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George Feifer
Niente Stazione Finlandia
No Finland Station
Arrivo di Lenin alla Stazione Finlandia di Pietrogrado, 3 (16) aprile 1917
20011
1 G. Feifer, No Station Finland, in R. Cowley (a cura di), What If? 2, 2001, trad. it. di G.
Maini in Se Lenin non avesse fatto la rivoluzione, Milano 2002, pp. 231-255.
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I compagni brancolavano tutti nel buio fino all’arrivo di Lenin.
Bolscevica Ludmilla Stal, 1917
L’obiettivo dell’insurrezione è prendere il potere. Il suo dovere politico sarà
chiarito dopo che se ne è impadronito… Il popolo ha il diritto e il dovere di
risolvere qualunque problema non con il voto ma con la forza.
Lenin, poco dopo il ritorno in Russia nel 1917
Si può dire che Nikolaj Lenin (pseudonimo di Vladimir Il’ič, Ul’janov)
abbia vissuto i suoi quarantasette anni in funzione del suo ritorno in Russia
nel 1917. Una settimana prima di partire, lo spericolato estremista, come lo
considerava la maggior parte dei pochi russi che ne conoscevano l’esistenza,
si stava macerando nella frustrazione a oltre duemila chilometri da San
Pietroburgo, con un enorme ostacolo nel mezzo. Bloccato a Zurigo, il
fondatore e la guida spirituale del partito bolscevico aveva buoni motivi per
mordersi le dita nel timore di perdere l’occasione che nemmeno lui avrebbe
sognato pochi anni prima. Il percorso studiato per fargli superare
quell’ostacolo imponente e farlo arrivare nel fermento della capitale russa
presentava rischi molto elevati e, anche se fosse riuscito, i suoi piani
successivi erano tutti appesi a un filo.
La sua ultima visita a San Pietroburgo risaliva alla rivoluzione del 1905.
Ritornato in Europa occidentale, il maestro delle polemiche tra diverse
fazioni passò gli anni successivi diffondendo feroci ma insignificanti denunce
tra rivoluzionari europei meno implacabili di lui. (Fu l’unico a prendere in
considerazione la Russia arretrata invece delle più avanzate potenze
europee, che erano destinate, secondo quanto previsto proprio dal
marxismo, a fungere da avanguardia del proletariato mondiale.) Non
potendo selezionare tutti i più stretti collaboratori dai suoi rifugi all’estero,
lui che amava l’assoluto e teneva sotto controllo ogni possibile aspetto del
suo movimento un po’ marginale, dava il benvenuto a chi era riuscito a
lasciare la Russia con spavaldi attacchi a ogni deviazione dalle sue idee.
Rinnegati! Traditori!
Che cosa sarebbe successo se fosse vissuto tra i compromessi di una
realtà politica e sociale russa in rapido cambiamento invece di osservarla da
una distanza che inevitabilmente la faceva apparire più semplice? Di fatto,
la sua breve permanenza in Russia dal 1905 al 1907 fu l’unica interruzione
nei diciassette anni di esilio all’estero, iniziati nel 1900. Da anni prima dello
scoppio della Grande Guerra, il perseguitato Don Chisciotte politico si
chiedeva se avrebbe mai rimesso piede sul suolo russo. Le sue probabilità di
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farlo sembravano ridotte quanto le sue idee erano cosmiche. Ora, però,
dopo tre anni di quel conflitto catastrofico e la rivoluzione da essi innescata,
quella che aveva rovesciato lo zar e il suo governo nel febbraio 1917, il
profeta pregustò il riconoscimento e il potere. Il suo primo istinto, quello di
agguantare prima il potere e poi portare avanti il suo programma, avrebbe
lasciato stupiti anche i suoi più stretti collaboratori. Un istinto che lo distinse
da tutti gli altri pensatori rivoluzionari, in particolare dopo averlo fatto
passare dal dire delle dispute accademico-giornalistiche al fare, e con il
massimo opportunismo.
L’ostacolo posto sulla strada del suo ritorno era la Germania di cui non ci
si poteva del tutto fidare pur nel suo impegnativo terzo anno di guerra
contro la sua Russia. Gli oneri militari e civili della Germania imperiale erano
divenuti enormi. Il Kaiser, i suoi ministri e lo stato maggiore generale
avevano sempre più motivo di ritenere la guerra sui due fronti, in questo
caso ambedue dissanguanti, il disastro nazionale da molto tempo
paventato.
Sì, sul fronte orientale le cose non andavano poi così male. La dinastia
dei Romanov era caduta e l’esercito russo si stava disintegrando: l’offensiva
Brusilov del 1916 minacciò, per un momento, di diventare il tanto temuto
«rullo compressore» e finì, viceversa, per assestare il colpo finale a Nicola
II, la cui inflessibilità si rivelò disastrosa e che abdicò quando l’opposizione
popolare divenne incontrollabile. Il Reichswehr, però, ben conoscendo la
capacità dei russi di resistere e vincere anche dopo perdite spaventose,
rimase in allerta, tanto più che il nuovo governo di San Pietroburgo si era
impegnato a continuare la guerra. Da qui l’ovvio motivo di permettere e
facilitare il viaggio attraverso la terra tedesca di un nemico nazionale: Lenin,
autoproclamatosi «rivoluzionario professionista», poteva servire a uno scopo
sovversivo.
Ma che cosa sarebbe successo se Berlino avesse preso una decisione più
saggia? E se il governo tedesco non avesse permesso il suo ritorno a San
Pietroburgo nel famoso «vagone piombato» avendo pensato con maggior
lungimiranza al futuro della Germania? Le devastazioni della seconda guerra
mondiale e le lacerazioni della Guerra Fredda avrebbero ricordato alle
successive generazioni di tedeschi che l’eversione, come un gas velenoso,
tende a diffondersi oltre i limiti previsti. Lo scopo ultimo nei riguardi della
Russia, da parte di un governo tedesco che avesse preso in considerazione
quella minaccia, avrebbe dovuto essere quasi opposto: uno Stato stabile,
con cui negoziare e risolvere i conflitti in maniera pacifica ed efficace. La
Germania del tempo di guerra, però, non poteva permettersi il lusso né
ebbe l’accortezza di agire nell’interesse nazionale a lungo termine.
Viceversa, aprì a Lenin uno spiraglio che sarebbe dovuto restare chiuso: un
dono della sorte, il primo di una lunga serie.
Verso la fine dell’inverno 1916-1917, corrispondenze segrete tra
Wilhelmstrasse, i suoi ambasciatori a Berna e altrove e lo stato maggiore
confermarono, come qualcuno disse, che «ora dobbiamo davvero cercare di
creare il massimo caos in Russia… È preferibile sostenere gli estremisti,
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poiché in tal modo il lavoro viene fatto meglio… Secondo tutte le previsioni,
riteniamo che, nel giro di circa tre mesi, il processo di disgregazione sarà
così avanzato che il nostro intervento militare servirà ad assestare il colpo di
grazia alla potenza russa». Fu quindi iniziata una trattativa ufficiale con San
Pietroburgo per lo scambio di nazionalisti tedeschi internati in Russia con
esiliati marxisti in Svizzera, ai quali fu dato il permesso e i mezzi per il
transito.
In ogni affare ci sono però due parti e questo era poco attraente per la
Russia. Che cosa sarebbe successo se il suo governo non avesse accettato?
