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ae 9-10/2012
agricoltura alimentazione economia ecologia
Rivista trimestrale della Federazione lavoratori
agroindustria della CGIL e della Fondazione Metes
Ricerca e formazione nel settore agroalimentare
per il lavoro e la sostenibilità
DIRETTORE RESPONSABILE
Franco Chiriaco
DIRETTORE
Franco Farina
REDAZIONE
Claudia Cesarini
Massimiliano D’Alessio
Elisabetta Olivieri
Laura Svaluto Moreolo
Alessandra Valentini
EDIZIONI
LARISER
ae
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agricoltura alimentazione economia ecologia
■ RIVISTA TRIMESTRALE N. 9-10 ■ GENNAIO-GIUGNO 2012
Direzione, redazione e segreteria
Via dell’Arco dei Ginnasi, 6 - 00186 Roma
Tel. 39.06.6976131 (centralino)
Fax 39.06.697613226 - E-mail: [email protected]
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Editore
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Progetto grafico
Antonella Lupi
Stampa
Tipografia O.Gra.Ro. - Vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma
Distribuzione in libreria
PDE
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n. 491/2001 del Registro della stampa
Proprietà
Lariser
copyright by Lariser 2010
Ediesse s.r.l. 2012
Questo numero è stato chiuso in tipografia l’11 luglio 2012
Questa rivista è
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Egregio Abbonato, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 675/1996 La informiamo che i Suoi dati sono conservati nel
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■ Sommario
■ Presentazione
Franco Chiriaco
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■ Monografia | Tesseramento e sindacato
L’argomento
Contrattazione rappresentanza proselitismo
Stefania Crogi
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Temi
Tesseramento e politiche organizzative
Ivana Galli
Tesseramento e politiche rivendicative
Franco Farina
Sindacalizzazione e tesseramento
Adolfo Pepe
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Modelli organizzativi e politiche di affiliazione in Europa
Il modello inglese
Maria Paola Del Rossi
Il «caso francese» tra culture politiche e relazioni industriali (1895-1995)
Sante Cruciani
Il modello scandinavo
Paolo Borioni
Il modello tedesco
Maria Paola Del Rossi
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■ L’analisi
La riforma della Politica comune della pesca:
gli effetti socioeconomici di breve periodo
Alessandra Borello
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■ Rubrica: Lavoro e salute
Salute e lavoro delle donne nel settore agroalimentare:
risultati di un’indagine sul campo
Irene Figà Talamanca
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■ Segnalazioni e recensioni
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■ Abstract
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■ Presentazione
Franco Chiriaco*
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uesto numero si apre con una nuova e inedita grafica di AE e con una monografia sul tesseramento sindacale: inizia, quindi, con un argomento antico ma in una veste tipografica aggiornata.
Calvino suggeriva di osservare la realtà con uno sguardo lieve e indiretto. Questo
consiglio gli giungeva dal mito di Medusa, che con il suo capo spaventoso pieno di
serpenti pietrificava chiunque la vedesse. Perseo, che osservava di riflesso la rappresentazione della realtà indurita attraverso lo specchio dello scudo, evitava la pesantezza e introduceva la leggerezza come immagine della realtà. Questa leggerezza è il
senso positivo della modernità.
La scrittura di una rivista, così come per AE, non può essere fantastica, richiede rigore, argomentazione e ragionamenti. È sempre scrittura d’impegno e di cura per la conoscenza. La lettura è un processo mentale che nella comprensione
della realtà non è mai indifferente alla forma e allo stile che possono, a loro volta,
stabilire vicinanza e infondere leggerezza al contenuto. Il rinnovamento grafico di
AE ha il proposito di mettere a disposizione un rifrangente per rendere agile la lettura e per restituire la realtà alla consuetudine dei nostri giorni e al nostro lavoro
sindacale.
Il tema prevalente del numero, come sopra accennato, è il tesseramento. Un argomento fondamentale, diremmo iniziale a qualsiasi apertura di valutazione sul
sindacato. L’iscrizione, il tesseramento, il proselitismo richiamano, oltre al dato
quantitativo e numerico, la funzione nazionale della Cgil, il suo ruolo di rappresentanza lungo più di un secolo e la formazione di un sistema valoriale e identitario del sindacato. È una memoria storica e politica che va utilizzata e messa a confronto con i mutamenti oggi in corso nella produzione materiale e con l’esplicito
tentativo di liquidare il lavoro come fondamento e fonte programmatica della stessa Costituzione. Il tesseramento sindacale, come proposito strategico, è la sfida per
l’azione di rappresentanza del sindacato ed è un baluardo e un argine alla deriva
dell’individualizzazione della società.
* Presidente Fondazione Metes.
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S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo, apre la monografia sul tesseramento soffermandosi sull’attuale situazione politica italiana e, in particolare,
sugli interventi del governo Monti relativi alla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro. Valuta l’esigenza di uno stretto rapporto tra il rilancio della contrattazione e il tesseramento. Infatti, considera l’adesione al sindacato come indispensabile per il potere sindacale e per il raggiungimento degli obiettivi concreti
per tutti i lavoratori. I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative, si trattiene
sull’importanza del radicamento dell’organizzazione per favorire l’iscrizione al
sindacato e per rendere più incisive le politiche rivendicative, le tutele e i diritti
dei lavoratori. Analizza l’importanza dei Comitati degli iscritti come luogo privilegiato di partecipazione, d’informazione sulle attività e sullo stesso proselitismo
sindacale. F. Farina, Tesseramento e politiche rivendicative, rileva come il rilancio e
l’innovazione delle politiche rivendicative e della struttura contrattuale portarono negli anni cinquanta ad un recupero e ad una crescita delle tessere alla Cgil.
Considera l’indebolimento della struttura contrattuale come una causa della poca attrazione dei lavoratori verso il sindacato e come una delle ragioni della manifestazione del rapporto tra singolo lavoratore e impresa. Osserva la necessità di
un rilancio dei contenuti delle politiche rivendicative, di una riforma intellettuale dell’organizzazione, di un sollecito recupero delle conoscenze e dei saperi sindacali. Adolfo Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento, analizza – all’interno di un
quadro storico di lungo periodo che giunge all’oggi – l’evoluzione delle modalità di affiliazione e proselitismo dell’organizzazione sindacale coniugandola più in
generale con il tema della rappresentanza e del sistema valoriale e identitario del
sindacato. In questo quadro, M.P. Del Rossi, Il modello inglese, Il modello tedesco,
S. Cruciani, Il «caso francese», tra culture politiche e relazioni industriali (18951995), P. Boroni, Il modello scandinavo ricostruiscono l’evoluzione del sistema organizzativo e di affiliazione dei principali sindacati europei: Gran Bretagna, Francia, Scandinavia e Germania. I saggi, attraverso un’analisi storico-politica di lungo periodo, mostrano come i cambiamenti strutturali intervenuti nell’economia,
nel mercato del lavoro e nella società abbiano avuto riflessi diretti nella ridefinizione delle strategie politiche ed organizzative del sindacato, incluse quelle di reclutamento.
Il fascicolo, inoltre, contiene un interessante studio di A. Borello, La riforma della Politica comune della pesca: gli effetti socioeconomici di breve periodo, che analizza le
innovazioni istituzionali e finanziarie della riforma sulla pesca della Commissione
europea. Si sofferma sui contenuti della proposta di riforma, sulle principali novità
che il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp) introdurrà e sui possibili effetti degli addetti al settore in Italia. I. Figà Talamanca, Salute e lavoro delle
donne nel settore agroalimentare: risultati di un’indagine sul campo, analizza i dati del-
Presentazione
la ricerca svolta in alcune aziende agricole e nell’industria alimentare con lo scopo
di indagare la percezione e la soggettività delle donne sui rischi e sui danni alla salute derivanti dal lavoro, sulle misure di prevenzione adottate (o omesse), sui disagi
e i problemi che queste donne affrontano ogni giorno nello svolgimento del lavoro.
Il fascicolo si chiude con le segnalazioni e le recensioni di alcuni libri recentemente
usciti in libreria.
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Monografia
Tesseramento e sindacato
■ L’argomento
■ Temi
■ Modelli organizzativi e politiche
di affiliazione in Europa
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■ L’argomento
Contrattazione rappresentanza proselitismo
Stefania Crogi*
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i troviamo di fronte, ormai da mesi, a uno scenario politico inedito: un
governo nato come tecnico, per traghettare l’Italia fuori dalla crisi, sta assumendo scelte politiche forti, con una impostazione fatta di tagli e sacrifici. Contemporaneamente non c’è nulla, nei provvedimenti assunti fino ad ora, che
porti il segno della tanto annunciata equità e tantomeno dello sviluppo. Alcune scelte sono state fatte e sono quelle dei sacrifici per le fasce più deboli ed esposte, o quella di non fare una patrimoniale vera, come più e più volte chiesto in primis dalla
Cgil. A queste scelte, tutte politiche, va data una risposta politica e sindacale, cioè
contrattuale.
In tale contesto il ruolo del sindacato è fondamentale e, tuttavia, il governo in
questi mesi sta tentando, non riuscendoci, di renderlo marginale.
Non è un caso che la riforma delle pensioni sia stata fatta dal governo senza nemmeno consultare o ascoltare le organizzazioni sindacali, e che sul d.d.l. di riforma
del mercato del lavoro (anche questo firmato Fornero) il governo abbia scelto di registrare esclusivamente una distanza delle parti. In questo modo il ruolo negoziale
del sindacato viene in qualche modo messo da parte. Si tratta della fine della concertazione, sostituita dalla verbalizzazione di Monti.
Se guardiamo alla nostra categoria ci troviamo di fronte ad una situazione di stallo per quanto riguarda i rinnovi dei contratti nazionali: dal contratto dell’Industria
alimentare ai Cpl in agricoltura, passando per i Consorzi di bonifica. Finita la fase,
che giudichiamo positivamente, dei rinnovi dei contratti integrativi, quando si arriva al rinnovo dei Ccnl assistiamo ad una ingessatura, ad uno stop, e questo ci
preoccupa.
Viene chiamata in causa la crisi, la difficile congiuntura economica, ma questa
non può essere la scusa buona da presentare in ogni momento. Anzi, è proprio attraverso la contrattazione che si può superare la crisi. I rinnovi contrattuali devono
essere una opportunità di sviluppo e di crescita, proprio rinnovando, valorizzando
il lavoro e rilanciando sul tema dei diritti e delle tutele, poiché deve essere chiaro a
* Segretario generale della Flai-Cgil nazionale.
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tutti – e a tutte le parti datoriali – che uscire dalla crisi non può voler dire tagliare
sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, risparmiare sulla sicurezza di chi lavora o
liberalizzare selvaggiamente, come abbiamo visto, ad esempio, con il capitolo dei
voucher contenuto nel d.d.l. lavoro.
