sentenza 13603 del 2011 - Corte d`Appello di Milano

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sentenza 13603 del 2011 - Corte d`Appello di Milano
Sez. 3, Sentenza n. 13603 del 2011 (ECLI:IT:CASS:2011:13603CIV) Chiudi Dettaglio Visualizza immagine
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Data udienza: 10/05/2011 Data Deposito: 21/06/2011
Presidente: TRIFONE FRANCESCO
Relatore: UCCELLA FULVIO
Consigliere: GIACALONE GIOVANNI
Consigliere: DE STEFANO FRANCO
Consigliere: LEVI GIULIO
Consigliere: D'AMICO PAOLO
Consigliere: TRIFONE FRANCESCO
P.M.: FINOCCHI GHERSI RENATO
N. Registro Generale: 010389/2009
Provv.orig.: 000318/2009 CORTE D'APPELLO BOLOGNA
Ricorrente: GUIDI LUISA
Contro: ASSICURAZIONI GENERALI SPA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIFONE Francesco - Presidente Dott. UCCELLA Fulvio - rel. Consigliere Dott. GIACALONE Giovanni - Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. LEVI Giulio - Consigliere ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GUIDI LUISA GDULSU62H61D705U, quale unica erede, accentante con beneficio di inventario l'eredità della
madre MELDOLESI Pia, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE 22, presso lo
studio dell'avvocato POTTINO GUIDO MARIA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato ZAULI
CARLO giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente contro
ASSICURAZIONI GENERALI SPA 00079760328, in persona dei suoi procuratori speciali Avv. Tessier Giuliano e
Dott. Massimo Boccato, elettivamente domiciliata in ROMA, V.CICERONE 49, presso lo studio dell'avvocato
BERNARDINI SVEVA, rappresentata e difesa dall'avvocato VACCARI ANGELA giusta delega a margine del
controricorso;
- controricorrente avverso la sentenza n. 318/2009 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, Sezione 2 Civile, emessa il
13/11/2007, depositata il 09/03/2009;
R.G.N. 895/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/05/2011 dal Consigliere Dott. FULVIO
UCCELLA;
udito l'Avvocato CUCCIA ANDREA (per delega dell'Avvocato POTTINO GUIDO MARIA);
udito l'Avvocato PRASTARO ERMANNO (per delega dell'Avvocato VACCARI ANGELA);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso
si rimette in merito alla decisione dell'udienza di riunione, nel merito il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 28 marzo 2003 il Tribunale di Forlì, in accoglimento della domanda proposta da Pia Meldolesi madre di
Siro Guidi, che aveva stipulato con le Assicurazioni Generali s.p.a. un contratto di assicurazione sulla vita il
14 settembre 1999 e che fu trovato cadavere in data 7 luglio luglio 2000, a seguito di asfissia per
annegamento, come accertato tramite autopsia disposta dalla Procura della Repubblica di Ravenna,
condannava la Compagnia assicuratrice a corrispondere all'attrice la somma di Euro 103.291,39 oltre spese
di lite.
Su gravame della Compagnia la Corte di appello di Bologna riformava integralmente il 9 marzo 2009 la
sentenza del Tribunale. Avverso siffatta decisione propone ricorso per cassazione Luisa Guidi, quale unica
erede della Meldolesi, nelle more deceduta, affidandosi a quattordici motivi.
Resistono con controricorso le Assicurazioni generali s.p.a.. La ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso propone due ordini di motivi.
Dal 9^ al 13^ si snoda sotto profili in cui si ancorano le doglianze alla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, all'art. 47 della Carta di Nizza e alle decisioni delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, e nei
motivi 12^ e 13^ si richiede il rinvio pregiudiziale ex art. 234 TUE. Dal 1^ al 14^ il ricorso si incentra su
asserite violazioni del diritto interno applicabile nel caso in esame.
1. - Osserva il Collegio che per priorità logico-giuridica va esaminato preliminarmente il dodicesimo motivo
del ricorso, con cui la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo e art. 47 della Carta di Nizza, nonché dell'art. 161 c.p.c., ovvero, in estrema sintesi, che il giudice
dell'appello nella sua composizione collegiale non sarebbe stato giudice imparziale, quale si rinviene dalla
interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, in quanto uno dei suoi componenti il dr. Cantoni aveva già
partecipato ad altro Collegio in cui si controverteva dell'indennizzo di altra polizza-vita, contratta con altra
società assicuratrice dallo stesso Guidi.
Al riguardo - ed è incontroverso tra le parti - va posto in rilievo che il dr. Cantoni ha partecipato ad un altro
giudizio in sede di appello e relativo ad una controversia tra gli eredi di Siro Guidi e la Unipol s.p.a. circa il
richiesto indennizzo di cui ad una polizza stipulata con detta compagnia dal Siro Guidi. Ciò posto, è evidente
che, pur nella diversità dei contratti assicurativi, il componente del collegio, la cui sentenza è soggetta a
ricorso, venne a conoscere dello stesso fatto, ovvero della malattia del Guidi, della sua consapevolezza e
della sua buona o mala fede nel rendere le dichiarazioni richieste dalla Compagnia al momento della
stipula.