Politici più esperti non lo avrebbero probabilmente fatto. Nemmeno se
fossero stati meno idealisti. Un pizzico di precauzione in più avrebbe potuto
trattenerli dall’autorizzare il ritorno dall’esilio di personaggi le cui intenzioni
conoscevano molto meglio di qualunque tedesco, grazie ai rapporti della
polizia zarista. Ciononostante, aprirono una porta al fervore rivoluzionario di
Lenin, grazie non solo alla paralisi che spesso blocca i politici democratici di
fronte al vecchio e persistente dilemma di cosa fare con chi invoca metodi
non democratici, paralisi in questo caso resa ancor più acuta da un lungo
periodo di repressione da parte dei funzionari zaristi che rese i loro
successori particolarmente restii a limitare le libertà di spostamento e parola
in Russia. Un’altra circostanza, un’altra possibilità. Inoltre, il governo era
convinto di aver poco da temere da un fanatico visionario, soprattutto
poiché il suo viaggio propiziato dal nemico l’avrebbe senz’altro messo in
cattiva luce presso la popolazione le cui sofferenze del tempo di guerra ne
avevano intensificato l’inimicizia verso la Germania. Oltretutto, l’autorità e il
potere del governo erano, come vedremo tra poco, alle prese con un rivale
casalingo.
Le cose, tuttavia, andarono diversamente per Il’ič, così in centinaia di
milioni l’avrebbero ben presto chiamato con rispettoso affetto, dopo aver
temuto che le porte gli fossero state aperte per farlo finire in trappola e in
carcere piuttosto che per lanciarlo nell’agone politico in cui smaniava di
entrare. Il suo viaggio in treno in un convoglio con un’unica carrozza, con
applicata l’etichetta «piombato» poiché le autorità tedesche accettarono la
sua richiesta che nessun estraneo potesse entrare per alcun motivo, lo
avrebbe portato da Gottmadingen vicino al confine svizzero quasi dritto a
nord fino a Francoforte, poi a nord-est fino a Berlino e oltre fino alla costa
baltica. «Calvo, tarchiato, robusto», con una fronte che a Maxim Gorki
ricordava Socrate, indossava un abito a tre pezzi e una bombetta che
denotava la nascita agiata da lui condivisa con molti altri rivoluzionari.
Lasciando Berna il 13 aprile2, rimase allerta per tutti e due i giorni del
viaggio, e non solo per paura dei nemici esterni, ma perché le sue abitudini
personali erano degne del più appassionato dei missionari. Detestando le
bevute e i cori di alcuni dei suoi circa trenta compagni d’esilio, permise alla
sua piccola brigata di fumare solo nella toilette, il cui uso concesse per primi
ai non fumatori. Queste regole, avrebbe detto scherzando un compagno
2 Primo aprile secondo il calendario russo allora vigente.
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bolscevico, lo prepararono ad assumere la guida del governo russo.
Agli esuli, però, non accadde nulla durante il loro tranquillo viaggio lungo
gran parte dell’asse nord-sud della Germania. (Per evitare problemi, un
treno del Kronprinz fu ritardato di un paio d’ore vicino a Berlino.)
Continuando via mare con il traghetto, proseguirono fino alla neutrale
Svezia per il tratto finale del viaggio, di nuovo in direzione nord-est,
attraverso la Finlandia. Per dare un benvenuto anticipato, un gruppo andò
incontro al treno al confine finnico. Tra gli altri Lev Kamenev, futuro
vicepresidente del Consiglio dei commissari del popolo dell’URSS prima che,
nel 1936, Stalin lo facesse giustiziare. Kamenev era un pezzo grosso del
comitato di redazione della Pravda, già clandestina, vietata fino a un mese
dopo la Rivoluzione di febbraio e a un mese prima di quel momento, quando
il viaggio di ritorno di Lenin era quasi giunto al termine. L’illustre passeggero
riprese il suo posto nella carrozza solo dopo aver rimproverato a Kamenev
la linea troppo poco rivoluzionaria. Il giornale del partito, operando fuori dal
controllo di Lenin, era stato prudente. Con così pochi bolscevichi, non più di
40.000 aderenti in tutta la nazione, Kamenev, come tutti gli altri capi del
partito, chi più chi meno, invocava la collaborazione con altri partiti socialisti
in attesa che, come c’era da aspettarsi, le prospettive rivoluzionarie
maturassero. Il’ič, però, considerava tutto ciò come un’eresia. Formalmente
cordiale verso i compagni venuti a salutarlo, dentro ribolliva. Poiché era
tempo, come aveva scritto poco prima d’iniziare quest’improbabile viaggio,
che il proletariato russo conquistasse il potere, «con il popolo armato come
un sol uomo».
Se quelle parole audaci ora suonano irrilevanti, anche se previste come
ipotesi chiave del marxismo-leninismo, è solo grazie al carattere
d’inevitabilità che gli avvenimenti storici acquisiscono quando vengono
analizzati a posteriori. Per chi lo leggeva in quel periodo e in quel luogo,
l’esortazione all’azione armata era bizzarra, anche in tempi in cui oratori di
strada pubblicizzavano ogni sorta di modi per liberare la Russia dai guai. Gli
altri attivisti politici, cupi e discordi com’erano, credevano in un approccio
completamente diverso. A parte l’estrema destra che aspirava a restaurare
la monarchia, essi lottavano, fra l’altro, per diventare democratici praticanti
condividendo il potere.
Se ci sarebbero riusciti senza Lenin non si saprà naturalmente mai. In
caso affermativo, però, la ricompensa sarebbe stata enorme. Alexis de
Tocqueville, autore del giustamente acclamato Democrazia in America,
aveva ragione di prevedere che un secondo Paese, benché partito da una
situazione molto diversa, sembrava destinato ad assumere una posizione di
preminenza fra le nazioni. Mentre l’America viaggiava a ruota libera verso
nuovi orizzonti, la Russia era impantanata nell’autocrazia, mostrando però
anch’essa enormi potenzialità alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo.
Rispetto all’Europa occidentale, l’impero rimaneva arretrato sotto molti
aspetti, soprattutto nel suo sviluppo politico-sociale, che il retrivo zar aveva
giurato di ostacolare, ma non è eccessivo parlare di un’esplosione di energia
in altri settori. L’alfabetizzazione era decollata, insieme con l’educazione in
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generale e lo sviluppo commerciale e, soprattutto, industriale. Senza alcun
aiuto dal trono, il sistema giudiziario operava in maniera indipendente e
ragionevolmente bene. La Russia era assurta all’avanguardia, o ci stava
arrivando, per quanto riguardava letteratura, arti visive, musica, teatro,
cinema e balletto. Le sue risorse erano ampie e notevoli i talenti creativi; le
sue capacità scientifiche, tecnologiche e industriali rivelavano sempre più
potenziale man mano che progredivano. Pieno di eccitazione nonostante le
proverbiali apatie e pastoie russe, o a causa di esse, grazie all’entusiasmo
che può seguire il risveglio, il Paese era decollato verso una realizzazione
quasi certa della visione di Tocqueville.
Restavano «solo» da stabilire e rafforzare una struttura politica e una
società civile idonee, le cui possibilità erano da discrete a buone, nonostante
le pressioni fortemente disgregatrici generate dall’impennata dei costi della
Grande Guerra. Tutto ciò aveva guidato fino a quel momento, soprattutto
dopo la rimozione del peso dei Romanov, la storia russa nel suo corso che
assomigliava, per certi aspetti critici, anche se con grandi ritardi, a quello
dell’Europa occidentale. Il radicamento dell’educazione, della formazione e
degli ideali della grande maggioranza degli esponenti di rilievo e intellettuali
russi negli schemi e nelle regole europei giustificava inoltre un cauto
ottimismo. C’era in palio un enorme ritorno sociale ed economico se il Paese
fosse riuscito a proseguire sulla strada attuale, per quanto piena di curve e
di incognite. Quella strada non percorsa rimane uno dei grandi temi della
storia virtuale del secolo appena finito.