Il contratto è uno strumento per i lavoratori e per le imprese, anche in un’ottica
di programmazione e d’investimento sul capitale umano, guardando al futuro. Dalla qualità del lavoro, dalla professionalità e dalla qualità dei prodotti possono venire gli elementi per uscire dalla crisi ed essere attraverso essi competitivi anche sui
mercati internazionali. Tutto questo deve essere al centro delle relazioni industriali
e sindacali, con il sindacato caparbio nel ricercare il confronto anche là dove esso è
più difficile. Infatti, solo se contrattiamo e negoziamo siamo realmente sindacato, e
andiamo a svolgere fino in fondo quel ruolo a cui siamo chiamati e per il quale dobbiamo essere giudicati.
Il sindacato deve portare avanti il ruolo negoziale e assumere in pieno la sfida di
rilanciare il proselitismo: sotto questo aspetto dobbiamo e possiamo fare di più. Siamo in una fase in cui con l’adesione ci si misura sul ruolo e le azioni che andiamo
a svolgere, e dobbiamo far comprendere che è tramite il sindacato e l’adesione a esso che si possono raggiungere obiettivi concreti e soluzioni praticabili.
Per questo affermiamo l’importanza del proselitismo, da promuovere a ogni livello, senza il quale ci mancherebbe la forza, il necessario slancio. Il nostro ruolo lo
esercitiamo se abbiamo adesioni e, quindi, rappresentanza. Contrattazione, rappresentanza e proselitismo sono i tre lati di un triangolo: tre lati uguali, sui quali lavorare con la stessa intensità.
Sulla rappresentanza voglio ricordare che l’accordo del 28 giugno 2011 indica la
centralità del contratto nazionale, il quale può stabilire quelle materie che saranno
di pertinenza della contrattazione di secondo livello. Con l’accordo di giugno, si
prevedono regole precise su chi detiene la titolarità a firmare i contratti e chi no,
proprio sulla base della rappresentanza e rappresentatività.
Come Flai, insieme a Fai e Uila, abbiamo lavorato unitariamente su questo punto delicatissimo. Pensando al valore della rappresentanza e volendo rilanciare il ruolo delle Rsu dei lavoratori, abbiamo siglato un nuovo Patto, dopo diciotto anni dal
precedente, per contrattare al meglio le condizioni di lavoro e difendere i diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici. Da questo patto scaturirà, per i lavoratori della Flai, una
grande stagione di elezioni per il rinnovo delle Rsu, quindi un input in più per quell’azione di proselitismo di cui parlavamo.
■ Temi
Tesseramento e politiche organizzative
Ivana Galli*
Premessa
I concetti fondamentali su cui ruota una parte importante del nostro lavoro organizzativo sono: missione, proselitismo, tesseramento, rappresentatività, importanza dei territori e dei luoghi di lavoro. Infatti, più sarà forte il nostro radicamento sui
territori e significativo il numero degli iscritti, tanto più sarà incisiva e determinante la risposta contrattuale che possiamo ottenere.
Organizzazione e rappresentatività del sindacato
Al primo posto ci sono la tutela e l’estensione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che rappresentiamo. Se questa è la nostra primaria missione, per concretizzarla è necessaria un’azione su due fronti: quello organizzativo e quello della rappresentatività. Dal punto di vista organizzativo è necessario sviluppare tutta la nostra
capacità di presidiare ed essere presenti sul territorio e nei luoghi di lavoro. La rappresentatività si sviluppa attraverso la sottoscrizione dei Ccnl e degli accordi aziendali, che migliorino l’organizzazione del lavoro (dalla tutela del reddito alla sicurezza sul
posto di lavoro, al welfare e, quindi, a un miglioramento della qualità del lavoro ma
anche della vita delle persone).
La Cgil tutela complessivamente il lavoratore, in un senso più ampio: possiamo
dire che attraverso il sindacato confederale vi è la tutela del cittadino/lavoratore e che
la confederalità è anche tutela dei diritti costituzionali. Come diceva Giuseppe Di Vittorio nel 1946: «Il sindacato, perciò, è lo strumento più valido per i lavoratori, per
l’affermazione del diritto alla vita e del diritto al lavoro, che dovranno essere sanciti
dalla nostra Costituzione»1.
La nostra missione non è rappresentata solo dall’affrontare i temi del lavoro, dei
diritti, del welfare, ma è anche senso di appartenenza, identità: trasmettendo ai la* Segretario della Flai-Cgil nazionale.
1 G. Di Vittorio, Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, relazione commissione per la Costituzione, III sottocommissione, Roma, 1946. Si veda, inoltre, A. Tatò (a cura di), Di Vittorio. L’uomo, il dirigente, vol. II, 1944-1951, Editrice sindacale italiana, Roma 1969.
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voratori ed alle lavoratrici che rappresentiamo e che scelgono di essere rappresentati
da noi, una base di valori comuni. Per fare questo è necessario un sistema di valori
condiviso, che assuma il ruolo di direttrice del nostro agire. I nostri valori sono: i dettati della Costituzione (art. 2), lo Statuto Cgil, le pari opportunità, la qualità del lavoro e la sicurezza sul lavoro, la centralità del sapere, il pluralismo, l’autonomia del
sindacato e la democrazia sindacale, l’uguaglianza, la solidarietà, la pace, l’unità dei
lavoratori, la solidarietà attiva tra i lavoratori e la solidarietà intergenerazionale, lo sviluppo equilibrato tra le diverse aree del mondo, la sostenibilità e tutela ambientale,
la legalità, il contrasto al lavoro nero, irregolare e ad ogni forma di sfruttamento, la
democrazia di mandato e la confederalità.
Queste sono le nostre direttrici e il nostro collante. Questo è il nostro essere Cgil.
La missione sta nell’identità, ma tale percorso è vincente nella misura in cui, attraverso l’organizzazione, riusciamo a stare nel territorio, nei posti di lavoro, nelle dinamiche territoriali (e sociali). Infatti, per riuscire a rappresentare al meglio i lavoratori, dobbiamo presidiare il territorio e ciò si presenta sempre più come una necessità,
in particolare in questo periodo storico, in quanto assistiamo ad una grande frammentazione del mondo del lavoro: frammentazione del ciclo produttivo, frammentazione dei luoghi di lavoro e frammentazione delle tipologie contrattuali. La grande fabbrica di trasformazione, il grande stabilimento sono venuti meno, lasciando
sempre più spesso il posto a tante piccole realtà produttive. Contratti e normative sono anch’essi frammentati ed il risultato di ciò non è solo una diversificazione del lavoro, ma anche delle forme attraverso cui è possibile tutelare un lavoratore. Abbiamo, come sindacato di categoria, il compito di tenere insieme – e farne capire
l’importanza – la difesa dei principi e delle tutele collettivi con la salvaguardia delle
tutele dei singoli e questo anche per contrastare la solitudine che le persone provano
davanti alla precarietà del lavoro e all’incertezza del futuro lavorativo. Il presidio territoriale funziona se la Camera del lavoro territoriale è baricentrica e riesce a vivere
come luogo di confronto, di proposte, di accoglienza. Quest’ultimo termine può suonare un po’ strano, ma è un concetto fondamentale: oggi il lavoratore deve essere preso in carico e questo è possibile solo partendo dal territorio ed avendo un forte spirito di confederalità.
Tesseramento
A cominciare dai posti di lavoro, è necessario dare valore e nuova spinta ai Comitati degli iscritti, che possono svolgere un ruolo importante, sia a supporto delle Rsu,
sia come luogo di riflessione ed elaborazione 2. Infatti, il Comitato degli iscritti ha il
2
Documento Conferenza di Organizzazione Nazionale della Cgil, 2008.
Temi
ruolo, fondamentale, di favorire la partecipazione degli iscritti alla vita dell’organizzazione, informando sulle attività svolte e da svolgere nei luoghi di lavoro e sui temi
affrontati più in generale dall’organizzazione. Nelle assemblee è necessario sviluppare discussioni sui contenuti della contrattazione e su temi generali, come elemento
formativo. Il Comitato degli iscritti deve riprendere in tutti i luoghi di lavoro la sua
attività, perché rappresenta il nucleo, la prima cellula, dove sviluppare e fare opera di
promozione dell’attività del sindacato, che la Rsu non sempre riesce a fare e, comunque, non può fare perché dedita all’impegno sui temi specifici della contrattazione e
dell’organizzazione del lavoro.
Informazione, discussione, promozione sono attività necessarie per fare proselitismo. Per questo andrebbe individuata la figura del tesseratore. Nel corso degli ultimi anni il tesseramento è stato quasi un elemento residuale delle campagne dell’organizzazione, come se fosse qualcosa di scontato e che rientrasse in una sorta di
automatismo. Così non è o, se lo è stato in passato, oggi non lo è più. Tesseramento e fidelizzazione sono capitoli strategici. Infatti, verifichiamo sul campo che non
sempre un buon accordo, un buon contratto sottoscritto, porta automaticamente
nuovi iscritti.
Si possono dare diverse spiegazioni a tale fenomeno. Una volta gli iscritti si facevano in base ad una forte e radicata appartenenza ideologica, era quasi un’adesione
«naturale» e aprioristica, determinata da una appartenenza ideologica forte. Oggi, nella società in generale, questo collante ideologico non c’è più ed è per questo motivo
che è necessario trovare nuovi canali e nuovi modi di coinvolgimento e affezione alla nostra attività, mostrandone l’importanza pratica e l’incidenza nella vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Spesso manca l’informazione necessaria, magari anche noi
diamo per scontato che i lavoratori conoscano il nostro percorso e la nostra attività.
Riveste grande importanza, per fare nuovi iscritti, anche il sistema dei servizi (Inca,
Caaf): quanto più questo funziona, tanto più abbiamo risposte positive anche in termini di adesione. Inoltre, esiste anche quella che potrebbe essere definita come la fase di «manutenzione» degli iscritti. Oggi registriamo la presenza di vecchie e nuove
organizzazioni sindacali molto aggressive, cioè che vogliono contare e cercare consenso,
noi ci dobbiamo confrontare con questa realtà e affrontare il tema della fidelizzazione alla Cgil.
Nel settore del lavoro agricolo stagionale attraverso le disoccupazioni si rinnovano le
iscrizioni alla Cgil, tra questi lavoratori stagionali si registra una forte presenza d’immigrati. Il cambiamento in questa tipologia di lavoratori è anche fisiologico poiché sono interessati sia dalla stagionalità del lavoro sia dal migrare e cambiare periodicamente regione, se non addirittura nazione. Eliminato il ricambio fisiologico, dobbiamo fare
di più in termini di coinvolgimento e manutenzione, affinché chi si sia rivolto a noi una
volta lo faccia ancora e diventi un nuovo e poi consolidato iscritto della Flai.
