stalli lignei - Comune di Bra

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stalli lignei - Comune di Bra
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RICUPERI DALL’ABBAZIA DI STAFFARDA:
GLI STALLI CORALI E IL RETABLE FIAMMINGO
Guido Gentile
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francesi (1520-1530) e
Gabriele Capello (18461847), stalli corali dell’abbazia di Staffarda
adattati all’abside della
chiesa di San Vittore,
Pollenzo.
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francesi (1520-1530), residenza liturgica proveniente dall’abbazia di
Staffarda. Torino, Museo
Civico d’Arte Antica.
L’
11 maggio 1843 Venceslao Arborio di Breme, primo segretario del Gran Magistero dell’Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, dà ricevuta al conte Cesare Trabucco di Castagneto, Soprintendente
al Patrimonio particolare e Casa di S.M., della comunicazione del divisamento espresso da Carlo
Alberto di far trasferire gli antichi stalli lignei della chiesa abbaziale di Staffarda nella chiesa parrocchiale di Pollenzo e si riserva di chiedere al sovrano, nella prossima udienza, le ulteriori determinazioni del caso.1. La risoluzione giunta dal re segue alle preoccupazioni più volte espresse da autorevoli
voci riguardo alla sorte di quel cospicuo e prezioso monumento dell’intaglio e dell’imagerie tardogotici. L’intendente Giovanni Eandi, trattando dell’abbazia di Staffarda nella Statistica della provincia di
Saluzzo (1833-1835) aveva segnalato tra le cose più notevoli che ivi si conservavano il «vecchio coro
della piuttosto vasta sua chiesa, lavoro in legno eseguito con particolare maestria, ma ora cadente in
rovina». L’Eandi ammirava gli ornamenti, tra naturalistici e fantastici, d’intaglio «finissimo ed esatto
in tutte le sue parti»: «figurine umane, altre di angioli, di uccelli, e di diversi piccoli animali, gruppi
d’intricati rami di foglie e di fiori, con frutti e variati nodi vagamente disposti; infine innumerevoli
rabeschi [...] ed animali fantastici di nuova forma, centauri e sfingi, e figure sempre diversificate [...]».
Concludeva: «egli è veramente un peccato, che questo documento, non dispregevole saggio della perizia de’ vetusti artefici, non sia capace di scuotere l’indifferenza delle moderne generazioni, e che si
lasci ora miseramente deperire a vece di gelosamente conservarlo».2. Da una memoria unita alla lettera sopra citata del di Breme e siglata da Ernesto Melano si apprende che quegli stalli «d’un goût très
exquis du stil gotique» (a suo avviso erano databili all’inizio del XV secolo) eran stati ammirati da
«connaisseurs-artistes» e tra gli altri dal marchese Roberto d’Azeglio (direttore della Regia Pinacoteca): questi aveva proposto da tempo al sovrano di farli ricoverare in sede opportuna insieme con altre
opere rimaste presso l’abbazia. Gli stalli, in origine disposti secondo l’uso monastico nell’area corale
antistante l’altar maggiore, poi traslocati a tergo dell’altare «alla romana» verso il 1712, erano stati
arrangiati nell’abside della chiesa abbaziale. Privati della loro tradizionale funzione liturgica col definitivo cessare della vita monastica nell’abbazia, soppressa e devoluta all’Ordine Mauriziano (1750), gli
stalli avevano subito gli ultimi affronti di un ambiente alquanto degradato, segnatamente a causa dell’umidità di cui era impregnato il pavimento della chiesa.
In effetti, già il 18 maggio 1841 il di Breme, obbedendo al desiderio espresso dal sovrano di provvedere alla conservazione e al restauro degli edifici e delle chiese appartenenti all’Ordine Mauriziano,
e in particolare della chiesa, allora parrocchiale, di Staffarda, aveva incaricato il Melano di esaminarne
lo stato e di riferire sulle opere che ivi risultassero necessarie. Il regio architetto aveva quindi fornito
una particolareggiata relazione, datata 13 agosto 1841, nella quale, descriveva con viva attenzione «lo
stato presentaneo di quel monumento» e proponeva «quelle operazioni occorrenti per conservare e preservare quella parte di edificio che può considerarsi qual monumento d’arte, cioè la chiesa e la parte
superstite dell’antico chiostro». Tra l’altro notava che «gli stalli del coro, in numero di 31, e quelli tre
a cornu epistolae destinati pel pontificale […] sono di stile gotico dei bei tempi, cioè sul principio del
secolo XV, e meritano di essere riparati e ristaurati onde conservarli perché ricchi di sculture e bellissimi nel loro genere». Nel computo complessivo delle spese occorrenti (stimate in 75.000 lire) per
il restauro della chiesa e del chiostro, il «ristauro dei 31 stalli con sostituire i pezzi mancanti e riforma
del palchetto, non che dell’intarsio dei pannelli a lire 170 caduno» figurava per l’importo di 5270 lire,
e il «ristauro delle sedie del pontificale» per 100 lire. Vi si aggiungeva anche il «ristauro delle dorature di una bellissima ancona». Il di Breme, l’11 ottobre, riferiva al Melano che Carlo Aberto, intesa
la sua relazione, voleva un nuovo computo delle opere strettamente necessarie e insieme desiderava
un parere del regio architetto «circa la possibilità e convenienza di utilizzare gli stalli del coro di quella
chiesa siccome risultanti di squisito lavoro per la nuova chiesa da costruirsi a Pollenzo». Il Melano
rispondendo il 18 novembre 1841 precisava: «Il trasportare i stalli dell’antica chiesa di Saffarda a
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quella costruenda in Polenzo è cosa facilissima, e non v’ha dubbio ch’essi potranno adattarsi al nuovo
edificio, quantunque d’uno stile ben diverso, ma trattandosi di un mobile, io non incontrerei difficoltà
ad abbracciare questa idea; tuttavia io credo di mio dovere di far conoscere all’Eccellenza vostra che
s’incontrerà una spesa maggiore di quella da me calcolata, sia perché a quella del ristauro proposta
vuolsi unita quella del trasporto dei stalli dall’abbazia a Polenzo, non che quell’altra pel loro adattamento nel nuovo locale proposto, perché non converrebbe adattare la nuova chiesa ai stalli, ma bensì
questi a quella e finalmente il sagro Ordine dovrebbe poi procacciarsi altri stalli per il coro dell’attuale
chiesa abbaziale, sì che anche costrutti con molta semplicità finiranno sempre per costare una
moneta». La spesa totale sarebbe in tal caso ammontata a 7000 lire, comprendendo 1030 lire per il trasporto e 600 per la costruzione dei nuovi stalli: «da quanto precede – concludeva il Melano –
l’Eccellenza vostra giudicherà della convenienza o non di privare l’antica abbazia di un sì prezioso
mobile». Nel frattempo il 14 novembre 1841 il di Breme scriveva di nuovo al Melano per dirgli che il
re aveva chiesto di «ridurre il calcolo della spesa complessiva alle opere strettamente necessarie per
la sicurezza e salubrità dell’edificio della chiesa, escluso tutto ciò che soltanto riflette l’ornato». Per il
momento, dunque, non si parlò più del ricupero degli antichi stalli 3.