In tale fase del giudizio venivano in rilievo le medesime applicazioni delle norme di diritto per così dire
sostanziali, di cui nel presente ricorso si assume la violazione e/o la falsa applicazione.
Questa circostanza può ritenersi pacifica perché non contraddetta nel controricorso, ove , invece, la
resistente fa presente che le deduzioni della ricorrente "mancano di ogni supporto probatorio, in quanto la
Generali non conosce altro giudizio oltre il presente" (v. p. 6 controricorso). Si tratta di una deduzione
ovvia, atteso che il giudizio si svolgeva e si è svolto tra i Guidi e la Unipol, ma che non scalfisce affatto il
contenuto della censura. Pertanto, mentre non rileva la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (v. Affare
Castillo Algar c. Spagna, ric. n. 28194/95, sent. 28 ottobre 1998), in quanto in quella decisione la violazione
dell'art. 6 comma 1 CEDU riguardava due giudici che avevano partecipato sia in primo che in secondo grado
al giudizio a carico di un soggetto-par.46 in motivazione, il dr. Cantoni avrebbe potuto avvalersi della facoltà
di cui all'art. 51 c.p.c., u.c. per cui non aveva l'obbligo di astenersi.
Peraltro, nella sentenza CEDU sopra richiamata la Corte di Strasburgo sottolinea che ai fini dell'art. 6,
comma 1, l'imparzialità deve essere valutata sia in base ad un approccio soggettivo, tendente a provare la
convinzione personale del giudice in tale occasione, sia in base ad un approccio oggettivo, tendente a
dimostrare che offra le garanzie sufficienti per escludere ogni legittimo dubbio al riguardo (sent. Incal c/o
Turchia del 9 giugno 1998, par. 65).
Per quanto concerne l'approccio soggettivo la Corte ricordava che la imparzialità del giudice si presume fino
a prova contraria, per cui nonostante l'affermazione della ricorrente ritiene il Collegio che, data la
fattispecie, non si rinvengano elementi che provino che il dr. Cantoni abbia partecipato al collegio di
appello con personale pregiudizio, pur avendo egli partecipato ad altro collegio in cui si dibattevano, tra
l'altro, le stesse questioni.
Sotto il profilo della valutazione oggettiva, che secondo il pensiero della Corte di Strasburgo consiste nel
domandare se, indipendentemente dalla condotta personale del giudice, taluni fatti accertati autorizzino a
dubitare della imparzialità di quest'ultimo, perché in questa materia anche le apparenze possono rivestire
importanza, osserva il Collegio che l'elemento determinante consiste nel sapere se i timori dell'interessata
possano essere oggettivairtente giustificati (v. sent. Hauschildt c/o Danimarca del 24 maggio 1989, par. 50
in motivazione). Ed in questo caso non lo sono atteso che il collegio di appello era diverso negli altri due
componenti, per cui non si sa quanto determinante sia stato il contributo del dr. Cantoni alla decisione,
imputabile ad altro collegio, ne' la ricorrente allega un minimo indizio a fondamento dei suoi timori, per cui
resta in piedi la presunzione di imparzialità del magistrato, come, peraltro, si evince da S.U. n. 12345/01.
Quindi, non si può convenire con la ricorrente allorché ella asserisce che non vi sia stata la cd. imparzialità
oggettiva, per cui la censura va disattesa sia dal punto di vista del diritto meramente interno che dal punto
di vista del diritto internazionale " convenzionale" o di genesi "comunitaria".
Infatti, la normativa interna, che esclude la ipotesi di ricusazione nei casi in cui il giudice in presenza di gravi
ragioni di convenienza non abbia chiesto al capo dell'ufficio la relativa autorizzazione non contrasta con la
normativa " convenzionale" e quella comunitaria, in parte qua, nel senso che la normativa processuale al
riguardo risulta pienamente corrispondente alla tutela minimale del diritto ad un giusto processo previsto
dall'art. 6 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dall'art. 6 par. 1 del TUE e dall'art. 47 della Carta di
Nizza.
Di vero, anche in virtù dell'art. 111 Cost., comma 1, il diritto processuale interno tutela in modo inequivoco
il diritto della persona ad avere un giudice imparziale. In virtù di esso, il soggetto coinvolto in una vicenda
giudiziaria, allorché ritiene che soggettivamente od oggettivamente si trovi di fronte ad un giudice non
imparziale, può proporne la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova
(art. 52 c.p.c., comma 1), depositando apposito ricorso in cancelleria due giorni
prima dell'udienza, se al ricorrente è noto il nome del giudice, chiamato a trattare o decidere la causa, e
prima dell'udienza di trattazione o di discussione di questa nel caso contrario. La tassatività dei casi di cui
all'art. 51 c.p.c., tenuto conto della interpretazione che sul punto ha dato la CEDU, non è, quindi,
incompatibile con la norma convenzionale interposta, anche in considerazione del fatto che la parte, nella
specie, non si è attivata nei confronti dello iudex suspectus, con gli strumenti a sua disposizione, atteso che,
come ha statuito la Corte costituzionale con sent. 387/99, il processo civile presenta una sua peculiarità
perché fondato sull'impulso paritario delle armi.