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La politica organizzativa deve puntare molto sulla formazione, che è elemento strategico per il nostro gruppo dirigente. Formazione significa trovare gli strumenti per
stare al passo con i tempi, per far circolare le notizie tra i lavoratori e le Rsu. Assemblee, attivi, riunioni, comitati degli iscritti sono momenti fondamentali cui vanno affiancati anche altri modi di informare, dalle campagne per il tesseramento con spot,
materiali, video, fino alla rete. Se così non fosse, pagheremmo il prezzo di una disinformazione che tende a massificare, accomunando la Cgil a tutti gli altri. E non
possiamo dire «la Cgil è diversa, siamo i migliori...», non funziona! Siamo realmente diversi nella misura in cui sappiamo ascoltare e abbiamo la capacità di coinvolgere i delegati (vedi i Comitati degli Iscritti), e facciamo in modo che le nostre Rsu siano all’altezza dei compiti da svolgere e si faccia «rete».
Le campagne della Flai Cgil partono proprio dall’analisi di quello che accade nei
territori creando sinergie con una visione ed un intervento ad ampio raggio e di livello nazionale. Il Sindacato di strada, il Camper dei diritti, la campagna Stop caporalato iniziata nel 2010 e il progetto gli Invisibili delle campagne di raccolta (2012)
sono solo alcuni esempi per far capire come l’azione del sindacato parta dai territori, trovi sintesi a livello nazionale, torni sui territori con azioni e risultati concreti.
Un altro capitolo importante della nostra attività, cui la Flai Cgil ha dedicato le
campagne tesseramento del 2011 e 2012, è quello della legalità. Siamo sempre più
convinti che legalità, intesa in un senso vasto e onnicomprensivo, e cioè lotta alle economie sommerse, contrasto al caporalato, lotta alle infiltrazioni mafiose, significa lavoro, diritti, qualità del lavoro e dei prodotti. Per capire l’importanza del tema bastano alcuni numeri: 400 mila sono i lavoratori che lavorano sotto caporale; il lavoro
nero nel settore agricolo tocca anche il 90% nelle regioni del Mezzogiorno; le infiltrazioni mafiose nel settore agroindustriale rappresentano il 10% del giro di affari
mafioso.
Perché iscriversi al nostro sindacato?
La domanda semplice, quanto fondamentale, che ognuno di noi deve porsi con
il compito anche di dare una risposta, è: perché iscriversi alla Flai Cgil, o più in generale alla Cgil? Un motivo può essere il nostro carattere di sindacato confederale di
rappresentare interessi generali, dando un segno di universalità al nostro lavoro. Altro motivo è che facciamo contrattazione e negoziazione e per farlo dobbiamo conoscere i problemi e le esigenze dei lavoratori, al fine di rappresentarli al meglio ai tavoli di confronto. Crediamo nel percorso democratico, in base al quale il lavoratore
deve decidere consapevolmente sul proprio destino e partecipare attivamente ai percorsi per i rinnovi contrattuali. Ma iscriversi al nostro sindacato significa anche stare al passo con le sfide e i cambiamenti che ci troviamo davanti; significa far cono-
Temi
scere e praticare i nostri principi, stando sempre dalla parte di chi vive situazioni di
difficoltà, nuovi poveri senza diritti, spesso senza la consapevolezza di poterli rivendicare. Per questo oggi, come sindacalisti, abbiamo il dovere di rappresentare chi non
ha voce, chi per condizioni di sfruttamento e di sottosalario si trova in una situazione che ricorda l’inizio del Novecento. Oggi i lavoratori immigrati hanno preso il posto dei «cafoni» a cui Giuseppe Di Vittorio ha dato voce, coraggio e diritti. Con i nuovi sfruttati delle campagne di raccolta stiamo, già da qualche tempo, denunciando una
realtà estesissima e che in molti credevano o volevano credere scomparsa: donne e uomini fatti lavorare anche 12 ore nei campi, nelle stalle, per una paga di 30 euro. Sono privati dei documenti, costretti a vivere in luoghi di fortuna, soggetti al ricatto anche per una bottiglia d’acqua e in una condizione di vera e propria schiavitù. Sono
oltre 80.000 i lavoratori e le lavoratrici che vivono questa situazione di assoluto degrado. Si tratta di dati preoccupanti, che coinvolgono coloro che saranno gli iscritti
di domani alla Flai Cgil.
Da qui una grande sfida e un grande impegno. Una sfida per gli iscritti di oggi e
per quelli di domani: abbiamo il dovere di far incontrare in un continuo scambio generazioni, lavoratori e lavoratrici provenienti da luoghi differenti, con esperienze diverse ed abbiamo il dovere di essere sempre determinati a conquistare un diritto in
più per tutti.
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■ Temi
Tesseramento e politiche rivendicative
Franco Farina*
Premessa
Il tema del tesseramento e dell’adesione al sindacato è un tema ampio; richiama,
infatti, aspetti fondanti di ogni singola organizzazione. È la spia di due funzioni costituenti: le politiche organizzative e le politiche sindacali, funzioni legate e separate nello stesso tempo. Difatti, un’organizzazione che dimostra la sua efficacia sul numero degli iscritti, tra le diverse attività previste, richiede anche una politica organizzativa adeguata e prioritaria. L’obiettivo è di consolidare e aumentare gli iscritti,
sia per accrescere il peso dell’organizzazione sia per determinarne una maggiore rappresentatività. I due aspetti conferiscono all’organizzazione il suo potere contrattuale. La rappresentatività è l’esito quantitativo e qualitativo degli iscritti e deve misurare l’efficacia dell’azione sindacale. La corrispondenza tra le politiche organizzative
e quelle sindacali si considera come il presupposto di un buon proselitismo. Tale
correlazione va assunta, secondo il nostro approfondimento sul tema, come un modello interpretativo per capire le dinamiche intorno al tesseramento.
Il lavoro che segue si preoccuperà di esaminare la relazione tra le politiche sindacali e l’iscrizione al sindacato; non affronterà, invece, gli aspetti inerenti alle politiche organizzative. Questi ultimi sono affrontati in un contributo specifico all’interno del fascicolo. In questo modo l’analisi che ci predisponiamo a fare può trattenersi
su alcune considerazioni di maggiore dettaglio riguardanti l’incidenza dell’attività
sindacale e del tesseramento.
La Cgil ultimamente ha ripreso, dopo una lunga assenza, l’interesse sul tema (Direttivo della Cgil, maggio 2011) e già nell’anno in corso si registrano iniziative mirate al tesseramento. Per procedere sul piano dell’elaborazione, partiremo dalla constatazione di una persistente situazione di stallo per le iscrizioni e un evidente scarto, sul piano formale, tra iscritti e non iscritti al sindacato, che vede i lavoratori non
iscritti in maggioranza rispetto agli iscritti e che pertanto prefigura una vasta zona
di possibile sindacalizzazione.
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Fondazione Metes.
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La riflessione, che proverà a comprendere i motivi dello stallo e dello scarto, farà riferimento alle realtà industriali di media dimensione e si soffermerà sui caratteri ipotetici dell’andamento delle iscrizioni, indicando le variabili che si possono presumere come indicative per una maggiore affiliazione dei lavoratori alla
Cgil. Alcune considerazioni avranno un tono assertivo e generalizzato. Questo atteggiamento analitico è volutamente usato per caratterizzare meglio la chiarezza e
l’efficacia dei giudizi. Non vanno dimenticate, naturalmente, le differenti esperienze negoziali e le valutazioni politiche presenti nella Cgil che, seppur mostrando una variegata articolazione, non alterano le valutazioni che l’autore ha voluto
dare nel testo.
L’organizzazione della Cgil
La cultura organizzativa della Cgil si può rigorosamente ricavare dalla relazione
di G. Di Vittorio alla commissione per la Costituzione italiana3. Questo rapporto
determinò la stesura di alcuni articoli importanti, quali il riconoscimento e il ruolo
dell’organizzazione sindacale (art. 39) e il diritto allo sciopero (art. 40). Quando Di
Vittorio stese la relazione per la commissione, il sindacato italiano viveva il periodo
della stagione sindacale unitaria, secondo quanto stabilito dal Patto di Roma firmato il 3 giugno 1944 da G. Di Vittorio per i comunisti, A. Grandi per i cattolici ed
E. Canevari per i socialisti. Il Patto di Roma fu l’accordo che costituì la Cgil unitaria tra le componenti fondamentali dell’antifascismo (comunista, cattolica e socialista) e che consentì di suscitare una forte influenza sugli assetti costituzionali. Durante la fase della compilazione della relazione sussisteva, dunque, una cultura sindacale unitaria, tanto da poter supporre che il suo elaborato esprimesse un convincimento comune, e non in contrasto, con la stessa Cgil 4.
Già nella premessa, il testo scritto contiene l’accortezza di non «esprimere opinioni strettamente personali, sui vari aspetti del tema», con il fine di far «convergere le opposte posizioni di principio delle più larghe correnti d’idee esistenti nel paese e nell’Assemblea Costituente». La stessa avvedutezza, è lecito pensare, fu sicura3
G. Di Vittorio, Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, relazione commissione per la Costituzione, III sottocommissione, 1946.
4 La commissione per la Costituzione fu istituita il 15 luglio 1946, i lavori si protrassero fino al 1° febbraio 1947. L’Assemblea Costituente presieduta da Umberto Terracini diede inizio alla discussione generale sul progetto di Costituzione, il 4 marzo 1947, per concluderla con la definitiva approvazione il
22 dicembre dello stesso anno. L’esperienza della Cgil unitaria durò fino al 1948, quando ci fu la rottura con la nascita della Cisl (1950) e della Uil (1950). La relazione di Di Vittorio fu discussa in commissione dall’11 al 24 ottobre 1946 in un clima di tenuta unitaria tra le tre componenti della Cgil unitaria. I primi contrasti tra la componente socialcomunista e quella cattolica si registrarono nel congresso di Firenze 1947 sul tema dell’autonomia (art. 9 dello statuto della Cgil unitaria).
5
Scrive Di Vittorio: «il cittadino capitalista, basandosi sulla propria potenza economica, può lottare e
prevalere anche da solo, in determinate competizioni di carattere economico. Il cittadino lavoratore,
invece, da solo, non può ragionevolmente nemmeno pensare a partecipare a tali competizioni». Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, cit., p. 124.
6 Ivi, p. 124.
7 Ivi, p. 125.
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mente usata nella stesura dell’elaborato, per non urtare ma riconoscere e valorizzare le diverse sensibilità sindacali (socialista e cattolica).
La relazione può essere presa in esame per comprendere la cultura del sindacalismo italiano nel periodo successivo al fascismo. Nel documento si analizza il punto
chiave del rapporto tra il tesseramento e l’organizzazione sindacale, sul quale poi la
Cgil imposterà, fino ad oggi, la politica organizzativa.
