Tigellio sardo - Liceo Classico Dettori

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Tigellio sardo - Liceo Classico Dettori
Liceo Dettori, Cagliari
Monumenti Aperti 2011
TIGELLIO SARDO NELLE FONTI CLASSICHE
A Cagliari, in Via Tigellio, gli scavi archeologici del 1963-64 hanno isolato un gruppo di
almeno tre abitazioni private note come «Villa di Tigellio».
Ma chi era costui? Era un illustre musico e cantante, amico di Cesare, tanto da essere
definito «familiarissimus Caesaris» (Cic,. ad fam., VII,24), di ingegno pronto e versatile, prodigo
soprattutto verso i bisognosi, ammirato dalla stessa Cleopatra (che nel 46 si trovava a Roma) e poi
da Ottaviano, secondo quanto ci dice Porfirione (ad Hor. sat., I, 3,1). Il caso volle che Tigellio
avesse a che fare con Cicerone, il quale, a dire il vero, non ha mai risparmiato i suoi strali contro i
Sardi. Nella Pro Scauro (19,42-44), infatti, Cicerone, dice di questi «Africani che preferiscono
chiamarsi Sardi»: (8,15)
«Tutti i ricordi dell’antichità e tutte le storie ci hanno tramandato che nessun altro popolo fu tanto
infido e menzognero quanto quello fenicio. Da questo popolo sorsero i Punici… Dai Punici,
mescolati con la stirpe africana sorsero i sardi che non furono dei coloni liberamente recatisi e
stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto di coloni di cui ci si sbarazza. Ora, se niente di sano vi era
in principio in questo popolo, a maggior ragione dobbiamo ritenere che gli antichi mali si siano
esacerbati con tante mescolanze di razze… Gli stessi fatti mostrano che la maggior parte è priva di
lealtà, di amicizia e alleanza col nostro popolo…»
L’inimicizia tra l’oratore e il poeta, dovuta probabilmente a motivi politici essendo il primo
filoaristocratico, l’altro presumibilmente filocesariano, si acuì per un fatto contingente, accaduto
intorno al 52 o 51 a.C. Un ricchissimo zio di Tigellio (o il nonno) e amico di Cicerone, tal Famea,
che aveva messo a disposizione dell’oratore le proprie sostanze durante la campagna elettorale,
citato in giudizio, aveva chiesto all’amico di difenderlo. Cicerone accettò suo malgrado, ma il
giorno del processo di Famea coincise con quello in cui i giurati avrebbero dovuto dare il voto nella
causa contro Sestio, che tanto si era adoperato per far tornare Cicerone dall’esilio. Tra i due
Cicerone scelse Sestio e Tigellio lo citò in giudizio. Benchè Cicerone finga di non preoccuparsi
oltremodo, dalle lettere che possediamo traspare chiaro il suo stato d’animo poco sereno:
al fidatissimo Attico (XIII,49) Cicerone chiese:
«Scrivimi di Tigellio, se c’è qualche novità. Il quale, come mi ha scritto Gallo Fabio, mi ha
intentato una causa ingiustissima per aver io abbandonato Famea dopo averne assunto la causa».
Questo problema con Tigellio rischiava infatti di compromettere tutti gli sforzi che
l’Arpinate aveva compiuto per rimanere nelle grazie di Cesare e, di tale pericolo, lo mettono in
guardia gli amici. A Fabio Gallo che gli scrive di essere preoccupato per i non buoni rapporti che
intercorrono tra i due, Cicerone risponde (ad fam., VII, 24) che un tal Cipio fingeva di dormire per
non essere costretto ad accorgersi delle avventure della moglie; quando poi a volerne approfittare fu
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uno schiavo, più che mai sveglio gridò: non omnibus dormio, ossia non dormo per tutti; vale a dire
che se proprio ci si deve piegare, lo si fa solo davanti ai più forti e che, per quanto concerneva
Tigellio, diceva di considerare un vantaggio non avere a che fare «con questo sardo, pestilenziale
più della sua terra», in riferimento al clima malarico e malsano della nostra terra. Aggiungeva poi
ironicamente che il giambo di Licinio Calvo «Sardi Tigelli putidum caput venit» doveva averlo
posto fuori combattimento per il suo poco lusinghiero significato di «si vende il putrido capo del
sardo Tigellio». Il poeta, qui, in linea con la poetica neoterica del richiamo sottile ed erudito, allude
all’espressione proverbiale Sardi venales, cioè «sardi da vendere» in riferimento al numero di sardi
divenuti schiavi in seguito alla campagna militare di Tiberio Sempronio Gracco nel 176, che aveva
fatto crollare i prezzi degli schiavi per un eccesso di offerta. In realtà il componimento di Calvo si
pone in linea con l’invettiva politica del tempo, basti pensare ai versi di Catullo contro lo stesso
