculturalisti, nel proteggere le identità collettive, accusa la controparte di
“fondamentalismo illuministico”, laddove i secolaristi insistono nell’integrare le minoranze
alla cultura politica già esistente, accusando la controparte di “culturalismo antiilluministico”. I cosiddetti multiculturalisti vorrebbero sviluppare e differenziare il sistema
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giuridico per adeguarlo alle richieste di “pari trattamento” avanzate dalle minoranze
religiose. Essi denunciano il rischio dell’assimilazione forzata e dello sradicamento. Sul
versante opposto i secolaristi lottano per una inclusione colorblind di tutti i cittadini, a
prescindere dalla loro origine culturale e dalla loro appartenenza religiosa. Da questa
prospettiva laicistica, la religione dovrebbe restare una faccenda esclusivamente privata.
La versione radicale del multiculturalismo poggia spesso sulla convinzione — del tutto
sbagliata — che visioni del mondo, «discorsi» e sistemi teorici, siano tra loro
incommensurabili. In questa concezione “contestualistica” le varie culture si presentano
come universi semanticamente chiusi, corredate da criteri di razionalità/verità tra loro
imparagonabili. Ogni cultura sarebbe una totalità semanticamente sigillata, cui è preclusa
ogni intesa discorsiva con le altre. In base a queste premesse, ogni pretesa universalistica
di verità — per es. quella avanzata dalla democrazia e dai diritti umani — è soltanto una
maschera ideologica che serve a nascondere l’imperialismo della cultura dominante.
Va però detto che anche nello zelo eccessivo dei guardiani dell’ortodossia illuministica si
celano premesse filosofiche alquanto discutibili. Nella loro prospettiva antireligiosa, la
religione dovrebbe completamente ritrarsi dalla sfera pubblica e restringersi alla sola sfera
privata, in quanto sarebbe una figura storicamente superata dello spirito. Questa del
laicismo radicale è una tesi filosofica, completamente indipendente dal fatto empirico che
le religioni possano offrire contributi importanti alla formazione politica dell’opinione e della
volontà. Dal punto di vista dei secolaristi, i contenuti del pensiero religioso risultano in ogni
caso scientificamente screditati e irricevibili. Qui vorrei fare una distinzione tra laico e
laicista, tra secolare e secolarista. La persona laica, o non credente, si comporta con
agnostica indifferenza nei confronti delle pretese religiose di validità. I laicisti, invece,
verso quelle dottrine religiose che (seppure scientificamente infondate) hanno grande
rilevanza nell’opinione pubblica assumono un atteggiamento polemico. Oggi il secolarismo
si appoggia spesso a un naturalismo “hard”, giustificato in termini scientistici. Mi chiedo
cioè se — ai fini dell’autocomprensione normativa di una società post- secolare — una
mentalità laicista ipoteticamente generalizzata non finirebbe per essere altrettanto poco
desiderabile che una deriva fondamentalista dei credenti.
In realtà, un processo di apprendimento andrebbe prescritto non solo al tradizionalismo
religioso ma anche alla controparte secolarizzata. Certo l’autorità statale, cui sono riservati
gli strumenti della violenza legittima, non dovrà mai lasciarsi trascinare nelle lotte religiose,
per non correre il rischio di farsi organo esecutivo di una maggioranza religiosa che
imbavaglia l’opposizione. Tutte le norme dello stato costituzionale devono essere
formulate e giustificate in un linguaggio accessibile a tutti. Però la neutralità ideologica
dello stato non proibisce di ammettere contenuti religiosi nella sfera pubblica politica.
Due ordini di motivi appoggiano questa apertura liberale. In primo luogo, anche quelli che
non sappiano, o non vogliano, scindere i loro vocabolari e le loro convinzioni in una
componente profana e in una religiosa, devono poter partecipare nel loro linguaggio
religioso alla formazione della volontà politica. In secondo luogo, bisogna che lo stato non
riduca preventivamente la complessità polifonica delle diverse voci pubbliche. Se nei
confronti dei loro concittadini religiosi i laici dovessero pensare di non poterli prendere sul
serio — come autentici contemporanei della modernità — per via del loro atteggiamento
religioso, allora si scivolerebbe indietro al piano del mero modus vivendi e si perderebbe
quella “base del riconoscimento” che è costitutiva della cittadinanza. Dunque i laici non
devono escludere a priori di poter scoprire contenuti semantici dentro ai contributi religiosi;
a volte possono addirittura trovarvi idee già da loro stessi intuite e, fino a quel momento,
non del tutto esplicitate. Tali contenuti possono essere utilmente tradotti sul piano
dell’argomentazione pubblica. Nell’ipotesi più felice, entrambe le parti dovranno
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impegnarsi, ciascuna dal proprio punto di vista, a interpretare il rapporto fede/ sapere in
maniera tale da promuovere una convivenza riflessivamente illuminata.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 27/03/1983, pag. 18
Reati ambientali, legge degli orrori
Ci si sono messi in 133 per approvare in Senato un ddl criminale e giuridicamente ridicolo.
Forse sperando che nessuno se ne accorgesse; o forse confidando nella futura efficacia
dello slogan “lotta della magistratura alla politica” che fin qui ha funzionato. Parlo
dell’ultimo ddl che contiene norme in materia di ambiente e che inserirà nel c. p. gli artt.
452 bis, ter, quater e quinquies. Il Senato lo ha approvato il 4 marzo, la Camera lo
esaminerà a breve e, se non vi saranno modifiche, diverrà legge. È il disastro ambientale
nella sua duplice fattispecie, dolosa e colposa. Il 452 bis (inquinamento ambientale)
prevede da 2 a 6 anni per chi “abusivamente cagiona una compromissione o un
deterioramento significativi e misurabili: delle acque o dell’aria o di porzioni estese o
significative del suolo o del sottosuolo; di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria,
della flora o della fauna”. Il 452 ter aumenta le pene se ne derivano morte o lesioni. Il 452
quater (disastro ambientale), sempre “abusivamente” cagionato, prevede pene da 5 a 15
anni. Il 452 quinquies (inquinamento e disastro ambientali colposi), prevede che, se le
condotte sono colpose, le pene siano diminuite da un terzo a due terzi. Cominciamo dagli
errori da un solo tratto di matita rossa (roba da 5-). I reati di cui al 452 bis e quater sono
dolosi; occorre cioè che siano commessi in violazione di legge in base al principio nullum
crimen sine lege (non esiste delitto senza una legge che lo preveda). Scrivere che
l’inquinamento ambientale deve essere commesso “abusivamente” è una stupidaggine: se
l’inquinamento non è abusivo non è delitto. Scrivere “abusivamente” è del tutto inutile.
