C risi bancarie: un problema di governance?
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C risi bancarie: un problema di governance?
C risi bancarie: un problema di governance? Le gravi e numerose crisi bancarie internazionali segnalano senza dubbio un problema di governance della banca ma non solo di questa. Emergono, infatti, criticità più ampie che mostrano situazioni di disallineamento tra la governance reale e quella formale-regolamentare, in un’ottica generale che non manca di suscitare perplessità anche sull’azione della governance sistemica, che spesso non ha impedito comportamenti negativi contrari alle aspettative legittime della clientela. In situazioni di crisi diffusa o epidemica, divengono perciò rilevanti: la robustezza dei sistemi di regolamentazione e controllo, l’impegno a contrastare eventuali fragilità a livello di etica manageriale, la maggiore considerazione della funzione di risk management all’interno della governance aziendale, la corretta interazione di ruolo fra intermediari e mercati. Paolo Mottura Università Bocconi, Milano 1 Necessità di un’analisi e di una risposta Contrariamente alle normali regole di incipit suggerite dalla retorica, la risposta può essere data in premessa: le crisi bancarie evidenziano senza dubbio un problema di governance della banca, ma non solo di questa. La tesi di fondo che l’analisi seguente intende documentare e sostenere è la seguente. Occorre distinguere fra governance reale e governance formale-regolamentare della banca: al «fallimento» della prima non corrisponde necessariamente quello della seconda: questa presenta certamente profili di criticità, che derivano particolarmente dal fatto che il sistema di incentivi prevalente nella banca e nel settore ha determinato una situazione di disallineamento o di devianza della governance reale da quella formale. I modelli di governance formali hanno subito uno stress rilevante e hanno perso efficacia e incisività, a causa anche e soprattutto dei comportamenti degli attori della governance aziendale. Inoltre vi sono indizi sufficienti per sostenere che pure la governance sistemica – cioè l’impianto complessivo delle regole e dei controlli – non è stata all’altezza delle aspettative poiché non ha svolto il suo ruolo istituzionale di assicurare la stabilità delle banche e del sistema. Quindi il problema della crisi di governance deve essere affrontato da diverse angolazioni e su diversi livelli. 1 Greenspan A., Congressional Testimony – Prepared Statement, 23.10.2008. 2 Per utili approfondimenti si suggerisce: Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza in tema di organizzazione e governo societario della banca, Roma, 4.3.2008; Brogi M., Corporate governance e sistema dualistico per banche e assicurazioni, Bancaria Editrice, Roma, 2008; Masera R., La corporate governance nelle banche, Il Mulino, Bologna, 2006 e il relativo intervento di presentazione di A. Finocchiaro, Banca d’Italia, Urbino, 8.5.2007, Tarantola A.M., Il sistema dei controlli interni nella governance bancaria, Banca d’Italia, 6.6.2008; Harm C. , The governance of the banking firm, in Non tutto è chiaro. «I still do not fully understand why it happened» ha recentemente dichiarato A. Greenspan nella sua testimonianza al Congresso1. Questo è un caveat necessario, anche perché il dipanarsi delle crisi bancarie e il loro studio a posteriori fornirà certamente nuove, diverse e più approfondite chiavi di lettura. Si deve pure precisare, in premessa, che tutte le considerazioni seguenti riguardano la generalità delle banche maggiori, sebbene esse facciano prevalente richiamo alla genesi e ai caratteri della crisi scatenante dei mutui sub-prime: infatti il contagio diffusivo innescato da questa ha messo in evidenza la criticità della governance non solo delle banche commerciali e di investimento americane, ma anche di quelle britanniche e di quelle euro-continentali, pur con qualche ritardo temporale. 2 Definizioni, fallimenti e ricerca delle responsabilità A scanso di equivoci è importante chiarire che uso si intende fare della nozione di governance, dato che i suoi contenuti e confini sono assai imprecisi. Per quanto riguarda i contenuti qui si preferisce fare riferimento all’aspetto economico-sostanziale più che a quello regolamentare-formale che – con riferimento alla banca, e forse giustamente – prevale nella letteratura specifica2, invero non particolarmente abbondante. AA.VV., Corporate governance in financial institutions, SUERF Studies, 2007/3; Gup B.E., Corporate governance in banking. A global perspective, Edwar Elgar, Cheltenham (UK) 2007. 15 CONTRIBUTI Questa scelta implica pure una maggiore estensione dei confini, prendendo in considerazione, oltre alla corporate governance, il livello superiore e più generale dell’economic governance3, poiché – come sarà dimostrato, per quanto a priori intuibile – la spiegazione della crisi conduce inevitabilmente a considerare la governance di sistema. Che si debba parlare di «fallimento» della banca e perciò della sua governance non c’è dubbio. È appena il caso di chiarire che qui il termine fallimento traspone direttamente il termine anglosassone di failure, il quale prescinde totalmente da qualsiasi connotazione giuridico-formale: fallisce ogni istituzione che non corrisponde alle aspettative legittime – si noti, non solo contrattuali, ma anche psicologiche e implicite – dei soggetti che hanno con essa relazione. Muovendo perciò dall’identificazione di queste aspettative, pare evidente che da sempre il pubblico (famiglie, imprese e così via) ha consolidato e interiorizzato che la banca è un’istituzione (ancor prima di essere impresa e organizzazione) connotata dai seguenti caratteri e capacità, fondanti e non rinunciabili: assorbire rischio di credito, assorbire volatilità dei mercati mobiliari, produrre passività liquide e/o non rischiose, corrispondere alla domanda di credito (meritevole) dell’economia reale. Le banche non hanno soddisfatto queste aspettative: in particolare esse, nell’insieme sistemico, hanno prodotto «esternalità negative» – concetto ben noto in economia – e posto i loro «costi» a carico della collettività, grazie e tramite l’intervento (rifinanziamento, salvataggio, capitalizzazione) dell’istituzione pubblica. Si tenga presente che l’esternalità negativa assume forme o livelli gerarchicamente ordinati: su quello più basso l’inadempienza contrattuale della banca verso i clienti e, risalendo ai livelli superiori, la non risposta alle attese di finanziamento dell’economia reale e, ancora sopra, l’eventuale distruzione del valore per gli azionisti. L’indice Msci World riferito alle banche quotate nelle rispettive valute segnala total returns fortemente negativi: –12,4% nel secondo semestre del 2007, – 22,9% nel primo semestre del 2008, – 32,0% nel secondo semestre 2008 (fino a novembre compreso), – 55,3% dal massimo del 31 maggio 2007 al minimo del 28 novembre 2008. Non c’è dubbio che alla nozione di fallimento della banca corrisponda simmetricamente quella di fallimento della sua 3 Dixit A.K., «Economic governance», in The Palgrave Dictionary of Economics, McMillan 2008, pp. 667-674. 16 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008 governance intesa – occorre precisarlo – in senso economicosostanziale (occorrerà chiamarla governance reale). Precisazione necessaria, poiché non si può e non si deve semplicisticamente concludere che consegua pure, necessariamente, il fallimento della governance regolamentare-formale e, si potrebbe aggiungere, organizzativa, cioè del «modello di governance». Il fallimento di quest’ultimo potrebbe alternativamente dipendere dalla circostanza che i soggetti che rivestono i ruoli organizzativi rilevanti ne hanno – per diversi motivi e in diversi modi – impedito o alterato il corretto funzionamento: in altre parole non un difetto di progettazione, bensì un errore (consapevole o meno) di applicazione e di gestione del modello stesso, per esempio attribuibile al difetto di competenze delle persone preposte ai diversi ruoli. Ne consegue che, in termini di campo di indagine, occorre trovare spiegazione del fallimento (evento accertato) della governance reale, che a sua volta potrebbe derivare da circostanze diverse reciprocamente non esclusive: errata progettazione e inadeguatezza del modello di governance e/o incompetenza-incoerenza degli «agenti organizzativi» interni e/o ancora circostanze esogene impedienti il corretto funzionamento del modello. Come si vede l’articolazione esplicativa è complessa e la complessità induce cautela, particolarmente nell’identificazione dei responsabili. Dato che l’elemento costitutivo principale dell’esternalità negativa è il rischio, verrebbe d’istinto concludere sbrigativamente che il colpevole sia il risk management (impianto