Ciò spiega anche buona parte dello sconcerto provocato dalle esortazioni
di Lenin allora, nel 1917. Non spiegava, tanto per cominciare, da chi
proponeva di prendere il potere. Non dal totalmente discreditato Nicola II o
dal suo ancien régime, poiché quei vecchi oppressori se n’erano andati da
febbraio. Libera finalmente dall’autocrazia, la nuova Russia si basava su
elementi di democrazia che sembravano aver sognato da sempre tutti i
partiti progressisti e radicali. Ecco perché la neonata repubblica, per quanto
incerta nei suoi tentativi di stabilire un ordine nuovo e migliore, appariva più
promettente piuttosto che destinata al fallimento. Trotzkij, brillante scrittore
e oratore che nella rivoluzione del 1905 aveva ricoperto un ruolo più
importante di quello di Lenin (le cui qualità dittatoriali aveva allora criticato,
prima di diventare egli stesso un fervente leninista), la chiamò il più libero
Paese al mondo.
Quella libertà era molto favorita da omissioni e contraddizioni da parte
del governo, poiché questo fu il curioso intervallo del «doppio potere»,
quando le sue due fragili fonti vivevano in una specie d’incerta tregua, ora
in competizione, ora in collaborazione. Da una parte, il governo provvisorio
legittimato dalla Duma (parlamento) e ostacolato dall’oscurantista Nicola, si
riuniva nel palazzo Marinskij. Per quanto tutto fosse rigorosamente legale
nella transizione verso soluzioni permanenti non ancora stabilite, questa
coalizione prevalentemente centrista rappresentava illegittimo successore
del governo zarista. Dall’altra, il Soviet dei deputati dei lavoratori e dei
soldati a maggioranza socialista costituiva una riedizione dell’assemblea
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costituitasi, naturalmente senza l’autorizzazione dello zar, durante la
rivoluzione del 1905, dopo la quale fu oggetto di repressione. I suoi membri
erano eletti da consigli locali formatisi spontaneamente, i «soviet», che più
o meno rappresentavano «le masse». Il Soviet di Pietrogrado, come fu
anche chiamato, si riuniva nel palazzo di Tauride, a meno di un’ora di
cammino dalla sede del governo provvisorio. Benché la presenza di due
gruppi rivali al governo di un Paese in una situazione così fluida creasse
confusione, tutti sapevano che il governo provvisorio, guidato in gran parte
da veterani liberali della Duma, era molto più a destra dello sparpagliato
raggruppamento dei rappresentanti «del popolo». Pertanto, non sorprende
che l’ipotesi rivoluzionaria di Lenin costituisse un anatema per i primi
colpendo però anche la loro controparte molto più radicale. In pratica tutti
nel soviet, anche i marxisti, compresi i marxisti bolscevichi che avevano
operato in Russia e non erano stati raggiunti dai suoi incitamenti personali,
consideravano la presa del potere un folle sogno a occhi aperti, ma ciò
lasciava lui, passeggero di quello strano treno, imperterrito così come lo
lasciavano le complessità del vortice in cui stava per gettarsi e i pronostici
contrari alle sue ambizioni.
Le notizie che arrivavano a Zurigo riguardanti esponenti bolscevichi che
raggiungevano compromessi per amore dell’unità socialista lo avevano fatto
contorcere dalla rabbia. La sua lunga storia fatta di fustigazione degli
oppositori e di manipolazione dei seguaci convinse Georgij Plechanov, uno
dei padri del marxismo russo (non violento), che Lenin avrebbe fatto un
solo boccone di qualsiasi concetto di unità. Lenin riteneva fraudolenta e
impossibile la collaborazione con chiunque non fosse preparato a sostenere
la rivoluzione immediata. Il saggio nato sul Volga aveva la risposta alla
vecchia domanda di «che cosa fare» circa l’arretratezza e il malessere della
Russia. La sua visione «scientifica» e l’incrollabile forza di volontà avrebbero
rimesso in sesto il Paese, sempre che non fosse stato arrestato all’arrivo e
consegnato alla tetra fortezza di Pietro e Paolo della capitale russa, dove il
suo venerato fratello maggiore Aleksandr era stato imprigionato trent’anni
prima, per essere poi impiccato per aver attentato alla vita dello zar. (Quel
trauma trasformò Vladimir, allora diciassettenne, da dissidente in
rivoluzionario. Che cosa sarebbe successo se la vita di Aleksandr fosse stata
risparmiata e Vladimir non avesse giurato di vendicarsi?)
Per sua fortuna, nulla del genere attendeva il superstite fratello più
giovane. Il governo provvisorio non aveva in programma di limitare la sua
libertà, anche se sapeva che aveva accettato per il suo viaggio l’aiuto
finanziario tedesco (il che non vuol dire, come ancora sostengono molti
storici, che fosse un agente tedesco).
Il treno di Lenin entrò nella stazione Finlandia a Pietrogrado, come era
stata ribattezzata la capitale dopo l’eliminazione dei nomi tedeschi fatta
durante la guerra, nella tarda serata del 16 aprile (3 aprile del vecchio
calendario). Quell’uomo deciso venuto a predicare la forza sembrò
imbarazzato da un mazzo di fiori consegnatogli da Aleksandra Kollontaj, una
seguace che sarebbe ben presto diventata famosa quale esponente del
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«libero amore», come se quello fosse stato il compendio della sua attività
politica. A parte ciò, non aveva dubbi sulle necessità del Paese, anzi del
mondo. Quella suprema fiducia era eccezionale, persino, occorre ripeterlo,
per il suo ristretto gruppo di compagni radicali e un po’ disorganizzati, e non
era mai stata così grande come ora, poiché quel teorico marxista piuttosto
insignificante era sul punto di trasformarsi in uno strenuo combattente nella
battaglia politica del «qui e subito». Era pronto a «far scendere i dieci
comandamenti del marxismo dal Monte Sinai», come disse uno dei primi
seguaci, e consegnarli ai giovani della Russia. Azione finalmente!
Poco dopo le 11 di sera, l’euforico viaggiatore scese svelto dal treno nella
stazione, dove Nikolaj Čcheidze, presidente del Soviet di Pietrogrado, rivale
di sinistra del governo provvisorio, diede il benvenuto al suo «compagno» a
nome dell’ «intera rivoluzione». Poi, però, Čcheidze avvertì che il compito
principale della rivoluzione era al momento quello di far causa comune per
rafforzarsi e difendersi contro «ogni genere di attacco, sia dall’interno che
dall’esterno».
Anche se l’attività di Čcheidze contro il governo zarista gli aveva
guadagnato il titolo di «papa» della Rivoluzione di febbraio, ce n’era
abbastanza perché fosse un menscevico agli occhi di Il’ič ed esserne
disprezzato. I menscevichi erano i rivali marxisti più moderati e numerosi
dei bolscevichi, anche se Lenin, con il suo genio per la propaganda, li aveva
bollati con il loro nome, derivato dalla parola russa che significa
«minoranza». Čcheidze aveva fatto qualcosa di peggio che essere un
menscevico, aveva esortato a serrare i ranghi in difesa della «nostra
rivoluzione», intendendo quella essenzialmente democratica comprendente
tutti i partiti riformisti, invece di innescare quella che Lenin considerava la
seconda, necessaria per soppiantare la prima. (Come alternativa, talvolta
chiamava l’insurrezione di febbraio la «prima fase» della piena rivoluzione.)
Ignorando il benvenuto del presidente, si affrettò a uscire nella piazza della
stazione, dove i colleghi bolscevichi avevano organizzato una dimostrazione
di alcune migliaia di simpatizzanti, tra cui molti agitavano bandiere rosse. Al
suo apparire, una banda attaccò la Marsigliese, poi zitti, l’ideale per un
richiamo alla guerra di classe che Lenin cavalcava e che gli aveva dato la
fama. Salutando i suoi «cari compagni, soldati, marinai e operai», con la
sua fiduciosa perentorietà da ceto alto si mise ad attaccare la «guerra
imperialista dei ladri». «Ogni giorno… può arrivare il crollo di tutto
l’imperialismo europeo… L’inizio gliel’avete dato voi con la rivoluzione russa,
aprendo una nuova era. Evviva la rivoluzione socialista mondiale!»