Quindi, non si rinviene alcuna nullità denunciabile ex art. 158 c.p.c. perché la mancata istanza di
ricusazione, di cui all'art. 51
nei commi diversi da quello di cui al comma 1 non determina la nullità del provvedimento decisionale (v.
S.U. n. 10071/11, anche se in tema di giudizio disciplinare). In altri termini, le norme di origine meramente
interna, che attengono alla astensione del giudice e alla sua ricusazione non stridono con l'art. 6 n. 1 della
Convenzione europea ne' con l'art. 47 della Carta di Nizza, ma, in virtù dell'art. 111, comma 1 hanno
ricevuto un rafforzamento costituzionale, caratterizzato dalla ricezione materiale del diritto di difesa (art.
24 Cost.) nella sua espansione e rilevanza internazionale al punto che le rendono pienamente compatibili
con la tutela a livello europeo del diritto fondamentale ad un processo equo.
Peraltro, anche sotto il "profilo comunitario" la censura, là dove si concreta nella richiesta di un rinvio
pregiudiziale ex art. 234 TUE, (la stessa richiesta è a conclusione del motivo decimo e del motivo
tredicesimo) non coglie nel segno. E valga il vero. Sotto il profilo "internazionale-convenzionale" la censura
si concreta nella denuncia della violazione del diritto fondamentale di essere giudicato da un giudice
imparziale, per cui essa avrebbe dovuto parametrarsi a quel diritto così come interpretato dalla Corte di
Strasburgo. Ma, anche a voler ritenere corretto il riferimento al "diritto comunitario" di cui parte integrante
è la Carta di Nizza e, quindi, costituente la stessa un vincolo interpretativo per il giudice italiano (sul punto è
solo opportuno aggiungere che la dottrina sembra divisa sulla generalità di tale vincolo) occorre pur sempre
precisare che l'obbligo del rinvio pregiudiziale imposto dall'art. 234, u.c. TUE non è automatico. In altri
termini, questa Corte deve preliminarmente procedere alla delibazione dell'istanza, motivandone il rigetto
o l'accoglimento, avendo presenti i paradigmi del Trattato, della Costituzione al fine di attuare una
valutazione della questione nel quadro ordinamentale complessivo in cui la stessa si pone.
Detta valutazione va effettuata nella prospettiva di riconoscere al diritto interno, che si assuma eccentrico
rispetto al diritto consacrato nel Trattato UE e all'annessa Carta di Nizza e alla Convenzione europea, in
esso Trattato richiamata, la sua conformità a quel diritto. Solo se attraverso l'attività ermeneutica il giudice
di ultima istanza dovesse rilevare la impossibilità di ritenere la norma processuale interna conforme al
sistema sovranazionale, solo allora scatta per questo giudice l'obbligo del rinvio pregiudiziale. Il che trova
autorevole conferma ex adverso nella interpretazione della Corte di Lussemburgo allorché ha avuto modo
di statuire che nei giudizi tra le parti la verifica della disapplicazione o meno della norma interna non deve
avvenire dopo che sia stato effettuato un rinvio pregiudiziale, perché compete in via esclusiva al giudice
nazionale di assicurare la protezione giuridica ai casi derivanti dalle disposizioni del diritto dell'Unione e di
garantirne la efficacia nel diritto interno, attraverso, comunque, il rispetto delle norme procedurali interne
(Grande Chambre, 19 gennaio 2010, in Affare Kuciikdeveci in C.-555/07, sent. n. 19 gennaio 2010). Del
resto, osserva il Collegio che, la stessa Corte di Lussemburgo già ebbe modo di affermare che la definizione
degli aspetti processuali attinenti all'esercizio in giudizio del diritto dell'Unione, come nella specie si pone in
risalto da parte della ricorrente, ovvero l'effettivo esercizio del diritto a comparire avanti ad un giudice
imparziale spetta all'ordinamento nazionale nel cui ambito la norma dell'Unione è azionata (Affare Revve,
sent.16 dicembre 1976 in C.-33/76, in Racc. I, p.1989). In questa decisione la Corte di Lussemburgo ebbe a
stabilire che in mancanza di una specifica disciplina comunitaria è l'ordinamento giuridico interno di
ciascuno Stato membro a designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dell'azione
giudiziale intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi
efficacia diretta. È questo il principio noto come principio dell'autonomia processuale degli Stati membri (
Seconda Sezione, Affare Olimpiclub, sent.3 settembre 2009 in C.-2/08, in Racc.2009, I-p.7501).ed è
condizionato da quello della equivalenza, nel senso che le modalità definite dal diritto nazionale per
l'esercizio di posizioni che derivano dal diritto dell'Unione non possono essere meno favorevoli di quelle
applicate per la protezione in via giudiziale di posizioni analoghe di origine interna, nonché dal principio
dell'effettività, nel senso che le modalità non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o
eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti derivanti da norme dell'Unione.