Sentendo dunque, nel maggio 1843, che l’Amministrazione della Real Casa avrebbe potuto acquisire il prezioso coro ligneo per ornarne la nuova parrocchiale di Pollenzo, il Melano pensava che tale
soluzione avrebbe posto termine al degrado dell’arredo ed avrebbe meritato «en sauvant, au benefice
des arts, un meuble si beau et precieux, la reconnaissance et la gratitude des artistes». Dunque non
solo i conoscitori, mossi dalle propensioni della cultura romantica e della storiografia che lavorava nell’età carlalbertina attorno alle fonti della “storia patria”, avrebbero ammirato nel coro di Staffarda cosi
“salvato” i fasti estremi dell’ultimo medioevo subalpino, ma anche gli artisti ne avrebbero tratto compiacimento e giovamento in un tempo in cui, tra le fantasie del gusto troubadour, si sviluppava uno studio sempre più intenso di motivi e modelli medievali: tra costoro, insieme con gli artisti operosi per
Pollenzo, il Melano collocava evidentemente anche se stesso. E la prospettiva di un reimpiego di
autentici elementi medievali in un contesto da lui composto in forme neogotiche non poteva non interessarlo per la soluzione del necessario raccordo.
Ultimata, come vedremo, l’operazione di ricupero a beneficio della chiesa di Pollenzo, il conte di
Castagnetto, scrivendo il 24 febbraio 1849 al Melano «primo architetto disegnatore di S.M.» per fargli
collaudare i nuovi stalli che lo stipettaio Gabriele Capello aveva approntato per la chiesa di Staffarda
in sostituzione degli antichi, ricordava che tutta l’impresa doveva gravare sull’azienda privata del re,
giacché «S.M. nello autorizzare il trasporto a Polenzo degli antichi stalli del coro di Staffarda ebbe
principalmente in mira di salvare da una totale degradazione un egregio capolavoro del medio evo; ma
non fu suo intendimento di assoggettare l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro ad una spesa che non
gli sarebbe riuscita di alcuna utilità».
Il trasferimento previsto nel 1843 fu rinviato di qualche tempo. Il 19 maggio 1845 Cesare di
Castagnetto informava Venceslao di Breme che le opere edilizie della chiesa di San Vittore erano già
a buon punto e quindi lo pregava di esplorare le intenzioni del re riguardo alla traslazione degli stalli,
affinché, col suo consenso, l’azienda privata di S.M. potesse provvedere anche alla fornitura di nuovi
stalli per la chiesa di Staffarda; peraltro il 18 settembre 1845 avvertiva il patrimoniale dell’Ordine,
Guinzio, che finchè non fossero terminati i lavori della nuova chiesa non si sarebbe potuto provvedere
alla collocazione degli antichi stalli e che quindi gli avrebbe inviato gli incaricati del ritiro al momento
opportuno.4. Infine gli antichi stalli furono rimossi tra i 24 e il 27 marzo 1846. Il 4 aprile successivo,
riferendone al conte di Castagnetto, il di Breme esprimeva qualche perplessità sui rischi dell’operazione.5. Egli temeva che gli antici pregevoli arredi fossero esposti a ulteriori vicissitudini, nella misura
in cui non li si sarebbe potuti integralmente impiegare nella nuova destinazione: una tale sensibilità
per testimonianze artistiche dell’età gotica si può presumere fosse in lui favorita da un’esperienza culturale d’ambito europeo (era stato ministro del re di Sardegna nelle sedi diplomatiche di Olanda e di
Prussia) e fors’anche da una qualche attitudine famigliare, su cui influiva il ricordo del fratello letterato, Ludovico, tra i primi a recepire in Piemonte suggestioni del romanticismo transalpino. Il di
Breme, sulla base dei rapporti del patrimoniale Guinzio che aveva assistito alla rimozione degli stalli,
osserva che «.giusta l’opinione concepita dalla forma di detti stalli, essi non sarebbero stati in origine
construtti pel coro [cioè per lo spazio absidale], ma piuttosto pel Sancta Sanctorum, avvegnacché oltre
a ciò che gli stalli sono di forma rettilinea e che per poterli poi adattare al coro di forma curvilinea si
dovettero rompere dei muri ed abbattere gli ornati sporgenti di qualche monumento sepolcrale esistente nei muri stessi del coro, v’ha di più che la misura di detti stalli, compresovi però un pezzo separato che erasi lasciato di fianco all’altare maggiore e servì sin quì di sedile ai sacerdoti nelle messe
solenni, corrisponde perfettamente alle dimensioni e forma del Sancta Sanctorum», cioè allo spazio
comprendente le due ultime campate dinanzi all’abside, dove in effetti sussistono tracce dell’antico
recinto murario che racchiudeva il coro dei monaci. Il di Breme, sulla base delle informazioni fornite-
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gli dal patrimoniale Guinzio che aveva assisito alla rimozione degli stalli, riteneva che l’antica residenza liturgica andasse connessa all’insieme degli stalli cui la univa un’evidente affinità di stile (mentre invece era sin dall’origine destinata ai celebranti che officiavano all’altare); osservava quindi che,
se il complesso così inteso non aveva potuto trovare posto integralmente a tergo dell’altar maggiore di
Staffarda, sì che il «separato pezzo» era stata lasciato a fianco dell’altare, a maggior ragione questo
sarebbe stato abbandonato, ora che si trattava di «addattare gli stessi stalli al coro della chiesa di
Pollenzo, il quale è di capacità più ristretta di quello della chiesa di Staffarda». Segnalava inoltre che,
secondo i rapporti ricevuti nell’occasione, esisteva altresì nella chiesa di Staffarda «nel centro del coro
un’ancona pregevole per dipinte figure, statuette ed ornati dorati la quale porta la data del secolo
decimo quinto». Il di Breme era dunque preoccupato di garantire una degna destinazione a opere di
tal rilievo e insieme di compiacere il sovrano, al quale, in un’udienza del 3 stesso mese, riferendo dell’avvenuta rimozione del coro e di quant’altro era risultato dai rapporti del Guinzio (s’era anche ricercato se nella chiesa abbaziale vi fossero sepolture dei marchesi di Saluzzo), aveva già accennato a
entrambi gli oggetti in questione; e Carlo Alberto, apprezzando «la diligenza con cui venne in tale circostanza sott’ogni rapporto operato», lo aveva sin d’allora autorizzato «a far sentire all’Intendente generale della Real Casa, che ove detto pezzo di stallo e detta ancona potessero ravvisarsi appropriati per
qualche chiesa reale» il re «ne avrebbe senz’altro permessa la cessione per parte dell’Ordine».6. Il
primo segretario mauriziano scrivendo al conte di Castagnetto il giorno dopo concludeva. che l’ancona
sarebbe stata posta a disposizione dell’Azienda della Real Casa nel caso che «potesse ravvisarsi appropriata per qualche chiesa o villeggiatura regia», e così pure il pezzo isolato di cui sopra.7. Il conte di
Castagnetto, in realtà, aveva modo di ben conoscere gli intendimenti del re unendo all’incarico di
intendente generale della Real Casa quello di segretario privato di Carlo Alberto, e quindi, l’8 aprile
1846, pregava senz’altro il di Breme di disporre che coll’intervento del Guinzio entrambi gli oggetti in
questione fossero consegnati allo stipettaio Gabriele Capello detto il Moncalvo, il quale stava già eseguendo attorno agli antichi stalli i «restauri necessari per poterne poi adornare il coro della nuova
chiesa di Polenzo».8. Il Capello provvide così al ritiro dei due oggetti nell’ultima settimana di aprile.9 e
proseguì alacremente tutti i lavori occorrenti per l’arredamento della chiesa e degli edifici annessi.