Altro errore da due tratti di matita rossa (siamo a 4 –) sta nella previsione che
l’inquinamento deve essere significativo e misurabile. Quanto alla misurabilità non ci sono
problemi: se l’inquinamento non è misurabile vuol dire che non c’è; precisazione stupida.
Ma il problema grave sta nella significatività: quali sono i parametri in base ai quali
valutarla? Lo dovrà decidere la giurisprudenza, come per la modica quantità di droga il cui
possesso non costituisce reato. Immaginiamo fin da ora quali polemiche
accompagneranno ogni decisione. Dove la matita rossa si consuma, il compito è buttato
nel cestino e l’allievo allontanato con disonore da tutte le scuole, è il 452 quinquies,
inquinamento e disastro colposo. I 133 Senatori proponenti non sapevano, o hanno voluto
dimenticarsene, che la colpa consiste in imprudenza, negligenza o violazione di legge. In
altri termini, la responsabilità per colpa sussiste anche se nessuna legge è stata violata.
L’esempio tipico è l’omicidio colposo commesso da chi procede a 50 all’ora in centro
abitato, sulla sua destra e con la vettura completamente in ordine: non viola nessuna
norma solo che è distratto, pensa ai casi suoi, non nota il pedone che sta attraversando
sulle strisce e lo investe. Scrivere che questi reati colposi si consumano solo se commessi
“abusivamente”, cioè con violazione di legge significa stabilire che le condotte imprudenti o
negligenti ma che rispettano le leggi vigenti (pensiamo al salvacondotto previsto per l’Ilva)
non costituiscono reato. Per restare nell’esempio, l’automobilista che rispetta il codice
della strada ma investe un pedone perché non sta attento non commetterebbe omicidio
colposo. Come si vede, una vera idiozia. Non è casuale perché, come appunto il caso Ilva
insegna, questa gente pretende di stabilire, caso per caso, in barba ai principi generali
(che rappresentano la realizzazione del principio “tutti i cittadini sono uguali davanti alla
legge”), a chi concedere impunità. Pensate a un’autorizzazione concessa a Tizio da
40
un’autorità amministrativa, che consenta di utilizzare un certo prodotto inquinante. La
stessa autorizzazione però non è concessa a Caio. Secondo questa norma Caio sarebbe
sottoposto a processo e condannato; ma Tizio no. Ma c’è di molto peggio. Supponiamo
che i 133 Senatori emanino, per imprudenza o imperizia, leggi che consentono di
inquinare e cagionare disastri; e che i pubblici amministratori concedano, per gli stessi
motivi, autorizzazioni che provochino gli stessi risultati. In base ai principi generali (art. 3
Costituzione), ai giudici non resterebbe che incriminarli per concorso in inquinamento o
disastro colposo. Il che, suppongo, fatalmente avverrà nel caso Ilva, antesignano di questa
spericolata tecnica legislativa. Ma possibile che tutti gli uffici legislativi riuniti non trovino
modo di dire ai loro padroni “guardate che state facendo una cazzata”?
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INFORMAZIONE
Del 27/03/2015, pag. 16
Stretta sulle intercettazioni rischio multe per
la stampa Fnsi: temiamo il bavaglio
Tra i cardini del provvedimento previsto un “custode” della cassaforte per gli
ascolti penalmente irrilevanti
ROMA .
Multe per chi pubblica le intercettazioni già chiuse nella cassaforte destinata a contenere
quelle secretate per sempre, quelle che riguardano chi finisce coinvolto in una
registrazione disposta dalla magistratura, ma non è né colpevole, né tantomeno indagato.
Un caso Lupi, tanto per intenderci. Ci sarà questo, ma anche molto altro, nella legge Renzi
sulle intercettazioni. In cottura a Palazzo Chigi proprio da quando è esploso il caso dell’ex
ministro delle Infrastrutture di Ncd costretto a lasciare la poltrona per via delle
intercettazioni. Gli alfaniani premono molto, ma anche il premier è convinto che si debba
voltare pagina sulla questione. All’insegna di due leit motiv: stop all’intercettazione
irrilevante che finisce nelle ordinanze delle toghe, stop alla stampa che comunque la
pubblica. I contenuti sono già individuati, tutto ruota su quattro capisaldi: regole ferree per i
magistrati che non potranno più utilizzare le intercettazioni penalmente non rilevanti nei
provvedimenti cautelari, di sequestro o di perquisizione; l’udienza stralcio in cui magistrati
e avvocati selezioneranno le registrazioni; una cassaforte in cui chiudere il materiale
destinato alla più totale riservatezza; un responsabile unico della cassaforte; multe per la
stampa che, nonostante tutto questo, pubblica lo stesso i testi più succosi.
I dubbi riguardano il vagone su cui camminerà la riforma. Una legge autonoma, tutta sulle
intercettazioni, da mandare avanti spedita. Oppure la sola delega, com’è attualmente,
all’interno della riforma del processo penale, che giace alla Camera dall’autunno scorso.
O ancora una delega che si scioglie in un testo, ma sempre all’interno di quel disegno di
legge. Certo è che il Guardasigilli Andrea Orlando avversa l’ipotesi dello stralcio, su cui
preme invece Ncd a favore della legge sulla diffamazione (emendamento Pagano) perché
strategicamente ritiene che le intercettazioni possono “trainare” tutta la riforma del
processo penale verso il voto. In calo, invece l’ipotesi di utilizzare il vagone del ddl sulla
diffamazione, fortemente sponsorizzato da Ncd, proprio per evitare che le norme sugli
ascolti assumano subito un imprinting colpevolista verso la stampa. Lo esclude
recisamente il Pd Walter Verini perché, dice, «non è quella la sede giusta». Molti dem
autorevoli dicono che quel ddl non ha un futuro, e potrebbe arenarsi nelle secche
parlamentari. Il dato certo è che la notizia di un lavorio legislativo sugli ascolti scatena le
opposte fazioni. C’è quella favorevole, in primis l’Ncd di Alfano e Lupi, che domani, in
molte città, darà vita alla giornata intitolata “le vite degli altri”, banchetti in piazza per
sollecitare proprio la legge sugli ascolti. Sul fronte opposto ecco la Fnsi che col segretario
Raffaele Lorusso tuona «contro il rischio di un nuovo bavaglio e della limitazione del diritto
di cronaca». Il sindacato dei giornalisti «non invoca né il libero arbitrio, né l’impunità
assoluta », ma dice che «il diritto alla privacy non va affrontato con misure che ledano il
diritto-dovere di informare».