Rivoluzione socialista mondiale? Nessun partecipante a quella di febbraio
la considerò un evento imminente. Un gruppetto di compagni bolscevichi
l’aveva occasionalmente evocata come un obiettivo mai davvero credibile e
comunque era sempre sembrata molto remota. Nondimeno, Lenin inculcò il
suo messaggio nel suo ammaliato uditorio. Battaglia. Battaglia per il bene
ultimo, per la grande seconda rivoluzione che avrebbe portato la massima
felicità umana. Ridicolizzare e distruggere ogni approccio poco radicale.
Relegare tra i nemici di classe anche la maggioranza non bolscevica del
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Soviet a prevalenza socialista, come se non fosse migliore degli scagnozzi
zaristi. Gorki avrebbe in seguito scritto che l’enorme ignoranza
dell’esistenza e delle sofferenze quotidiane da parte del sedentario crociato
maniaco della carta stampata gli dava uno «spietato disprezzo, degno di un
nobile, per le vite della gente comune». Naturalmente si può sostenere il
contrario: ogni atto di Lenin, comunque errato o terribile, era motivato dal
desiderio di migliorare quelle vite, ma è difficile da confutare l’ulteriore
osservazione di Gorki che gli era sconosciuta «la vita in tutta la sua
complessità».
I dirigenti bolscevichi della città erano stati condotti nella piazza su
autoblindo ricoperte di stendardi rossi. I loro equipaggi aiutarono Lenin a
salire su una di esse. Quando i suoi fari gettarono un fascio nel buio della
notte, un testimone nelle cui orecchie ancora risuonava il suo proclama di
una rivoluzione socialista mondiale vide l’effetto come un simbolo brillante
del richiamo alle armi fatto da Il’ič, insieme con il cambiamento del nome
del partito in «comunista».
Il partito bolscevico aveva insediato il proprio quartier generale nella
residenza di un’ex amante di Nicola II, che si trovava ora in pratica agli
arresti domiciliari a Tzarskoe Selo, il «villaggio dello zar», fuori Pietrogrado.
Si trattava di Matel’da Ksessinskaja, la famosa ballerina. Quando
l’autoblindo trasportò Lenin dalla piazza della stazione a quel «nido di raso
di una ballerina di corte», per usare l’immagine dell’improbabile sito fornita
da Trotzkij, era ancora in corso una riunione del partito nazionale, che aveva
appena approvato la politica di fare causa comune con altri partiti socialisti.
Dal treno alla rissa, per usare un vecchio detto russo su chi è appena
arrivato in una scena cruciale. La risolutezza di Lenin non era mai apparsa
più evidente. Si alzò per denunciare la strategia concordata. I bolscevichi
dovevano operare non per un sistema parlamentare ma per «una repubblica
dei soviet dei deputati dei lavoratori, soldati e contadini in tutto il
territorio».
Un membro di un altro partito marxista, il cui invito quella sera
rappresentava il tipo d’infrazione alla disciplina detestato da Lenin, rimase
stupefatto. Il discorso «ha scosso e sbalordito non solo me, eretico
casualmente precipitato nel delirio ma anche i fedeli, tutti». Sembrò che
uno «spirito di distruzione universale, incurante di ostacoli, dubbi, difficoltà
o considerazioni umane» fosse uscito dalla sua tana. Un altro illustre
osservatore sentì di «essere stato colpito sulla testa con un correggiato.
Solo una cosa era chiara: non c’era posto per me, uomo senza partito, a
fianco di Lenin».
Ma poi non ci fu nemmeno posto per la maggior parte dei compagni
membri del partito. Il giorno seguente, si riunirono bolscevichi, menscevichi
e rappresentanti di partiti radicali dissidenti per discutere su come unificare
le loro azioni. Quando Lenin più o meno ripeté a quel variegato uditorio i
suoi appelli della sera precedente, un vecchio bolscevico da tempo
sostenitore della sua linea dura espresse un generale sdegno denunciando
con forza «il delirio di un pazzo». E. H. Carr, storico della rivoluzione,
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avrebbe definito Lenin in questo frangente «completamente isolato». Ancora
una volta, l’opinione dei bolscevichi uniti si oppose a quelle che la Pravda
chiamò le sue idee «inaccettabili», Dopo la discussione, il comitato di
Pietrogrado del suo stesso partito le respinse con 13 voti contro 2. Che cosa
sarebbe successo se in quella stragrande maggioranza ci fosse stato
qualcuno in grado di tenere sotto controllo l’ossessiva irruenza di Lenin e
deciso a farlo?
La fortuna però lo stava ancora favorendo in modi imprevedibili. La
disapprovazione persino da parte dei suoi compagni bolscevichi attutì
ulteriormente la percezione del pericolo da lui creato. Non sarebbe stato
troppo tardi per contrastarlo espellendolo o comunque zittendolo, Anzi, ora
sarebbe stato il momento migliore per farlo, dopo la sua piena e impudente
professione di deciso rifiuto di qualunque tipo di accomodamento, di ogni
forma di democrazia desiderata dalla stragrande maggioranza. Inoltre,
l’opposizione del suo stesso partito avrebbe potuto, a quel punto, fare da
argine a quel definitivo, irreversibile estremismo. Il governo provvisorio,
però, non fece alcun tentativo di difendersi. Un’altra circostanza
imprevedibile, un’altra occasione concessagli, questa volta per difetto
dell’opposizione, rimasta inerte di fronte alle crescenti provocazioni dei
giorni successivi, dato che la risposta di Lenin all’ammonimento della
Pravda fu un attacco al giornale per non essere riuscito a capire che si
doveva abbattere il governo provvisorio in quanto capitalista.
Rimase fedele all’abitudine di mettere nero su bianco le sue idee. Gran
parte delle «Tesi d’aprile», nome con cui, una volta codificato dal regime
sovietico, sarebbe divenuto noto il suo «Sui compiti del proletariato nella
rivoluzione attuale», fu dedicata a condannare la «guerra imperialista
predatoria» della Russia, alla quale «non doveva essere dedicato alcuno
sforzo e fatta la minima concessione». Inoltre, reiterò le sue argomentazioni
di più ampio respiro contro «il governo dei capitalisti, i peggiori nemici della
pace e del socialismo». «La caratteristica specifica dell’attuale situazione
della Russia è che essa rappresenta una transizione dal primo stadio della
rivoluzione… al secondo stadio, che deve mettere il potere nelle mani del
proletariato e degli strati più poveri dei contadini.» Così «nessun sostegno al
governo provvisorio; andrebbe spiegata la totale falsità di tutte le sue
promesse… Denuncia invece dell’inammissibile, illusoria "richiesta" che
questo governo, un governo di capitalisti, cessi di essere imperialista».