I due principi condizionanti sono cumulativi ed esprimono il primo la manifestazione del principio generale
di non discriminazione e il secondo si ricollega al diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale
effettiva. Ed inoltre, come considerazione, ad avviso del Collegio, dirimente per disattendere la censura, va
detto che una delle funzioni del rinvio pregiudiziale di interpretazione è quella di verificare la legittimità di
una legge nazionale o di un atto amministrativo o di una prassi amministrativa rispetto al diritto
comunitario e non già di ottenere un parere dal giudice comunitario su questioni generali ed ipotetiche,
bensì di risolvere una controversia effettiva ed attuale, ritenendo la questione ad essa connessa rilevante
proprio per la risoluzione del caso da parte del giudice nazionale.
Infatti, la stessa Corte di Lussemburgo si è rifiutata di rispondere al quesito pregiudiziale perché nel
frattempo era risultata risolta la controversia principale ( Affare Djaboli, sent.12 marzo 1998, in C.-314/96,
in Raccolta I, p.1149, par.17-20) ed ha escluso il potere di pronunciarsi in presenza di questioni puramente
ipotetiche (Affare Meilicke, sent. 16 luglio 1992, in C.-83/91, in Raccolta 1^, p. 4871), analogamente a
quanto ritiene, come è noto, la Corte costituzionale italiana nei casi in cui viene sollevata una questione di
legittimità costituzionale nei giudizi incidentali. Nel caso in esame, quindi, il rinvio richiesto non può essere
disposto:
a) perché la normativa processuale interna è conforme ai principi comunitari, nella parte in cui essi
comprendono i diritti fondamentali quali esplicitati dalla funzione nomofilattica della Corte di Strasburgo;
b) perché la questione viene risolta dal Collegio seguendo un percorso ermeneutico attento alla prospettiva
della norma convenzionale europea e all'art. 111 Cost., comma 1;
c) perché la richiesta del rinvio, anche per la sua formulazione espositiva, porta a ritenere che si dovrebbe
investire la Corte di Lussemburgo per ottenerne un parere; In altri termini, una volta acclarato che la
normativa di origine interna è pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali
individuati nella sua evoluzione giurisprudenziale dalla Corte di Strasburgo e recepiti nel TUE sia all'art. 6
par. 1 e 2 che con la Carta di Nizza, che pur costituiscono parametri di valutazione da utilizzare ancor più
per far progredire il processo di consolidamento e di sviluppo dell'integrazione con l'affermazione della
tutela del diritto ad un sindacato giurisdizionale (art. 47 Carta di Nizza), il giudice cui è sottoposta la
controversia non è tenuto a disporre il rinvio pregiudiziale, anche se esso è richiesto dalla parte, qualora il
punto controverso sia stato risolto nel senso previsto e voluto dal Trattato UE, ovvero nella accertata tutela
del diritto al processo, asseritamente violato dalla normativa interna.
La relativa decisione del giudice interno, strettamente attinente al paradigma dei valori della persona,
preclude allo stesso di disporre il rinvio in quanto la risposta che potrebbe dare il giudice comunitario non
è, per l'effetto, ritenuta indispensabile per risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente, dopo aver
confrontato la norma invocata con i principi che ispirano il diritto comunitario.
Nè, per le considerazioni innanzi svolte, il Collegio ritiene che possa parlarsi di questione di legittimità
costituzionale della norma "interposta" ( la disposizione di cui all'art. 6 par. 1 Convenzione europea) in
relazione al nostro sistema. Queste considerazioni valgono anche per le censure di cui ai motivi decimo,
undicesimo e tredicesimo al termine dei quali si richiede, per l'appunto, un rinvio pregiudiziale e di cui si
tratterà in prosieguo.
2.-Ciò posto, con il primo motivo la ricorrente denuncia la motivazione contraddittoria circa un punto
decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5). Lamenta la ricorrente che il giudice dell'appello avrebbe
attribuito rilevanza probatoria ad un elemento emerso in causa (supposto suicidio risalente nel tempo)
quale sotteso alle risultanze istruttorie dell'autopsia (annegamento per asfissia polmonare), senza che ciò
fosse supportato da alcun accertamento o testimonianza raccolta in sede di indagini preliminari.
Al riguardo, va posto in rilievo quanto segue.
In punto di fatto, il Guidi fu trovato cadavere il 7 luglio 2000, in stato di decomposizione, presso la località
nota come Foce Fiumi Uniti di Ravenna, dopo che il 2 luglio 2000 si era allontanato di casa e lo stesso giorno
si era incontrato con un suo amico sul litorale marittimo di Cesenatico.