organizzativo-funzionale della funzione di controllo) o/e il risk manager (persona preposta a quel ruolo professionale e alla corrispondente mansione). La citazione riportata nel Quadro 1 – si tratta ancora della testimonianza di Greenspan al Congresso americano – suggerisce una spiegazione, ma non tutta la spiegazione. Per correttezza occorrerebbe aggiungere che, nel caso dei modelli di risk management specificamente dedicati all’assesment dei rischi generati dai finanziamenti sub-prime, la menzionata serie storica dei dati di input semplicemente non esisteva, dato che quella era una nuova area di attività degli intermediari, i quali vi «entrarono» intorno alla metà degli anni Novanta. I risk managers hanno comunque evidenti responsabilità al riguardo. Pur mancando i dati di input, la semplice si- mulazione di una marcata inversione di tendenza dei prezzi del mercato immobiliare avrebbe posto in luce sia probabilità di insolvenza assai maggiori, sia correlazioni positive più forti fra i rischi dei mutuatari individuali, facendo cadere qualsiasi argomento di granularità elevata dei portafogli di mutui. Quadro 1 I modelli di risk management In recent decades, a vast risk management and pricing system has evolved, combining the best insights of mathematicians and finance experts supported by major advances in computer and communications technology. This modern risk management paradigm held sway for decades. The whole intellectual edifice, however, collapsed in the summer of last year because the data inputted into the risk management models generally covered only the past two decades, a period of euphoria. Had instead the models been fitted more appropriately to historic periods of stress, capital requirements would have been much higher and the financial world would be in far better shape today, in my judgment. A. Greenspan in Congressional Testimony, 23.10.08 3 Esiste qualche correlazione fra intensità e tipologia delle crisi bancarie e caratteri dei modelli di governance delle rispettive banche? Occorrerebbero delle analisi approfondite. Il tema di ricerca è interessante e rilevante. I primi accertamenti necessariamente sommari e approssimativi tenderebbero a confermare una risposta negativa (con un primo sospiro di sollievo dei financial regulators e controllers, che tuttavia non basta a tranquillizzare). Senza ricostruire la lista, del resto largamente nota, delle banche commerciali e di investimento in crisi, e perciò non classificando le stesse secondo il tipo di crisi (per fattore genetico e condizione scatenante: svalutazione degli attivi, illiquidità, rischio di controparte, e così via), si può proporre di saltare alla conclusione che i modelli regolamentari-formali della governance delle banche in crisi (si ricordi, tutte grandi banche e in posizione centrale nei rispettivi sistemi): • non sembrano presentare diversità significative in relazione alla varietà dei tipi di crisi; • appaiono anzi piuttosto uniformi e certamente omologati al modello regolamentare di riferimento, • anzi, essi venivano giustamente indicati come esemplari, poiché corrispondevano a standard qualitativi elevati e veni- vano dotati di risorse di pregio (per esempio i migliori modelli di stima, le migliori base-dati, i migliori impianti informatici, le migliori procedure di controllo). Particolarmente conclusiva è l’osservazione che i modelli di governance delle banche colpite da crisi sono sostanzialmente gli stessi di quelli adottati dalle banche che ne sono state esenti (per ora). Ci si sarebbe potuto aspettare che essi mostrassero qualche profilo distintivo di fragilità. È quindi molto probabile che l’adeguatezza dei modelli di governance possa essere messa fuori discussione, pur mantenendo un livello elevato di prudente attenzione sia sui modelli di risk management sia sul loro impiego con dati e in condizioni possibilmente «impropri». 4 ...oppure è stato un evento rispetto al quale ogni previsione, prevenzione e protezione erano impossibili? Certamente le crisi delle banche non possono essere imputate a malaugurata fatalità, il che escluderebbe ogni responsabilità della governance reale e del modello di governance. Che non si sia trattato di fatalità è confermato dalle seguenti circostanze, ormai ampiamente documentate: • i criteri di concessione dei mutui residenziali erano ai limiti (e anche oltre) della «sana e prudente gestione» poiché l’importo del finanziamento copriva quasi interamente il prezzo della garanzia immobiliare, • le garanzie date dagli originators e dai lenders – di riacquisto di attivi problematici e di linee di credito per liquidità – ai veicoli delle cartolarizzazioni erano strumentali al trasferimento dei crediti (e non dei rischi), ma creavano a carico dei garanti stessi un «peso» di passività non iscritte a bilancio, poi chiamate shadow liabilities, • le strutture attivo-passivo dei veicoli erano caratterizzate da condizioni di mismatching a rischio di liquidità, • gli strumenti di quality signalling (gli investment grades delle agenzie di rating), di credit enhancement (le garanzie interne menzionate sopra e quelle esterne, come i credit default swaps) e di liquidity enhancement (offerta di market making delle banche di investimento) venivano spesso impiegati con disinvoltura. E così via dicendo4. 4 Mottura P., «Crisi sub-prime e innovazione finanziaria», in Bancaria, n. 2/2008. 17 CONTRIBUTI Gli autori e gli attori di queste transazioni, innovazioni, scelte gestionali ne erano ovviamente informati, pur non avendo singolarmente un campo di visuale abbastanza ampio per acquisire e combinare conoscenze sufficienti a innescare la percezione-ipotesi di un «rischio di deflagrazione», di un punto di rottura. Così è probabile che sia: la non prevedibilità dell’innesco della crisi e del suo carattere di reazione a catena. Prendendo in prestito un’immagine metaforica dalla chimica: un’imperfetta conoscenza delle reazioni e trasformazioni potenzialmente conseguenti a una data, mai prima sperimentata, combinazione di elementi. Quanto prevedibile era l’evento «reazione chimica»? A questo interrogativo ne segue un altro: una reazione chimica non conosciuta, ma eventualmente solo temuta, può essere tenuta in conto, incorporata – in quanto evento imponderabile – in un modello di risk management? Si consideri anche la situazione delle banche coinvolte nella crisi di rimbalzo, per contagio, rispetto alle quali valeva una condizione di forte asimmetria informativa, ovviamente subita (ne sapevano meno delle altre banche già viste, le quali non ne sapevano abbastanza). Esse non erano centrali nel processo produttivo origination-securitization, bensì prenditori finali (per esempio Ubs, acquirente di Cdo) oppure erano soltanto utenti delle stesse «infrastrutture», come i mercati monetari (per esempio Northern Rock), oppure delle controparti di scambio, come le imprese di assicurazione venditrici di protezione (per esempio Aig, venditrice di Cds). Delle investment banks si parlerà ancora in seguito poiché nei loro confronti non regge l’ipotesi di asimmetria informativa o di informazione parziale; come si vedrà, esse «non potevano non essere informate dei fatti». Vale ora la pena di approfondire la nozione di crisi bancaria, in quanto evento raro e realisticamente ipotizzabile. Questo era forse prevedibile, ma con livelli di stima di probabilità non quantificabili e comunque assai bassi, anzi infinitesimali, se non altro perché il sistema di transazioni in atto contava sulla presenza di soggetti ritenuti responsabili e razionali. Si poteva anche immaginare che questo evento, oltre ad essere assai improbabile, avrebbe avuto un impatto devastante: un low probability hight impact risk, cioè un rischio non precisamente conoscibile (non se ne ha conoscenza storica), ma assai remoto e letale. È importante distinguere fra questo evento, realisticamente ipotizzabile (non appartiene al regno della fantasia), e quello non ipotizzabile, riferito a un evento ignoto a priori e ipotizzabile solo nella dimensione «fantastica», come nel caso del cigno nero (l’ormai famoso black swan di N. Taleb). Rispetto a questo secondo tipo di evento si può invocare la nozione di fatalità, ma non certamente per le crisi bancarie attuali. Qui emerge un problema concettuale affascinante, peraltro ben noto a chi costruisce i modelli di determinazione del Value at Risk, ma purtroppo meno presente a chi ne fa uso pratico. La previsione del low probability high impact risk, e in particolare delle sue conseguenze, non può essere incorporata nelle decisioni gestionali. La prevenzione di questo rischio sarebbe autodistruttiva (evitare il rischio implica rinuncia all’attività, redditizia, che lo genera) e la protezione da esso sarebbe antieconomica (la copertura del rischio comporterebbe livelli di liquidità