Poiché il futuro della Russia ruotava quasi del tutto attorno alla possibilità
che essa riuscisse a costruire un ordine politico che la maggioranza avrebbe
accettato e rispettato, sembra necessario un ulteriore esame del perché altri
radicali considerarono questo discorso completamente sbagliato. Scrivendo
in esilio quindici anni dopo, e otto prima del suo assassinio per mano di un
agente di Stalin, Trotzkij fornì un’esauriente risposta: «Per gli altri, a quel
punto, lo sviluppo della rivoluzione equivaleva al rafforzamento della
democrazia», cioè il frutto della Rivoluzione di febbraio. Ciò era ovvio per i
conservatori, i liberali e i socialisti non rivoluzionari ma le ragioni dei
marxisti per opporsi all’uso della forza per rovesciare il governo di un Paese
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così relativamente arretrato nello sviluppo economico erano ancora più
assolute, non ritenendosi che alcuna nazione avesse, anzi, potesse avere,
una rivoluzione socialista finché il capitalismo non ne avesse creato le
condizioni. Questo lo diceva lo stesso Marx, dopotutto. Era la conseguenza
dei suoi principi che per ogni società «la struttura economica…
indipendentemente dalla volontà umana… determina il carattere generale
dei processi sociali, politici e spirituali» e che «nessun ordine sociale è mai
scomparso prima che tutte le forze produttive cui ha dato spazio siano state
sviluppate». Naturalmente il governo provvisorio era «capitalista». Ogni
sistema politico doveva riflettere il suo fondamento economico, proprio
come la vita reale, intesa qui come la proprietà e lo sfruttamento dei mezzi
di produzione, determinava l’atteggiamento politico. L’obbedienza di massa
al socialismo sarebbe stata di certo, e soltanto, generata dalla piena
fioritura del capitalismo. Questo era essenziale per la fondazione del
marxismo. Era quel che rendeva gli assiomi «scientifici», essendo le
osservazioni e le predizioni basate non su opinioni soggettive e pii desideri
ma su una realtà innegabile e sempre formativa di meccanismi e appetiti
economici. Non era una pura teoria, come quelle avanzate e smentite
durante tutta la storia umana prima che Marx intuisse il disegno ultimo del
suo sviluppo, ma una realtà fondamentale. Era un canone essenziale della
Risposta che confortava e ispirava i marxisti con la convinzione che il
socialismo fosse storicamente inevitabile, dato che «le forme statali sono
radicate nelle condizioni materiali di vita» e il progresso verso stadi sempre
più elevati, dal prefeudalesimo al socialismo, era inesorabile proprio perché
era guidato da ferrei imperativi «economici». Le condizioni della Russia,
però, erano lontane dall’essere pronte al passaggio finale (supposto facile)
al socialismo, né era stato accumulato alcunché che neppure lontanamente
si avvicinasse a una maggioranza rivoluzionaria. Ciò era proprio quello che
lo stesso Lenin aveva insegnato anni prima, quando tutto questo rimuginare
era soltanto astratto, quando parlare di una presa del potere bolscevico
nella Russia zarista era come parlare del sesso degli angeli. E in pratica lo
era anche adesso, escluso Lenin, convinto che il capitalismo reso più o
meno libero e lo Stato «liberal-borghese» cui esso, secondo il dogma
marxista, era asservito, fossero stati raggiunti solo due mesi prima, con la
Rivoluzione di febbraio.
Le Tesi d’aprile erano inaccettabili, dichiarò l’edizione del 21 aprile della
Pravda, poiché «partivano dal presupposto che la rivoluzione borghesedemocratica fosse finita». Questa era l’argomentazione non di fiacchi liberali
ma dei sostenitori dello stesso raggruppamento di Lenin. Egli, però, non se
ne curò. Alla neonata democrazia borghese sarebbe stato presto posto
termine, da lui. Anche se credeva nel «marxismo scientifico», se ne
sbarazzò quando, a quel punto, ancora solo, colse l’opportunità di una
scorciatoia. Prese il sopravvento la sua impazienza di raggiungere il «più
alto obiettivo della storia» e mettere sotto la migliore luce le sue più
profonde intenzioni o, se più consona, la sua arroganza e intolleranza. O
ancora, se applicabile, la sua inconscia sete di vendetta.
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Le sue repliche all’accusa di tradire Marx potrebbero sembrare ridicole se
non si fosse stati alla vigilia di tante sofferenze. La sua cavillosa
giustificazione avrebbe contato enormemente per il mondo perché contava
così poco per lui.
In realtà non contava ancora molto poiché la sua era ancora un’opinione
molto minoritaria in un partito minoritario ai margini del pensiero e
dell’attività politica russa. Che cosa sarebbe successo se una serie
d’improbabili spinte non avessero a questo punto fatto diffondere
quell’opinione ancora stravagante? Il tentativo di Lenin di manipolare il
marxismo non sarebbe mai avanzato oltre quanto già aveva fatto dalla
stazione Finlandia: pochi centimetri o metri, parlando metaforicamente,
nell’immenso continente russo.
Di fatto, il movimento a zigzag durato sette mesi verso la seconda
rivoluzione bolscevica fu molto meno tranquillo del viaggio nel vagone
piombato. Dapprima, anche se lentamente, Il’ič riuscì a tirare dalla sua
parte alcune persone. Era un mediocre oratore ma un polemista tagliente.
La sua incessante fustigazione del governo provvisorio, che chiamava
«cadavere puzzolente», prendendo a prestito da un ammiratore la
definizione della non rivoluzionaria socialdemocrazia tedesca, cominciò a far
presa sul Soviet di Pietrogrado, soprattutto quando aumentò il risentimento
nei confronti della guerra contro le potenze centrali che ancora richiedeva
grandi sacrifici. Nello stesso tempo, le sue esortazioni e i suoi rimproveri
cominciarono ad allontanare i bolscevichi dalla frammentaria unità socialista
che il Soviet si era finora vantato di mantenere.
Il primo Congresso dei soviet, un raduno di rappresentanti di consigli
simili in varie regioni, fu riunito in giugno, due mesi dopo il suo arrivo.
Durante un discorso, a un oratore con tendenze democratiche convinto che
nessun singolo partito era preparato ad assumere da solo la responsabilità
di governo, l’ansioso Lenin replicò con il famoso «Un tale partito c’è!» Ma
anche questo indicava più la sua faccia tosta che non una qualunque realtà:
i bolscevichi erano ancora una piccola minoranza in quel Congresso e ancora
più piccola nel Paese nel suo insieme. Nonostante la loro crescente
popolarità, non avevano vinto alcuna elezione in nessuna città e, per
compiere l’opera, Lenin ebbe addirittura, alla fine del mese seguente,
motivo di temere per la sua vita.
In luglio, operai e soldati, alcuni in parte organizzati da strutture
bolsceviche di basso livello, istigarono dimostrazioni di massa. In
particolare, i cosiddetti «Giorni di luglio» di febbrile protesta e violenza nelle
strade furono una reazione al disastroso proseguimento della guerra. Ora le
prospettive di Lenin precipitarono. La partecipazione di reparti militari ai
disordini aumentarono il timore del governo di un’insurrezione in grande
stile, mentre la censura nei confronti dei bolscevichi da parte della stampa e
del popolo diminuì di molto il loro potere di attrazione. Riconoscendo
finalmente il pericolo costituito da Lenin, il governo provvisorio diede un giro
di vite al suo partito e ordinò il suo arresto.
Che cosa sarebbe successo se una polizia più solerte avesse eseguito
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quell’arresto con celerità invece di mettersi all’opera, o non far nulla, con
un’inefficienza tutta russa? La Rivoluzione d’ottobre sarebbe iniziata se
Lenin fosse stato tenuto agli arresti come lo erano leader bolscevichi di
minore importanza? Molto improbabile, anche senza voler essere pessimisti;
improbabile poi che il partito continuasse a prendere in considerazione la
«seconda» rivoluzione. Lenin, però, uscì per il rotto della cuffia, grazie non
solo ai ritardi della polizia ma anche a una soffiata dell’ultimo minuto da
parte di un simpatizzante nel ministero della Giustizia. Ecco aggiunta una
scena d’inseguimento alla sequenza di ipotesi storiche: la sua fuga fu
questione di un’ora perduta o guadagnata, a seconda dei punti di vista.