La sera non tornò a casa e furono avvertiti i Carabinieri di Cesenatico, che rinvennero la vettura di proprietà
del Guidi chiusa a chiave di fronte al bagno "Marconi" e le chiavi erano nello zainetto collocato dal Guidi
sulla battigia.
La Procura della Repubblica dispose l'autopsia, da cui si accertò che il Guidi era morto per asfissia da
annegamento.
Nel riformare la sentenza del Tribunale il giudice dell'appello ha ritenuto che le dichiarazioni del Guidi rese
all'assicuratore il 14 settembre 1999 non fossero state veritiere, ripercorrendo la storia umana
dell'assicurato.
Contrariamente a quanto assume la ricorrente, il giudice dell'appello non ha considerato il "tentativo di
suicidio" come determinante a tal fine, ovvero come significativo del mendacio reso all'assicuratore, ma ha
solo ripercorso le tappe antecedenti la stipula del 14 settembre 1999 per argomentare il suo
convincimento, trattandosi di fatti certi ed incontroversi.
Infatti, nel 1998 il Guidi tentò un suicidio, di cui si avvidero gli stessi familiari, che affidarono il Guidi Siro ad
uno psichiatra di Forlì - dott. Giannelli -, che lo seguì per circa un anno, come confermato dal medico di
famiglia dr. Rauti il 10 luglio 2000 ai Carabinieri di Forlimpopoli. Il richiamo di questo episodio è utilizzato
dal giudice dell'appello per disattendere quanto ritenuto dal Tribunale, ovvero che l'assicurato avesse
percezione di uno stato di generica melanconia, mentre riteneva il giudice a quo che il Guidi fosse affetto
da una grave sofferenza psichica, in quanto il richiesto intervento dei sanitari si esplicito con le prescrizioni
di assumere specifiche terapie farmacologiche" ben presenti al paziente" (p. 8 sentenza impugnata). E che
si trattasse di malattia psichica (e non di semplice depressione), di cui era ben consapevole il Guidi, fu poi
diagnosticato al momento del ricovero del Siro nella struttura ospedaliera avvenuto il 23 settembre 1999,
ovvero nove giorni dopo la stipula di ben due contratti di assicurazione, di cui uno è quello di cui si tratta
con il presente ricorso, mentre l'altro fu stipulato con la Unipol.
I sanitari, come ha potuto constatarli il giudice dell'appello, leggendo la cartella clinica agli atti,
ricoverarono il Guidi per " trattamento sanitario obbligatorio per scompenso psicotico acuto".
Nell'occasione del ricovero il Guidi riferì di assumere psicofarmaci; indicò i medicinali specificamente
prescritti dal dr. Giannelli "circa un anno fa", ovvero all'epoca del tentato suicidio; aggiunse di avere
sospeso la terapia "perché si sentiva eccessivamente sedato".
Da questi elementi di fatto, la cui esistenza non è contestata nel ricorso, e dalla vicinanza temporale appena nove giorni- tra la stipula della polizza e la scomparsa del Guidi, almeno dal 3 luglio 2000, dopo che
ebbe ad incontrarsi con il suo amico, il giudice dell'appello ha tratto una sola conclusione, ovvero che il
Guidi aveva mentito all'assicuratore, in quanto consapevole di essere "malato".
Ne consegue che nell'argomentare del giudice a quo non si rinviene affatto il vizio denunciato, perché si è
in presenza di un procedimento logico, ove sono messi insieme tutti i tasselli che hanno portato alla tragica
vicenda al solo scopo di statuire che vi era stato un mendacio che rendeva applicabile l'art. 1892 c.c. da un
lato e la clausola n. 5 del contratto di assicurazione, di tenore analogo al disposto della norma codicistica.
3. - Con il secondo e il terzo motivo, che come suggerisce la ricorrente vanno tratti in modo congiunto data
la loro stretta interconnesione, la ricorrente lamenta la insufficienza motivazione circa un punto decisivo
della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5 - secondo motivo) e, comunque, la contraddittorieta della stessa
(art.360 c.p.c., n. 5 -terzo motivo) circa un punto decisivo della
controversia.
In estrema sintesi, la ricorrente afferma che la malattia, di cui soffriva il Guidi, non sarebbe stata elemento
rilevante ai sensi dell'art. 1892 c.c., e di essa non sarebbe stata dimostrata la consapevolezza in capo al Siro
Guidi o, comunque, la mera possibilità da parte sua di essersene reso conto.
Il giudice dell'appello avrebbe mancato di appurare pregiudizialmente se il Guidi avesse avuto contezza del
suo stato di salute al momento in cui stipulò la polizza. Queste censure vanno esaminate anche il relazione
al quarto motivo ( motivazione insufficiente circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).
Infatti, sotto lo stesso profilo dell'art. 360 c.p.c., n. 5 la ricorrente lamenta che il fatto controverso attiene al
nesso eziologico che una rappresentazione corretta di fatti in sede di questionario assicurativo e, nella
specie, l'esistenza di una patologia psichiatrica, avrebbe avuto sul consenso negoziale dell'istituto
assicurativo. Osserva il Collegio che, in parte, le censure restano assorbite dal rigetto del primo motivo, in
parte non rispondono al vero, in quanto, e contrariamente a quanto si sostiene, le dichiarazioni sono state
valutate in relazione alla determinazione del rischio al momento della conclusione del contratto e non al
sinistro poi verificatosi.