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Del 27/03/1983, pag. 11
Nuova Rai Democratici spaccati
Ed è polemica
In attesa che approdi in Consiglio dei ministri la riforma della governance di Viale Mazzini
firmata da Matteo Renzi, si muove il Parlamento. Con un disegno di legge depositato al
Senato «per introdurre nell’azienda il sistema duale (consiglio di sorveglianza e consiglio
di gestione), superando l’attuale consiglio d’amministrazione» nominato in base alla legge
Gasparri. L’annuncio è di Federico Fornaro, membro della commissione di Vigilanza e
primo firmatario del ddl sottoscritto anche dai colleghi del Pd Martini, Gotor, Chiti, D’adda,
Gatti, Guerra, Lai, Lo Moro, Manassero, Migliavacca e Pegorer.
Iniziativa che, di certo, non gode dell’appoggio dell’intero Partito democratico. E che, anzi,
a più di qualcuno è parsa un intervento a gamba tesa per scompaginare i piani
dell’esecutivo. Il tweet, del segretario della Vigilanza, Michele Anzaldi, pure lui del Pd, è
emblematico: «L’mprovviso attivismo sulla riforma Rai, poco prima che il governo presenti
l’annunciato ddl, tradisce la volontà di rinominare il Cda con la legge Gasparri. Umiliante».
Rilievi condivisi anche dalla senatrice dem, Laura Cantini: «Sono stupita dalla decisione di
alcuni colleghi della minoranza Pd di presentare un ddl sulla Rai, alle porte della riforma
annunciata dal governo Renzi. La minoranza sembra essere sempre più a caccia di
visibilità ed animata dalla voglia di indebolire le riforme del governo».
Bocciatura di metodo, innanzitutto. Quanto al merito, è lo stesso Fornaro a chiarire i
contenuti della proposta: «Il modello duale sarebbe ottimale per la Rai, poiché
garantirebbe una gestione snella dell’azienda affidata al Consiglio di gestione composto
da un presidente con i poteri dell’amministratore delegato e da altri due consiglieri».
Assicurando l’esigenza «di una forte presa gestionale sul business» che, conclude
Fornaro, deve però trovare al tempo stesso «un adeguato bilanciamento in termini di
controllo oltre al rispetto «del principio democratico del pluralismo dell’informazione
radiotelevisiva pubblica».
E mentre si accende la polemica tra i dem, dall’opposizione, Maurizio Gasparri avverte:
«Nel Pd volano stracci sulla riforma. L’importante è che non si usi anche la Rai come
ennesimo palcoscenico per celebrare il congresso del partito».
Del 27/03/1983, pag. 4
GUAI SCRIVERE MALE DI EXPO: 50 MILIONI
E ADDIO CRITICHE
TANTO HA SPESO LA SOCIETÀ: 2, 3 MILIONI AGLI EDITORI PER PAGINE E
INSERTI CHE LODANO L’EVENTO. SCOMPARSI DAI QUOTIDIANI RITARDI NEI
LAVORI E SCANDALI
Solo nella giornata di ieri, il Corriere della sera ha dedicato a Expo un allegato di 44
pagine (“Orizzonti Expo”), oltre alle pagine 30 e 31 del quotidiano (“Il futuro immaginato”,
sotto la testatina “Eventi Expo”). In più, il quotidiano di via Solferino promette “ogni martedì
due pagine di inchiesta sui temi globali dell’Expo: dopo l ’ Acqua toccherà a Terra,
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Energia, Cibo. È solo una delle iniziative del Corriere della sera per guidare i lettori verso
l’Esposizione che parte il primo maggio. E poi le pagine Eventi e prossimamente i
supplementi speciali. Attivo già ora il canale internet Expo Corriere”. TUTTE INIZIATIVE
“positive” di promozione redazionale che, come quelle simili sulle pagine di Repubblica e
di tanti altri quotidiani, non cancellano del tutto le cronache “negative” sui guai giudiziari e
sui ritardi dell’esposizione: si aggiungono e cercano di controbilanciarle, per rifare
l’immagine a una iniziativa che ha avuto anni difficili. Certo è che nelle ultime settimane le
soglie critiche dei quotidiani sembrano essersi molto abbassate e di scandali, ritardi e
camouflage non si parla più. Expo ha pagato un fiume di denaro per avere buona stampa.
Gli investimenti in “comunicazione” superano, finora, i 50 milioni euro. Pagati non soltanto,
com’è normale, per fare pubblicità diretta, acquistando pagine sui giornali e spazi
televisivi. Expo ha dato 6 milioni di euro al gruppo Havas per “Ideazione, sviluppo e
realizzazione del piano di comunicazione”; 1, 54 milioni per attività di media relations
internazionali, incassati dalla Hill & Knowlton e dalla Sec di Fiorenzo Tagliabue, ex
portavoce di Formigoni. Tanti soldi Expo sono arrivati anche direttamente ai giornali e agli
editori. Il grosso dei finanziamenti diretti alla stampa è stato erogato con la procedura della
“manifestazione d ’ interesse”, il cosiddetto Request for proposal. Funziona così: gli editori
presentano loro proposte su come parlare bene dell’evento ed Expo le finanzia. La spesa
per queste iniziative è finora di 2, 3 milioni di euro. Al Corriere sono andati 425 mila euro,
per 12 uscite da due pagine. Segue La Stampa, con 400 mila euro per due pagine in uno
“speciale Green” più cinque inserti di 16 pagine distribuiti con La Stampa e Secolo XIX e
un accordo che prevede inoltre l’utilizzo dei contenuti, tradotti, su testate estere.