e di capitalizzazione «assurdi»). Una metafora può Quadro 2 La crisi di liquidità di Northern Rock I top manager avevano sviluppato la banca con un modello di business centrato sul wholesale funding a breve termine per sostenere il bridge financing dei mutui concessi, nel breve periodo intercorrente fra la erogazione e la cartolarizzazione. La continuità del collocamento delle asset backed securities generate dalla cartolarizzazione e dal rinnovo dei debiti all’ingrosso, eventualmente con controparti diverse, veniva data per scontata poiché gli attivi originati e trasferiti da Northern Rock avevano ottima qualità di rischio (riconosciuta sia dai revisori, sia dagli organi di controllo). I veicoli della cartolarizzazione erano del tutto stabili, bilanciati e consolidati nel bilancio della banca. Il rischio di liquidità o funding risk veniva considerato nullo poiché correlato ad un’ipotesi di infinitesimale probabilità del market liquidity risk. Del resto Northern Rock inviava regolarmente liquidity reports trimestrali (dal 1997) alla Financial Services Authority: da essi appariva chiaramente la relazione fra rischio di liquidità e indebitamento all’ingrosso. Nel settembre 2007 Northern Rock non trova controparti disposte e sufficienti per il rinnovo di questi debiti e chiede l’intervento di rifinanziamento della Bank of England. Ciò innesca subito la «corsa» dei depositanti agli sportelli. L’evento accaduto – in pratica, la decisione dei finanziatori all’ingrosso di riprendere piena disponibilità della propria liquidità in vista degli effetti destabilizzanti riverberati dalla crisi sub-prime statunitense sul valore degli attivi e sulla liquidità del mercato – era chiaramente prevedibile ma veniva considerato altamente improbabile5. Fra l’altro l’evento segnala una condizione di effective seniority dei finanziatori all’ingrosso rispetto ai depositanti: ciò pone un grave problema di moral hazard poiché gli organi di controllo, dai quali si attende tutela dei depositanti (inconsapevoli e deboli), subirebbero il comportamento opportunistico dei prestatori all’ingrosso (presumibilmente informati e forti). 5 Per un’analitica descrizione: Llewellyn, D.T., «The Northern Rock crisis: a multi-dimensional problem waiting to happen», in Journal of financial regulation and compliance, vol. 16, n. 1, 2008 e Mottura P., «La Northern Rock e la sua crisi di liquidità: un caso di gestione del passivo» in Bancaria, n. 6/2008.A posteriori è facile sostenere qualsiasi affermazione coincidente con l’accaduto: in realtà e a priori, l’evento shut down of the wholesale markets era considerato un evento «fantastico», come si desume dai verbali della Commissione Parlamentare che interrogò i vertici di Northern Rock (FT, 17.10.2007). 18 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008 aiutare. Se la probabilità di disastro aereo con effetto mortale ha valore infinitesimale, si è bensì in grado di determinarla, ma la prevenzione del rischio implicherebbe ovviamente la rinuncia a volare. Alternativamente non sarebbero economicamente sostenibili, benché tecnicamente possibili, misure di protezione dal rischio che salvino il soggetto interessato in caso di incidente. In questi casi la decisione di salire sull’aereo è necessariamente «fatalistica», ma l’evento non può propriamente definirsi fatalità. Al riguardo il caso Northern Rock è emblematico (si veda il Quadro 2), e porta a concludere che il successivo evento «illiquidità» non è imputabile ad un difetto di progettazione o di funzionamento del modello di governance e della sua funzione di risk management. Semplicemente il top management aveva deciso di «correre quel rischio», in quanto remoto. Si noti: non si trattava di un «rischio calcolato». Si aggiunga pure che Northern Rock non avrebbe, singolarmente, potuto adottare strutture del passivo meno esposte (maggiore capitalizzazione, rinuncia al wholesale funding, rallentamento della cartolarizzazione, maggiore ricorso allo sviluppo lento dei depositi), poiché ciò avrebbe comportato inaccettabili svantaggi competitivi rispetto ai concorrenti. Alliance & Leicester, Bradford & Bingley e Halifax Bank of Scotland adottavano lo stesso modello di business. Nel caso che il confronto competitivo induca le imprese concorrenti all’assunzione di rischi eccessivi, è compito dei financial controllers rendere più stringenti e rigorosi i parametri di funzionamento e di applicazione dei modelli di risk management, come del resto previsto dal 2° pilastro di Basilea 2. Anche Fsa e BofE consideravano evidentemente remoto, ancorché letale, il rischio di Northern Rock6 e evidentemente decisero – come il suo management – che «il rischio fosse accettabile» pur sapendo che esso – in caso di accadimento – non era «sostenibile»: si profila perciò un interrogativo in relazione alla tenuta e all’adeguatezza della governance sistemica, di cui si parlerà in seguito7. Questo tipo di rischio «imponderabile, letale e remoto» induce nel manager razionale un sentimento di inquietudine: la finanza quantitativa lo ha allevato nella cultura del «rischio calcolabile e calcolato». A questa cultura «manca un pezzo» importante, cioè l’apprezzamento qualitativo e psicologico del rischio (la prudenza?): i modelli di risk management misurano e calcolano tutto, tranne l’imponderabile. In conclusione va osservato che, nella banca, questo rischio è strutturale, poiché la riserva di liquidità è comunque una frazione del passivo: il problema sta pure nella circostanza che la concorrenza bancaria – come si vedrà in seguito – induce il management a operare con percentuali di riserva sempre minori. In proposito gli organi di regolamentazione e controllo devono adottare adeguate regole e sorvegliarne l’effettivo rispetto. Il rischio di illiquidità è catastrofico perché contagioso: l’illiquidità da evento incerto e remoto per la singola banca è diventato evento certo per tutte le banche. Comunque la gestione della liquidità di molte banche britanniche era ormai da tempo in zona a rischio di sostenibilità: la pratica del wholesale funding era largamente diffusa e la componente liquida dell’attivo patrimoniale si aggirava ormai intorno all’1%8, e in realtà molte banche contavano sulla liquidità di altre banche ormai non più disposte a concederne l’uso a terzi, ritenendo di averne un bisogno potenzialmente immediato. Il modello di business emergente è stato definito secondary bank, a indicare un tipo di banca che non ricorre più principalmente a fonti originarie di risorse finanziarie (famiglie e imprese non finanziarie), ma ricorre sistematicamente a modalità di raccolta che intermediano rispetto alle fonti originarie, come la cartolarizzazione e l’indebitamento all’ingrosso. Si tratta, a ben vedere, di una scelta di «deintegrazione verticale», o di outsourcing del funding, con conseguente effetto di dipendenza da, oppure di ingegnerizzazione di, una supply chain. Concetto che tornerà utile in seguito. Per ora occorre però porsi pure la domanda se i modelli di governance, e in particolare di risk management, presentino un grado adeguato di flessibilità e di adattamento alla specificità del modello di business. Il caso di Northern Rock evidenzia l’inadeguatezza del modello di governance rispetto al cambiamento-innovazione del modello di business. La sperimentata instabilità del modello della secondary bank ha ovviamente portato a rivalutare molto la banca dotata di ampie, diversificate e frazionate basi di raccolta tradizionale9. 6 Il rischio di illiquidità del mercato all’ingrosso poteva essere realisticamente considerato «trascurabile»: Goodhart C., Now is not time to agonise on moral hazard, FT, 19.9.2008. 7 Il richiamo a una più efficace governance sistemica viene dall’alto: Strauss-Kahn D., A systemic crisis demands systemic solutions, FT, 23.9.2008. 8 Bank of England, Financial Stability Report, ottobre 2008, Chart 5.14: nel 1968 gli asset liquidi pesavano fra il 30 e il 12% sull’attivo patrimoniale delle banche britanniche, a seconda della definizione, ampia o restrittiva adottata. 9 Hughes C., Well-established banks best placed to reap rewards, FT, 9.10.2008. 