Travestito da operaio, si rifugiò in Finlandia. Nonostante la sua audacia
politica che toglieva il fiato alla gente, il grande polemista non possedeva un
grande coraggio fisico. Dal suo nuovo nascondiglio, scrisse a Lev Kamenev
per essere sicuro di pubblicare i suoi appunti se fosse stato «fatto fuori».
Benché però la Finlandia facesse ancora parte dell’impero russo, la sua
paura di essere braccato si rivelò esagerata.
Come i bolscevichi riuscissero a riprendersi al punto di effettuare la loro
reale presa del potere tre mesi dopo è un’altra storia, anche questa piena di
opportunità ancora più imprevedibili, perlopiù assicurate da disastrosi
infortuni della destra. In agosto, questa riuscì a far meglio della sinistra con
il suo errore di luglio. Lo scopo era di arginare l’ostilità popolare verso
l’esercito e sostenere la scricchiolante autorità del governo provvisorio. Il
metodo scelto fu il tentativo di ristabilire l’ordine pubblico e la disciplina da
parte del generale Lavr Kornilov, comandante in capo dell’esercito. Ciò
convinse gran parte della popolazione, non del tutto senza ragione, che i
generali zaristi reazionari fossero intenzionati a stabilire una dittatura
militare e/o a riportare Nicola al potere. I bolscevichi furono visti come la
miglior difesa contro questo tentativo, proprio come, venticinque anni dopo,
molti li avrebbero considerati la miglior resistenza al nazismo.
Benché Lenin non si facesse vedere in pubblico da luglio fino a tutta la
Rivoluzione d’ottobre, rimase l’incontrastato capo del partito anche dai suoi
nascondigli. Scrivendo con furia, incitò, anche con minacce, altri bolscevichi
all’insurrezione, rimproverando chi ricorreva a disprezzate «tattiche
parlamentari». Si trattava di «miserabili traditori della causa proletaria»,
soprattutto dopo che il sostegno popolare al partito si era trasformato in
una reazione al fallito colpo militare. «Siamo alla vigilia di una rivoluzione
mondiale!» Attendere l’azione o l’approvazione del secondo Congresso dei
soviet, che si sarebbe riunito in ottobre e avrebbe potuto votare di
continuare la politica delle regole democratiche e di una sostanziale
collaborazione, sarebbe «perfetta idiozia e puro tradimento». Mancare
questa occasione perfetta per l’azione armata avrebbe «rovinato la
rivoluzione».
Il mondo sarebbe stato incalcolabilmente diverso se l’occasione
richiamata da Lenin al suo rientro con la sua esortazione alla stazione
Finlandia fosse davvero stata mancata. Dire che il suo ruolo nel crearla
fosse molto critico non significa, naturalmente, dimostrare che una
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successiva occasione non sarebbe stata colta senza di lui; ma tutti gli
osservatori più attendibili dell’epoca ne sono convinti. Il suo maggior
contributo alla storia russa e mondiale fu la capacità di cogliere un senso del
destino in quel preciso istante oltre a un «potere ipnotico», tipico di molti
condottieri e descritto da uno dei primi collaboratori presto disgustato dai
suoi metodi. «Solo Lenin fu seguito senza porsi domande, come capo
indiscusso, così come fu solo Lenin a costituire quel fenomeno,
particolarmente raro in Russia, di un uomo dalla volontà di ferro e
dall’energia indomabile, capace di inculcare una fede fanatica nel
movimento e nella causa.»
Il Paese avrebbe preso la sua strada senza la sua guida, immaginazione e
spinta? Sarebbero comparsi altri croupier a far girare la ruota della roulette,
come si è recentemente chiesto un professore di storia? Benché, secondo
Kierkegaard, tutto sia possibile nel «gioco della storia del mondo», è difficile
immaginare un avvenimento cruciale meno probabile di una rivoluzione
bolscevica senza il «supremo genio della guida rivoluzionaria di Lenin», per
usare le parole dello storico Henry Chamberlin, concordando con la
successiva descrizione che di lui dà Gorki, «un uomo che impedì alla gente
di condurre la solita vita come nessun altro prima di lui seppe fare». Ansioso
di piacere, Stalin, di nove anni più giovane di Lenin, con una notevole
esperienza di clandestinità ma senza la capacità del fondatore di
concettualizzare e ispirare, in origine si oppose al gioco del rischiare il tutto
per tutto. Il solerte esecutore dei compiti assegnatigli era anche membro
del comitato di redazione della Pravda, essendo tornato dal confino dopo la
Rivoluzione di febbraio. Benché si fosse presto convertito alle idee di Lenin e
avesse poi ammesso di fatto l’errore nella visione da lui «condivisa con la
maggioranza del partito», rimase di mentalità troppo ristretta per concepire
grandi idee, troppo prudente per l’azione audace su vasta scala,
intellettualmente troppo limitato per costringere i suoi compagni con la
forza delle proprie argomentazioni e troppo poco carismatico per
infiammare le piazze.
Persino le splendide capacità oratorie, letterarie e organizzative di Trotzkij
non avrebbero potuto sostituire l’ossessività e l’audacia di Il’ič. La sua teoria
della rivoluzione permanente avrebbe potuto contribuire a suggerire il
bizzarro concetto di Lenin che la Russia era pronta per il governo bolscevico,
poiché era un caso speciale che richiedeva una combinazione di rivoluzione
capitalista e socialista. Trotzkij, però, che aveva a lungo predicato la
necessità di unità fra tutti i socialdemocratici quando Lenin predicava e
praticava il contrario, cambiò idea solo dopo il suo ritorno dall’estero, un
mese dopo quello di Lenin. Anche allora, se ne rimase tranquillo fino a
luglio, dopo il tentato colpo militare del generale Kornilov che diede il via
alla ripresa bolscevica. Dopo di allora e finché Lenin non ritenne abbastanza
sicuro il ritorno dalla Finlandia e prima di ottobre, l’opera di Trotzkij fu
essenziale, soprattutto come organizzatore del colpo vero e proprio in veste
di comandante operativo e come elemento chiave di collegamento con il
Congresso dei soviet essendo il suo contingente bolscevico ancora ridotto.
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Nondimeno, si sarebbe inchinato davanti a Il’ič e non solo per convocare
l’incontro segreto di ottobre del Comitato centrale ma anche per prendere la
più importante decisione di sempre del partito: prepararsi per l’insurrezione
armata. Secondo The People Tragedy, storia autorevole di Orlando Figes,
Lenin «ancora una volta… riuscì a imporre la propria volontà a tutti gli altri».
L’ispiratore e comandante in capo del partito ritenne opportuno ricomparire
in pubblico il 7 novembre3, per annunciare la notizia decisiva al Soviet di
Pietrogrado. «Compagni, la rivoluzione degli operai e dei contadini, che noi
bolscevichi abbiamo sempre detto doveva venire, è arrivata.» Il miglior
complimento che Trotzkij fece a Lenin, però, era di aver reso ciò possibile
«spostando l’intera questione» dal momento del suo ritorno in aprile.
Fin dall’inizio, aveva accusato il partito di non aver preso il potere prima e
solo perché non aveva a sufficienza educato e organizzato il proletariato. (Il
visionario che sapeva aveva solo disprezzo per i desideri degli altri russi, la
stragrande maggioranza.) «L’audacia della sua visione rivoluzionaria, la sua
determinazione nel rompere anche con i suoi vecchi colleghi e compagni
d’armi se si dimostravano incapaci di tenere il passo della rivoluzione… [e] il
suo infallibile sentimento per le masse erano», riconosceva Trotzkij,
indispensabili, e citava anche un importante leader provinciale presente
all’arrivo di Lenin in aprile. «La sua frenesia, dapprima non del tutto
comprensibile a noi bolscevichi che pensavamo fosse dovuta a un’utopia
derivante dalla sua lunga assenza dalla vita russa, fu da noi gradualmente
assorbita. Si potrebbe dire che penetrò nella nostra carne e nel nostro
sangue.»