In altri termini, il giudice dell'appello, una volta ritenuto che il Guidi fosse ben consapevole non già di
soffrire di generica depressione, ma di specifica malattia psichica, ha concluso logicamente che egli avesse
reso dichiarazioni mendaci all'atto della stipula e queste dichiarazioni mendaci fecero scattare
l'inoperatività della polizza assicurativa, così come, per casi de genere, previsti dal codice e dalla clausola
convenzionale. 4. - Di qui, il rigetto delle censure, analogamente a quanto deve ritenersi per il quinto
motivo (violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1892 c.c..) ed il sesto (violazione e/o falsa applicazione
dell'art. 2697 c.c.; violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1892 c.c.). In estrema sintesi, la ricorrente con
tali censure si duole che il giudice dell'appello non avrebbe accertato se la situazione celata avesse potuto
dare luogo ad una maggiore probabilità del verificarsi dell'evento dannoso, in quanto l'assicuratore non
avrebbe fornito la prova circa l'alterazione del rischio per effetto delle dichiarazioni reticenti (con richiami a
decisioni di questa Corte). In realtà, come emerge dalla attenta lettura della sentenza impugnata, una volta
ritenuto configuratosi il mendacio, il giudice dell'appello ha ritenuto di ritenere pienamente legittima la
pretesa dell'assicuratore di rifiutare di corrispondere alcun indennizzo e, quindi, di non adempiere, senza
incorrere in alcuna violazione di legge.
5. - Con il settimo (error in judicando) e con l'ottavo motivo ( motivazione contraddittoria ed incoerente), in
buona sostanza, la ricorrente lamenta l'elusione da parte del giudice dell'appello dell'onere della prova,
laddove ha condannato la medesima a restituire le somme versate in ottemperanza della sentenza di primo
grado a lei favorevole.
Le due censure vanno disattese, sia perché la sentenza di primo, come riconosce la ricorrente, venne
dichiarata provvisoriamente esecutiva e, quindi, deve ragionevolmente presumersi che la Compagnia
assicuratrice abbia versato la somma liquidata dal giudice di primo grado, sia perché nella sentenza di
appello la condanna alla restituzione delle somme è condizionata all'eventuale versamento delle stesse da
parte della Compagnia (v. sentenza impugnata in motivazione).
Del resto, i motivi sono generici perché apodittici e non allegano nemmeno un indizio a conforto della
doglianza in essi contenuta. 6.- Anche il nono e il decimo motivo per la loro logica
consequenzialità vanno esaminati congiuntamente. Con il nono (violazione di legge costituzionale - artt. 2,
3, 11, 24 e 117 Cost.- e dei Trattati internazionali (art. 6 e 13 convenzione di Roma, nonché art. 47 Carta di
Nizza per mancata ammissione dei mezzi istruttori anche in relazione all'art. 117 - ovvero richiamo al diritto
comunitario -, nonché degli artt. 2721 e 2733 c.c. e dell'art. 244 c.p.c.) e con il decimo (formulato in parte
come il precedente con l'aggiunta " in relazione alla mancata ammissione di CTU psicobiologica o
psicologica o psicoanalitica anche di carattere interno in relazione agli artt.61, 62, 63, 64, 194, 195 c.p.c. e
vulnerazione delle stesse norme), in buona sostanza, la ricorrente lamenta che sia in primo grado e in fase
d'appello aveva richiesto l'ammissione di prove orali, di istanze istruttorie, di deposizione di testi nonché
l'esperimento della CTU.
Si rinverrebbe nella decisione sul punto una violazione delle norme e della giurisprudenza della Corte
europea di Strasburgo perché l'equo processo sarebbe entrato a far parte del diritto comunitario dei
Trattati ex art. 6 TUE, per cui si legittimerebbe un rinvio pregiudiziale e in base alla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo le richieste istruttorie, in specie la CTU e l'ammissione di ammettere prove
determinanti per il processo, sarebbero obbligatorie perché esse avevano pertinenza con il processo, come
si ricaverebbe dalla giurisprudenza sulla Convenzione europea, che richiama (p. 28, 29, 32 ricorso).
La audizione dei testi e la CTU sarebbero serviti a dimostrare la esistenza o meno dell'elemento soggettivo
di cui all'art. 1892 c.c., in particolare la consapevolezza e la percezione della malattia e si conclude per il
rinvio pregiudiziale.
Osserva il Collegio che, in merito alla conclusione valgono le argomentazioni addotte circa il primo motivo.