Talché, il 9 dicembre 1846 dall’Ufficio d’Arte dei Regi Palazzi e Fabbriche l’architetto Melano segnalava al conte di Castagnetto che lo stipettaio si trovava creditore di una somma considerevole per le
«varie opere erogate [...] per la nuova chiesa, casino e fabbrica parrocchiale di Pollenzo», compresi i
confessionali, i banchi, il pulpito, l’adattamento degli stalli provenienti dall’abbazia di Staffarda e i
nuovi con cui questi andavano ivi sostituiti nonché altri lavori addizionali stabiliti per contratto. Nuova
analoga segnalazione inviava il 7 maggio 1847, quando le opere erano pressoché ultimate per un
importo, al momento, di 31.000 lire (il Capello ne aveva sino ad allora percepite 24.800).10. Il pagamento da parte del tesoriere dei Servizi Segreti (cioè dalla cassa privata del re) seguì con vari acconti
entro il settembre 1848.11.
Gli stalli ricuperati nella chiesa abbaziale di Staffarda facevan parte del ricco corredo che una
schiera di maestranze di varia provenienza aveva fornito, tra il secondo e il quarto decennio del Cinquecento, secondo un disegno complessivo non estraneo ai gusti, alle ambizioni e alle risorse del commendatario Giovanni Ludovico di Saluzzo.12. Questi, secondogenito del marchese Ludovico II di Saluzzo e di Margherita di Foix, era stato provvisto ancor tredicenne, nel 1508, dell’abbazia di tradizionale
patronato della dinastia marchionale; l’investitura da parte della Santa Sede era seguita nel 1517.
L’abate-marchese, pur cumulando vari benefici grazie all’intraprendenza materna, non aveva coltivato
una particolare vocazione religiosa ed anzi si era esposto all’avversione di Margherita e della fazione
filofrancese a lei legata, a motivo delle proprie, indipendenti propensioni politiche e delle simpatie per
la parte imperiale: nel 1526 per tali motivi era stato rinchiuso nel castello di Verzuolo. Liberato dai
suoi sostenitori nel novembre 1528, dopo la morte del fratello primogenito Michele Antonio, tentava di
assumere stabilmente il governo del marchesato, ma l’anno appresso, catturato per ordine del re di
Francia, fu detenuto a Parigi sino al 1536. Nel frattempo il fratello terzogenito Francesco otteneva l’investitura del marchesato dal re di Francia, ma più tardi passava agli imperiali. Giovanni Ludovico fu
quindi liberato nel 1536 e inviato contro Francesco, che lo catturò e lo imprigionò a Valfenera. Morto
Francesco nel 1537 Giovanni Ludovico non riuscì a impadronirsi del marchesato, di cui lo stesso anno
era investito il fratello ultimogenito Gabriele, e nel 1538 rinunciò alla Santa Sede le commende di
Staffarda e dei Santi Vittore e Costanzo. Nel novembre 1538 le ottenne Bartolomeo de Saluciis alias de
Piperis (secondo taluni, annota il Muletti.13, figlio naturale di un marchese di Saluzzo), il quale tuttavia
continuò a risiedere a Roma quale cameriere di Sua Santità e non si recò in Piemonte neppure quando,
nel 1553, ebbe il vescovado di Mondovì. Incerta è la successione nei redditi di Staffarda di Aleramo,
figlio del marchese Francesco (1546), e di Ettore, figlio del marchese Gabriele (1546 o 1548), poiché
il de Piperis ancora nel 1555 risultava possedere la commenda.14. Giovanni Ludovico, nonostante le
turbolenze e i rovesci delle sue avventure politiche, che per tanto tempo lo tennero lontano dal
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francesi (1520-1530) e
Gabriele Capello (18461847), leggio corale composto con elementi tratti
dal coro dell’abbazia di
Staffarda. Pollenzo, chiesa parrocchiale di San
Vittore.
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francesi (1520-1530) e
Gabriele Capello (18461847), dossale di stallo
del coro dell’abbazia di
Staffarda. Pollenzo, chiesa parrocchiale di San
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Saluzzese, dovette serbare un ambizioso, in certa guisa fedele attaccamento all’abbazia di Staffarda, in
cui per così dire proiettava la sua presenza ideale con opere che egli aveva avviato sin dal secondo
decennio del Cinquecento e che poi poté far proseguire, grazie ai ricchi redditi della commenda, avvalendosi di un vicario claustrale o dei propri agenti. Prodigando i suoi interventi diretti o mediati nell’arredamento della chiesa abbaziale egli emulava altri cospicui personaggi coevi quali ad esempio
Federico Fregoso, che, abate di Saint Benin a Digione, faceva costruire tra il 1527 e il 1535 un coro
di stile classicheggiante ma gremito di satiriche bizzarie, ovvero Ferry Carondelet, consigliere di
Margherita d’Austria, il quale verso il 1527 provvedeva l’abbazia di Montbenôit di stalli di gusto
aggiornato, ma istoriati con moralités tradizionali; per non dire della stessa Margherita d’Austria che
negli anni 1530-32 faceva erigere da carpentieri e intagliatori franco-fiamminghi l’imponente coro
flamboyant della chiesa-mausoleo di Brou.