Non occorre dire che Il’ič non fu l’unico responsabile del crescente
disgusto della Russia per la guerra e della propensione rivoluzionaria tra i
bolscevichi, tanto meno nel Paese in generale. Gli Alleati occidentali, Gran
Bretagna, Francia, Stati Uniti, contribuirono con la loro pressione a farle
continuare a combattere la loro bestia nera tedesca, anche se il governo
provvisorio si sarebbe ritirato dalla guerra il più presto possibile. Che cosa
sarebbe successo se l’avesse fatto? E se avesse anche compiuto lo
sgradevole ma necessario passo non prima di luglio, anche dopo il suo mal
consigliato, mal eseguito, costosissimo tentativo di un’altra offensiva (il
fiasco galiziano) allora lanciata in aiuto dello sforzo comune alleato. I partiti
e le personalità di tendenza democratica sarebbero stati probabilmente
abbastanza forti da resistere al bacillo bolscevico, come i suoi nemici ormai
lo chiamavano, anche dopo che Lenin era riuscito a sfuggire all’arresto.
Proprio come contribuì ad abbattere la monarchia, la guerra – o, più
precisamente, la rivelazione degli spaventosi fallimenti di Nicola II e dei suoi
servili ministri nel condurla – fece lo stesso con il governo provvisorio,
nonostante il tempo che i suoi membri avevano avuto per fare esperienza.
Avendo patito indicibili sofferenze, le truppe russe, demoralizzate, non
riuscivano a capire perché dovessero continuare a combattere e si
rivoltarono contro gli ufficiali e i «politici» che li spingevano a farlo.
3 25 ottobre nel calendario russo lì ancora in uso.
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Se solo i leader alleati, russi o occidentali, fossero stati astuti come Lenin
nel riconoscere che la Russia doveva subito abbandonare la guerra! Eppure,
egli considerò il ritiro secondario rispetto all’uso di questa grandiosa
possibilità di, giochi di parole a parte, capitalizzare sullo scontento. Con la
sua grinta eccezionale e la sua superiorità intellettuale sui suoi avversari,
l’uomo magnetico l’incanalò verso la sua rivoluzione, quella cosiddetta
proletaria. Una mente «capace in ogni momento di fornire a
un’organizzazione centralizzata le decisioni [e] a ogni individuo istruzioni
dettagliate era tra le sue caratteristiche peculiari», avrebbe concluso
Aleksandr Solzenitzyn. Non meno importante, però, era la sua abilità nel
fornire alle masse slogan trascinanti.
Dotato di una volontà di ferro, era anche maestro nell’assumere
atteggiamenti intransigenti e a imporli agli altri, nonostante tutto. In
seguito, avrebbe permesso un occasionale leggero rilassamento, soprattutto
quando cercò di rimettere in sesto l’economia distrutta dalla guerra civile.
Durante la lotta per il potere, però, non odiò nulla più delle concessioni e
della conciliazione. Se una persona vigorosa odia, lo citò un ammiratore,
«odia davvero». Tutta la sua vita fu animata dal bisogno di guidare, non
solo alimentare, la lotta di classe. Benché la sua simpatia per gli oppressi
fosse senza dubbio genuina, essa era superata dall’astio nei confronti del
sistema che era costata la vita al fratello. («Gliela farò pagare, lo giuro», si
dice abbia esclamato alla notizia dell’esecuzione.) Quella, naturalmente non
fu la causa della Rivoluzione d’ottobre ma il catalizzatore di una leadership
davvero singolare.
Le ragioni ufficiali del governo provvisorio per ordinare l’arresto di Lenin
in luglio comprendevano l’accusa, in apparenza provata da un incartamento
rilasciato dal ministero della Giustizia, di essere una spia tedesca. Dopo aver
provocato un’intenzionale offesa al suo prestigio, quel materiale dubbio
continuò a godere lunga vita tra i suoi detrattori. Il peso delle prove
accumulate da allora, però, lascia pochi dubbi sul fatto che, mentre prese
davvero un po’ di denaro per il viaggio, come già detto, non operò come
agente tedesco. Infatti, fu lui a utilizzare la Germania piuttosto che il
contrario e, alla fine, danneggiandola in maniera catastrofica. Il governo del
Kaiser l’aiutò a ritornare in Russia allo scopo, citando di nuovo un
cablogramma al ministero degli Esteri della Wilhelmstrasse, di «esacerbare
le differenze tra partiti moderati ed estremisti poiché abbiamo il massimo
interesse che questi ultimi prendano il sopravvento, dato che la rivoluzione
poi… minerà la stabilità dello Stato russo». Poche manovre diplomatiche
funzionarono meglio, o peggio. Peggio perché contribuirono a provocare la
rovina della Germania, a iniziare dal 1933. Benché i fattori che spiegano la
caduta di quel Paese progressista e acculturato nella tragica rete del
nazismo non siano mai stati definitivamente classificati per importanza, la
paura popolare del comunismo è ai primi posti in ogni lista. La rivoluzione di
Hitler di sicuro non avrebbe avuto successo senza un mostro bolscevico da
agitare per spaventare i suoi uditori. Che cosa sarebbe poi successo se la
Germania non avesse acconsentito al passaggio di Lenin? Egli avrebbe
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potuto studiare un altro percorso, attraverso l’Inghilterra, la Francia o la
Norvegia, per esempio, ma lui e i suoi agenti, dopo aver preso in
considerazione queste opzioni, le respinsero come impraticabili o impossibili.
(Fu scartato anche un piano per farlo passare attraverso la Germania
fingendosi cieco e sordomuto e, chissà perché, svedese, dato che,
scherzava sua moglie, si sarebbe tradito insultando i suoi avversari non
rivoluzionari nel sonno.) Gli Alleati occidentali, interessati alla Russia, come
si è visto, quale secondo fronte contro gli eserciti di Berlino, sarebbero stati
molto restii a favorire il suo viaggio poiché non avevano motivo di
condividere l’interesse della Germania per la sua potenzialmente corrosiva
opposizione al proseguimento della guerra. Inoltre, altre soluzioni avrebbero
di certo richiesto un mese o più per l’organizzazione, come nel caso di
Trotzkij detenuto in Inghilterra e rientrato in Russia quasi nello stesso
momento. Durante quel periodo critico dell’attesa, il governo provvisorio e il
Soviet di Pietrogrado avrebbero potuto consolidare le loro posizioni e la loro
situazione raggiungendo una maggiore collaborazione, come alcuni loro
membri stavano già chiedendo a gran voce. Il’ič, straordinariamente attento
a molte di queste problematiche tattiche, sentiva all’epoca di dover scalzare
le loro fondamenta prima che il loro cemento facesse presa e, ai suoi occhi
impazienti, il «vagone piombato» appariva come la speranza.
Se la Germania avesse di fatto respinto il piano, le conseguenze
sarebbero state enormi e senza dubbio positive. L’Assemblea costituente
della Russia da lungo tempo programmata per dare alla nazione una
struttura democratica si riunì a Pietrogrado nel gennaio 1918. I suoi membri
erano stati scelti mediante elezioni nazionali abbastanza regolari, ma troppo
tardi. Che il primo referendum popolare libero della storia russa fosse
tenuto sotto il regime sovietico fu tragico quanto paradossale. Perché Lenin,
dopo aver affermato che solo ai bolscevichi poteva essere affidata la
convocazione di una tale assemblea, la sciolse dopo un’unica sessione,
anche se, o proprio perché, la quota bolscevica dei voti era solo del 25 per
cento.