Repubblica incassa 399. 500 euro per 72 pagine di “Guide editoriali”. Al Sole 24 Ore sono
stati versati 350 mila euro per dieci uscite, per un totale di 30 pagine. Al Giornale della
famiglia Berlusconi 200 mila euro, una pagina ogni settimana per venti settimane, più
quattro pagine da pubblicare il 1 maggio, giorno dell’inaugurazione. Inoltre si aggiungono
non meglio precisate “attività web, social e tablet”. Il gruppo Class ha incassato 102 mila
euro per sei uscite sul quotidiano economico Mf e sei su Italia Oggi. Il quotidiano Libero ha
ottenuto 100 mila euro tondi per tredici uscite in doppia pagina. A QUESTI finanziamenti in
“redazionali” si sommano, oltre alle cifre investite direttamente in pagine pubblicitarie,
anche altri contributi come i 160 mila euro alla Fondazione Corriere della sera, spiegati
con questa (vaga) motivazione: “Contributo per massima visibilità Expo”, a cui si sono
aggiunti altri 250 mila euro per l’organizzazione di una serie di incontri dal titolo “Convivio.
A tavola tra cibo e sapere”. Sempre in casa Rcs, 154 mila euro sono arrivati alla Rcs
Sport, in quanto main sponsor della “Milano City Marathon” edizione 2012. Il gruppo Sole
24 Ore ha ricevuto 64 mila euro per un “Progetto Gazzettino del 2015”. Il Foglio fondato da
Giuliano Ferrara è stato beneficiato di 85 mila euro per la realizzazione di un non ancora
visto “volume sull’Esposizione universale”. Expo spa è poi tra i principali sponsor de “La
Repubblica delle idee”, la manifestazione pubblica di incontri e dibattiti, con ospiti di rilievo
introdotti dal direttore Ezio Mauro. Quanto sia costata questa sponsorizzazione non è dato
sapere, ma una fonte interna al gruppo Espresso-Repubblica fa sapere che i principali
sponsor dell’iniziativa pagano attorno ai 500 mila euro. La Fondazione Mondadori ha
portato a casa 850 mila euro per la “Realizzazione del progetto Women for Expo”. La
Fondazione Feltrinelli ha ricevuto ben 1, 8 milioni di euro, per un progetto internazionale,
triennale, curato da Salvatore Veca che prevede la messa a punto dei contenuti scientifici
dell’esposizione. Il contratto, benché preveda una cifra molto alta che tocca quasi i 2
milioni di euro, è stato classificato come “sponsorizzazioni e assimilabili”, in modo da
poterlo firmare senza gara. Alla Condé Nast sono stati concessi, oltre alle inserzioni
pubblicitarie, due finanziamenti per la realizzazione degli eventi “Wired Next Fest” (13 mila
euro) e “Fashion Night Out” (39 mila euro). Non stupisce così che il mensile Wired dedichi
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a Expo servizi celebrativi, compresa una guida dal titolo Expottimisti. Nel 2014, Expo ha
versato 14. 892 euro a Publimedia Srl per “prenotazione di uno spazio pubblicitario sul
periodico Polizia Moderna – edizione aprile / maggio”. Prezzo del tutto fuori mercato, ma
meritato, visto il lavoro della polizia giudiziaria sui manager di Expo arrestati e sotto
inchiesta. IL RECORD spetta però alla Rai: 5 milioni di euro le sono stati assegnati per
“Collaborazione Rai Expo”. Sono serviti a costruire una nuova struttura “crossmediale con
un modello produttivo a integrazione verticale”, come si legge sul sito, con un organico di
58 persone tra dirigenti, impiegati, giornalisti, autori e tecnici e una sede predisposta ad
hoc, ma non a Milano, dove si svolge l’esposizione, bensì a Roma. Così a partire da
maggio 2015 per i dipendenti e collaboratori scatteranno sei mesi di trasferta, con costi
aggiuntivi per altri 2 milioni.
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 27/03/2015, pag. IX RM
“Niente fondi, cultura in agonia” scoppia il
caso Estate romana
Da Villa Celimontana a Invito alla Danza e alle vie dei Festival la
denuncia di 22 associazioni storiche: “Bando senza coperture”
ALESSANDRA PAOLINI
STEFANO PETRELLA
UNAcittà senza Estate Romana. Via gli spettacoli all’Ombra del Colosseo, niente
orchestre jazz a Villa Celimontana. Per la cultura dell’”effimero” è davvero arrivata la fine?
«La cultura è in agonia»: questo l’sos lanciato dalle manifestazioni storiche preoccupate
perché l’estate romana rischia di non comparire tra le voci di spesa del bilancio in
discussione in Campidoglio, da approvare entro il 31 marzo.
Così, stamattina I festival di Roma, l’associazione che racchiude 22 enti organizzatori di
kermesse e rassegne - dai Solisti del Teatro a Invito alla danza, da Roma Jazz Festival a
Invito alla Danza - insieme all’Agis Lazio di Confcommercio, si riunirà al Teatro dei Servi
per dare numeri e cifre. Per raccontare insomma, quanto la manifestazione - nata
dall’intuizione di Renato Nicolini nel lontano ‘77 - sia una risorsa importantissima per la
cultura e per l’economia della città.
L’associazione ha preparato un dossier da presentare al sindaco Marino e all’assessore
alla Cultura Marinelli, in cui chiede risposte. Da dove il Campidoglio prenderà le coperture
per il bando “Festival di particolare interesse per la città di Roma” già pubblicato, ma
senza coperture? Con quali fondi sarà finanziata la manifestazione? E soprattutto: ci sarà?
Il rischio è che salti tutto o ci si riduca a chiudere il bando a giugno, come accadde lo
scorso anno quando importanti festival si videro tagliati o azzerati i fondi all’ultimo minuto.
«Il bilancio del Comune è stretto - replica l’assessore Marinelli - Questo deve farci lavorare
in altre direzioni: la razionalizzazione dei sistemi di gestione, la ricerca di un migliore
rapporto pubblico-privato e anche un’ingegneria diversa nel costruire l’offerta. È finito il
tempo in cui l’Estate Romana si poteva sostenere solo con il pubblico».
del 27/03/15, pag. 8
Saskia Sassen
I predatori del sistema
Benedetto Vecchi
Intervista. Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla
globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del
meeting torinese «Biennale Democrazia»
La conversazione è iniziata laddove era stata interrotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi
dominava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole speranza,
mentre gli indignados sembravano inarrestabili. Per Saskia Sassen erano segnali di una
possibile inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche e sociali di matrice
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neoliberista. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e insegna, sembrava ancora
capace di sfuggire alle grinfie della destra populista. Ad anni di distanza, Saskia Sassen
non ha perduto l’ottimismo della ragione che ha caratterizzato molti suoi libri, ma è però
consapevole che alcune tendenze individuate sono divenute realtà corrente.