Nonostante le vicissitudini e gli smembramenti subiti dal coro di Staffarda si può tentare di ricomporne idealmente la struttura originaria sulla base degli elementi superstiti, in parte reimpiegati a corredo della chiesa di Pollenzo e, per le parti residue, più tardi allestiti presso il Museo Civico di
Torino.15. Secondo una fonte settecentesca, il verbale della visita effettuata nell’abbazia di Staffarda per
il Regio Economato dei Benefici Vacanti dal canonico Pietro Francesco Becchetto, nel novembre 1749,
a quell’epoca si vedevano ricomposte a tergo dell’altar maggiore «le sedie per li monaci in numero di
trent’una, fatte di bosco di noce e di scoltura fina ed antica», ma bisognose di riparazioni.16. Un rilievo
degli edifici dell’abbazia eseguito nel 1845 dal geometra Alessandro Goffi.17 rappresenta, schierati in
doppie file, nello spazio absidale, su di un perimetro trapezoidale aperto verso l’altare, ventinove stalli
superiori e, dinanzi a questi, venti stalli inferiori. Invero i dossali degli stalli superiori che sussistono,
rispettivamente, nel coro della parocchiale di Pollenzo e presso il Museo Civico torinese assommano
in tutto a trentuno; tuttavia i prospetti dei baldacchini variamente utilizzati nelle due ricomposizioni
ammontano a trentotto; anche ammettendo che taluno di essi sia stato prodotto con fine mimetismo stilistico da chi rimaneggiò gli elementi dei due complessi (il che potrebbe essere chiarito solo con un
esame ravvicinato dei pezzi in posizione elevata) appare probabile che l’insieme originario annoverasse, nel rango superiore, più di trenta stalli. Nella chiesa abbaziale di Staffarda la cospicua sequenza,
disposta su due livelli, si sviluppava dinanzi all’altar maggiore, lungo i lati dell’area compresa tra i
pilastri delle due ultime campate centrali, risvoltava contro il tramezzo o jubé (che chiudeva tale spazio verso la navata), e si interrompeva in coincidenza colla porta centrale del tramezzo. Verso l’altar
maggiore e ai lati della porta del tramezzo i ranghi degli stalli superiori erano chiusi da alte fiancate
traforate e intagliate con figurazioni relative alla vita e alla glorificazione della Madonna. Quelli degli
stalli inferiori lasciavano almeno due passaggi intermedi per parte per l’accesso ai superiori.18 ed erano
forniti di fiancate, due delle quali erano decorate a rilievo con le figure dell’Annunciazione ed altre
con immagini di santi monaci. I postergali degli stalli superiori appaiono decorati da complesse arcature tardogotiche cui si intrecciano fogliami movimentati e ai cui fastigi si aggrappano figure mostruose
di stile affine a quello degli arredi intagliati del primo rinascimento francese (si pensi agli stalli fatti
eseguire dal cardinale Georges d’Amboise tra il 1509 e il 1518 per la cappella del castello di Gaillon);
sotto tali arcature erano inseriti dei pannelli rettangolari (conservati solo nel complesso del Museo
Civico di Torino) che recavano prospettive intarsiate, con scene urbane ed interni, ispirate alle analoghe decorazioni di vari cori d’ambito padano dell’inizio del Cinquecento. Nelle misericordie e sopra le
fiancate minori si sviluppava un mondo di drôleries, figure mostruose, animalesche e grottesche alludenti alle forze maligne e al disordine mondano da cui i monaci si dovevano difendere con le pratiche
ascetiche, la preghiera e l’invocazione della Vergine alla quale era dedicata la chiesa abbaziale. Per
l’esecuzione degli stalli furono impegnati maestri la cui cultura palesa legami colla Borgogna e colla
Champagne: alcuni di essi, verso il 1519, avevano intagliato gli stalli della cappella del palazzo marchionale di Revello, ora conservati a Saluzzo, nel museo di Casa Cavassa.19. A Staffarda i lavori del
coro dovettero svolgersi sin verso i primi anni Trenta. In due tra le grandi fiancate ora conservate presso
il Museo Civico d’Arte Antica di Torino, rispettivamente ornate con un Albero allegorico e una Vergine
col Bambino su di una candelabra rinascimentale, appare operoso lo stesso scultore (probabilmente
originario della Champagne e coadiuvato da collaboratori) che intagliò anche le statuette dei “misteri”
mariani che occupano la struttura centrale del grande retable dell’altar maggiore, nonché il gruppo del
Calvario che in origine dominava sul tramezzo, sopra la porta verso la navata, ed ora è collocato nella
navata destra.20. Le date 1531 e 1533, apposte rispettivamente su uno degli sportelli di tale retable,
dipinti da Oddone Pascale, ed entro la cassa centrale, forniscono quindi un riferimento cronologico per
l’esecuzione delle parti del coro di stile più avanzato. Maestranze di cultura borgognona, più legate
all’imagerie tradizionale dei cori quattrocenteschi, eseguirono invece, verosimilmente in momenti
anteriori, durante il terzo decennio del Cinquecento, altre due grandi fiancate e le fiancate degli stalli
inferiori, ora conservate presso il Museo torinese, nonché le misericordie in gran parte ricuperate nell’arredo corale di Pollenzo. Una forte omogeneità legava entro la chiesa di Staffarda, le forme del coro
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savoiardi?, misericordie
di stalli del coro dell’abbazia di Staffarda, ricomposti nell’abside della
chiesa parrocchiale di
San Vittore, Pollenzo:
Il mondo corroso dai topi
Triade di lepri
Farfalla notturna
Gambero
Leone
Tartaruga
Uomo dalle grandi orecchie (panozio)
Uomo dalla testa di cane
(cinocefalo)
Testa di infedele
Testa di infedele
Folle
Testa di barbaro orientale
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con quelle del pulpito, che ancora figura nella navata ornato dello stemma dei Saluzzo, e con quelle
della residenza liturgica a tre seggi cui accennano i documenti sopra considerati, ora conservata a
Torino in Palazzo Madama. È tuttavia dato percepire una progressione stilistica, e verosimilmente cronologica, dal pulpito (i cui motivi architettonici presentano forti affinità cogli stalli della cappella di
Revello) e dal leggio (ora conservato in Palazzo Madama a Torino), alla residenza, di uno stile flamboyant più maturo e sontuoso ma non ancora toccato da interpolazioni rinascimentali, mentre elementi
decorativi tipici della rinascenza settentrionale compaiono, come si è notato, variamente combinati con
il repertorio ornamentale dell’ultimo gotico fiammeggiante, negli intagli dei postergali e in due delle
fiancate maggiori del coro.
Il regio ebanista Gabriele Capello, come poi ebbe a confidare a uno storico delle arti del legno,
Demetrio Finocchietti.21, procedette con intimo rammarico all’ingrato lavoro di arrangiare gli antichi,
preziosi stalli di Staffarda per l’abside della parrocchiale di Pollenzo, in una disposizione curvilinea
del tutto diversa dall’impianto rettangolare per cui erano stati concepiti e costruiti. A tale effetto egli
scelse i pezzi meglio conservati e più acconci, rinunciando alle fiancate e agli stalli minori. Dalla serie
degli stalli maggiori trasse montanti, sedili con misericordie, spalliere, postergali e baldacchini, che
ricompose con prodigiosa abilità, adattando le strutture lignee, con minime e dissimulate riduzioni,
all’andamento semicircolare dell’abside. Ne risultarono quindici stalli disposti in un solo rango e forniti di inginocchiatoi. Al posto dei pannelli intarsiati che in origine decoravano i postergali l’ebanista
inserì, ad integrazione del sovrastante ricamo delle arcatelle fiammeggianti, nuovi pannelli intagliati
con sottili lesene a rilievo che compongono delle strutture decorative a guisa di finestroni gotici.
Qualche intervento di reintegrazione sembra denunciato dalla levigatezza e dal gusto eclettico di
alcune figurette ornamentali applicate alle cuspidi che coronano le arcature dei postergali, per esempio dai due cavalli marini affrontati del secondo stallo da destra. Per il fronte degli inginocchiatoi, tredici perché interrotti da due passaggi, furono impiegati, in calcolata rispondenza coi baldacchini degli
stalli, i fronti di altrettanti baldacchini, integrati inferiormente con arcatelle e lesene. In luogo del leggio spettante al coro abbaziale (ora conservato in Palazzo Madama a Torino), scartato probabilmente
perché poco adorno rispetto alla ricca elaborazione degli elementi circostanti, il Capello fornì un ricco
badalone, componendone lo stipo con quattro fiancate tratte dall’apparato degli antichi stalli inferiori
e integrate con straordinaria perizia nei prospetti a finestrati fiammeggianti (in origine tagliati obliquamente in coincidenza coi leggii posti dinanzi agli stalli superiori), cui aggiunse ex novo il leggio con
il pilastrino intagliato a fogliami neogotici. Con siffatte integrazioni l’ambiente corale, più raccolto e
assai meno monumentale di quanto dovessero apparire le duplici schiere degli stalli nel loro sviluppo
originario, risultò per così dire ulteriormente goticizzato nello spirito di un’evocazione romantica.