La prima parte della relazione è un approfondimento sul valore dell’associazione sindacale. La spiegazione si basa su aspetti concreti, relativi alla disuguaglianza
tra «il cittadino lavoratore ed il cittadino capitalista». Si ritiene, infatti, che la ricchezza nazionale nella società italiana sia mal ripartita a favore di pochi cittadini
(«immensi capitali nelle mani di pochi cittadini») rispetto alla maggioranza delle
persone le quali, invece, sono abbondantemente sprovviste di ricchezza. Tale disuguaglianza non riguarda soltanto una differenza materiale tra le persone ma
comporta anche l’esclusione di scelta sulla stessa competizione economica per il lavoratore5. L’unica possibilità per il «cittadino lavoratore» è quella di «associarsi con
altri lavoratori, aventi interessi e scopi comuni, per controbilanciare col numero,
con l’associazione, e con l’unità d’intenti e d’azione degli associati, la potenza economica del singolo capitalista, o d’una associazione di capitalisti. Il sindacato, perciò, è lo strumento più valido, per i lavoratori, per l’affermazione del diritto alla vita e del diritto al lavoro...»6.
L’opportunità da parte dei lavoratori di associarsi non riguarda soltanto l’affermazione dei diritti di una classe più debole, ma il sindacato, proprio in virtù di questa affermazione, rappresenta l’interesse di carattere collettivo e «non particolaristico od egoistico» della Nazione. I lavoratori rappresentano la forza produttrice fondamentale della società per la loro condizione sociale, «sono i maggiori interessati al
consolidamento ed allo sviluppo ordinato della libertà e delle istituzioni democratiche, come lo comprova il fatto ch’essi hanno costituito il nerbo decisivo delle forze
nazionali che hanno abbattuto il fascismo ed hanno portato un contributo efficiente alla liberazione della Patria dall’invasore tedesco»7.
Queste considerazioni mirano a sostenere il diritto di associazione dei lavoratori,
ma gli argomenti che Di Vittorio usa, oltre a costituire alcuni riferimenti essenziali
per la scrittura della Costituzione, tra cui lo stesso art. 1 («L’Italia è una repubblica
democratica, fondata sul lavoro...»), mostrano due aspetti del sindacalismo italiano.
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Il primo riguarda la natura libera dell’organizzazione sindacale (art. 39), il secondo
interessa il ruolo nazionale della classe operaia. Sulla natura libera dell’organizzazione sindacale, la stessa Costituzione prevede il riconoscimento della personalità giuridica dell’associazione sulla base della registrazione degli statuti dei sindacati, la cui
condizione richiede un ordinamento interno a base democratica. Questi aspetti sanciscono in parte la natura dell’organizzazione. Infatti, accanto al vincolo di un ordinamento democratico per il riconoscimento della personalità giuridica del sindacato, è necessario comprendere lo specifico rapporto tra l’organizzazione e le regole
d’iscrizione dei lavoratori per intendere la natura e le caratteristiche sindacali. Ed è
questo uno dei punti centrali sul tema del tesseramento.
Di Vittorio nella sua relazione è consapevole delle implicazioni che il rapporto
tra organizzazione e lavoratori comporta sul piano della stessa natura sindacale. Difatti, afferma che su tale questione si sono manifestate due tendenze estreme: «L’una propone il sindacato quale ente di diritto pubblico, giuridicamente riconosciuto dallo Stato e sottoposto al controllo delle autorità tutorie. L’altra propone il sindacato libero, non avente alcun rapporto giuridico con lo Stato, rimanendo presso a poco nella
stessa posizione che avevano i sindacati italiani nel periodo prefascista»8. Di Vittorio è propenso a un riconoscimento giuridico del sindacato (come poi sarà riconosciuto dall’art. 9 della Costituzione) ma con le sue esigenze incomprimibili di libertà e di autonomia 9. Distinto, cioè, sia da quello statale e fascista sia da quello prefascista «relegato ai margini dello stato ed in una posizione di ostilità preconcetta contro di esso». Una volta chiarito il riconoscimento giuridico del sindacato, la questione centrale si sposta così sul significato della libertà e dell’autonomia sindacale.
Questo aspetto stabilisce la relazione indifferibile tra organizzazione, lavoratori e tesseramento.
Escludendo «il sindacato di Stato» che significa «automaticamente sindacato unico, obbligatorio, con tributi obbligatori, e con un controllo più o meno stretto dello
Stato» il cui effetto, oltre ad essere verosimilmente apparentato a quello fascista, è
quello di essere «un organismo burocratico, privo d’una propria vitalità, pesante, costoso, inefficiente, detestato dalle grandi masse lavoratrici», è necessario, invece, affermare un sindacato conforme ai principi della democrazia in uno Stato effettivamente democratico. Su questo punto Di Vittorio mostra la natura del sindacalismo
8
Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, cit.
Giuseppe Di Vittorio, per indicare la natura del riconoscimento giuridico, fa riferimento al sistema
sindacale francese, qual è definito dalle leggi 21 marzo 1884, 12 marzo 1920, 4 giugno 1936 e 2 maggio 1938. C’è da dire che la norma dell’art. 39, relativa al procedimento della registrazione, non è stata applicata. Ciò è dovuto alla mancanza di leggi attuative e alla diffidenza dei sindacati che hanno
considerato i controlli necessari, per ottenere la registrazione da parte dello Stato, come potenziali limitazioni della loro autonomia sindacale.
9
Politiche contrattuali e proselitismo
La relazione tra politiche contrattuali e tesseramento è avvalorata storicamente
dagli accadimenti avvenuti, in particolare alla Cgil, negli anni successivi alla caduta
del fascismo. Agli inizi degli anni cinquanta il sindacalismo italiano perde quella forte influenza sul piano della ricostruzione istituzionale, materiale e del presidio democratico del paese che il Patto di Roma aveva determinato sia politicamente sia socialmente. Dopo la rottura della Cgil unitaria e l’avvio di un forte rimescolamento
del meccanismo di sviluppo economico e produttivo, inizia una nuova legittimazione sindacale. È in questo frangente storico che si compone il moderno rapporto
tra sindacato e lavoratori. Il sindacalismo italiano e la stessa Cgil si trovano in una
linea di demarcazione tra un passato politico e sociale caratterizzato dalla ricostruzione del paese e il nuovo industrialismo che capovolgerà le condizioni materiali di
milioni di lavoratori e la base economica dell’economia. La Cgil mantiene l’impostazione rivendicativa successiva alla caduta del fascismo (Il Piano del lavoro) e affronta prevalentemente le novità dei processi produttivi sul piano strettamente organizzativo10. In particolare conserva la centralizzazione contrattuale e ripetutamen10
Su questi temi si veda AE n. 8/2011; in particolare: F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda,
pp. 19-45; A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil, pp. 47-55.
Temi
italiano che sarà poi la sua caratteristica storica fino ai nostri giorni, cioè la natura
di un sindacato «libero, volontario, autonomo, indipendente», in grado di difendere con validità gli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori.
La prerogativa fondamentale, dunque, è quella che «i lavoratori debbono essere assolutamente liberi di aderire o meno ad una qualsiasi organizzazione, e di pagarne o
meno i relativi contributi». Tale caratteristica, oltre a configurare l’essere del sindacato, costituisce la stessa natura contrattuale tra organizzazione e lavoratori. Esclusa l’adesione automatica in ragione della libertà di affiliarsi al sindacato, quest’ultimo è
chiamato all’esercizio della sua funzione di rappresentatività dei lavoratori sul piano
concreto. Tale funzione, e solo essa, stabilisce il motivo dell’adesione da parte dei lavoratori. Indubbiamente l’iscrizione al sindacato dipende anche da altri fattori riguardanti l’appartenenza politica, la sensibilità civile e culturale, la consapevolezza
delle proprie condizioni di classe e lo stesso legame sociale dei lavoratori. Non va,
inoltre, dimenticato che oltre alle funzioni su cui si esercita la rappresentanza, le stesse organizzazioni sindacali mobilitano risorse di senso o energie simboliche, annunciano valori metastorici e indicano orizzonti possibili di emancipazione che rappresentano, sicuramente, robusti motivi di aggregazione e affiliazione. Resta indubbio,
però, soprattutto il legame primario tra le politiche contrattuali e il proselitismo.
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te pone la necessità di adeguare l’organizzazione per superare le carenze organizzative attraverso un migliore funzionamento degli organismi con una attenta formazione dei quadri e la presenza capillare nelle fabbriche (Congresso di Genova, 1949;
Conferenza di organizzazione, 1954).
Questa separazione, tra la conservazione rivendicativa al centro e il tentativo di
innovare la presenza in fabbrica – Commissioni interne (1943), Comitati di attivisti (1949), Comitati sindacali (1952), Sezioni sindacali d’azienda (1954) – perdurerà per tutti gli anni cinquanta. All’inizio del decennio, nel 1952, la Cgil mantiene intatta la sua forza con quasi cinque milioni d’iscritti e con il 78,5% di consensi alle elezioni delle Commissioni interne, nonostante la «spietata offensiva antioperaia di quegli anni attuata con gli eccidi di lavoratori, con ventunomila operai e contadini arrestati in occasione di lotte del lavoro, con cinquantatremila sottoposti a processo e con più di ventiquattromila condannati (Novella, 1952)»11.
Ma da allora in poi il sindacalismo italiano, e in particolare la Cgil, registrerà un
calo consistente d’iscritti, con esiti drammatici alla Fiat nel rinnovo delle Commissioni interne (1955)12. Sono dati che, anche se lentamente, cominciano a rendere evidente la scarsa tenuta della struttura contrattuale centralizzata di fronte a
una rappresentatività dei lavoratori nel settore dell’industria in crescita e prevalente rispetto ai dati occupazionali.
Il superamento del consistente calo delle adesioni al sindacato, che sfiorò la sottrazione stessa della funzione sindacale, avvenne agli inizi degli anni sessanta con l’avvio della «riscossa operaia» e con l’affermazione del potere sindacale in tutto il paese.
Il direttivo del ’55 con l’autocritica di Di Vittorio, il IV congresso del ’56 di Roma e
il V congresso di Milano del ’60 apportarono profonde modifiche alle politiche sindacali e organizzative della Cgil, tanto da rilanciare l’azione di massa dei lavoratori su
principi rivendicativi e contrattuali più aderenti alle esigenze dei lavoratori.
Nello stesso periodo, si affermò quel paradigma sindacale che contrasterà l’emarginazione del valore lavoro sulla base di una sindacalizzazione di massa strettamente collegata alle politiche rivendicative e a una struttura contrattuale adeguata alle
condizioni reali dei lavoratori13.
In particolare, superando definitivamente la centralizzazione contrattuale, si affermò un sistema contrattuale tripolare14, basato sul ruolo delle categorie nel con11
La contrattazione collettiva in azienda, cit., p. 37.