Del resto, nessuna violazione della norma CEDU ne' della interpretazione che ne da la Corte di Strasburgo,
ne' del diritto interno che con quelle norme e quella interpretazione si confrontano si rinviene. Al riguardo,
risulta dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che pure la ricorrente richiama, che l'art. 6, comma 1
della Convenzione europea non disciplina il regime delle prove In quanto - tale e che, quindi, l'ammissibilità
di una prova raccolta, senza rispettare le prescrizioni del diritto nazionale, non può essere esclusa in
astratto. Spetta, però, al giudice nazionale valutare gli elementi di prova da lui ottenuti, nonché la
pertinenza di quelli di cui una parte chiede la produzione (Affare Mantovanelli c. Francia, sent.18 marzo
1997 nn.33 e 34; Pellissier e Sassi C.Francia, sent.25 marzo 1999 ( p.33-34 ricorso). E ciò ha fatto il giudice
dell'appello, allorché ha esaminato le testimonianze pertinenti al caso-le deposizioni del Giannelli e del
Rauti, entrambi medici, che, a vario titolo, ebbero in cura il Guidi- e ha ritenuto irrilevante la richiesta di
CTU perché non avrebbe potuto condurre ad un accertamento sulla esistenza o meno di un mendacio,
essendo il Guidi defunto.
Del resto, la ricorrente denuncia, sotto forma di domanda rivolta a questa Corte, se possa ancora ritenersi
la CTU non un mezzo di prova nella disponibilità delle parti e, quindi, una espressione del potere del giudice
cui è rimessa la facoltà di valutarne la necessità o l'opportunità e, come tale, secondo l'ordinamento
interno compatibile con quello della CEDU e dell'Alta Corte di giustizia.
Questa lagnanza dimostra concretamente tutti i suoi limiti, in quanto dalla sentenza impugnata emerge con
estrema chiarezza, dati il caso e le circostanze, che nessuna CTU, sia pure fosse stata disposta, avrebbe
potuto accertare sui resti del povero Guidi quello che con essa si sarebbe voluto ricercare, ovvero
l'esistenza in capo al defunto della consapevolezza del mendacio all'atto della stipula del contratto di
assicurazione.
Pertanto, tutta la giurisprudenza richiamata appare inutilmente trascritta, per il semplice fatto che la CTU
richiesta non avrebbe potuto essere un mezzo di prova decisiva per la soluzione del giudizio.
Del resto, va posto in rilievo che, ormai, con giurisprudenza consolidata, al punto che può parlarsi di "
diritto vivente", è stato statuito che la consulenza tecnica può costituire anche fonte oggettiva di prova
quando si risolva in uno strumento, oltre che di valutazione tecnica, anche di accertamento e di descrizione
di situazioni di fatto, tali da essere rilevabili, nella loro obbiettiva consistenza, solo a determinate cognizioni
tecniche (Cass. n. 6166/96 e Cass. n. 2802/00), per cui la censura della ricorrente, peraltro, proposta in via
astratta, in linea di principio mostra il suo limite, in quanto , così interpretata, la normativa interna non si
pone in thesi in contrasto con la giurisprudenza delle Corti europee. 7. - In merito all'undicesimo motivo
(violazione di diritti cosituzionali - artt. 2, 3, 42, 47, 111, 117-e di diritti fondamentali ( art. 1 Protocollo
addizionale e art. 17 Carta di Nizza) in relazione alla interpretazione che ha fornito la Corte di appello e da
parte di una certa giurisprudenza italiana degli artt. 1892 e 1893) si richiede un rinvio pregiudiziale, affinché
la Corte di Lussemburgo possa dichiarare se sia conforme al TUE il questionario predisposto e richiesto dalla
Compagnia assicuratrice. Del resto, continua la ricorrente, il dovere di trasparenza e precisione nella
formulazione di cui all'allegato 3^ richiamato dall'art. 36 della Direttiva 2000/83/CE, la formulazione del
contratto di polizza vago e non sancente esplicitamente che per malattia si considera anche quella psichica,
la carenza di indicazione dell'elenco di quelle che devono intendersi per malattie, le richieste circa il proprio
stato di salute antecedente alla polizza e di cui ai formulari, non possono non essere considerate clausole
vessatorie.
Conclude la ricorrente che alla madre Meldolesi Pia era stato precluso di poter provare l'assunto contrario a
quanto dedotto dalla Compagnia circa il mendacio del figlio e sottolinea che tra assicurato e assicuratore,
che è soggetto economicamente più forte e non potrebbe mantenere nel processo una posizione di
assurdo vantaggio, vi sia una situazione di disuguaglianza e di discriminazione. Vi sarebbe, pertanto, una
violazione del principio della parità delle armi e, quindi la questione andrebbe sottoposta alla Corte di
Lussemburgo. La complessa censura non merita accoglimento. In primis, non corrisponde al vero, per
quanto si legge nella sentenza impugnata, che la Meldolesi non si sia potuta difendere.
Alcune sue richieste istruttorie sono state ritenute irrilevanti o per "giudizio che contengono" o "perché
attinenti a diverso rapporto assicurativo" (p. 9 sentenza impugnata).