L’elimazione delle parti di più evidente aggetto, quali le fiancate maggiori e minori, colme di figurazioni plastiche, privò l’insieme della sua principale componente iconografica. Dell’apparato figurativo
solo si serbarono gli angeli con cartigli pendenti dai baldacchini e, in posizione poco visibile, le bellissime misericordie applicate ai sedili, probabilmente apprezzate per il loro carattere bizzarro e favoloso, emblematico di un ambiguo cosmo medievale al tramonto: tra queste, le immagini del Cinocefalo
e dell’uomo dalle grandi orecchie (il Panozio) derivano puntualmente dalla serie degli esseri mostruosi
ed esotici rappresentata ai lati del mappamondo in una pagina xilografica della Weltchronik di
Hartmann Schedel (Norimberga, 1493).
Così concentrato e ridotto al suo tessuto architettonico-ornamentale l’arredo corale venne attentamente raccordato con le strutture e l’apparato decorativo dell’abside e della zona presbiteriale: non
senza accorte riprese, come nel fregio ad affresco che scorre sopra gli stalli replicando, ingrandito, un
motivo a onde tratto dalla decorazione delle spalliere degli stalli. La parziale ricomposizione di quella
cospicua macchina lignea, a guisa di parafrasi stilistica, rappresentò per il Capello l’accasione di studiare dal vivo, su di un monumento autentico di grande significanza, un repertorio compositivo e decorativo di grande ricchezza: ciò poté procurargli nuovi spunti per sviluppare una produzione di mobili d’ispirazione gotica di cui aveva già dato prova negli arredi troubadour realizzati in parte su disegni del
Palagi per il Reposoir della regina nella Margaria di Racconigi.22. Il riflesso più evidente di una tale
esperienza e la ricerca di un raffinato raccordo formale tra i vari arredi che il Capello fornì nello stesso
torno di tempo per la parrocchiale di Pollenzo si riconoscono, più che nei notevoli confessionali, di
libera invezione, o nei banchi dignitosamente seriali, nei due banconi chiusi, ora situati al fondo della
chiesa, che nello schienale sviluppano l’ornato a onde delle spalliere del coro. All’ammirazione del
Capello per il coro di Staffarda quale esempio di straordinaria abilità tecnica e di fantasia decorativa,
fruibile come fonte di ispirazione per una moderna produzione, rispondevano le preoccupazioni dell’architetto Ernesto Melano che in qualche modo doveva aver assecondato e seguito l’inserimento dell’antico e “restaurato” arredo nell’ambiente della chiesa di Pollenzo. Questi, inviando l’8 luglio 1848 al
conte di Castagnetto la nota generale dei lavori eseguiti dal Capello per la parrocchiale di Pollenzo,
osservava, in quanto responsabile dell’Uffico d’Arte dei Regi Palazzi e Fabbriche, che «varie parti del-
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3.09.17
3.09.18
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3.09.17 - Intagliatore
francese, spalliera di
stallo del coro dell’abbazia di Staffarda. Pollenzo,
chiesa parrocchiale di
San Vittore.
3.09.18 - Gabriele Capello, 1846-1847, bancone.
Pollenzo, chiesa parrocchiale di San Vittore.
311
l’antico grandioso e maestoso coro furono sovravanzate da quello della nuova chiesa e trovansi tuttora
presso il predetto Capello, e sarebbe assai desiderabile che questi sopravanzi di prezioso antico lavoro
fossero depositati in qualche locale od accademia, che tornerebbe sempre di somma utilità agli artisti,
e potrebbero eziandio, adattandoli, servire di ornamento di qualche sala od altro locale nei reali palazzi
o villeggiature»23. Peraltro, il 24 febbraio 1849, in una congiuntura ormai profondamente mutata e poco
favorevole a nuove intraprese edilizie ed artistiche, il conte di Castagnetto, rimettendo al Melano per il
collaudo la nota del Capello relativa all’esecuzione dei nuovi stalli per la chiesa di Staffarda, apprezzava l’opportunità di far ritirare in qualche sito adatto i pezzi dell’antico coro che ancora si trovavano
presso il Capello, ma aggiungeva: «Nelle presenti contingenze politiche mal potendosi avvisare al modo
di trarne conveniente partito in qualche regio appartamento o villeggiatura, sarà d’uopo limitarsi per ora
a farli trasportare in qualche regio magazzino». Il Melano era quindi pregato di proporre un luogo in cui
li si potesse riporre e custodire.
I pezzi in questione, compresa la residenza liturgica a tre seggi, furono poi ricoverati nei depositi
dell’Amministrazione della Casa di S.M., in Torino. Più di vent’anni appresso l’ormai anziano regio
ebanista Capello, ben memore della loro bellezza e della loro importanza per lo studio degli antichi
ornati a vantaggio della formazione tecnica di ebanisti ed intagliatori, secondo esperienze di cui egli
stesso si era fatto promotore.24, si sarebbe ancora preoccupato di un loro conveniente ricupero ed
avrebbe chiesto al Ministero della Casa del Re di concederli al Museo Civico di Torino.25. E a quell’istituzione, che si andava allora sviluppando allo scopo di presentare i prodotti delle arti d’ogni epoca,
con particolare attenzione al Piemonte, come modelli e supporti per una rinnovata creatività «applicata alle industrie», i preziosi relitti pervennero nel 1871. Allineati dapprima in una sala della sede
di via Gaudenzio Ferrari, furono ricomposti negli anni 1933-34 da Vittorio Viale con un suggestivo
allestimento ambientale in un salone quattrocentesco del Palazzo Madama.
Abbiamo già visto che nell’aprile 1846, attraverso uno scambio di comunicazioni tra Venceslao di
Breme e il conte di Castagnetto, si concordò di prelevare nella chiesa abbaziale di Staffarda per corredo
della nuova chiesa di Pollenzo «o altra delle reali villeggiature», oltre al triplice sedile liturgico, un’ancona situata al centro del coro, «pregevole per dipinte figure, statuette ed ornati dorati la quale porta la
data del secolo decimo quinto». Il 24 aprile 1846, il di Breme, nella relazione indirizzata al re, quale
Gran Maestro dell’Ordine Mauriziano, su quanto si era convenuto per la consegna degli arredi in questione all’Amministrazione della Casa di Sua Maestà, menzionava l’«antica ancona anch’essa preziosa
per dipinte figure e statuette dorate la quale si trovava sovraposta agli stalli del coro»26. Invero dalla
visita effettuata nella chiesa abbaziale dal subeconomo dei Benefici vacanti, canonico Becchetto, nel
settembre 1749.27, risulta che «superiormente alle sedie suddette», cioè agli stalli sistemati dietro l’altar maggiore, vi era «un ancona di bosco intagliato e dorato che in forma piramidale rappresenta sette
arcate sostenute da piccole colonne dorate ed ivi diverse figure rappresentanti l’Annonciazione di Maria
sino alla Nascita di Gesù Christo con due plache laterali pur intagliate e dorate e sue serraglie dipinte
e dorate che formano quattro quadri e suo finimento al di sopra in buon stato». Una tale descrizione si
riferisce evidentemente alla grande ancona che poi fu collocata sul nuovo altar maggiore della chiesa
abbaziale, in occasione dei restauri iniziati dal Soprintendente ai Monumenti Cesare Bertea nel 1920.