Alla Fiat ci fu un vero collasso alle elezioni per le Commissioni interne nel marzo del ’55 quando la
Fiom-Cgil dimezzò i voti e perse la maggioranza assoluta, passando da 32.885 a 18.937 per scendere
a 15.864 nel 1956. Per capire la tendenza di quegli anni, è sufficiente il dato sul tesseramento della
Camera del lavoro di Torino, dove si passò da 137.932 iscritti nel 1955 a 66.735 nel 1956.
13 La contrattazione collettiva in azienda, cit., p. 43.
14 A. Pepe, Alle origini del potere sindacale (1958-1963), in La Cgil e la costruzione della democrazia,
Ediesse, Roma 2001, p. 122.
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Struttura contrattuale e proselitismo
Gli anni sessanta hanno rappresentato, indubbiamente, una svolta per il tesseramento sindacale e per la funzione nazionale del sindacato. Gran parte di questa novità è costituita dall’affermazione della struttura contrattuale (Ccnl e contrattazione
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tratto nazionale, sulla contrattazione aziendale (prima di allora inesistente) e sul
ruolo della Confederazione nel confronto con i governi nazionali sui temi della politica economica, fiscale e sociale. Accanto a questa ridefinizione legata alle politiche
rivendicative, ci fu anche una profonda riorganizzazione della Cgil. Si affermò l’autonomia sindacale e politica delle Federazioni industriali, rompendo così l’accentramento dei poteri decisionali, l’egemonia della Confederazione e delle strutture orizzontali nei confronti delle categorie secondo l’articolazione di direzione delle strutture verticali e delle stesse richieste sindacali di fabbrica, sui temi delle politiche rivendicative. L’affermazione di quel paradigma sindacale portò miglioramenti importanti alla condizione sociale, ai riconoscimenti di diritti (Statuto dei lavoratori,
1970), alla diffusione e alla crescita del tesseramento sindacale dei lavoratori.
Questa esperienza, più che un indizio storico, rappresenta la caratteristica del
sindacato italiano. Come si vede, i fattori che aprirono la «nuova conflittualità sociale e industriale», compresi nel paradigma sindacale sono molteplici. Riguardano alcune scelte organizzative (i ruoli delle diverse istanze sindacali), l’interpretazione del ruolo del sindacato (classista e conflittuale rispetto ad un ruolo istituzionale) e la struttura contrattuale. Quest’ultima, indubbiamente, nel modello
sindacale raffigura un punto di forza consistente. Il contratto collettivo di categoria, oltre a superare il centralismo contrattuale confederale, disegna «il parametro
identitario fondamentale delle relazioni industriali» e diventa il punto di riferimento per la stessa contrattazione articolata. La particolarità di questa struttura
contrattuale, diversamente dalla centralizzazione, è che, pur nelle diverse titolarità tra i due livelli, corrisponde direttamente alla contrattazione delle condizioni
(Ccnl) e della prestazione (contrattazione articolata) di lavoro. Tale correlazione,
tra struttura contrattuale e lavoratori, stabilisce una sorta di esclusiva appartenenza tra lavoratori e sindacato. È il segno di un contratto sottoscritto, tra il singolo
lavoratore e l’organizzazione. Tanto è più forte la correlazione, tanto più si stabilisce l’adesione al sindacato.
Definito ciò, resta da capire quanto di quel contratto individuale, siglato in nome
della funzione contrattuale del sindacato, resta intatto e valido. In altri termini, si
tratta di verificare quanto il modello da noi preso in esame sia ancora adeguato o
quanto invece sia del tutto inadatto. Una riflessione di questo genere ci può aiutare
a comprendere i motivi eventuali della scarsa adesione al sindacato.
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di secondo livello) di quegli anni, formando così la particolarità del sindacalismo
italiano. Oggi quel modello persiste ma non ha gli effetti sul tesseramento che ebbe quando si affermò.
Indubbiamente, dagli anni sessanta a oggi, le vicende sindacali e il governo sindacale della crisi e della grande trasformazione (1975-1992) mutarono spesso il
quadro applicativo delle stesse politiche rivendicative, condizionando molte volte
la loro efficacia15. Iniziò, inoltre, in quegli anni la condotta delle «classi dominanti» per recuperare il terreno perduto, «attraverso molteplici iniziative specifiche e
convergenti». L’obiettivo fu, anzitutto, rivolto a «contenere i salari reali, ovvero i
redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle
fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era
stata erosa dagli aumenti salariali...»16. Ma il punto di scollamento e l’affievolimento dell’identità tra lavoratore e sindacato si possono ipotizzare agli inizi degli
anni novanta.
Negli anni ottanta il sindacato fu protagonista, nel bene e nel male, nella rottura dell’unità e nelle diverse proposte tra le tre organizzazioni, con una presenza di
massa, nel cambiamento. Il lavoratore – nonostante le grandi ristrutturazioni aziendali, il dibattito sulla scala mobile e la continua ossessione confindustriale sulla riduzione del costo del lavoro e della produttività aziendale – otteneva un riferimento ancora essenziale sui temi del reddito, sull’occupazione e sulla stessa contrattazione aziendale. Fu una difesa e una presenza estrema del sindacato, anche nelle diverse posizioni, contrapposizioni e azioni. Le organizzazioni conservavano una presa diretta con la massa dei lavoratori e questi avevano con il sindacato un protagonismo attivo.
L’accordo interconfederale del ’92 sancirà la conclusione di una fase in cui l’abolizione definitiva della scala mobile e il blocco per un periodo della contrattazione
aziendale chiuderanno «i lunghi anni ottanta». La riforma della contrattazione, che
sarà attuata il 23 luglio del ’93, confermerà, con alcune novità, i due livelli negoziali
– il Ccnl e la contrattazione di secondo livello – e si manterrà nel paradigma contrattuale degli anni sessanta. La vera innovazione della riforma riguarderà la predeterminazione dei salari contrattuali sull’inflazione programmata mentre sarà conservato l’utilizzo per i minimi contrattuali della produttività non utilizzata a livello di
15
Segnaliamo solo alcuni aspetti che ebbero conseguenze sull’applicazione delle politiche rivendicative. Tutta la circostanza della scala mobile e del costo del lavoro, la rottura dell’unità sindacale e il ridimensionamento degli assetti industriali con l’inizio dei cambiamenti dell’organizzazione produttiva
degli anni settanta-ottanta, sono solo alcuni temi che cambiarono profondamente lo scenario in cui si
dislocava il sindacato. Su questa fase si veda: L. Bertucelli, La gestione della crisi e la grande trasformazione (1973-1985) e A. Pepe, I lunghi anni ottanta (1980-1993), in Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008, pp. 181-319.
16 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 11.
17 Su questi temi si veda F. Farina, Della produttività. Discorso sulla qualità del lavoro, Ediesse, Roma
2008 (seconda edizione).
18 La svolta fu segnata da Bruno Trentin, segretario generale della Cgil, dopo la frattura nel gruppo dirigente con le dimissioni di Antono Pizzinato da segretario generale (1986-1989).
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fabbrica e verrà introdotto il salario variabile legato agli obiettivi produttivi nella
contrattazione di secondo livello (Accordo interconfederale, 23 luglio 1993).
Una riforma della contrattazione che – differentemente dagli anni sessanta quando le necessità erano il recupero del potere sindacale, il tesseramento e il governo
dell’incipiente industrialismo, in una versione conflittuale, irruente e di classe – si
adatterà alla drammatica situazione economica e sociale di quel periodo (la svalutazione della lira, una crisi finanziaria ed economica molto rilevante, un tasso d’inflazione molto elevato e l’approssimarsi della scadenza dell’unificazione europea e monetaria). Pur nelle complesse difficoltà, comunque, la riforma prometteva sicuri
margini di redistribuzione del reddito, sia a livello nazionale con i contratti sia a livello locale con il secondo livello. L’applicazione della riforma, nelle sue novità, non
creò sorprese rilevanti sulle applicazioni dei rinnovi contrattuali nei settori industriali. Ciò che produsse una sorta di corto circuito tra la pratica contrattuale e un
riconoscimento attivo dei lavoratori fu una sorta di genericità rivendicativa con cui
il sindacato interpretò l’applicazione della riforma contrattuale.
Negli anni novanta termina la fase lunga del mutamento d’impresa. Un mutamento impostato negli anni settanta con l’inizio del superamento dell’impresa integrata verticalmente e della produzione standardizzata, proseguito negli anni ottanta
con l’innovazione tecnologica dell’automazione flessibile e concluso con il superamento delle organizzazioni del lavoro e della produzione taylor-fordista negli anni
novanta17. Soprattutto in questi anni si manifesta un lavoro mutato, legato alla flessibilità professionale, alle capacità cognitive delle persone in conseguenza dei cambiamenti organizzativi, sempre meno gerarchici e sempre di più snelli e piatti.
Questo approdo dell’impresa – a seguito dei cambiamenti degli assetti industriali nella sostenuta riduzione delle grandi imprese e nella quasi scomparsa dei grandi
gruppi industriali – aprì una profonda riflessione sui contenuti e sulla modalità della prestazione lavorativa e una inedita comprensione degli interessi materiali e ideali dei lavoratori sempre più differenziati, per le nuove tecnologie e nuovi modelli di
organizzazione snelli dell’impresa.
Alla fine degli anni ottanta, la Cgil, sia nella Conferenza di programma (aprile
1989) sia nella Conferenza di organizzazione (autunno 1989), tentò un riposizionamento strategico dopo le turbolenze del decennio, e alla luce del convincimento
dell’oramai avanzato disfacimento del modello di produzione fordista18. L’impostazione dell’«autoriforma» della Cgil s’incentrò prevalentemente sui temi della libertà
della persona, della umanizzazione del lavoro, della formazione permanente dei la-
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voratori e della solidarietà dei diritti («libertà uguali e uguali opportunità»). Inoltre,
di fronte ai cambiamenti della prestazione del lavoro, alle innovazioni tecnologiche
e ai mutamenti professionali, la Cgil riprese alcuni temi essenziali che avevano caratterizzato le proposte dello stesso Di Vittorio alla ripresa dell’attività del sindacato dopo la caduta del fascismo19. Temi che in questa fase la Cgil aggiornò dato il
nuovo contesto storico, su un programma di ridefinizione della società post fordista e di contrasto al sostenuto rilancio delle politiche liberiste delle classi dirigenti
del paese. Il programma, Per una nuova solidarietà riscoprire i diritti ripensare il sindacato (Chianciano, 1989), è assolutamente impegnativo e pertinente alla nuova fase sindacale ma ancora una volta, così come avvenne nella fase post fascista con il
Piano del lavoro e la centralizzazione contrattuale, non è fortemente ancorato, al di
là di alcuni cenni di rilievo, alla struttura contrattuale e ai contenuti rivendicativi. Il
programma avrà una forte caratterizzazione di politica sindacale ma resterà estraneo
a un’organica politica contrattuale.