19 CONTRIBUTI 5 La possibile divaricazione fra governance reale e modello formale della governance I modelli regolamentari, formali e organizzati della governance, nell’insieme, reggono a una valutazione critica, sebbene qualche considerazione dubitativa possa essere fatta sull’impiego – tendenzialmente «fideistico» – di modelli quantitativi per la misurazione e la stima dei rischi, la cui robustezza non era forse stata adeguatamente collaudata con rigorose procedure di back test. Ma, si noti: una cosa è la correttezza dell’impianto del modello di stima (ipotesi assunte, teoremi utilizzati, algoritmi, ecc.), diversa cosa è la correttezza dell’uso del modello da parte dei professionals, cioè degli stessi risk managers (controllo degli inputs, analisi di sensibilità, stress test), e cosa ancora diversa è la trasmissione e l’uso degli outputs ottenuti per alimentare le decisioni di impresa. Conviene lasciare all’immaginazione la possibile trasformazione dell’informazione in cui l’incertezza è incorporata in una misura di rischio, o in un intervallo di confidenza, in una informazione che viene invece ricevuta, percepita e capita in modo diverso, per esempio come definizione di campo e di condizioni in cui è corretto e prudente operare. Dietro la comunicazione di un Value at Risk ad un consiglio di amministrazione si annida inevitabilmente un «equivoco» potenzialmente insidioso. Questa linea di indagine apre il campo alla considerazione fondamentale che, quale che sia l’«organizzazione formale», esiste sempre e si forma dovunque un’«organizzazione reale», in parte diversa, e talvolta deviante, se non altro per la circostanza che l’organizzazione viene fatta funzionare da persone, ognuna dotata di propri caratteri distintivi (cultura, personalità,…). La supposta precisione «meccanica» (regole, procedure e gerarchia) dell’organizzazione non deve illudere in merito al fatto che essa possa limitare la discrezionalità delle persone: queste hanno comunque influenza – a seconda della loro posizione organizzativa – sui processi decisionali-esecutivi, scegliendone gli inputs, gestendone le condizioni di svolgimento e interpretandone gli outputs. Per tutto ciò conviene da ora concentrare l’attenzione sugli aspetti qualificanti della governance reale, assumendo l’ipotesi che quest’ultima – e non il modello regolamentare formale – sia imputabile delle crisi bancarie. 20 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008 L’aspetto, al riguardo essenziale, da cogliere è il seguente: il modello regolamentare e formale della governance è, quasi per intero, esogeno rispetto alla operatività di impresa, poiché è in larga parte un riflesso organizzativo di leggi e regole derivanti da istituzioni esterne preposte – si noti – alla governance di sistema (organi legislativi, esecutivi, di vigilanza, ecc.), mentre la governance reale è in prevalenza endogena in quanto «luogo effettivo» di decisioni e di azioni rivolte a realizzare le finalità istituzionali della banca nel suo ambiente-mercato, con i suoi clienti e prodotti, con il suo personale e con i suoi mezzi tecnici, per i suoi azionisti e così via. In definitiva: la conduzione dell’impresa, ed in particolare il modo di gestione, riflette largamente il sistema degli incentivi «contestuali», cioè il sistema di premi-sanzioni conseguente al recente ridisegno dell’attività degli intermediari finanziari, fondato essenzialmente su scelte di privatizzazione, deregolamentazione, despecializzazione, concorrenza di mercato, generazione di valore, tutela del consumatore, remunerazione della proprietà, responsabilizzazione dei quadri dirigenti. Stringendo l’argomento: governance è comportamento e questo riflette il sistema degli incentivi in atto. Se si condivide questo approccio si deve proseguire sul sentiero dell’identificazione dei caratteri fondanti e qualificanti del contesto, per ricavarne una realistica lettura del sistema di incentivi che ha formato (deformato, conformato,…decida il lettore) la cultura – cioè i modelli condivisi di pensiero e di azione – dei managers, e pure degli altri stakeholders rilevanti per la governance reale. 6 Fattori e cambiamenti recenti influenti sulla governance reale Il metodo descrittivo scelto – per ragioni di chiarezza, ma anche con eventuali effetti di semplificazione – propone dei quadri o ambiti cui vengono attribuiti i principali fattori e cambiamenti. Ogni classificazione presenta aree di incertezza e zone grigie. Il suggerimento importante per una lettura focalizzata al problema riguarda il costante impegno a immaginare la complessa interazione e sinergia fra i vari elementi nella «formazione di un contesto» che suggerisce o sconsiglia, pre- Quadro 3 Quadro 5 Profili di regolamentazione e controllo Condizioni di sviluppo dell’intermediazione creditizia – settore maturo • • • • • • • • • • • Eliminazione delle barriere fra commercial banking e investment banking. Privatizzazione delle strutture proprietarie. Orientamento degli ordinamenti a despecializzare e a liberalizzare. Creazione di condizioni più favorevoli alla concorrenza. Ricorso crescente a modelli di autoregolamentazione dei soggetti vigilati, subordinatamente alla validazione degli organi di controllo. Centralità e priorità del criterio dell’adeguatezza del capitale proprio e della nozione di solvibilità (Basilea 1 e 2). Subordinazione concettuale del rischio di liquidità al rischio di solvibilità. Insufficiente vigilanza sulle condizioni di impiego dei modelli quantitativi di risk management e sulle condizioni di applicabilità di alcune innovazioni (per esempio, gli Ias presuppongono una condizione di elevatissima efficienza dei mercati mobiliari). Introduzione di meccanismi regolamentari prociclici. Insufficiente monitoraggio e regolamentazione dell’innovazione finanziaria rispetto a: crescita degli strumenti derivati, sviluppo in ambiente Otc dei contratti di assicurazione e trasferimento del rischio (Cds), procedure e metodologie delle agenzie di rating, formazione di filiere di intermediazione esterne ai confini vigilati. Frammentazione dei ruoli di controllo dentro e fuori la banca con effetti di opacità, e di free riding. Quadro 4 Condizioni del macrocontesto economico, finanziario e monetario • • • • • • Alta concentrazione della ricchezza e dei redditi (Usa e Uk) e funzione distributiva del credito, in una situazione di elevata dipendenza-destinazione del Pil rispetto ai consumi. Abbondanza di liquidità e connesso basso livello dei tassi di interesse nominali, per periodi lunghi. Tasso di interesse reale sostanzialmente nullo. Crescente finanziarizzazione dell’economia (unità di debito necessarie per produrre un’unità di Pil). Situazione di asset inflation fortemente sostenuta dall’innovazione finanziaria: veicoli di cartolarizzazione, modelli e strumenti di pricing del rischio, di rating del rischio, di assicurazione-trasferimento del rischio di credito (Cds). Sviluppo di tecnologie informatiche «abilitanti» applicate alla comunicazione, al pricing, alle transazioni, ecc. mia o sanziona alcuni comportamenti e non altri. Questa elaborazione «immaginaria», ma sorretta dall’osservazione continua di situazioni e realtà poliedriche e diverse, viene necessariamente lasciata al lettore. Il Quadro 3 riassume i profili della regolamentazione e del controllo, il Quadro 4 le condizioni dominanti del macro-contesto monetario e finanziario, il Quadro 5 le condizioni di sviluppo dell’intermediazione creditizia. Si capisce subito che la descritta triangolarità – spontanea- • • • • • • • • • Aumento e generalizzazione della competizione. Contrazione del margine unitario di interesse. Dominanza culturale, psicologica e competitiva dello shareholder value model10 e conseguente primato della redditività sulla liquidità. Necessità di generare le condizioni di un «ciclo di trasformazione del settore»11, cioè di reimpianto del modello strategico e di business. Maggiori sinergie, esistenti e potenziali, fra intermediazione creditizia e intermediazione mobiliare per il tramite della cartolarizzazione degli attivi non liquidi. Onerosità della remunerazione del capitale proprio regolamentare. Opportunità di ingresso e di sfruttamento di nuove aree strategiche di business (come il finanziamento sub-prime) stimate attraenti per il profilo rendimento-rischio. Metodi innovativi di gestione della liquidità. Forte sviluppo di professionalità – consulenza, progettazione, ingegnerizzazione, valutazione, brokeraggio, dealing, market-making, ecc. - utili per le concrete applicazioni e l’efficace industrializzazione dell’innovazione finanziaria. mente sinergica – di situazioni, condizioni e forze in campo. • da un lato costituisce un «terreno» ideale per la germinazione e la crescita di nuovi modi, metamorfici, di «fare e di essere banca», con generale soddisfazione dei produttori, dei consumatori e dei regolatori-vigilanti, che benignamente e con compiacimento osservano l’imprenditorialità innovante (non è forse stato così fino alla primavera del 2007?), • dall’altro pone le (migliori) premesse per la formazione di un «triangolo delle Bermude» in cui vengono misteriosamente (non tanto) risucchiate, fino a scomparire, le funzioni di controllo e di risk management, cioè una parte sostanziale del modello formale della governance, e soprattutto l’etica della sana e prudente gestione. La semi-metafora può andare impietosamente più avanti poiché le autorità di controllo non hanno visto sui loro schermi radar, pur accesi, che i modelli formali di governance stavano cessando di funzionare: perciò l’immagine-quadro si completa con la figura dei «vigilanti non vedenti», oppure – ricorrendo a una pennellata giornalistica del Financial Times – «sleeping at the driving wheel». Si deve perciò tornare sul quesito centrale di quando, come e perché si è formato un modello di governance reale fecondo di esternalità negative, una governance deviante, a prescindere dalla ricerca dei responsabili e dall’attribuzione delle re- 10 Connotazione valoriale specifica, che evoca l’aspettativa negativa del monito virgiliano «quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames » ... secondo Thaler e Sustein (citati nella nota 16) «regulators therefore need to help people manage complexity and resist temptation». 