Nota per il libro sulle Città globali (Utet), ma anche per le sue analisi sulla globalizzazione,
culminate nel volume Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori), dove Saskia Sassen
non si limita a fotografare la globalizzazione, ma ne analizza la genesi, le trasformazioni
indotte nel sistema politico nazionale e la formazione di centri decisionali politici
sovranazionali, messi al riparo dalla possibilità di controllo dei «governati», da poco ha
pubblicato un nuovo volume (Expulsion, Belknap Press; in Italia sarà pubblicato
dall’editore il Mulino). La conversazione precede la sua partecipazione alla Biennale
Democrazia di Torino, dove parteciperà domani a una tavola rotonda con Donatella Della
Porta e Colin Crouch.
Crisi è un termine che ritorna ossessivamente nell’agenda politica globale e nelle
analisi sullo stato dell’arte dell’economia globale. In entrambi i casi è usata per
sottolineare il fatto che il capitalismo è entrato da ormai otto anni in un tunnel del
quale non si vede la fine. Nel suo nuovo libro «Expulsion» lei scrive che gli effetti
collaterali della forma specifica di capitalismo qualificata come neoliberista si
basano sull’esclusione e le disuguaglianze sociali. Può spiegare questo punto di
vista?
Per me crisi è un termine inadeguato. Parto dalla constatazione che, nel presente, ci sono
più tipologie di crisi. D’altronde è cosa abbastanza acquisita dalle scienze sociali che
l’attuale sistema globale sia un sistema complesso, ma non statico. Anzi presenta una
certa dinamicità e alcune potenzialità di sviluppo impensabili fino a quando si evidenziano
nella loro capacità trasformativa della realtà. In altri settori, economici e sociali, invece si
può manifestare un loro declino o crisi. Per questo, l’uso della parola crisi è restrittivo. Più
interessante, invece, è capire chi vince e chi perde socialmente in questa fase dello
sviluppo capitalistico.
Nel libro al quale lei fa riferimento, Expulsion, affronto certo il tema dell’esclusione e delle
disuguaglianze sociali, ma non sono interessata a registrare il fenomeno, bensì a
comprendere come viene prodotto, quali sono le dinamiche economiche e politiche che lo
producono. L’esclusione e la disuguaglianza sociale sono sempre esistite. Non sono cioè
delle «novità». Possiamo certo concentrarci su come il fenomeno si sia modificato nel
tempo, definire le diverse tassonomie della disuguaglianza. Ed è anche importante che
qualcuno lo faccia.
Quel che emerge nei tempi che stiamo vivendo è, però, una realtà che presenta alcune
significative differenze rispetto al passato. Per questo sono partita dal fatto che per
comprendere quale tipo di ineguaglianze si stanno affermando occorre capire come
funzioni il complesso sistema globale dell’economia. Quali sono le specializzazioni
produttive che prendono piede e si sviluppano in un territorio; quali le relazioni che si
stabiliscono all’interno del sistema. Sia ben chiaro, non sto proponendo un approccio
sistemico. Semmai, invito a guardare le dinamiche in atto nel loro divenire e totalità. Per
fare questo, occorre partire dalle condizioni più estreme, più dure della realtà sociale.
Potrei dire che è necessario andare alle radici dei problemi, che sono esemplificati da chi
è escluso o di chi vive con drammaticità le disuguaglianze sociali. In Expulsion mi
concentro sui margini del sistema globale. Margine è tuttavia un concetto differente da
quello di confine geografico che qualifica ancora le relazione tra gli Stati nazionali.
L’ipotesi dalla quale sono partita è la proliferazione dei «margini di sistema» — il declino
delle politiche economiche che hanno caratterizzato le economie occidentali nel XX
secolo, il degrado ambientale e la crescita di forme complesse di conoscenze che tradotte
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operativamente producono interventi di una brutalità elementare. Mi spiego meglio. Alcune
conoscenze sono state applicate nella produzione di alcuni materiali o per accedere ad
alcune materie prime. Questo ha comportato differenti forme di «espulsione». In altri
termini, l’esclusione, la messa ai margini è stata prima pensata logicamente e poi tradotta
in espulsione di popolazioni, di comunità intere. E se questo è evidente per quanto
riguarda il degrado ambientale, lo stesso si può dire per quanto riguarda alcune realtà
industriali nel nord del pianeta. Tutto ciò per dire che l’esclusione è l’esito finale di un
processo logico, cognitivo che ha visto impegnati tantissimi uomini e donne. È questo
dispositivo logico, culturale che va compreso per afferrare la realtà nella sua totalità.
Nel recente passato, lei ha scritto sulle forme di resistenza all’inuguaglianza, alla
disoccupazione, alla esclusione sociale. Alcuni teorici hanno parlato di centralità
delle «pratiche micropolitiche»; altri invece hanno scritto di ritorno del mutualismo,
riferendosi a forme di cooperazione sociale, di welfare state dal basso. Sono
esperienze che coinvolgono centinaia di migliaia di persone che esprimono un
indubbio potere sociale, senza avere però la capacità di cambiare i rapporti di forza
nella società e di modificare le agende politiche nazionali e sovranazionali. Cosa ne
pensa di questo paradosso: un potere sociale che non riesce a esprimere un potere
politico?
Esiste sì il potere sociale che lei descrive, ma deve fare i conti con una realtà che vede la
formazione di élite predatorie grazie allo sviluppo di una formazione sociale-economica
«predatoria». Sono élite che fanno leva sulla finanza e su alcuni strumenti di governo della
realtà per inglobare, concentrare nelle proprie mani tutto ciò che può produrre ricchezza e
potere. Anche qui, invito a non cedere alla tentazione della semplificazione. Le
concentrazioni della ricchezza sono una delle costanti dell’economia capitalistica.
Potremmo anche dire dell’economia in generale. Nella situazione attuale assistiamo al
dispiegare di forme estreme di concentrazione della ricchezza. Basti pensare che negli
ultimi 25 anni la concentrazione della ricchezza nelle mani dell’un per cento della
popolazione ha visto un balzo del 60 per cento. Per essere più chiara: i primi 100 miliardari
degli Stati Uniti hanno visto i loro redditi crescere di 240 miliardi di dollari solo nel 2012.