La rettangolare cassa centrale contiene una struttura architettonica torreggiante, di carattere rinascimentale, con tre ordini di fornici animati da piccole figure policrome che rappresentano vari “misteri”
della vita di Maria e di Cristo, ed è fornita di sportelli dipinti con altri “misteri”, uno dei quali reca la
firma del saviglianese Oddone Pascale della Trinità, con la data 1531. A quanto appare, colla sistemazione della zona presbiteriale realizzata nel 1712 coll’intervento di Antonio Bertola, la grande ancona
era stata collocata nell’abside, sopra gli stalli corali. Si potrebbe quindi supporre che il patrimoniale
Guinzio, nei suoi rapporti, intendesse accennare proprio a questa ancona, solo errandone la datazione
nonostante il millesimo 1533 apparisse vistosamente due volte nella cassa in grandi cifre arabiche
dorate entro cartelle; e in effetti l’antica forma del 5 da un occhio non esperto poteva esser letta come
4. Senonché la grande ancona descritta dal canonico Becchetto nel 1749, in una fotografia anteriore ai
restauri condotti da Cesare Bertea occupa ancora, dietro l’altar maggiore del Bertola, sopra gli stalli che
erano stati sostititi agli antichi dal Capello, la parete dell’abside, la cui monofora era stata all’uopo tamponata.28. Sembra quindi lecito ritenere che se, come confermava il Guinzio al di Breme il 1o maggio
1846, il regio ebanista Gabriele Capello a fine aprile aveva ritirato «li noti stalli del coro ed ancona»29,
in realtà, in quella circostanza, si fosse prelevata non già l’ancona plastico-pittorica del 1531-’33 (peraltro difficilmente utilizzabile altrove a causa delle grandi dimensioni), ma un’altra, la quale, finita
anch’essa a tergo dell’altar maggiore, rispondeva in qualche modo alla descrizione (forse non esente da
qualche confusione) che il di Breme aveva trasmesso nel suo carteggio.30.
Che a Pollenzo si conservasse una preziosa ancona proveniente da Staffarda fu tradizionalmente
ritenuto riguardo al magnifico retable che ornava la cappella del castello, L’opera, recentemente acquisita al Museo Civico d’Arte Antica di Torino.31, rispecchia nella struttura, alta circa due metri e larga
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- Scultore di Anversa, c. 1535, retable
con Storie della vita della
Vergine e dell’infanzia di
Cristo. Torino, Museo Civico d’Arte Antica, dalla
cappella del castello di
Pollenzo.
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altrettanto, la tipologia dei retables prodotti ad Anversa nei primi decenni del Cinquecento e diffusi,
con straordinaria fortuna, nel settentrione europeo, ma anche in Francia.32. Sulla cassa appaiono
impressi i marchi con cui la gilda dei pittori e scultori di Anversa garantiva la qualità dei prodotti delle
botteghe locali: in particolare il marchio delle due mani col castello (burcht), tratto dallo stemma della
città di Anversa, garantiva la qualità della policromia. La struttura, terminante in un alto fastigio curvilineo, è articolata da pilastri e baldacchini di stile gotico fiammeggiante. Distribuite a due livelli in
tre sezioni verticali, di cui la centrale è soprelavata, sei scene, con quinte architettoniche di gusto rinascimentale e figure disposte in diversi piani prospettici, rappresentano vari “misteri” della Vita della
Madonna. La sequenza narrativa procede dal livello superiore a sinistra, con lo Sposalizio di Maria e
Giuseppe, cui segue a basso la Natività; continua nella sezione di destra con l’Adorazione dei Magi a
basso e sopra la Presentazione al Tempio, quindi al centro, a basso, la Circoncisione, e superiormente
il transito di Maria cui doveva sovrastare come in altri analoghi retables anversani il gruppo della
Vergine assunta in cielo tra gli angeli. La gestualità a volte concitata, le positure ricercate, la vivacità
mimica delle figure, in vesti riccamente panneggiate, dimostrano suggestioni manieristiche che, combinate con la persistenza di complicati ornamenti tardogotici, si ritrovano, in una situazione culturale
analoga, nei retables anversani eseguiti nel quarto decennio del Cinquecento e un tempo attribuiti alla
scuola di Robert Moreau: un riscontro assai vicino è offerto, anche nello sviluppo iconografico, dall’altare conservato a Enghien.33. La perdita degli sportelli e della predella.34, che dovevano essere
dipinti, come nell’esempio or citato, con soggetti complementari dell’iconografia rappresentata dalle
sculture della cassa (residuano i cardini infissi sui montanti), ci priva di parte dell’originaria complessità e spettacolarità d’un apparato siffatto, che si offriva variamente allo spettatore a seconda dell’apertura festiva e dell’assetto feriale, a sportelli chiusi, giacché anche il prospetto esterno di questi
era solitamente dipinto con soggetti pertinenti alla tematica dell’insieme. La ricchezza dello scenario
resta peraltro percepibile anche nella policromia che riveste le figurazioni plastiche, nonostante diffusi rifacimenti. Invero la vivida coloritura, che nelle vesti è graffita sull’oro sottostante con motivi
simulanti stoffe preziose e ricami, fu ripresa nell’Ottocento: la sua originaria consistenza e collocazione
cronologica, che a taluno è parsa più avanzata della data da me proposta per le sculture, è oggetto di
studi attualmente in corso.
Se questa splendida ancona, databile almeno per la scultura agli anni Trenta del Cinquecento,
appartenne all’abbazia di Staffarda, sembra naturale che la sua commissione procedesse da colui che
volle il corredo del coro, rispecchiandone i gusti complessi, fortemente orientati verso la cultura figurativa settentrionale al trapasso tra l’ultimo gotico e il primo rinascimento oltremontano. Direi che
sarebbe stata una scelta degna di Giovanni Ludovico di Saluzzo aggiungere un’opera di tal carattere e
di tale pregio allo scenario della chiesa abbaziale, ed egli avrebbe potuto disporne in qualche modo
l’esecuzione prima che con la sua rinuncia all’abbazia questa passasse ad altri commendatari, assai
meno interessati a dotarla di un così prezioso segno del loro favore. Non escluderei che l’esecuzione
dell’opera, ritardata dalle vicende travagliate di Giovanni Ludovico, fosse portata a compimento dopo
la sua rinuncia, per cura di uno dei suoi pur problematici successori, specialmente se legati alla casa
marchionale, se non del fratello antagonista Gabriele (morto nel 1548), che pur serbava il tradizionale
patronato dei Saluzzo su Staffarda; uno di costoro o un agente dell’abbazia avrebbe potuto mantenere
i contatti colla bottega di Anversa incaricata della fornitura, magari avvalendosi di una casa commerciale come quella dei Pensa, i quali nel 1536 erano divenuti vassalli del marchesato per il feudo di
Marsaglia. L’organizzazione mercantile ebbe grande parte nella diffusione dei retables fiamminghi.