Cesare. I due si riconciliarono nel 54 e se, come ipotizza Piero Meloni, questo è l’anno in cui ci fu
anche la riconciliazione con Calvo, il giambo testè citato sarebbe anteriore a tale data e ci
fornirebbe un indizio cronologico importante per affermare che nel 54 Tigellio era già intimo di
Cesare. La lettera (ad fam., VII, 24) si conclude ancora una volta con l’espressione proverbiale già
citata prima che così suona: «eccoti i sardi venali: uno peggio dell’altro, hai conosciuto ora tutta la
malignità di questo pezzente che vuole apparire un signore». Gallo si dice rammaricato di aver
distrutto la lettera per paura che, in mani sbagliate, potesse compromettere entambi, ma Cicerone lo
rassicura, dicendogli di averne una copia (ad fam., VII, 25); lo ringrazia per gli avvertimenti, lo
prega di tenerlo informato e poi gli dice: «forse temi che, se ci facciamo nemico costui, dovremmo
ridere di un riso sardonico». Perduto già da tempo l’esatto significato del detto, l’espressione riso
sardonico indica una risata amara, innaturale e dolorosa, a cui gli antichi attribuivano un ventaglio
di possibilità: poteva essere il riso dei vecchi sul punto di essere uccisi dai sardi, oppure il riso dei
sardi più giovani e belli che venivano sacrificati dai coloni cartaginesi, oppure l’espressione di
dolore dei bambini che, gettati dentro una statua di bronzo infuocato, venivano sacrificati alla
divinità; può dipendere da un’erba che cresce nell’isola o, infine, essere legata al dio Sardan, nel
senso che le vittime a lui sacrificate morivano lietamente.
Per tornare al nostro Tigellio, costui non si preoccupò mai di Cicerone, che aveva probabilmente
trasformato in odio viscerale un insignificante risentimento personale.
Di Tigellio ci parla anche un altro grande della letteratura latina: Orazio. Il problema che si deve
subito affontare è però quello dell’identità del nostro, dal momento che accanto a un Tigellio si
trova anche un Tigellio Ermogene. Benché qualche studioso come l’Ullman propenda per
l’identificazione dei due, a escluderla ci sarebbero, secondo Meloni, delle prove inconfutabili: di
Tigellio sardo si parla, infatti, sempre come morto, mentre di Ermogene se ne parla sempre come
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vivo; mentre a Tigellio sardo non viene mai dato il cognome di Ermogene, Tigellio Ermogene non
viene mai chiamato solo Tigellio che, evidentemente, era il Tigellio per antonomasia; se Orazio si
mostra poco benevolo verso Tigellio, dimostra invece di disprezzare profondamente e totalmente
Tigellio Ermogene, che, forse, era un liberto del Nostro.
Nella seconda satira del primo libro viene descritto con pochi pittoreschi tratti il mesto corteo
funebre che piangeva la morte del proprio benefattore, costituito da procaci suonatrici di flauto
(ambubaiarum collegia), ciarlatani venditori di unguenti miracolosi (pharmacopolae), mendicanti
di professione (mendici), donne di facili costumi (mimae), comici di basso rango (balatrones), in
sostanza la feccia di Roma. Da indizi interni la satira viene datata intorno al 40/39 a.C., costituendo
un termine di datazione per la morte di Tigellio.
La terza satira si apre con un ritratto del sardo ormai scomparso: «artista capriccioso e bizzarro, era
capace di cantare quando nessuno lo chiedeva e, con altrettanta ostinazione, di rifiutarsi di
improvvisare i suoi versi quando era invitato a farlo, anche se glielo avesse chiesto lo stesso
Ottaviano in nome della loro amicizia. Nulla di costante aveva: ora si muoveva velocemente come
chi fugge un nemico, ora lentamente come le canefore quando portano in processione gli arredi
sacri di Giunone; talvolta aveva duecento servi, talaltra dieci; una volta parlava solo di re e cose
grandiose, un’altra diceva di essergli sufficiente un tavolo a tre piedi, una conchiglia di sale e una
toga anche grossolana per difendersi dal freddo; ma se gli avessi dato un milione di sesterzi, in
cinque giorni lo avrebbe sperperato. La notte vegliava sino alla mattina, il giorno lo passava tutto a
russare: non si è mai visto un essere così incostante».
Bibilografia
R. CARTA RASPI, Storia della Sardegna, Milano 1971
P. MELONI, La Sardegna romana, Sassari 1990
A. MASTINO, Storia della Sardegna antica, Nuoro 2005
I. DIDU, I Greci e la Sardegna, Cagliari 2002
CICERONE, Pro M. Aemilio Scauro oratio a cura di A. Ghiselli, Bologna 1969
P. MELONI, Note su Tigellio, Studi sardi 7 (1947)