Una cifra che, se redistribuita, avrebbe posto fine alla povertà di milioni e milioni di
persone sempre negli Stati Uniti. Altri dati: nel 2002, cioè pochi anni prima della data che
indica l’inizio della crisi globale, le banche avevano assistito alla crescita dei loro profitti del
160 per cento, passando da 40 miliardi a 105 miliardi di dollari, cioè una volta e mezza il
prodotto interno lordo su scala planetaria. Nel 2010, cioè in un periodo di crisi, i profitti
delle corporation statunitensi sono saliti di 355 milioni rispetto il 2009. A fronte di queste
cifre da capogiro, negli Stati Uniti le tasse sui redditi delle imprese sono solo di 1,9 miliardi
di dollari.
I ricchi e le imprese globali non potevano da soli raggiungere questo intenso tasso di
concentrazione della ricchezza. Hanno avuto bisogno di un «aiuto sistemico», cioè di un
milieu di innovative tecniche finanziarie e supporto governativo. L’esito è stato appunto la
formazione di una élite globale che si autorappresenta come un mondo a parte che trae
forza dalle politiche economiche, dalle leggi stabilite a livello nazionale, ma anche globale.
Da questo punto di vista, i governi hanno svolto un fondamentale ruolo di intermediazione,
teso a rendere opaco, meglio fosco ciò che stava accadendo. Siamo quindi di fronte a un
complesso dispositivo finalizzato alla concentrazione della ricchezza. Niente a che vedere
con una stanza dove è difficile scorgere le cose a causa del fumo dei sigari di qualche
impenitente «padrone del vapore». In passato è bastato aprire una qualche finestra e tutto
era diventato chiaro. Ora non è così.
La mia tesi è che abbiamo assistito a un cambiamento di scala della concentrazione della
ricchezza che ha mandato in pezzi il mondo di qualche decennio fa, dove esisteva una
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classe media e una classe operai sostanzialmente non ricche, ma «abbienti».
Provocatoriamente potrei affermare che nel Nord globale le società sono sempre più simili
a quelle del Sud globale.
L’Europa e gli Stati Uniti non erano quindi immuni da concentrazione della ricchezza nelle
mani di pochi, disuguaglianze sociali, razzismo, povertà, ma tutto ciò era mitigato dalla
crescita costante nel tempo di una classe media. Inoltre, erano paesi dove era forte la
tensione a superare povertà, razzismo, differenze di classe, ma c’era una tensione al
superamento di quegli elementi. Bene quel mondo è stato progressivamente cancellato
dagli anni Ottanta in poi. Ora siamo in un mondo dove élite globali «predano» la ricchezza
senza troppe resistenze. Per tornare alla sua domanda, invito a pensare ad un aspetto
che è fondamentale in una realtà come quella che ho sinteticamente descritto. I movimenti
sociali sono fondamentali per la loro abilità nell’includere realtà molto diverse tra loro.
Sono cioè esperienze che producono una politica di buon vicinato, di solidarietà, di
condivisione sociale. La forza di Syriza in Grecia è dovuta alla sua capacità di fare propria
l’abilità aggregativa dei movimenti sociali, che puntano a risolvere alcuni problemi vitali per
i singoli: la casa, il mangiare, la cura del corpo.
Certo non cambiano l’agenda politica, né i rapporti di forza. Qui vale una domanda che
non è retorica: come fare questo? Provando, sperimentando, coinvolgendo la popolazione
e anche quegli esponenti politici che sono consapevoli e critici verso questa feroce
dinamica di espulsione e di concentrazione della ricchezza. Provando, magari sbagliando,
ma continuando a provare. Per me, questo significa rigore nell’analisi della realtà, resistere
alle sirene delle semplificazione o, altrettanto forte, incamminarsi su strade già battute e
che si sono rivelate come vicoli ciechi.
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ECONOMIA E LAVORO
del 27/03/15, pag. 1/4
Quel che può il sindacato
Piero Bevilacqua
Contro la crisi. Qualche silenzio e troppa timidezza ai piani alti della Cgil
di fronte al trionfo del capitale finanziario. Orario di lavoro, reddito di
cittadinanza, iniziative europee a difesa del salario, ringiovanire i quadri
Quella parte del gruppo dirigente della Cgil che dissente da Maurizio Landini per la
costituzione di una Coalizione sociale — ancorché lo faccia per comprensibili ragioni —
dovrebbe farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli
sforzi del segretario della Fiom di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il
mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta
abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la Cgil.
Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria
storia del mondo.
L’Italia, se escludiamo le due guerre mondiali, non aveva mai conosciuto, nella sua storia
unitaria, una così estesa riduzione della sua base produttiva, un crollo così rovinoso
dell’occupazione, un dilagare continuo e senza argini della povertà e della disperazione
sociale. Eppure, un osservatore straniero che fosse vissuto in Italia in questi anni
difficilmente avrebbe immaginato che nel nostro paese opera uno dei più antichi e potenti
sindacati dell’Occidente. Ma, senza voler qui aprire un infinito rosario di recriminazioni,
occorrerebbe almeno ricordare che l’inerzia e il silenzio del sindacato hanno non poco
favorito l’iniziativa dei novatori.
Renzi si è presentato come il difensore dei giovani e dei precari, con l’iniziativa del Jobs
Act. Può bastare uno sciopero generale a fermarlo? Chi ha permesso che l’iniziativa di
riforma del mercato del lavoro venisse ispirata dalla Confindustria? Eppure dovrebbe
essere evidente che oggi l’avversario di classe –ripristiniamo questo termine di verità nel
linguaggio della politica– ha capito il gioco che il sindacato (e la sinistra) stenta a capire.
Alla bulimia consumistica dei cittadini del nostro tempo occorre dare in pasto sempre nuovi
prodotti . Basta che siano nuovi all’apparenza. Se poi il nuovo che si impone demolisce
antichi diritti, cosa importa, visto che questo è il suo autentico fine? L’importante è «andare
verso il futuro».
Lo Statuto dei lavoratori? Ma è roba del 1970, un edificio obsoleto. Figuriamoci la
Costituzione, che è del lontanissimo 1948! Volete mettere il Jobs Act, un prodotto
nuovissimo, per giunta in smagliante lingua inglese, la lingua corrente dei nostri operai e
impiegati?
La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il
conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue
sempre più l’innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare
fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la Cgil in molte
occasioni, in difesa dell’esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a
continue sconfitte. Certo, la condizione della Cgil e di tutti i sindacati del mondo oggi è
terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti
o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono aprire aziende, spostare capitali
in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle
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nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così
grave e penalizzante?