11 Volpato G., Per una ridefinizione dell’approccio strategico: il ciclo di trasformazione del settore, Economia e politica indutriale, giugno 1980. Il modello di business di Northern Rock è un esempio pertinente ed efficace di «trasformazione». 21 CONTRIBUTI sponsabilità12, che dovrà essere perseguita in un secondo momento, dopo aver capito (….più del citato A. Greenspan?). 7 L’invenzione di modelli di business innovativi, rivolti a perseguire e a ottenere la crescita del Roe Si sa che questi modelli di business hanno avuto invenzione e origine negli Stati Uniti e, in parte, in Inghilterra. Peraltro i banchieri americani e britannici hanno trovato buoni allievi nell’Europa continentale e altrove, benché in contesti di controllo più vigilanti e, forse, in presenza di minori opportunità di circonvenzione delle regole (circumventing innovation) e di minori pressioni da incentivi. Condividendo per una volta l’opinione di A. Greenspan – riportata nel Quadro 6 – l’invenzione del modello originationsecuritization oppure originate to distribute deve essere attribuita al ruolo innovativo delle banche commerciali (lenders di primo livello) impegnate nello sviluppo dei finanziamenti subprime: queste aumentavano vertiginosamente la domanda di cartolarizzazione, avendo la duplice opportunità di concedere volumi crescenti di prestiti ipotecari e di soddisfare, con le asset backed securities di nuova generazione, una domanda altrettanto crescente di attività finanziarie caratterizzate da un profilo rendimento-rischio attraente e competitivo, visto il calo concomitante dei tassi risk-free. In altre parole: vi erano le premesse essenziali affinché si formasse – venisse costruita – una pipeline fra mutuatario iniziale e investitore finale. La pipeline era ovviamente dotata delle più moderne soluzioni tecniche: mezzi di estrazione, regolatori di flusso, controlli di processo, luoghi di stockaggio, stabilimenti di trasformazione (processi di cracking e distillazione,....e che cos’altro sarebbero le tecniche di tranching?), stazioni di pompaggio, controlli di output, sistemi di sicurezza, procedure di emergenza, logistica della distribuzione. Se non piacesse l’immagine della pipeline, si ricorra al concetto di supply chain, rispetto al quale vale la pena di sollevare il quesito delle relazioni fiduciarie-collaborative fra i soggetti partecipanti, per proporre l’eventuale ricorso a un’immagine ancora diversa, e inquietante, quella della financial food chain (catena alimentare notoria- 12 Kay J., Banks got burned by their «innocent» fraud, FT, 15.10.2008. 22 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008 Quadro 6 Genesi del nuovo modello di business The evidence strongly suggests that without the excess demand from securitizers, subprime mortgage originations (undeniably the original source of crisis) would have been far smaller and defaults accordingly far fewer. But subprime mortgages pooled and sold as securities became subject to explosive demand from investors around the world. These mortgage backed-securities being «subprime» were originally offered at what appeared to be exceptionally high riskadjusted market interest rates. But with U.S. home prices still rising, delinquency and foreclosure rates were deceptively modest. Losses were minimal. A. Greenspan, in Congressional Testimony, 23.10.08 mente rappresentata da gerarchia e interdipendenza fra carnivori ed erbivori, predatori e predati...)13. Dietro queste immagini utilmente evocative occorre concentrare l’attenzione sulla necessità – emergente dal Quadro 5 – che era importante fare «molto e presto». In presenza di margini di interesse unitari calanti, volume e velocità erano diventati condizioni essenziali e irrinunciabili di un modello competitivo orientato alla sopravvivenza. Il modello di intermediazione creditizia emergente sfrutta la cartolarizzazione come condizione necessaria – ancorché non sufficiente – per ottenere un effetto di sostanziale aumento della produttività dei due fattori fondamentalmente condizionanti dello sviluppo della «produzione»: la riserva di liquidità e il capitale proprio regolamentare. Il Quadro 7 illustra semplicemente le relazioni fra le quantità rilevanti e le azioni finalizzate a produrre margine di interesse (prezzo per quantità, nell’unità di tempo), risparmiando riserva di liquidità e capitale economico regolamentare. Si tratta della rappresentazione semplificata del nuovo modello di business. È importante porre attenzione ad alcuni ingredienti qualificanti della «nuova ingegneria»: le regole di quantificazione del margine, la sua distribuzione, l’allocazione del rischio. Essi riguardano in via principale e specifica proprio quei securitizers sopra menzionati. Il margine «industriale» dell’intermediario originator è costituito dalla differenza fra il prezzo di cessione del portafoglio di prestiti ceduto e il suo valore «a libro»: il prezzo viene determinato con il metodo dell’attualizzazione dei flussi di cassa futuri del portafoglio venduto. In proposito svolge quindi un ruolo determinante la scelta del tasso di attualizzazione, che 13 Milne R., Sum of the parts. Supply chains that went global over the past decade suddenly look vulnerable, FT, 17.11.2008 e Stein B., «In financial food chains, little guys can’t win», in The New York Times, 28.9.2008. deve ovviamente comprendere una corretta stima del premio al rischio. Se questo viene sotto stimato (underpricing) risulta evidente che si attribuisce un sovra-profitto all’attività di origination, con simmetrico impoverimento della parte di valore alternativamente attribuita alle attività a valle dell’origination e in modo (si noti) residuale, all’investitore finale. Peraltro, dato che questo elemento di residualità induceva l’investitore a chiedere una remunerazione maggiore, la negoziazione del prezzo di cessione veniva «elaborata» con alcune modalità, sinergiche, idonee a sostenere il prezzo di cessione: • la scelta di aumentare lo spread fra il rendimento medio ponderato degli attivi acquistati dai veicoli (structured investment vehicles, conduits, ecc.) e le passività (asset backed securities) emesQuadro 7 Rifondazione dell’intermediazione creditizia: aumento della produttività delle risorse scarse Variabile obiettivo: Roe in crescita 쑼 (Più) Return 쑿 on 쑼 (Meno) Equity 1) Aumentare volume e velocità Marg. Totale = Marg. Unitario x volume delle operazioni nell’unità di tempo 2) Occorre superare due condizioni di inefficienza o di vincolo: a. l’effetto di assorbimento di risorse per la costituzione e il mantenimento di una scorta di liquidità Soluzione: attivo tutto investito e outsourcing della liquidità (contare sulla liquidità di terzi) b. l’espansione lenta e insufficiente della raccolta tradizionale: Soluzioni: b.1. ricorso sistematico al wholesale funding, anche per approvigionamento di liquidità b.2. securitization: offre il vantaggio di esternalizzare gli attivi che assorbono capitale economico e di reperire risorse per rigenerare gli attivi in una prospettiva di rotazione accelerata leva sul capitale economico o capitale proprio leva sulla scorta di liquidità se dagli stessi, introducendo una condizione di mismatching fra le rispettive scadenze medie ponderate, nell’ipotesi di una struttura ascendente dei tassi di interesse per scadenze, • la predisposizione di garanzie «interne», da parte degli originators, nella duplice forma di impegno a riacquistare gli attivi ceduti eventualmente caratterizzati da una performance futura di rischio anomalo e di impegno a fornire liquidità ai veicoli mediante l’attivazione di linee di credito a fermo, • l’utilizzo di garanzie «esterne», rappresentate dall’assunzione del rischio di insolvenza da parte di agenti terzi (in particolare compagnie di assicurazione, con i credit default swaps, Cds). È evidente che queste soluzioni contrattuali esponevano, ed espongono ora, l’originator-securitizer ad un rischio elevato di sostenibilità delle alte leve applicate ai fattori produttivi