Tuttavia, allo stato delle ricerche, a queste libere ipotesi non possiamo far seguire una documentata
dimostrazione. In effetti gli intensi rapporti intrattenuti da mercanti piemontesi col settentrione eurpeo
avevano occasionato l’acquisizione di opere brabantine di altissima qualità quale il retable commissionato a Bruxelles da Claudio Villa per San Domenico di Chieri verso il 1470 e quello che all’inizio
del Cinquecento, parimenti eseguito a Bruxelles, ornò nel duomo di Mondovì la cappella dei Pensa, i
quali a Lione importavano prodotti preziosi dai Paesi Bassi. Il prestigioso altare dei Pensa, dedicato ai
misteri della vita di Maria, non lontano dai territori saluzzesi, poté forse ancora esercitare negli anni
Trenta del Cinquecento una sua suggestione sul committente delle opere di Staffarda, il quale peraltro, seguendo gusti più aggiornati, per l’acquisto di un retable di simile carattere, si sarebbe orientato
verso la produzione anversana, ormai prevalente in ambito europeo. Più avanti, verso il 1560, presumibilmente grazie ad analoghe relazioni favorite dalle correnti commerciali che facevano capo ai Paesi
Bassi, una tarda ma pregevole testimonianza di quella produzione e della sua fortuna, un’ancona di
stile ormai pienamente rinascimentale, sarebbe ancor giunta a ornare la cappella di patronato di un
ragguardevole personaggio, Andrea Annoni, amministratore dell’Ospedale Maggiore di Milano, nella
chiesa dei Santi Maria e Giorgio di Annone Brianza.
La presenza di un retable dedicato a vari misteri della Vita della Madonna poteva ben convenire
alla chiesa di Staffarda (intitolata all’Assunzione della Vergine) a motivo della tradizionale devozione
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- Scultore di Anversa, c. 1535, retable
con Storie della vita della
Vergine e dell’infanzia di
Cristo, particolare: Presentazione di Gesù bambino al tempio,
3.09.20
3.09.21 - IDEM, particolare: Transito della Vergine.
3.09.22 - IDEM, particolare: Natività.
315
mariana dell’ordine cisterciense e in particolare della rappresentazione del Transito di Maria che
domina la sezione centrale (in origine integrata dall’Assunzione); anche se in parte i misteri evocati
ricorrono altresì nella quasi coeva, grande ancona dell’altar maggiore; talché si potrebbe supporre che
il retable anversano fosse destinato o a una cappella laterale dedicata alla Madonna, ovvero a un oratorio particolare,
Nell’acquisire l’ancona in questione, possiamo credere, Carlo Alberto era motivato così come per
il ricupero del coro, dallo scopo di salvare, a suo modo, i più pregevoli arredi dell’abbazia di Staffarda
in un sito consono al ricupero di antiche testimonianze artistiche e religiose, ma fors’anche dall’intendimento di assumere nella sfera della sua memoria dinastica quanto poteva evocare i fasti di un’altra
dinastia, di cui la casa di Savoia aveva conquistato il retaggio. Inoltre per le vivide caratteristiche narrative ed espressive, ancora improntate a un’affettuosa devotio tardomedievale, nonostante gli accenti
manieristici, il magnifico retable ben si connetteva alla fascinosa tradizione fiamminga che era rappresentata da alte testimonianze nelle collezioni sabaude. Per tali ragioni e per il momento del suo
arrivo, l’opera non avrebbe trovato nella capella del castello di Pollenzo una collocazione prestabilita,
un suo specifico ruolo liturgico: sull’altare già dominava in funzione di icona la visionaria vetrata con
l’immagine di san Michele vittorioso dipinta su disegno del Palagi nel 1844. Il retable fu pertanto sistemato – come una sorta di incantevole teatro della meditazione, di presepio dei misteri di Maria e dell’infanzia di Cristo, ma anche come un riservato tesoro collezionistico – a lato, sulla parete destra del
breve sacello, dove ancora si scorgono le mensole che lo reggevano.
Note
1
Tale lettera e le seguenti dirette al conte di Castagnetto sono conservate in
AST, Casa di S.M., M. 907, fasc. 1, 13, Costruzione di una nuova chiesa e casa parrocchiale di Stile gotico, 1843-1849. Cfr. G. CARITÀ, Restauro e rinnovo a Pollenzo.
Il castello, il borgo e i “tenimenti” nelle sistemazioni carloalbertine, in Celebranda
Pollentia (Atti del convegno “Pollenzo tutela e valorizzazione dei beni culturali e
naturalistici”, Bra 1983), Bra 1989, pp. 64, 73, n. 40; G. GENTILE, Il coro dell’abbazia di Staffarda, in La fede e i mostri. Cori lignei scolpiti in Piemonte e Valle
d’Aosta (secoli XV-XVI), a cura di G. Romano, Torino 2002, pp. 248-282, in particolare pp. 254 segg.
2
G. EANDI, Statistica della provincia di Saluzzo, Saluzzo 1833-1835, I, p. 210.
Gli stalli del coro erano già ammirati dal vescovo Giacobino Marenco nella visita
pastorale dell’11 agosto 1629: «sedilia chori doctissima manu incisa et sculpta».
Cfr. P. ANSALDI, Cenni di storia di paesi e chiese della diocesi e marchesato di Saluzzo
seguendo le orme dei vescovi, Cuneo 1968, p. 113.
3
I documenti ora citati riguardo alla vicenda del 1841 si conservano in
Archivio Storico Ordine Mauriziano (in seguito ASOM), Staffarda, mazzo 50, fasc.
1258, 1258 bis. Per tale vicenda cfr. P. DI PIRAMO, C. FIORINI, A. SANSOTTA,
L’architettura di Staffarda, in L’abbazia di Staffarda e l’irradiazione cistercense nel
Piemonte Meridionale (Atti del convegno di Staffarda-Revello, 1998), a cura di R.
Comba, Cuneo 1999, pp. 374-375; M. MOMO, Staffarda, i restauri della chiesa di
Santa Maria realizzati da Cesare Bertea nei primi decenni del Novecento, in L’abbazia di Staffarda..., p. 394, nota 30.
4
Per tali comunicazioni cfr. ASOM, Staffarda, mazzo 50, fasc. 1280, Traslocazione nel coro della chiesa di Pollenzo degli stalli esistenti in quella dell’antica
abbazia di Staffarda.
5
Lettera del primo segretario del Gran Magistero mauriziano, Venceslao di
Breme, al conte Trabucco di Castagnetto, intendente generale dell’Azienda della
Casa di S.M., 4 aprile 1846, in AST, Casa di S.M., mazzo 907.
6
Relazione a S.M. dalla regia segreteria del Gran Magistero, 24 aprile 1846, in
ASOM, Staffarda, mazzo 50, fasc. 1280.
7
AST, Casa di S.M., mazzo 907.
8
ASOM, Staffarda, mazzo 50, fasc. 1280.
9
ASOM, Staffarda, mazzo 50, lettera del di Breme al patrimoniale Guinzio, 5
aprile 1846; AST, Casa di S.M., mazzo 907, lettera del di Breme al conte di
Castagnetto, 4 aprile 1846.
10
AST, Casa di S.M., mazzo 907/1.
11
Diversi mandati a favore del Capello per causali complessive sono segnati nei
conti del tesoriere privato di S.M. per l’amministrazione dei servizi segreti degli
anni 1845-1848 (cfr. in AST, Casa di S.M., registri 4337-4340). Non ho rinvenuto
al momento i corrispondenti deconti che, come d’uso, il Capello presentava in forma
analitica. Si inizia il 12 agosto del 1845 con un acconto di lire 2000 e si termina nel
settembre 1848 con un ultimo pagamento «a saldo delle lire 40.370 a cui furono
liquidate dal signor cavaliere Melano primo architetto e disegnatore di S.M. le opere
provviste e dal suddetto eseguite a vantaggio della nuova chiesa di stile gotico a
Polenzo, dell’annesso casino e della casa parrocchiale». Il pagamento dei nuovi
stalli per Staffarda seguì con un acconto di lire 2.000, il 2 marzo 1849, Registro
4341, Conto dei regi servizi segreti per il 1849, nella serie sopra citata.