Ho spesso ricordato che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stata fondata
nel 1919 ed è ancora in vita, ma come un modesto ufficio studi. Eppure era nata come un
generoso progetto universale della politica occidentale dopo la Grande Guerra, in difesa
della classe che produceva la ricchezza di tutti i paesi. Oggi guida invece le sorti del
mondo il Fondo Monetario Internazionale, nato nel 1945. Eppure nessuno osserva che
dietro ad esso c’è solo l’interesse di alcune migliaia di banchieri, dietro l’Ilo ci sono diversi
miliardi di lavoratori sparsi per il mondo. Quando faremo esplodere la potenza di tale
contraddizione? Non è possibile cominciare a tessere una rete internazionale che rivitalizzi
tale organismo, o ne crei un altro nuovo? Quando incominceremo a porre in agenda
l’obiettivo del salario minimo per tutti gli operai, di standard di base irrinunciabili delle
condizioni e dell’orario di lavoro? Vaste programme, direbbe qualcuno, dal momento che
da quando esiste l’Unione Europea non si era mai vista tanta inerzia sindacale e
mancanza di azione comune nel Vecchio Continente.
Ma non esistono in Italia le figure capaci di un tale compito? Non è possibile che i dirigenti
della Cgil si guardino intorno e vedano tanti nostri giovani, le migliori e più colte
intelligenze del nostro paese, che scappano all’estero? E perché non scegliere tra questi i
tanti talenti che potrebbero portare energia, idee, motivazioni, conoscenza di lingue e
realtà sociali in grado di ridare giovinezza, saperi, visione internazionale al sindacato
italiano? Li dobbiamo lasciare alle imprese? Quale salto di qualità potrebbe compiere la
creatività della Cgil se una nuova leva di giovani trentenni, oggi precari in Italia e nel
mondo, venisse fatta entrare con specifici compiti dirigenziali?
Avanzo tale proposta non solo perché la sinistra si dovrebbe porre il problema dei nostri
giovani intellettuali. Ma anche perché il sindacato oggi potrebbe far tesoro di una sua
antica istituzione, in grado di ridargli una nuova vitalità. Nata nel 1891 a Milano, la Camera
del Lavoro è stata una geniale invenzione. Essa metteva insieme le diverse categorie
operaie in unico centro territoriale, mentre lo sviluppo capitalistico si diversificava e
articolava le sue geografie. E oggi? Non sappiamo da tempo che il lavoro, precario,
alterno, reso autonomo, frantumato, delocalizzato, subappaltato, ecc. sempre meno ritrova
unità in un luogo determinato?
E allora, che cosa si aspetta a ridare nuova vitalità a tali centri, dove possano confluire
non solo i lavoratori e i pensionati per pratiche di patronato, ma anche i disoccupati, le
partite Iva, i ricercatori, gli studenti ? E’ una istituzione a base territoriale quella che oggi
può fornire uno spazio di unità a un universo sociale in frantumi. Le Camere del Lavoro
dovrebbero dunque essere accresciute nelle grandi città, ma anche fatti nascere in ogni
comune, potenziate dove già esistono. Si pensi alla funzione aggregativa che potrebbero
svolgere oggi nel Mezzogiorno, dove i i giovani disoccupati sono murati in casa, soli con la
loro disperazione.
Naturalmente, una soluzione organizzativa non è una politica, ma già darebbe un segnale
di movimento. Mentre i temi politici certo non mancano.
Landini ha confessato con onestà di essere stato in passato contrario alla concessione del
reddito minimo. Si tratta di perplessità comprensibili, diffuse nella sinistra. Incertezze che
nascono dal fatto che essa ha abbandonato da tempo il terreno sociale e teorico da cui è
nata: l’analisi del mondo del lavoro come parte costitutiva del capitalismo contemporaneo.
Marx ha disvelato l’origine della ricchezza e della sua diseguale distribuzione, ricostruendo
l’architettura dell’intera società, partendo dal lavoro. Una analisi non superficiale del
capitale ci dice che oggi esso ha sempre meno bisogno di lavoro vivo, per via dei processi
accelerati di automazione e per il vantaggio di poter trasformare direttamente il danaro in
altro danaro.
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Ma uno sguardo ai nostri ultimi anni ci dice anche che il capitale ha un interesse politico a
far scarseggiare il lavoro, a renderlo raro e incerto, perché così può tenerlo sotto ricatto,
rafforzare il suo rapporto di dominio. Il lavoro è elemento vitale del capitale, ma anche suo
avversario. Le imprese lo sanno bene, la sinistra l’ha dimenticato, pensando che il capitale
si riduca alle piccole imprese familiari del Nordest.
Il reddito minimo può sottrarre i lavoratori e la nostra gioventù al grande ricatto. La
Coalizione sociale può trovare in tale obiettivo una via per costruire un consenso vasto e
vittorioso.
Del 27/03/2015, pag. 14
Boom dei contratti stabili in 2 mesi salgono
del 38% un quarto delle assunzioni
Gli sgravi spingono i dati di gennaio e febbraio: più 79 mila Il premier: “Cifre
sorprendenti”. Per i giovani aumento del 43%
ROBERTO MANIA
Boom dei contratti a tempo indeterminato. Nei primi due mesi del 2015 ce ne sono stati 79
mila in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. A febbraio sono cresciuti del 38,4
per cento e tra i giovani (15-29 anni) l’aumento è stato del 41,4 per cento (+ 43,1 per cento
a gennaio). Non è detto che corrispondano a nuovi posti di lavoro, ed è possibile che si
tratti perlopiù di contratti di trasformazione dal tempo determinato al tempo indeterminato
per effetto degli sgravi previsti dall’ultima legge di Stabilità. Questa analisi sarà possibile
farla solo alla fine di aprile. In ogni caso, il dato — comunicato ieri dal ministro del Lavoro,
Giuliano Poletti — rappresenta un cambiamento significativo nella composizione del
mercato del lavoro se si pensa che la percentuale di assunzioni a tempo indeterminato è
stata di circa il 16 per cento nell’arco del 2014 ed è salita al 24 per cento a febbraio. «È il
segnale che l’Italia riparte, sono dati sorprendenti, ma la soddisfazione non è tanto per i
numeri positivi, ma per i volti, le storie e le famiglie che stanno dietro a quei numeri», ha
commentato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nel suo primo giorno anche di
ministro ad interim delle Infrastrutture e dei Trasporti. Poi il premier ha scritto su Facebook
: «Per me è solo l’inizio. Ci hanno accusato di voler rendere la nostra generazione per
sempre precaria. È vero esattamente il contrario: stiamo dando diritti a chi non ne ha mai
avuti». Per il ministro Poletti «si sta attuando un cambiamento radicale ».