della liquidità e del capitale proprio. Si tratta di un vero e proprio rischio di re-intermediazione degli attivi trasferiti, e quindi di grave alterazione degli equilibri patrimoniali: aumento della leva e sottocapitalizzazione. Non solo. Deve essere chiaro, per dare peso alle considerazioni seguenti, che il margine industriale dell’originator è una plusvalenza calcolata per attualizzazione di margini di interesse futuri. Questa plusvalenza è realizzata immediatamente, ma incorpora i rischi eventuali delle garanzie prestate. In secondo luogo, anche la distribuzione interna del margine ha svolto un ruolo determinante: infatti nelle banche che originavano e cartolarizzavano, si osserva un aumento della partecipazione del management nella ripartizione dell’utile netto, mediante diversi meccanismi di remunerazione variabile. Ciò ha determinato una forte convergenza di interessi fra proprietà e management, innescando su quest’ultimo potenti incentivi alla formazione di margini elevati e (si noti) a breve termine. Dal punto di vista della governance aziendale riveste quindi un particolare interesse l’analisi delle relazioni triangolari fra top managers, azionisti e amministratori, soprattutto nel caso che i primi assumano una posizione «influente»14: un altro «triangolo delle Bermude»? Infine si deve osservare che le due condizioni precedenti influivano in modo significativo – e perverso, come era intuibile a priori e come si è verificato a posteriori – sull’allocazione del rischio. All’attualizzazione del margine corrispondeva logica- 14 Plunder J., Locked out. Investors and external directors failed to keep a grip on risk-taking, FT, 18.10.2008. 23 CONTRIBUTI mente un effetto di trasferimento del rischio non solo a soggetti terzi (investitori, assicuratori, ...) ma anche a tempi futuri. In altre parole, veniva a determinarsi una condizione di dissociazione fra ciclo di formazione del margine (a breve termine) e ciclo di manifestazione del rischio (a lungo termine, in conformità all’assai più lunga durata media ponderata degli attivi cartolarizzati). In linea di principio dovrebbe sussistere una ragionevole e fisiologica corrispondenza fra ciclo del reddito e ciclo del rischio, pur riconoscendo che la normale performance di un portafoglio di mutui dovrebbe, nel tempo, caratterizzarsi con una graduale attenuazione del rischio, conseguente all’aumento del rapporto fra valore della garanzia e credito residuo (i mutuatari solventi accumulano positive equity). Volendo riassumere questo insieme di condizioni in una sola immagine che «renda l’idea»: il meccanismo era predisposto per attribuire profitto agli uni nel presente e viceversa rendimento residuale con rischio agli altri nel futuro (in teoria, un bel problema di determinazione dei certainty equivalence, da risolversi adeguatamente con robusti modelli matematico-probabilistici). A questo punto dovrebbe apparire ben chiaro che nella filiera della cartolarizzazione (shadow banking, intermediazione creditizia esternalizzata o «extra-corporea», supply-chain, pipeline, che dir si voglia) si era inserito un sistema di incentivi particolarmente distorcente che poteva determinare – come è accaduto – un’inevitabile prevaricazione o disallineamento della governance reale rispetto al modello regolamentare-formale della governance. Occorre chiedersi quanto quest’ultimo, pure robusto, avrebbe potuto «resistere». Tuttavia il quadro è tutt’altro che completo, poiché non è realisticamente immaginabile – prescindendo per ora dalla considerazione delle responsabilità dei financial regulators e controllers – che la situazione descritta abbia avuto una formazione spontanea e casuale. Vale la pena spingere l’analisi più in profondità per identificare la presenza di «ruoli integratori e catalizzatori» del processo, cioè della già ricordata filiera, fuori dal campo di visuale (troppo ristretto?) degli organi ufficiali di controllo. Questa ricerca può essere introdotta dalla convincente immagine metaforica suggerita dallo stesso Greenspan, che ha poeticamente denominato le investment banks «pollinating bees of Wall Street», mettendo in luce la loro strutturale funzione di catalizzatori-integratori15. 8 Le investment banks: una «cabina di regia»? Il Quadro 8 rappresenta graficamente – pur con qualche semplificazione – l’articolazione del ruolo di regia delle investment banks rispetto sia ai soggetti componenti la filiera, sia alle transazioni interne ad essa, sia agli attori laterali, ma non secondari (agenzie di rating e compagnie di assicurazione), che fornivano prestazioni essenziali per ottenere utili effetti di credit enhancement. Da notare che nella sostanza le banche di investimento concorrevano efficacemente a rendere fluide le transazioni, producendo così una «condizione di liquidità». Esse, in quanto dealers e market makers, contribuivano pure Quadro 8 Articolazione del ruolo di regia delle investment banks Investment banks Attività e ruoli: organizzazione, consulenza, assemblaggio di competenze, ricerca di controparti, valutazione, dealing, market-making, placement, ... Banche commerciali • concedono e/o acquistano mutui • cartolarizzano portafogli di mutui Area sottoposta a vigilanza bancaria Agenzie di rating • consulenza per il tranching e fornitura del rating Compagnie di assicurazione e altri • vendono protezione (CDS) Società veicolo cessionarie • acquistano portafogli di mutui • emettono asset backed securities (ABS) Veicoli di 2° livello • acquistano ABS • emettono collateralized delat obligations (CDO ricartolarizzazione) Investitori finali • acquistano ABS e CDO Shadow banking 15 Greenspan A., The age of turbulence, The Penguin Press, New York, 2007, e Rachman G. Conservatism overshoots its limit, FT, 7.10.2008. 24 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008 a strutturare gli strumenti derivati utili per le transazioni ed assumevano anche posizione, circostanza che spiega l’assunzione diretta di rischi di controparte e di credito, successivamente causa del loro dissesto. È importante rilevare che soltanto alcune zone del campo di azione erano presidiate da organi di controllo non coordinati: il Federal Reserve System (Frs) con altri organi provvedeva alla vigilanza sulle banche commerciali, la Security Exchange Commission (Sec) gestiva la supervisione delle investment banks, le compagnie di assicurazioni erano vigilate da organi statali (non federali) e le agenzie di rating avevano ricevuto un accreditamento dalla Sec per fare parte della Nationally Recognized Statistical Rating Organization (Nrsro). Questo assetto dei controlli è ad oggi immutato. Altre zone, in particolare quelle dei veicoli intermedi, erano sostanzialmente non presidiate. È comunque evidente che nel ruolo multifunzionale delle investment banks si realizza una confluenza di interessi confliggenti: conflitti di interessi di tipo interno, quando la banca assume posizioni di controparte contrattuale di ognuno dei soggetti della filiera, e di tipo esterno, quando la banca esercita un’influenza determinante nella formazione delle condizioni di scambio fra gli attori della filiera, potendo di fatto agire nell’interesse prevalente dell’uno piuttosto che dell’altro, in relazione al proprio interesse soggettivo. Per concludere sul punto, conviene tornare all’immagine delle «pollinating bees» suggerita all’inizio del paragrafo, anche per un debito di giustizia verso questi operosi, utili e riservati insetti che dall’origine dei tempi attuano uno scambio non predatorio (ecologico e sostenibile) fra servizio di impollinazione e prelievo di nettare. A. Greenspan ha collocato l’immagine nel quesito – per lui retorico e a risposta negativa – «why do we wish to inhibit the pollinating bees of Wall Street?». Il buon senso suggerisce a posteriori una risposta positiva, ormai superflua, poiché delle cinque investment banks impollinatrici una (Lehman Brothers) è fallita e trovasi in liquidazione, due (Bear Stearns e Merrill Lynch) sono state salvate con operazioni di acquisizione più o meno eterodirette e sussidiate (la prima da JP Morgan Chase e la seconda da Bank of America), e le altre due (Morgan Stanley e Goldman Sachs) si sono trasformate per necessità in banche commerciali. A ben vedere, non sono state beautiful exits, pur auspicando che queste possano in futuro rivelarsi beautiful entries per le banche commerciali acquirenti e per la banking industry. 