12
D. MULETTI, Memorie storico-diplomatiche appartenenti alla città ed ai marchesi di Saluzzo, Saluzzo 1829-1833, t. VI passim; IDEM, Memorie storico-diplomatiche [...], pubblicate da E. Dao, Savigliano 1989, t. VII, passim; C.F. SAVIO, L’abazia
di Staffarda (1135-1802); T.G. MANGIONE, All’ombra dell’abbazia: affari della famiglia marchionale e del suo entourage ai tempi della commenda (XV-XVI secolo), in
L’abbazia di Staffarda e l’irradiazione cistercense nel Piemonte meridionale, Atti del
convegno di Staffarda-Revello 1998, Cuneo 1999, pp. 347-367; G. GENTILE, Orizzonti europei del gusto di un abate e marchese dalla vita travagliata: Giovanni
Luodovico di Saluzzo, in L’abazia di Staffarda e l’irradiazione..., pp. 347-367.
13
MULETTI, Memorie storico-diplomatiche..., VI, p. 192.
14
SAVIO, L’abbazia..., pp. 171-172.
15
Ho dedicato agli elementi superstiti del coro un’analisi più particolareggiata,
con più estese considerazioni sulla struttura originaria, lo stile e l’apparato iconografico, in GENTILE, Il coro..., pp. 267-280.
16
ASOM, Staffarda, mazzo 18, fasc. 423.
17
ASOM, Mappe e cabrei, arm. 8, 41. Cfr. DI PIRAMO, FIORINI, SANSOTTA, L’architettura a Staffarda..., fig. 10; GENTILE, Gli stalli dell’abbazia di Staffarda..., p. 257.
18
Tale assetto non risulta dal rilievo del 1845, che rappresenta il coro in una
situazione ormai alterata, ma dal numero delle fiancate minori superstiti: sette
(variamente reintegrate) presso il Museo Civico d’Arte Antica di Torino e quattro
ricuperate nello stipo del leggio del coro ricomposto a Pollenzo. manca dunque una
sola fiancata alla serie di sei per parte richiesta dalla struttura qui prospettata.
19
La datazione di tali stalli è desumibile in via approssimativa dall’iscrizione,
citata dal Muletti, Memorie storico-diplomatiche..., VI, 1833, p. 53, che commemorava il compimento dei lavori della cappella il 1o luglio 1519.
20
Gli atti della visita pastorale di mons. Giacobino Marenco, nel 1629, recano,
dopo l’accenno agli stalli del coro: «super portam illius elevatur magna crux cum
nobilissimo Crucifixo, et hic inde duae statuae, scilicet b. Mariae Virginis et s.
Ioannis». Cfr. ANSALDI, Cenni di storia..., p. 113. Dal «verbale e testimoniali di
stato della casa parrocchiale di Staffarda [...], della chiesa, coll’inventario di tutte le
suppelletili ed arredi sacri in essa esistenti», redatti dall’economo M. Borda il 24
novembre 1840 (ASOM Staffarda, mazzo 50, fasc. 1258 ter) il gruppo del Calvario
appare allora collocato entro l’altare ligneo in capo alla navata sinistra.
21
D.C. FINOCCHIETTI, Coro della badia di Staffarda, in “L’arte in Italia”, IV,
1872, p. 123; IDEM, Della scultura e tarsia in legno dagli antichi tempi a oggi, in
“Annali del Ministero dell’agricoltura, industria e comnercio”, LVI, Firenze 1873,
p. 37 dell’estratto.
22
E. BACCHESCHI, Pelagio Palagi e Gabriele Capello, Mobili neogotici per il
reposoir della Regina nella Margheria di Racconigi, scheda 314, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna, 1773-1861, catalogo della
mostra a cura di E. Castelnuovo e M. Rosci, Torino 1980, I, pp. 328-330, data l’insieme all’inizio degli anni Quaranta.
23
AST, Casa di S.M., mazzo 907/1. Ivi anche la lettera citata di seguito.
24
Sulla formazione tecnica nello stabilimento di falegnameria ed ebanisteria di
Gabriele Capello in Torino e sulla partecipazione di questi alla nascita della Società
di mutuo insegnamento per le Scuole Tecniche gratuite, poi Scuole Operaie di San
Carlo, cfr. i contributi di D. Robotti, C. Daprà, E. Baccheschi, F. Dalmasso, in D.
ROBOTTI (a cura di), Scuole d’industria a Torino. Cento e cinquant’anni delle Scuole
Tecniche San Carlo, Torino 1998, pp. 19-56.
25
AST, Casa di S.M., mazzo 1116, fasc. 6, Lettera del reggente l’Amministrazione della Casa di S.M. al regio mobiliare, 4 luglio 1870. Per le ultime vicende
e la sistemazione di frammenti presso il Museo Civico di Torino, GENTILE, Il coro
dell’abbazia di Saffarda..., pp. 260-267.
26
Cfr. sopra n. 6.
27
Cfr. sopra n. 14.
28
Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, n. 218, “Staffarda abbazia,
interno della chiesa”. La fotografia è menzionata da M. MOMO, Staffarda, i restauri
della chiesa di Santa Maria realizzati da Cesare Bertea nei primi decenni del Novecento, in L’abbazia di Staffarda..., p. 391, n. 23 e riprodotta alla fig. 1. L’ancona firmata da Oddone Pascale fu poi sistemata dinanzi all’abside, sul nuovo altar maggiore costruito dal Bertea sul sito dell’altare cinquecentesco (ibidem, p. 414).
29
ASOM, Staffarda, mazzo 50, fasc. 1280.
30
A meno che si ipotizzi che l’ancona consegnata al Capello fosse proprio
quella di Oddone Pascale e in seguito venisse restituita alla chiesa abbaziale: ma di
una tale poco probabile vicenda al momento non si è trovata documentazione. La
problematica conservazione della chiesa di Staffarda, durante l’Ottocento, non sembra potesse favorire un tale ritorno.
31
Cfr. GENTILE, Gli orizzonti europei..., pp. 357-359; IDEM, Bottega di Anversa.
Circa 1535, Ancona con storie della Vergine e dell’Infanzia di Cristo, in Tra gotico e
rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra di Torino, Museo Civico
d’Arte Antica e Palazzo Madama, a cura di E. Pagella, Torino 2001, p. 140.
32
Per tale produzione e la sua esportazione cfr. L.F. JACOBS, Early Netherlandish carved Altarpieces 1380-1550. Medieval Tastes and Mass Marketing, Cambridge
1998, in particolare pp. 149-208; R. OP DE BEEK, Aspects économiques de la production des retables du gotique tardif, in N. BUYLE e CH. VANTHILLO (a cura di), Retables
flamands et brabançons dans les monuments belges, Bruxelles 2000, pp. 63-78.
33
Per tale retable cfr. G. DERVEAUX VAN USSEL e C. PÉRIER D’IETEREN, Enghien,
Retable marial, in Les retables anversois, XV e-XVI e siècle, a cura di H. Neiuwdorp,
catalogo della mostra, Anversa 1993, pp. 98-105.
34
Il poco spazio in cui fu sistemato il retable sulla parete destra della piccola
cappella del castello di Pollenzo non avrebbe consentito la completa apertura degli
sportelli; è quindi probabile che questi già mancassero quando l’opera vi fu collocata.