Alla luce della lanterna per raccontare il regno delle acque

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Alla luce della lanterna per raccontare il regno delle acque
Alla luce della lanterna per
raccontare il regno delle acque
Il guardiano del faro/8. L'occhio del Ciclope ha una piccola anima insospettabile:
una lampadina da 12 watt che penetra la notte anche per settanta miglia
di PAOLO RUMIZ - 2014
Una lampadina di 12 watt grande come un'unghia. Ecco cosa c'è nell'occhio del Ciclope, uno dei
più potenti fari del Mediterraneo, una macchina capace di penetrare la notte anche per un diametro
di settanta miglia, la distanza tra l'Africa e Mazara del Vallo; una spada di luce che, se lanciasse il
suo raggio in verticale, sarebbe visto anche dai satelliti, così come nelle notti serene noi vediamo
la luce intermittente dei satelliti a occhio nudo. Non so perché ci ho messo tanto a guardare dentro
i cristalli concentrici dell'apparato ottico. Stamattina ci ho ficcato il naso e ho trovato - sbalordito una capocchia di spillo, dodici watt per sessanta volt, come una miserabile lampadina
d'automobile. Il viaggio nel mondo dei fari ricominciava da lì. Dalla scoperta che la potenza di una
lanterna di mare non sta in un nucleo ardente di energia inimmaginabile, da un nocciolo tipo
centrale nucleare, ma nel fantastico gioco di prestigio di alcuni prismi capaci di moltiplicarlo.
C'è un mondo, nascosto in quel mirabile arnese. Se l'isola è il centro di un mare - la nostra lo è - e
c'è un faro che sta al centro di quell'isola, allora è proprio il faro è il centro euclideo di quel mare.
Ma siccome niente come la lampadina sta al centro di un faro, allora possiamo trarre la
conclusione che, anche geometricamente, quella fonte di luce appena più grande di uno
stuzzicadenti possa essere, a tutti gli effetti, il punto di mezzo del nostro regno delle acque. Se
infine teniamo a mente che il Mediterraneo sta al centro delle terre che formano Europa, Africa e
Asia, possiamo portare al limite estremo la nostra visione e dire che proprio quel filamento di una
frazione di millimetro può legittimamente dirsi punto di mezzo di tre continenti vasti migliaia di
chilometri. Così viene da pensare, quando si passa qualche ora lassù, di notte, col vento che
scardina i vetri, davanti a un cristallo che ti cattura come l'iride di un gatto nel buio.
A Trieste, quando voglio farmi raccontare storie di tempeste e bastimenti, vado allo Skipper Point a
sentire capitan Sandro Chersi, uno che non ha scritto quasi un rigo in vita sua ma sa narrare come
pochi. Per una noia alle corde vocali, la sua voce è poco udibile e gratta come un vecchio
settantotto giri, ma è proprio questo che lo ha obbligato a ridurre il parlare all'essenza più mirabile,
come un esametro greco o una pietra levigata dalle tempeste. Bere con lui un calice di malvasia
può essere il preludio di mille e una meraviglie, un godimento per l'anima; e siccome gli scrittori
altro non sono che ladri dei racconti a voce fatti da altri, io spesso mi attacco alla sua compagnia
per perpetrare qualche furto con destrezza. Lui lo sa benissimo, e gli va bene così. Ho persino il
sospetto che mi sia vagamente affezionato. Ma ora è tempo che dia a Cesare quello che è di
Cesare.
Ricordo di quando mi narrò l'avvistamento del faro di Pelagosa, che in Adriatico è impossibile
mancare durante la regata Rimini-Corfù. "Stai a testa alta al timone e non dici niente... Quello è un
luogo che ti fa capire che, oltre al lumino della tua esistenza c'è l'incommensurabile nulla.... Quello
strapiombo è la rappresentazione del mistero, sei davanti a qualcosa che ridicolizza le miserie
degli umani... E poi di notte, con calma di vento e le stelle, puoi sentire le generazioni passate su
quella rotta prima di te...". Così diceva, per poi dare la stura a una delle sue consuete sequele di
invettive contro la modernità che aveva ucciso i fari con il Gps per poi svuotarli della presenza
umana con l'automazione. Il faro di Pelagosa, lui lo sapeva, era uno dei pochi ancora abitabile e
governato da uomini. Ed erano di sicuro uomini con la "U" maiuscola.
Una sera triestina l'avevamo passata a spritz e patatine allo Yacht Club Barcolana, insieme al due
volte campione del mondo Daniele Degrassi, e sentii i due lupi di mare descrivere i più bei fari del
mondo. Capo Finisterre, il re delle tempeste in Bretagna. Cape Leewin in Australia, a strapiombo
su onde color zinco sotto un sole abbacinante. E poi il Fastnet - ma certo il Fastnet in Irlanda! - giro
di boa di una delle regate più leggendarie di tutti i mari, "il più bello come forma e proporzioni",
dove per veder passare i concorrenti "vedemmo sbucare dalla nebbia decine e decine di barchette
con famigliole irlandesi a bordo in un mare che era quasi tempesta". E poi perché no, i "nostri" fari
adriatici, e per "nostri" i due marioli intendevano ovviamente gli indistruttibili bastioni che la defunta
monarchia austro-ungarica aveva distribuito sulla costa orientale.
Tramontava, e io sentivo frasi del tipo: i fari vanno attesi, cercati... sono i tuoi parenti stretti, sono
mamma e papà... ma oggi con la navigazione satellitare la magia è finita... puoi prevedere al
minuto secondo quando li vedrai... e poi che siano accesi o spenti non cambia. Cose così. "Sai
quale è stato il faro più deludente della mia vita?", mi chiese Sandro a bruciapelo. Ovviamente non
potevo indovinarlo. Il capitano rispose: "Portorico, perché è stato il primo che ho visto col
navigatore satellitare". Sopra di noi, l'immenso faro della Vittoria, con in cima l'angelo dalle grandi
ali aperte, sembrava annuire con i primi lampi nella sera.
Sull'evoluzione dei tempi capitan Sandro aveva le idee chiare. Dopo la battaglia di Lissa del 1866,
vinta dagli austriaci con equipaggi adriatici contro un'Italia in prevalenza tirrenica, qualcuno aveva
sentenziato che "uomini di ferro su barche di legno avevano battuto uomini di legno su barche di
ferro", per dire che la flotta italiana, più moderna, era stata sgominata da indomiti marinai della
vecchia guardia. Quella sera Chersi completò la parabola della degenerazione dicendo in dialetto,
con un lampo negli occhi: "Ogi gavemo omini di merda su barche de plastica". Non potevo dargli
torto. Se ero scappato su un isola solitaria era anche per parlare al mare senza l'orda degli
arroganti tra i piedi.
(8 - continua)