Che cosa sarebbe successo se non fosse stata sciolta? E se i bolscevichi
non avessero avuto i cannoni per farlo? Vale la pena di ripetere che poteva
anche succedere che l’assemblea non raggiungesse un sufficiente
compromesso per stabilire un sistema di governo che funzionasse e fosse in
grado d’imporsi al popolo, proprio come non è detto che il Paese nel suo
insieme riuscisse a dar vita a una società civile democratica funzionante.
«Se Lenin non fosse mai salito su quel treno», rifletteva di recente un
residente da lungo tempo nella tetra Russia postcomunista, «questo posto
sarebbe ugualmente un caos.» Non lo stesso tipo di caos, però. La Russia
prebolscevica non era la terra spettrale del marchese de Custine, le cui
immagini del XIX secolo di arretratezza, sospetto e ambiguità sono ancora
impresse negli occhi di molti occidentali. Nonostante tutto, aveva una
piccola probabilità di recupero, prosperità e rispetto dei diritti civili sotto un
sistema parlamentare che gli europei avrebbero considerato abbastanza
«normale». Le elezioni per quell’Assemblea costituente servirono da
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sondaggio nazionale. La conquista bolscevica di non più di una netta
minoranza, benché il partito fosse già al potere e manipolasse alla grande,
dimostrò la forza degli altri raggruppamenti, che avevano tutti più o meno
istinti democratici. Le dichiarazioni dei loro leader durante l’unica sessione
dell’assemblea testimoniò, così come avevano fatto gli scambi d’opinione e
le discussioni per tutto il periodo del doppio potere, anche nel Soviet di
Pietrogrado, una generale accettazione delle norme e aspirazioni
parlamentari. Solo Lenin avrebbe disperso quell’assemblea molto
promettente di idealisti e riformatori, proprio come se egli soltanto fosse
riuscito a galvanizzare i bolscevichi verso il suo obiettivo di conquistare il
potere.
Se non fosse stato per il suo estremismo, una Russia ancora piena di
forze creative, produttive, razionali e persino moderate avrebbe anche
potuto essere governata per un po’ dai socialisti invece di qualcuno che
proclamò la dittatura del proletariato, considerava lo Stato «uno strumento
della dominazione di classe» (ancora Lenin, con il suo corsivo) e corse a
creare apparati repressivi. (Avendo ignorato la profezia di Marx secondo cui
la rivoluzione proletaria avrebbe avuto luogo nei Paesi avanzati i cui
lavoratori costituivano la grande maggioranza, Il’ič dovette alterare
l’affermazione che lo Stato si sarebbe dissolto. Al contrario, per contrastare
spietatamente gli inevitabili nemici del socialismo, era necessario uno Stato
molto potente.) Di sicuro le sarebbe stata risparmiata la concentrazione di
un immenso potere in un partito militarizzato la cui ideologia, comprendente
il mondo intero, fu imposta da una spaventosa polizia segreta.
Che fosse o no inevitabile, la casa costruita da Il’ič era aperta perché vi
entrasse Stalin. Benché la sua legittimità di erede rimane oggetto di
dibattito, il secondo sarebbe di sicuro rimasto una figura molto marginale
senza il primo. In poche parole, niente Lenin, niente Stalin. O meglio, ci
sarebbe stato solo uno Stalin di cui soltanto gli storici avrebbero avuto
sentore: un rivoluzionario determinato, morto però in una relativa oscurità.
E inoltre niente guerra civile russa? Niente carestie, comprese quelle più
o meno intenzionali per obbligare i contadini ad accettare l’agricoltura
collettivistica? E niente purghe feroci e altre infinite sofferenze a riempire
spazi sconfinati? Quasi di sicuro. Come quasi di sicuro, sarebbe fiorita
copiosa una civiltà essenzialmente europea, con fiori non gravemente
sciupati anzi, in alcuni casi, fertilizzati da elementi del caos russo. Le purghe
e la Grande Guerra Patriottica, come Mosca chiamò la sua lotta mortale con
la Germania nazista, costò circa 40 milioni di vite sovietiche. È difficile
immaginare anche una frazione di quelle perdite senza l’ossessione e
l’eredità di Lenin.
È anche difficile immaginare un conflitto globale con l’Occidente. La
Russia del XX secolo sarebbe divenuta molto potente sotto qualsiasi
sistema, probabilmente abbastanza per rivaleggiare con l’America
nell’influenza economica e politica, dando forse, in tale processo, fastidio
all’Europa occidentale. Dati statistici indicano che la sua crescita, notevole
prima del 1917 nonostante tutti gli impedimenti e le limitazioni, sarebbe
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stata sostanzialmente maggiore se non fosse finita sotto il regime sovietico,
senza il quale, poi, non ci sarebbe stata quasi certamente nemmeno una
Guerra Fredda.
Solo i comunisti, come infatti i bolscevichi si ribattezzarono, avrebbero
potuto provocare una tale reazione occidentale alle minacce da est.
All’intenzionale esagerazione di Washington di tali minacce e al suo
abbassarsi al livello sovietico vanno addebitate più responsabilità per la
Guerra Fredda di quanto la maggior parte degli americani amino pensare.
Eppure, la sua causa prima fu la stessa arroganza che Lenin, convinto di
aver raggiunto la suprema saggezza e di detenere le chiavi della storia e
della felicità umane, dimostrò imponendo la sua rivoluzione al suo
recalcitrante Paese. Schernendo e deridendo i governi stranieri «borghesedemocratici» come quello russo, sfidò non solo il capitalismo occidentale ma
anche la democrazia sempre più liberale su cui si basava. «Sappiamo quel
che è bene per tutti. Vi faremo un favore aiutandovi a buttar giù le vostre
istituzioni marce e già condannate.» Anche senza quell’ideologia, sostenuta
da Lenin partendo da una riflessione teorica per arrivare a un’effettiva
provocazione, la Russia e gli altri Paesi d’Europa e del Nord America
sarebbero potuti entrare in grande competizione, ma di sicuro anche la più
forte rivalità non sarebbe arrivata alle proporzioni della Guerra Fredda. Al
contrario, la Russia sarebbe stata forse integrata, seppur lentamente e a
volte dolorosamente, in quello che verrà chiamato mondo libero.
Niente Guerra Fredda, niente steccati per paura dello scoppio di una
guerra guerreggiata. Niente spreco di smisurati sforzi, soldi e risorse per la
«difesa», praticamente in ogni continente. E niente orribili inquisizioni,
mostruose carcerazioni, grotteschi «giochi» spionistici. (Niente pallottole
nella nuca di forse 12.000 ufficiali polacchi, tanto per prendere, fra una
miriade di esempi, il massacro della foresta di Katyn.) Niente censure,
informazioni distorte e grandi e piccole menzogne utilizzate pro e contro il
comunismo, proposto da una parte come il paradiso e dall’altra come
l’inferno, con tutta la fideistica sicumera dei leader di entrambe le parti. In
breve, niente pianeta diviso nell’ostilità. Naturalmente, la stessa Russia ha
sperperato e distorto più di qualunque altro Paese, ma l’America, la cui
missione nazionale si è largamente limitata per quarantacinque anni a
combattere il comunismo, si è piazzata al posto d’onore. Non si esagera
affermando che questa lotta ha ovunque intaccato la qualità della vita
umana nella seconda metà del XX secolo.
In tal senso, il vecchio slogan comunista che «Lenin è più vivo dei vivi» è
vero anche oggi. Il peso è stato tolto ma le storture e le povertà
permangono, ancora una volta soprattutto in Russia, dove il
quarantasettenne Il’ič ritornò nel suo modo curioso (la Germania concesse
di fatto al suo treno l’extraterritorialità), allo scopo di condurla lungo il
sentiero della menzogna, con la sua serie di svolte fortunate per lui ma che
si dimostrarono così sfortunate per il mondo.
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