Il progetto si soffermò, infatti, su aspetti relativi alla contrattazione come la «politica dei redditi», alcuni «elementi di concertazione», la «democrazia economica» e
«la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa», ma, più che temi rivendicativi, risultarono influenze propositive al dibattito sindacale. Avvenne ancora una
volta, sulle politiche sindacali e rivendicative, la separazione tra la Confederazione e
le Federazioni di categoria. Del resto, alla fine degli anni ottanta, occorreva un ripensamento della struttura contrattuale e delle prerogative dei singoli livelli negoziali. Un approfondimento specifico dovuto alla stessa incongruità della struttura contrattuale, orfana dell’indicizzazione dei salari, e alla questione degli inquadramenti
professionali, alla flessibilità degli orari e alla stessa politica contrattuale europea. Furono solo alcuni dei temi che il cambiamento d’impresa e l’avvio della globalizzazione dei mercati imponevano al sindacato per far fronte alla stessa rappresentatività sindacale.
L’accordo del 23 luglio, pur mantenendo i due livelli negoziali, ebbe come esito
un contesto economico e sociale che il sindacato subì responsabilmente. La ridefinizione della struttura contrattuale escluse però un’autonoma elaborazione da parte della Cgil, se non in una limitata ricezione del sistema della predeterminazione
dei salari sull’inflazione contenuta nel contratto nazionale dei chimici (1990). Questo limite renderà difficile la correlazione tra la strategia complessiva sui temi del riposizionamento strategico postfordista della Cgil e le politiche contrattuali e delimiterà l’applicazione dell’accordo del 23 luglio da parte delle categorie. A queste
barriere si aggiungerà una cultura rivendicativa contratta e ancora influenzata dalla
conflittualità e dalle divergenze degli anni ottanta.
19
F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda, in AE, n. 8/2011, p. 38.
20
Della produttività. Discorso sulla qualità del lavoro, cit., pp. 111-119.
Dopo il direttivo del ’55 della Cgil, l’impostazione rivendicativa per la contrattazione aziendale fu
quella di prevedere gli aumenti salariali legati al rendimento del lavoro. Si veda S. Garavini, Per una
partecipazione dei lavoratori alla soluzione dei problemi di organizzazione del lavoro e della produzione,
in Critica economica, n. 4, 1956; B. Trentin, Produttività, Human Relations e politica salariale, in Critica economica, n. 4, 1956.
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I chimici a livello nazionale e gli alimentaristi a livello aziendale provarono a innovare le norme contrattuali sul rifacimento degli inquadramenti, sulla flessibilità
degli orari e sulle relazioni industriali (innovazioni spesso confinate all’esclusiva
esperienza di categoria); le altre categorie, invece, si concentrarono prevalentemente, nei rinnovi dei contratti collettivi, sull’unicità del potere d’acquisto dei salari.
Questa singolarità portò con sé l’oblio sia delle rivendicazioni sui salari professionali e sulla prestazione lavorativa (maggiorazioni), sia delle strategie sui temi dell’organizzazione del lavoro con i relativi collegamenti tra produttività, professionalità e
orari di lavoro. Un silenzio che toglierà l’innovazione rivendicativa dagli inediti
cambiamenti organizzativi e del lavoro dopo l’avvento, negli anni cinquanta, del
taylor-fordismo. In questa situazione, tra lo scollamento dei programmi complessivi dalle politiche contrattuali e il ridimensionamento rivendicativo dei contratti, s’infilerà silenziosamente, nelle realtà produttive, la centralità dell’impresa, intesa come
cultura ed economia del lavoro, che punterà direttamente a definire e regolare i rapporti individuali di lavoro20. L’affermazione, seppur relativa, della centralità dell’impresa – in assenza di uno specifico intervento rivendicativo e di una cultura sindacale diffusa, coerente e innovativa – contribuirà a smobilitare una cultura identitaria e a moltiplicare, il più delle volte, opportunità spurie della rappresentanza.
La stessa applicazione della contrattazione di secondo livello non ebbe l’effetto
desiderato. Il salario variabile non fu propriamente una novità negoziale dell’accordo interconfederale del 23 luglio ’93. Alcune categorie già negli anni ottanta, su
proposta sindacale, avevano introdotto il salario legato prevalentemente agli incrementi di produttività. Il premio di produzione, infatti, nella stessa cultura della Cgil
non fu mai considerato un indice importante del negoziato aziendale. Lo stesso Di
Vittorio, nel convegno sul supersfruttamento tenutosi a Torino nell’aprile del ’51,
pretese di mettere un freno alla pratica del premio di produzione e di partecipare invece alla determinazione del cottimo. Il motivo di questa posizione fu che, mentre
il riconoscimento del salario variabile in azienda era strettamente legato ai problemi
e al governo dell’organizzazione del lavoro, il premio di produzione era invece considerato un’elargizione paternalistica da parte del padrone21.
Il rilancio della contrattazione di secondo livello negli anni novanta si scontrò
con la contrarietà diffusa del padronato ad accettare il criterio variabile del premio
aziendale con la netta separazione tra Ccnl e secondo livello. Storicamente la con-
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trattazione aziendale, oltre a prevedere gli incrementi salariali legati agli andamenti
aziendali22, ha sempre rappresentato un motivo di articolazione e di applicazione
delle normative contrattuali (applicazione degli orari, degli inquadramenti...). L’assenza di innovazioni da parte dei contratti su questi temi, invece, ha ulteriormente
reso scontata la contrattazione di secondo livello. Il ripiegamento quasi esclusivo della struttura contrattuale sul potere d’acquisto dei salari, scaturito dall’accordo del 23
luglio ’93, ridimensionò così la portata della contrattazione collettiva sui mutamenti
in corso e rese formale e amministrativa la contrattazione di secondo livello. Questa flessione oltre ad oscurare il governo del mutamento organizzativo escluse, salvo
che in alcuni contratti, la redistribuzione della produttività sia a livello nazionale sia
a livello di fabbrica. La conseguenza di questi atteggiamenti portò, per un verso, a
una corretta dinamica salariale sul potere d’acquisto da parte dei contratti, ma, dall’altro, determinò l’assenza della crescita salariale sui minimi e produsse inoltre una
forfetizzazione del salario variabile aziendale, senza nessun consolidamento e senza
trascinamenti sugli istituti contrattuali. L’accordo separato del 2009, senza la firma
della Cgil, ha ridimensionato, ulteriormente, l’efficacia della struttura contrattuale
del 23 luglio ’93 sul tema del potere d’acquisto, delle modalità di calcolo, della certezza dei recuperi salariali, delle deroghe contrattuali e del criterio del salario variabile aziendale23.
Il modello da cui siamo partiti e che ha rappresentato il motivo della crescita sindacale dagli anni sessanta, oltre a configurarsi in una costruzione di due livelli contrattuali, ha riguardato anche l’autonomia del contratto collettivo. Questo aspetto
ha avuto due implicazioni. La prima ha riguardato il ruolo delle categorie industriali
rispetto alla Confederazione; infatti, diversamente dal modello organizzativo degli
anni cinquanta, con il superamento della centralizzazione contrattuale e l’introduzione dei due livelli negoziali (nazionale e aziendale), le categorie assunsero una forte autonomia di direzione rivendicativa rispetto alla Confederazione. La seconda ha
interessato il contratto nazionale, e per certi versi quello aziendale, che venivano a
risolversi in autonomia tra le parti sociali coinvolte nei rinnovi, senza nessuna prescrittiva interferenza esterna.
Quest’autonomia nella funzione dell’autogoverno salariale si è ridotta, per la
prima volta, con il criterio della predeterminazione e con l’indice dell’inflazione
programmata (accordo del ’93). L’accordo separato del 2009 ha poi ridotto ulte22
Lo stesso premio di produzione dipendeva dagli andamenti aziendali. La questione di fondo del riconoscimento salariale in azienda fu sempre il come del riconoscimento. Le aziende hanno prevalentemente manifestato interesse a un premio separato dall’organizzazione del lavoro mentre le organizzazioni sindacali, soprattutto la Cgil, hanno mostrato il legame tra salario e organizzazione del lavoro.
23 Su alcuni di questi aspetti si veda F. Farina, Le costellazioni contrattuali, in AE, n. 2/2010, pp.
21-29.
Lo status del lavoratore
L’indebolimento della struttura contrattuale può ridurre significativamente il
rapporto con il sindacato. Questo avvenne, già, negli anni cinquanta in concomitanza di più fattori: il ritardo del sindacato nell’interpretare il mutamento in corso,
la lentezza nell’adeguare le politiche rivendicative, la repressione padronale in azienda e la disoccupazione di massa. Una situazione, indubbiamente, complessa e difficile. Oggi, la situazione non è molto diversa. È da anni che assistiamo – dopo gli
anni sessanta-settanta in cui la classe operaia ha ottenuto con le sue lotte «miglioramenti importanti della propria condizione sociale» – ad una «lotta di classe dall’alto (delle classi dominanti) per recuperare il terreno perduto»25. Anni in cui si è puntato anzitutto a «contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli
investimenti, dalle imposte del periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e
gli anni Ottanta»26. Questo movimento non ha solo determinato il recupero del terreno perduto ma ha stabilito un arretramento della classe operaia sul piano del reddito e del potere sociale.
Tale retrocessione ha fissato quei requisiti di appartenenza che la sociologia borghese avrebbe classificato come classe. Difatti l’analisi sulle posizioni occupazionali
24 Fu la proposta della Federmeccanica di escludere il computo dell’inflazione importata sul calcolo
dell’inflazione reale, in applicazione dell’accordo del 23 luglio ’93. Proposta che non ebbe, allora, alcuna accoglienza.
25 La lotta di classe dopo la lotta di classe, cit., p. 11.
26 Ivi, pp. 11-12.
Temi
riormente e drasticamente tale autonomia sia per quanto riguarda le parti sociali
sia per lo stesso compito del contratto collettivo. Infatti, l’accordo conferma la predeterminazione dei salari non più sull’inflazione programmata ma sull’Ipca depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati24 e prevede che soggetti esterni alle parti sociali responsabili dei rinnovi intervengano direttamente sulle
materie negoziali.
L’impianto contrattuale che risollevò le sorti del proselitismo sindacale negli anni sessanta e che manteneva formalmente i due livelli negoziali, oggi risulta fortemente indebolito nelle sue prerogative, negli effetti pratici e nella sua autonomia. La
nostra analisi ci porta a dire che il legame tra lavoratori e sindacato, proprio per la
funzione ridotta di un caposaldo della rappresentatività sindacale quale è la contrattazione su cui abbiamo stabilito la correlazione con il proselitismo, è molto più
labile rispetto al passato.
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e sulle condizioni complessive di vita assegnano ai lavoratori l’adesione ad una «comunità di destino». È una comunità uniforme rispetto alle proprie esigenze, bloccata nella mobilità e nella crescita sociale, con scarse possibilità di usufruire di risorse
materiali e immateriali e con poche probabilità di decidere la propria esistenza.