9 Degenerazione dei comportamenti manageriali nella filiera: una lezione per la governance Non c’è ormai dubbio che il fallimento della filiera sia in primis imputabile alla circostanza che un sistema di incentivi particolarmente forte ha favorito lo sviluppo di comportamenti manageriali collettivamente destabilizzanti, rispetto ai quali è utile proporre due diverse chiavi di lettura: da un lato una sostanziale perdita di auto-controllo del management e dall’altro la diffusione di comportamenti manageriali opportunistici. Va detto che la teoria economica dei «problemi di agenzia» ha da tempo elaborato una spiegazione robusta, con modelli convincenti, della relazione principal-agent, in particolare dimostrando che gli agent tendono ad assumere comportamenti opportunistici verso i rispettivi principal quando sussistano condizioni di asimmetria informativa a svantaggio dei secondi e questi siano sprovvisti di adeguati strumenti e poteri di controllo. Un mercato efficiente contribuisce a prevenire, limitare e sanzionare i comportamenti opportunistici: ma, come si è visto, il mercato dentro la filiera era in realtà artificiale, in quanto artificiosamente creato e organizzato da market-makers pervasivi, persuasivi e onnipresenti. Pur non dimenticando la teoria economica, è più euristico ricorrere alle due chiavi di lettura di seguito proposte. L’aspetto del venir meno dell’autocontrollo del management pone il problema della fragilità dell’etica manageriale16. Ancora una volta la testimonianza di A. Greenspan al Congresso americano esprime lucidamente il punto: «those of us who have looked to the self-interest of lending institutions to protect shareholder’s equity (myself especially) are in a state of shocked disbelief. Such counterparty surveillance is a central pillar of our financial markets’ state of balance». Occorre fissare anzitutto il concetto di self-interest, cioè la presunzione che questo assumesse come riferimento principale ed esclusivo l’interesse dell’istituzione e dei suoi stakeholder (azionisti, clienti, 16 Thaler R. e Sustein C., Human frailty caused this crisis, FT, 12.11.2008. 25 CONTRIBUTI dipendenti, ecc.). Nella realtà dei fatti il self-interest del management aveva assunto una forte connotazione autoreferenziale di breve periodo, dato il sistema degli incentivi in atto: quindi una devianza dell’etica manageriale rispetto all’etica istituzionale. In secondo luogo diviene essenziale il richiamo alla sorveglianza sulle controparti, cioè al monitoraggio del rischio di controparte, che secondo Greespan era venuto a mancare. Ma non poteva essere diversamente in presenza di un selfinterest deviato e tendenzialmente predatorio. A questo punto entra in gioco l’aspetto dei comportamenti opportunistici, più o meno consapevoli, verso le controparti. A tale proposito calza molto bene la narrazione di un fatto recente. In novembre, durante una visita celebrativa alla London School of Economics, la Regina Elisabetta non si è lasciata perdere l’opportunità di chiedere – considerate le elevate credenziali dell’istituzione ospitante – come mai una crisi finanziaria di tale macroscopica e globale evidenza non fosse stata prevista. Il Prof. L. Garicano, Director of Research, Management Department, con encomiabili candore e lucidità, ha risposto «Ma’am, at every stage someone was relying on somebody else and everyone thought they were doing the right thing»17. L’affermazione va al cuore del problema, anche se la seconda parte intendeva benevolmente rassicurare la Sovrana sulla «buona fede» dei suoi sudditi e ex sudditi. In realtà ogni attore della filiera contava un po’ troppo sulla consapevolezza e sulla robustezza della controparte contrattuale a monte e/o su quella a valle nella filiera e perciò ne sovrastimava la capacità di indipendente valutazione. Di ciò vi era diffusa consapevolezza. Ne emerge un quadro di altrettanto diffuso opportunismo e di sostanziale freeriding, che faceva formalisticamente leva sulla fiducia intersoggettiva e su quella sistemica: ognuno sarebbe stato in grado di fare fronte alle obbligazioni assunte e l’equilibrio era stabile in quanto dinamico. Nel luglio 2007, C. Prince, Ceo di Citi, aveva detto chiaramente che non era possibile stare fuori dal gioco18. I richiami alla prudenza non erano stati ascoltati ed emergono ora testimonianze in tal senso dei risk-manager, attori principali (si noti) della governance sia formale sia sostanziale19. Questi venivano considerati alla stregua di Cassandre e, si noti, ricevevano una remunerazione assai meno incentivata dei managers che «facevano gli affari». Non a caso prende corpo l’opinione che la funzione di risk management dovrebbe occupare una posizione assai più elevata nella governance aziendale e soprattutto una posizione meno condizionabile da parte dei deal makers, cioè della funzione commerciale che ovviamente esercita forti pressioni per l’approvazione di operazioni redditizie nell’immediato, pur con proiezione di rischio nel futuro20. Il 2008 ha fatto emergere i «fallimenti», ma l’opportunismo dei comportamenti di attori eccellenti era già stato segnalato nell’anno precedente: era noto, per esempio, che all’inizio del 2007 Goldman Sachs aveva rapidamente alleggerito il portafoglio proprietario di Cdo (ormai valutati troppo rischiosi), pur continuando a proporne l’acquisto ai propri clienti istituzionali21, in un quadro complessivo di relazioni che lambiscono (coinvolgerebbero?) anche i financial regulators e controllers22. La generale liquefazione della fiducia23 riporta alla riconsiderazione dei livelli istituzionali della governance. I sistemi di scambio, le organizzazioni di ogni livello, i mercati presuppongono una condizione di fiducia intersoggettiva, fondata sulla valutazione consapevole del rischio di controparte. A sua volta questo livello fiduciario ha fondamento nella fiducia sistemica, cioè nella consapevolezza dell’efficacia di istituzioni di livello superiore in grado di tutelare i diritti soggettivi (sistema giuridico, magistratura, forze dell’ordine)24. È anche importante la nozione di fiducia «delegata», che sussiste nel caso in cui il soggetto non sia in grado di valutare pienamente l’affidabilità della controparte e perciò ricorre ad un altro soggetto cui può essere, ancora fiduciariamente, delegata la valutazione di affidabilità: per esempio l’acquisto di un’attività finanziaria dotata di rating evidenzia la situazione di delega fiduciaria nei confronti dell’agenzia di rating. E il fallimento delle relazioni fiduciarie per così dire «esterne» non si ferma qui: esso ha infatti ripercussioni altrettanto devastanti anche sulle relazioni organizzative e interpersonali dentro le organizzazioni, intaccando la motivazione, lo spirito di corpo e l’autostima del personale bancario25. Dato che la robustezza della governance di un’organizzazione è un elemento portante e costitutivo della sua affidabilità, si comprende la ragione per cui la fiducia sistemica chiama in causa la robustezza della governance sistemica. Nel caso di crisi finanziarie diffuse o epidemiche (crisi bancarie) assume perciò impor- 17 Beattie A., Good question, Ma’am. But some people did see it coming, FT, 15/16.11.2008. 18 Gapper J., A bruising game of musical chairs, FT, 14.11.2007. 19 «Confessions of a risk manager», in The Economist, 9.8.2008. 20 Shrage M., How to sharpen bank’s corporate governance, FT, 18.11.2208. 21 Kelly K, «How Goldman Sachs won big on mortgage meltdown», in Wall Street Journal, 14.12.2007 e «Modern Midas, Bumper profits and a stellar reputation. Time to worry», in The Economist, 22.12.2007. 22 Gapper J., Whatever is good for Goldman ...., FT, 25.9.2008. 23 «The faith that moves Mammon.Trust», in The Economist, 18.10.2008. 24 Roniger L., La fiducia nelle società moderne, Rubettino Editore, Messina, 1992. 25 Filotto U. (a cura di), Una vita da bancario, Bancaria Editrice, Roma, 2005. 