In questa impennata dei contratti a tempo indeterminato non c’entra la riforma dell’articolo
18, che è entrata in vigore all’inizio di marzo, bensì gli incentivi fiscali (eliminazione del
costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap) e l’azzeramento dei contributi previdenziali
per tre anni a favore delle assunzioni con contratto a tempo indeterminato realizzate
nell’arco del 2015. Una misura, quest’ultima, che consente alle aziende di risparmiare fino
a 8.060 euro l’anno (per tre anni) per ciascuna assunzione. È questo che ha spinto e sta
spingendo le imprese ad assumere con i contratti a tempo indeterminato che da marzo
sono diventati anche a tutele crescenti. La stessa Confindustria ha stimato che il mix meno
Irap e zero contributi dovrebbe portare ad un incremento dell’occupazione di oltre 140 mila
unità. In Veneto, area di capillare presenza di piccole aziende industriali, l’aumento dei
contratti a tempo indeterminato — secondo le rilevazioni di Veneto Lavoro — ha addirittura
raggiunto il 45 per cento a febbraio rispetto a un anno fa. Nel primo bimestre di quest’anno
l’occupazione a tempo indeterminato in Ve- neto è cresciuta di 7 mila unità.
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Nei primi mesi dell’anno di registra sempre un picco delle assunzioni (l’altro mese
favorevole ai contratti è settembre), ma ciò che va rilevato è il raffronto positivo con l’anno
precedente. Qui si vede il cambio di tendenza. «E io — commenta Emilio Reyneri,
professore di sociologia del lavoro alla Bicocca di Milano — mi azzarderei a dire che ad
assumere sono state soprattutto le piccole imprese per le quali non vale la riforma
dell’articolo 18». Conferma della spinta alle assunzioni da parte della legge di Stabilità e
non (ancora) dal Jobs act in senso stretto. Tanto che il governo sta cominciando a
ragionare su come rendere strutturale lo sgravio. Impossibile replicare lo sconto di 8.060
euro perché troppo oneroso, ma a palazzo Chigi si stanno valutando le possibili opzioni
per non abbandonare del tutto il taglio del cuneo fiscale e contributivo. «Questa — ragiona
Reyneri — è occupazione drogata dagli sconti. E come sempre in questi casi bisogna
immaginare un’uscita graduale dalla droga con delle forme di metadone». «Ma la
scommessa sarà davvero vinta se — conclude — i nuovi contratti a tempo indeterminato a
tutele crescenti saranno percepiti dall’intera società italiana come stabili. Cosa vuol dire?
Per esempio, banalmente, che vengano concessi i mutui ai giovani assunti a tempo
indeterminato».
Del 27/03/2015, pag. 14
IL CASO
E Novartis offre l’articolo 18 come benefit
VALENTINA CONTE
I sindacati esultano: «Si può fare a meno del Jobs Act». L’azienda sminuisce. Fatto sta
che la Novartis, colosso del chimico- farmaceutico, ha appena assunto tredici lavoratori
nella sua sede di Varese, mettendo nero su bianco nel verbale di accordo «la scelta di non
applicare nei loro confronti le disposizioni del contratto a tutele crescenti». E dunque di
riconoscere l’articolo 18 a tutto tondo, ovvero la reintegra in caso di licenziamento
illegittimo. Una vittoria per i lavoratori, ingegneri e informatici altamente specializzati,
alcuni anche con dieci anni di esperienza.
Un unicum quello della Novartis, da quando il Jobs Act è legge. Che però potrebbe
replicarsi altrove. L’articolo 18 come benefit? «Non è vietato dalla nuova disciplina, si può
fare nei contratti individuali come in quelli aziendali, e il giudice lo riconoscerebbe come
trattamento di miglior favore per il lavoratore», spiega Raffaele de Luca Tamajo,
giuslavorista. Novartis specifica che qui «si tratta di cessione di contratto tra società del
gruppo», ma che «in caso di nuove assunzioni si avvarrà del Jobs Act». I tredici lavoratori
assunti provengono da Alcon e Sandoz, due divisioni della Novartis, è vero. Per Pietro
Ichino (Pd) «il vecchio rapporto non si interrompe, non c’era neanche bisogno di
esplicitarlo». Ma allora perché l’azienda l’ha fatto? Per «l’assenza di oggettivi precedenti
tecnico/giuridici», si legge nel verbale d’accordo siglato con Cgil, Cisl e Uil. Insomma «per
superare l’incertezza delle nuove norme», spiega Fabio Pennati, Uiltec. «Fatto sta che
così si supera il Jobs Act e si torna alla Fornero». Il rischio era «di perdere l’articolo 18»,
aggiunge Ermanno Donghi, Filctem Cgil. «E invece lo manterranno, assieme ad anzianità
e stipendio». È un tema, questo. Specie per i lavoratori qualificati, non giovanissimi, che
cambiano azienda. «Certo si può fare, ma non credo sia una tendenza su larga scala »,
analizza Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria con delega per il Sud. «Il
fatto però che ogni azienda può andare per conto suo nei contratti non è un fatto positivo,
anzi. Si apre un negoziato permanente, quando bisognerebbe spendere tempo per
lavorare, non per negoziare ». Tornare alla Fornero è «una prerogativa delle parti, non mi
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scandalizza», aggiunge Mauro Maccauro, presidende di Confindustria Salerno. «E
dimostra come il dibattito sull’articolo 18 sia un tabù politico- culturale, le aziende
assumono quando hanno commesse e sono disposte a tutto pur di avere i lavoratori
migliori». «È un caso da studiare, senza dubbio, che svela un paradosso, quello
sull’articolo 8 di Sacconi sulla contrattazione aziendale, prima osteggiato dai sindacati, ora
benefico», osserva Carlo Dell’Aringa, deputato Pd, ex sottosegretario al Lavoro. «Perché
no? Io valuterei un contratto con l’articolo 18 come benefit, se individuo un lavoratore che
vale», confessa Luciano Cimmino, patron di Yamamay e Carpisa e deputato di Scelta
Civica.
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