Quest’oggettività sociologica, statistica solo in parte, si traduce in una consapevolezza sindacale in grado di incominciare un’azione unitaria e conflittuale. La maggioranza resta silente, e a volte ostile. È proprio così? E se è così: perché?
Una risposta utile richiederebbe un’opinione su un’altra domanda. La domanda
è: chi stabilisce oggi lo status del lavoratore come produttore? 27 Va detto, innanzitutto, che la polarizzazione tra lavoratori e sindacato, che ha contraddistinto gran
parte del Novecento, si è fortemente ridimensionata. L’unicità di attrarre, tra organizzazione e lavoratori, si è frantumata e l’atto di rappresentare è svolto da più soggetti. Questo dato è la conseguenza dell’indebolimento della struttura contrattuale,
del mancato aggiornamento delle politiche rivendicative e della riduzione del potere sindacale nella singola impresa, riducendo, così, l’attrazione e l’avversione che risiedevano prevalentemente nell’atto esclusivo del sindacato con i lavoratori. La
frammentazione della rappresentanza ha aperto una sorta di competitività ibrida tra
sindacato e impresa e ha costituito una cultura trasversale circa il modo di intendere l’appartenenza del lavoratore. Una cultura spenta tra gli stessi lavoratori, generata
da una rappresentanza sindacale debole che in assenza di un’esclusiva e forte polarizzazione si destreggia in un criterio interclassista tra impresa e sindacato.
Una cultura che riconosce la funzione sindacale ma che non ritiene il sindacato
come soggetto unico della rappresentanza. È una cultura che deriva dalla riduzione
dell’attività contrattuale (aziendale e nazionale) e dal potere interno all’impresa e
che inaugura una comprensione relativa dell’attività sindacale. La frantumazione
della polarizzazione in fabbrica, infatti, non solo ha rotto l’univocità della Rsu ma
ha introdotto il criterio di definizione dello status del lavoratore spesso a vantaggio
dell’impresa. È una riduzione di potere che transita attraverso un ruolo formale dell’organizzazione sindacale. La direzione d’impresa, con la condivisione dei lavoratori, interviene unilateralmente a regolare la prestazione lavorativa (superminimo, riconoscimento professionale, maggiorazioni), assumendo così, anche indirettamente, il primato del destino professionale del lavoratore (carriera professionale, ruolo
lavorativo) ed emarginando il sindacato nella sua effettiva attività rivendicativa su
questi fondamentali obiettivi. Il lavoratore, che fa parte di una maggioranza silente,
si colloca deliberatamente in un interregno della rappresentanza in cui il Contratto
27
La scelta del «cittadino lavoratore» sarebbe stata più completa ma avrebbe richiesto un’analisi più
complessa. Mentre la delimitazione dello status del lavoratore coincide con l’assunzione della relazione tra politiche contrattuali e tesseramento.
Conclusioni
La relazione tra le politiche contrattuali e il tesseramento richiederebbe un rilancio delle politiche rivendicative che siano al tempo stesso innovative sui contenuti e
accompagnate da una forte coerenza conflittuale. Più volte, nelle nostre considerazioni, abbiamo indicato un forte mutamento delle condizioni e dei contenuti nel lavoro. Una ripresa delle politiche rivendicative e contrattuali indubbiamente dovrà
disporre di una strategia generalizzata sulla qualità del lavoro. Una strategia che dovrà stabilire una discontinuità con il passato che riguarda prevalentemente il governo del mutamento produttivo su cui i lavoratori, ogni giorno, sono direttamente
coinvolti e chiamati ad assecondare gli incrementi della produttività e della qualità
del prodotto (l’assegnazione di compiti complessi, la ricerca dell’apporto cognitivo
e cooperativo, i molteplici orari di lavoro, l’autonomia operativa, il lavoro in gruppo, la responsabilità professionale...). Sono argomenti questi che per le loro implicazioni sono necessari e fondamentali per ricostituire una relazione diffusa tra l’azione sindacale e il proselitismo.
Accanto a questi temi è indispensabile avviare una riforma intellettuale dell’organizzazione, una riforma che riporti al centro della strategia sindacale le questioni
delle politiche contrattuali. Di fianco a questo riordino c’è una questione urgente
che è quella relativa alle competenze sindacali. Un recupero delle conoscenze che, oltre a socializzare la lunga tradizione dei saperi sindacali, ha diverse implicazioni sugli aspetti del proselitismo. Il primo riguarda la catena del valore sindacale che in
questi anni si è, a volte, interrotta e che spesso non dimostra, lungo la filiera conoscitiva, quelle conoscenze indispensabili per stabilire un consenso attivo. L’altro
aspetto, strettamente collegato al primo, riguarda la comunicazione legata alla co-
Temi
nazionale stipulato dal sindacato è valutato come una polizza assicurativa sul proprio potere d’acquisto e la contrattazione di secondo livello come una forma di riconoscimento dovuto del proprio contributo lavorativo. Sono riconoscimenti considerati scontati e naturalmente sempre insufficienti. Sono aspetti che sono valutati come parte di uno status il cui completamento non è riservato necessariamente alla rappresentanza sindacale ma a volte nel gioco bilaterale tra impresa e singolo lavoratore.
A tale riguardo, potremmo dire che siamo di fronte ad un modello della rappresentanza in cui l’iscrizione all’organizzazione si mantiene tra i lavoratori come un’adesione di «comunità», ma accanto a questo consenso resta significativa una zona
franca, espressione di una sorta di incompiutezza del ruolo del sindacato, all’interno della quale il lavoratore e l’impresa volta per volta decidono la rappresentanza in
relazione ai propri interessi e in particolare allo status del lavoratore.
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noscenza. Oggi, spesso, la comunicazione è svincolata dai saperi. È una comunicazione che ha come oggetto la comunicazione stessa senza nessun rigore conoscitivo.
L’effetto di questa divulgazione è solo una forma burocratica delle conoscenze e dipende dai rapporti di forza stabiliti da chi comunica che, a sua volta, fissa la validità dei contenuti e la stessa verità comunicativa. Di solito questa comunicazione, così come è staccata dalle competenze, conferma lo statu quo e non riesce a sollevare
più di tanto una attività positiva per il tesseramento sindacale.
Una riflessione sul tesseramento e sindacato porta, così come si è dimostrato, a
questioni essenziali dell’attività sindacale. La nostra analisi si è soffermata solo su alcuni temi, mentre gli argomenti trattati richiederebbero ulteriori approfondimenti
di merito. Le nostre considerazioni possono valere per una prima riflessione su un
tema che, nonostante l’importanza, resta sempre sullo sfondo della riflessione e a
volte dell’iniziativa. Si tratta invece di un’arteria essenziale per l’insieme della organizzazione.
■ Temi
Sindacalizzazione e tesseramento
Adolfo Pepe*
Premessa
A partire dall’efficace definizione della Cgil quale «democrazia organizzata di
massa», è possibile cogliere alcuni spunti ed introdurre degli elementi chiave per una
riflessione più ampia sulla cultura organizzativa del sindacato e, in particolare, della Cgil. Se alla base della costruzione dei moderni movimenti di massa vi è stata la
necessità di tessere una trama organizzativa, oggi è necessario sempre di più stabilizzarla e, inoltre, è opportuno trasferire il modello dal centro alla periferia in modo
da creare una rete di contatti organici dall’alto verso il basso e viceversa; nel sindacato, in particolare, questo bisogno si è da sempre coniugato con l’esigenza di una
sua democrazia interna e con la necessità di stabilire delle regole per rafforzarla. Inoltre, nella costruzione del «sindacato moderno», centrale è stato il nesso tra il rafforzamento della democrazia sindacale e una maggiore partecipazione della base, contemporaneamente alla salvaguardia dell’autonomia dell’organizzazione che è garantita dal consolidamento dei legami del sindacato con le masse dei lavoratori. Come
sostenuto nell’ambito delle discussioni sul tema già a partire dagli anni sessanta –
tra gli altri da Rinaldo Scheda, storico segretario dell’organizzazione, – «[...] insieme all’iniziativa sindacale, per guidare le masse alla lotta, occorre una iniziativa organizzativa e di costruzione dell’organizzazione». E laddove le politiche organizzative rappresentano lo strumento attraverso il quale declinare gli obiettivi politici, democrazia e agibilità dei diritti all’interno dell’organizzazione, nei luoghi di insediamento; le modalità della contrattazione e la verifica dei risultati sono obiettivi e questioni cardine che una buona politica dell’organizzazione, del proselitismo e del tesseramento può sostenere e aiutare a raggiungere. Più in generale oggi, di fronte alla secolarizzazione e individualizzazione della società italiana – sia dal punto di vista culturale che degli stili di vita – e, più in generale, in una fase di profonde rotture con la situazione politica ed economica preesistente, il tema del proselitismo
rappresenta un’importante sfida per l’azione di rappresentanza delle organizzazioni collettive.
*
Università degli Studi di Teramo.
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A fronte di una sostanziale omogeneità degli attuali modelli organizzativi rispetto a quelli degli anni sessanta, le organizzazioni funzionali restano molto forti nella capacità di aggregare i principali interessi in campo (come attestano anche i dati associativi disponibili), ma nello stesso tempo stentano a dare voce adeguata ad una parte delle nuove domande ed aspettative. Le organizzazioni sindacali incontrano difficoltà nell’includere nel perimetro delle tutele e della rappresentanza i lavoratori più giovani, quelli discontinui e precari, insieme ai portatori di alte professionalità. In questo senso è necessario che la Cgil – che basa
la sua identità sul concetto di rappresentanza generale dei lavoratori – favorisca
l’allargamento della membership attraverso non solo un attento e mirato utilizzo
dei moderni strumenti di informazione e comunicazione, ma ribadendo l’adesione ai propri valori identitari e ideali, anche attraverso un lavoro di formazione dei nuovi militanti e dei quadri. Se da un punto di vista storico e culturale da
sempre per la Cgil l’adesione è stato un mezzo per l’azione sindacale, oggi tale
asserzione rimane valida anche a fronte del processo in atto di ampliamento della rappresentanza sociale della Cgil, passaggio fondamentale nell’aggiornamento
della sua identità. Un aggiornamento che richiede all’organizzazione di allargarsi al nuovo modo di essere del lavoro e di affrontare i mutamenti esterni che inevitabilmente pesano su un sindacato che – come è stato sottolineato – è «in bilico» tra vecchie modalità d’azione e di rappresentanza, ancora valide, e nuove
forme d’azione.