26 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008 tanza determinante la robustezza dei sistemi di regolamentazione e di controllo, e delle autorità e dei poteri ad essi preposti. Nella situazione attuale, è del tutto evidente che la collettività rivolge a queste autorità la domanda precisa di impedire e di prevenire che la governance sostanziale degli intermediari finanziari prevarichi i rispettivi modelli di governance formale. Pare quindi corretto concludere che i poteri della governance sistemica rispondano a tale domanda aumentando la regolamentazione ed i controlli, con interventi efficaci di enforcement26. In proposito A. Greenspan conclude sul versante opposto: «Hands-on supervision and regulation…is being swamped by the volume and complexity of twenty-first century finance…Publicsector surveillance is no longer up to the task…We have no sensible choice other than to let markets work»27. Si è visto tuttavia che, in presenza di incentivi particolarmente forti e potenzialmente devianti, i comportamenti manageriali riescono a eludere i modelli formali della governance, rendendone inefficace il funzionamento, e interferendo pure con il funzionamento del mercato. Questo percorso logico porta viceversa a concludere che la governance sistemica e regolamentare dovrebbe utilmente dedicare molta attenzione non solo a proteggere l’efficienza e l’efficacia dei modelli formali di governance, ma anche e forse soprattutto a modificare l’assetto degli incentivi (premi e sanzioni), cioè in sostanza delle forze, che orientano i comportamenti manageriali ed economici in senso lato. Ricorrendo a un’immagine metaforica: alla lunga è vano «stringere i bulloni» su circuiti idraulici all’interno dei quali si sviluppano pressioni sempre più elevate poiché è quasi inevitabile che si verifichino delle perdite (esternalità negative); è opportuno e preferibile regolare pure la pressione dentro i circuiti. Comunque, i circuiti non sono sempre provvisti di adeguati sistemi di autoregolazione della pressione interna. Fuori di metafora: il ruolo dei mercati è importante, ma non alla Greenspan. Per concludere occorre chiarire quali potrebbero essere le modalità concrete per intervenire sul sistema degli incentivi, sostanzialmente disinnescandolo. Una prima modalità essenziale consiste nel disciplinare e limitare i vantaggi (e forse aumentare le sanzioni) del management nell’assumere comportamenti rischiosi in un contesto di profitsharing: quindi è utile che i meccanismi di remunerazione incen- tivante vengano opportunamente dosati e che la partecipazione ai risultati reddituali conseguiti sia correlata al ciclo di vita del rischio delle operazioni effettuate, escludendo in particolare l’effetto eventuale di attualizzazione dei risultati conseguente all’impiego di particolari tecniche operative e contabili. Si è infatti osservato che alcuni aspetti applicativi degli Ias possono determinare situazioni di prociclicità degli incentivi economici. In secondo luogo è importante porre attenzione al fatto che le esternalità negative di cui si è parlato all’inizio evidenziano una sottostante situazione di trasferimento del rischio: nella sostanza, l’esternalità negativa coincide con l’esternalizzazione del rischio. L’innovazione finanziaria, lo sviluppo e la globalizzazione dei mercati hanno aumentato a dismisura le opportunità economico-tecniche di trasferimento del rischio: è importante prevenire ed evitare che di queste opportunità possa essere fatto un uso opportunistico, in particolare «giocando sull’equivoco» dell’affidabilità della controparte. Un esempio evidente di questa eventualità è costituito dalla generalizzata tendenza del management bancario a spostare la gestione della liquidità dall’attivo al passivo, minimizzando gli attivi liquidi e facendo assegnamento sulla continuità della capacità di indebitamento (in proposito il ricorso eccessivo al wholesale funding è emblematico) e sulla liquidità «esterna». Un secondo esempio significativo è rappresentato dalla prassi di garantire il soggetto assuntore del rischio trasferito, per esempio con impegni di riacquisto di attivi anomali o con linee di credito. In questi casi si è assistito, dentro le note filiere, alla formazione di shadow o contingent liabilites (passività indirette o potenziali) opache e non sempre esattamente accertabili, a carico del soggetto originante. Al riguardo dovrebbe valere – a scopo di prevenzione dell’esternalità negativa – un principio chiaro di «attribuzione del rischio»: in altre parole dovrebbe essere chiara la distinzione fra situazioni di rischio self-contained, cioè totalmente inclusi nel bilancio del soggetto considerato, e viceversa situazioni di definitivo e totale trasferimento del rischio. Un terzo caso importante di opacità del trasferimento del rischio ricorre con frequenza nell’uso degli strumenti derivati e soprattutto di quelli finalizzati alla copertura dei rischi di insolvenza. Al riguardo, nel dipanarsi dell’attuale crisi finanziaria, l’impiego diffuso dei credit default swaps è un esempio pertinente che illustra bene come dello strumento si possa fare un uso opportunistico. 26 Wolf M, The end of lightly regulated finance has come far closer, FT, 17.9.2008. 27 Greenspan A., Op. cit. in nota 15, pp. 491-492. 27 CONTRIBUTI L’acquirente del Cds persegue un obiettivo di copertura del rischio, ma ne può fare un uso opportunistico – e, si noti, sostanzialmente speculativo e predatorio – se riesce a sfruttare una situazione di underpricing del rischio, nei confronti di una controparte non completamente consapevole (asimmetria informativa e sfruttamento opportunistico della stessa). Qualcosa del genere sembra sia accaduto fra Goldman Sachs e American International Group (Aig): si è detto che la prima abbia sistematicamente acquistato Cds sotto-prezzati della seconda: Goldman Sachs non ha smentito, ma si è limitata a dichiarare che non aveva posizioni importanti su Aig. Si noti, nelle condizioni di opacità e di asimmetria informativa dello scambio lo strumento di copertura può diventare uno strumento speculativo e predatorio. Un caso del tutto particolare di ribaltamento della classica relazione principal-agent: il primo si approfitta del secondo. La situazione descritta ha contribuito a sviluppare l’opinione che gli scambi over the counter dovrebbero essere riportati dentro mercati regolamentati con l’intervento di clearing houses28. Le circostanze dimostrano chiaramente che esiste una «domanda insoddisfatta di servizi di compensazione e garanzia»: tornando al tema della liquidità dei mercati monetari, la condizione di blocco dei mercati interbancari29 ed il contemporaneo forte aumento da un lato della domanda di liquidità alle banche centrali e dall’altro dei depositi di liquidità presso le stesse banche centrali evidenziano chiaramente che le banche commerciali, reintermediando le banche centrali, di fatto ne auspicavano l’intervento con funzioni di clearing house. La diffusione di comportamenti opportunistici aumenta i rischi di controparte e distrugge i presupposti fiduciari dello scambio e crea l’esigenza di meccanismi «interruttori» del contagio, ma in realtà anche dell’opportunismo. Infine un’ultima importante considerazione, che tuttavia richiede un approfondimento molto articolato e qui non proponibile, deve essere riservata a due quesiti. Il primo: se la composizione delle attività di intermediazione non debba essere ripensata, dal punto di vista regolamentare, per rifondare assetti istituzionali articolati secondo principi di specializzazione e di separatezza fra attività, la cui confusione o commistione può da un lato generare rischi esponenziali e dall’altro sostanzialmente indebolire la funzione di controllo dei mercati intesi in senso classico30. Che sia il caso di pensare a un Glass Steagall Act 2? Inoltre l’enorme produzione e scambio di strumenti mobiliari dentro le filiere dell’intermediazione finanziaria in cui le transazioni sono, o erano, sostanzialmente «guidate» corrobora l’ipotesi che si siano formati dei «mercati paralleli», le cui condizioni di efficienza sono assai distanti da quelle dei mercati regolamentati. Non è quindi superfluo invocare una governance sistemica mirata a ristabilire e a sviluppare una corretta interazione di ruolo fra intermediari e mercati. In tale prospettiva, una «disgregazione» degli intermediari universali e globali – oltre a risolvere il problema della strutturalità dei conflitti di interesse – potrebbe certamente favorire gli «scambi di mercato e nel mercato», cioè un vero controllo del mercato sugli scambi di filiera. Il secondo: se vi siano dei modelli istituzionali di banca meno esposti degli altri all’azione di incentivi devianti. Al riguardo si nota che le banche fondate sul modello cooperativo – si considerino i casi di Francia, Germania, Italia e Spagna dove le banche cooperative o popolari hanno quote di mercato rilevanti – hanno forse dimostrato una maggiore «resistenza». L’approfondimento del tema potrebbe contribuire a conoscenze utili? Lungo questa linea di indagine occorrerebbe pure valutare se la composizione delle strutture proprietarie abbia una qualche rilevanza nel problema. Sarà un caso, ma ben quattro importanti crisi in Inghilterra riguardano banche – Northern Rock, Alliance & Leicester, Bradford & Bingley e Halifax Bank of Scotland (Hbos) – nate dalla fusione di numerose building societies (organizzazioni cooperative) e successivamente trasformate in public companies. E infine il problema più impervio: come la crescente presenza dello Stato nella proprietà delle grandi banche andrà a modificare gli assetti della governance reale, di quella formale e delle relazioni fra le due, in un mutato contesto di governance sistemica? 28 Malkiel B., Finding a way to regain trust in the battered financial system, FT, 13.11.2008 e Chung J. e van Duyn A., Central clearing house for CDS poised for approval within weeks, FT, 19.11.2008. 29 «Blocked pipes», in The Economist, 4.10.2008. 30 Canals J., Universal banks need careful monitoring, FT, 20.10.2008. 28 CONTRIBUTI BANCARIA n. 12/2008