L'asserito sbilanciamento del processo a favore dell'assicuratore è, quindi, risultato insussistente. Ed,
inoltre, il giudice dell'appello non si è dispensato dall'esaminare i mezzi probatori offerti dalla ricorrente
con rigore particolare, così come richiesto dalla Corte di Strasburgo (Affare Wagner C.Lussemburgo, sent.
28 luglio 2007 ), perché, andando a leggere la sentenza impugnata, ci si accorge che il giudice a quo ha
esercitato il suo potere di ammettere o escludere capitoli di prova, in virtù di quella autonomia processuale
che lo stesso diritto dell'Unione gli riconosce, attraverso la interpretazione della Corte di Lussemburgo e
della Corte di Strasburgo, stante il dialogo tra le Corti europee in tema di diritti fondamentali.
Infatti, le stesse decisioni richiamate dalla ricorrente sono nel senso che spetta al giudice nazionale di
valutare gli elementi di prova da lui ottenuti, nonché la pertinenza di cui una parte chiede la produzione,
per cui non è incompatibile con il diritto all'equo processo il potere del giudice di rilevare i casi di
inammissibilità della prova, di cui all'art. 184 in comb. disp. art. 244 c.p.c., oppure di disattendere la
richiesta di CTU, quando la stessa non può concretarsi in un mezzo di controllo dei fatti costituenti la prova
di quanto si richiede nel giudizio (Cass. n. 9175/97). Del resto, il motivo contiene un interrogativo che non
rispecchia l'impianto codicistico processuale che configura la CTU come un supporto tecnico diretto ad
illuminare il giudice, senza che venga meno o alterato il principio dispositivo immanente al giudizio civile ,
per cui le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio cui sono tenute, ovvero non possono supplire con
la richiesta di CTU alle deficienze delle proprie allegazioni (Cass. n. 7097/05). Ed in tal senso non si rinviene
alcuna incompatibilità con l'indirizzo certamente vincolante di cui all'interpretazione data dalla Corte di
Strasburgo all'art. 6, comma 1 Convenzione, il quale contiene i limiti inderogabili dell'effettività
dell'esercizio dei diritti azionati e della pertinenza dei mezzi dedotti al caso concreto. Il fatto, poi, che i
questionari non indichino espressamente la malattia psichica è assolutamente irrilevante, in quanto con il
questionario l'assicuratore evidenzia la sua intenzione di annettere particolare importanza a determinati
requisiti, richiamando l'attenzione del contraente a fornire risposte complete e veritiere, in caso di polizza
vita, sul suo stato di salute. Non va dimenticato che l'obbligo della lealtà e della correttezza vale per
entrambi le parti e a fronte dell'alea che corre anche l'assicuratore, è evidente che è nel suo interesse
tutelarsi, magari, soppesandone il rischio, concludere il contratto a condizioni diverse, così come, a
contrario, ben può il futuro assicurato, rifiutando di contrarre con quell'assicuratore e alle stesse condizioni
da lui volute, stipularlo con altra compagnia assicuratrice.
Nè, infine, si può parlare a tal fine di clausole vessatorie, in quanto le norme di cui agli artt. 1892 e 1893
c.c., tra le altre, sono norme inderogabili e poste a tutela dell'assicurato, tanto che possono essere
derogate solo in senso ad esso assicurato più favorevole, per cui i quesiti formulati nel questionar e relativi
alla veracità delle dichiarazioni non sono nemmeno clausole vessatorie, atteso che nel caso in esame,
peraltro, la clausola n. 5 del contratto di assicurazione riproduceva fedelmente il disposto di cui all'art. 1892
c.c. e non risulta, nemmeno dal ricorso, che si sia discusso mai tra le parti che essa non fosse stata oggetto
di trattativa individuale (v. art. 1469 ter c.c., commi 3 e 4). 7. - Il quattordicesimo motivo ( vizio di
ultrapetizione, in quanto sarebbe stata accolta una domanda di annullamento del contratto di
assicurazione mai proposta con violazione degli artt. 112 e 167 c.p.c.) si commenta da solo. Dalla sentenza
impugnata e dalla domanda
in appello così come proposta dalla Compagnia si evince chiaramente che non si è discusso di annullamento
del contratto, bensì solo di dichiarazioni mendaci di cui sarebbe stato consapevole il Guidi in merito
all'esistenza di essere malato psichico. Una volta accertato che il mendacio si era consumato è evidente che
la compagnia ha rifiutato il pagamento dell'indennizzo.
E ciò è tanto più conforme alla verità processuale che in primo grado la sentenza fu favorevole alla
Meldolesi, in quanto il giudice di prime cure ritenne la patologia del Guidi non una malattia psichica, ma
meramente generica, come la depressione. Conclusivamente, il ricorso va respinto, ma sussistono giusti
motivi dati dall'alterno esito delle fasi di merito e dalla dolorosa vicenda che inducono la Corte a
compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di
cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 maggio 2011. Depositato in Cancelleria il 21 giugno
2011