Da questo punto di vista il problema della sindacalizzazione e del tesseramento è un problema che va affrontato sotto diversi profili: quello organizzativo, ossia l’analisi delle condizioni dei lavoratori sul posto di lavoro; quello della comunicazione; ed infine su quello più propriamente storico-politico che rinvia ad alcuni nodi concettuali. È a partire da questi elementi che va avviata un’analisi aggiornata e una definizione degli obiettivi su cui si può fondare un’adeguata politica di proselitismo e di adesione dei lavoratori al sindacato. In altri termini, oltre all’ideologia della società nuova, elemento cardine a partire dagli anni cinquanta, è necessario stabilire quali elementi debbono essere aggiornati e posti alla base di una proposta di adesione senza però cadere nel bilateralismo passivo e
acquiescente, coniugando le scelte in un mix di interessi, diritti, dignità e potere. Va ribadito, inoltre, in quale misura la realtà economica e sociale del lavoro e
del sistema produttivo renda possibile questa maturazione nella quale confluiscono ragioni di tutela e di dignità soggettive con le trasformazioni delle strutture produttive e organizzative, nonché dei valori emersi dall’esaurirsi del ciclo ultraliberista e dall’insorgere dell’attuale crisi sistemica del modello manageriale
delle imprese.
Nell’Italia liberale il tema dell’adesione e dell’iscrizione al sindacato occupa un
ruolo centrale all’interno della stessa CGdL, come appare evidente nel corso della
relazione di Rinaldo Rigola al II Congresso confederale del 1908, svoltosi a Modena. Infatti, egli mette in evidenza che: «così come è fatta la nostra organizzazione non potrà mai essere che l’organizzazione dei convinti, dei precursori, dei devoti; i quali pagheranno sempre le spese della restante grande massa che non può
essere condotta all’organizzazione da convinzioni astratte e che non trova nessun
altro incentivo ad organizzarsi. Principal compito, adunque, se si vuol correggere
l’organizzazione dal difetto della instabilità, dalla enorme fluttuazione dei soci, dal
parassitismo dei disorganizzati o dei semiorganizzati, si è di corporizzarla con dei
servizi mutualistici e di previdenza facendovi corrispondere delle contribuzioni
adeguate».
La CGdL dopo i primi anni di consolidamento raggiungerà progressivamente un
ampio numero di iscritti, soprattutto negli anni del primo dopoguerra, passando dai
600.000 del 1919 ai 2.150.000 del 1920, nella fase in cui si va già esaurendo la spinta alle lotte del biennio rosso cui seguirà il biennio nero e l’ascesa del fascismo, con
il conseguente scioglimento dei sindacati liberi. Infatti, durante gli anni del fascismo, dopo la svolta dittatoriale sancita sul piano contrattuale con la legge n. 563
dell’aprile 1926, si ha il riconoscimento giuridico del sindacato fascista cui segue la
validità erga omnes dei contratti collettivi di lavoro, che possono però essere firmati
solo dai dirigenti del Regime. La contrattazione diventa dunque materia di diritto
pubblico, ma a prezzo della rinuncia alle libertà sindacali e al diritto di sciopero. In
questo quadro, anche se l’affiliazione ai sindacati fascisti non era obbligatoria, gli
imprenditori dovevano preferire l’assunzione dei lavoratori iscritti e ciò favorì l’alta
adesione che in questi anni si registrò in Italia ai sindacati fascisti e che raggiunse nel
1932 la percentuale del 32%. In particolare dopo il 1934, quando la contrattazione collettiva diventa materia federale, si giunge ad una importante svolta che sottolinea la crescente forza delle Federazioni in termini di rappresentanza e tutela delle
proprie categorie. Alla Confederazione spetta il livello interconfederale (accordo
Cianetti-Pirelli sulle 40 ore e sugli assegni familiari; oppure l’accordo di disciplina
del cottimo del dicembre 1937) che fissa le linee generali della contrattazione. Inoltre all’interno della nuova organizzazione corporativa si pongono le basi di uno Stato sociale, soprattutto dopo gli anni trenta quando l’adesione al sindacato diviene
un canale di accesso agli istituti assicurativi e previdenziali.
Tale quadro muta completamente negli anni dell’Italia repubblicana in cui la Costituzione del 1948 riconosce la contrattazione collettiva, affidandone la regolazione alla legge. L’articolo 20 della Legge fondamentale costituzionalizza un tema così
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L’evoluzione storica
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delicato quale la contrattazione collettiva, riconosciuta per legge dal fascismo ma in
un quadro giuridico antidemocratico, rappresentando una grande vittoria per il
mondo sindacale e del lavoro. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, le difficoltà legate all’immane lavoro di ricostruzione spingono tanto la Cgil unitaria che
la Confindustria ad un forte accentramento confederale. Tra gli anni quaranta e cinquanta la centralizzazione degli accordi sindacali produce novità significative su temi quali la scala mobile, le Commissioni interne, i licenziamenti e la cassa integrazione; si arriva a fissare anche i minimi contrattuali di tutte le categorie, sottraendone la decisione al livello federale. Inoltre, dopo la prima stagione contrattuale del
secondo dopoguerra, le difficoltà per il movimento sindacale si fanno sempre più
pressanti, in particolare dopo le scissioni sindacali. I primi anni cinquanta vedono
la presentazione di piattaforme contrattuali diverse e una forte discriminazione,
operata soprattutto nei confronti della Cgil, sui luoghi di lavoro. Ciò ha dei riflessi
anche sul tema del tesseramento e del proselitismo poiché l’espulsione della Cgil
fuori dalle fabbriche aveva ripercussioni anche sulla stessa struttura organizzativa del
sindacato poiché non gli consentiva di usare appieno la rete dei collettori che iniziava ad avere nelle aziende. Queste figure di militanti, incaricate di raccogliere le
adesioni, le quote sindacali e di distribuire le tessere e i bollini mensili, avevano come ruolo politico quello di essere un canale di mobilitazione oltre che di proselitismo. La situazione muta a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta parallelamente al decentramento messo in atto dalla Cgil, che riflette anche i cambiamenti intervenuti sia sul versante produttivo, grazie alla diffusione dei metodi tayloristi nell’azienda che aprono nuove esigenze di tutela dei lavoratori, sia rispetto al profondo mutamento sociale in atto nel ceto operaio.
L’affermarsi dell’«operaio massa» rispetto al lavoratore specializzato equivale per
il sindacato al confronto con un lavoratore generico e con scarse qualifiche, in maggioranza proveniente dalla realtà meridionale del paese e che ha problemi di integrazione sociale sia in azienda che nel contesto urbano di accoglienza delle grandi
aree industriali del Nord. Questo lavoratore ha una grande diffidenza anche verso
lo stesso sindacato, che viene percepito come un’organizzazione tesa alla tutela dei
lavoratori integrati e dotati di maggiori capacità professionali. Il nuovo quadro che
va delineandosi, inoltre, fa progressivamente emergere alcune profonde ingiustizie
nel rapporto di lavoro: le sperequazioni fra uomini e donne, fra impiegati e operai,
o il permanere di gerarchie e di discriminazioni sempre meno accettabili.
Questa discrasia viene colta con estrema lucidità da Rinaldo Scheda. Egli, infatti, da un lato sostiene che accanto a un problema di rinnovamento vi sia anche un
problema di «presenza, in nuove forme, del sindacato in fabbriche dove la nostra
presenza è insufficiente e sono fabbriche di nuova formazione ma anche fabbriche
che hanno un lungo periodo di esistenza, dove si è determinato però, negli ultimi
28
La variazione del numero degli iscritti analizzata per regione mostra come molto più pronunciato
sia il calo nelle regioni industriali del Nord, mentre presenta una maggiore tenuta nel Centro-Sud (Calabria, Sardegna, Sicilia). L’analisi dei dati rispetto ai settori, invece, mostra una diminuzione degli
iscritti nei settori agricoli e industriali, mentre un aumento si ha nel settore terziario. G.P. Cella, Stabilità e crisi del centralismo nell’organizzazione sindacale, cit., p. 645.
29 Cfr. Operiamo per l’unità e la collaborazione tra tutti i sindacati, in Lavoro, n. 3, a. XIII, 17 gennaio
1960, p. 5. I dati vengono forniti nel corso di una conferenza stampa indetta dalla Segreteria della Cgil
nel gennaio del 1960.
Temi
dieci anni, un rinnovamento nella composizione delle maestranze»; mentre, dall’altro, propone come risposta alle nuove esigenze maturate nell’organizzazione l’avvio
di una politica dei quadri che non sia lasciata alla spontaneità, ma «tenda ad organizzare un lavoro di formazione». In linea con la filosofia di rinnovamento delle
strutture impostata da Novella, inoltre, Scheda sostiene con uguale convinzione la
svolta della Cgil nei confronti delle Sezioni sindacali di azienda (Ssa). Esse vengono
intese non come mero decentramento di una linea politica che cala dall’alto, ma come organi dotati di funzioni proprie di orientamento e di elaborazione, veri e propri strumenti effettivi di democrazia sindacale, la quale matura attraverso l’assemblea degli iscritti e l’assemblea generale. I compiti di queste strutture, che ricevono
nuovo impulso nel Convegno di Livorno del 1961, vengono individuati da Novella nel tesseramento, nella diffusione della politica confederale e nello sviluppo dell’unità d’azione. Ma, così come per le Commissioni interne, alle Ssa non viene riconosciuto da parte dello stesso sindacato il potere contrattuale, che continua ad essere esercitato dal sindacato provinciale e, quindi, fuori dai luoghi di lavoro. Ed è
questo il limite più evidente che contribuisce al loro superamento nel 1968.
A proposito uno degli aspetti tra i più analizzati è il tema del tesseramento, poiché la crisi sindacale si riverbera anche nel numero degli iscritti28. Se nel 1957 la
Cgil ha 4.078.000 iscritti, alla fine del 1958 scende a 3.678.000 organizzati, mentre nel 1959 guadagna un 3% raggiungendo i 3.790.000 aderenti29. Le cause della
flessione degli iscritti, nonostante la ripresa sindacale in atto nel paese, vengono lucidamente individuate da Scheda, il quale, partendo da una analisi dei dati e della
situazione, pur non escludendo la necessità di un ulteriore impegno da parte del sindacato sulla questione, fa notare che «l’adesione dei lavoratori di volta in volta a lotte sindacali è un processo più elementare di quello dell’adesione al sindacato», pertanto nell’analisi non si può prescindere dall’evidente «clima di illibertà esistente nei
luoghi di lavoro»; infatti, «sui [lavoratori] grava il metodo della discriminazione antisindacale adottato dai datori di lavoro, particolarmente nel campo delle assunzioni e nei licenziamenti, che spesso assumono il carattere di una spietata rappresaglia
contro il lavoratore militante sindacale».
Uno degli elementi su cui punta Scheda da un punto di vista organizzativo è, infatti, quello del proselitismo e il superamento di ciò che definisce «il fenomeno del-
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l’agnosticismo e dell’assenteismo sindacale», solo parzialmente sconfitto dalle battaglie del ’58-59 che hanno messo «in movimento milioni di lavoratori parte dei quali da anni non si muovevano, non partecipavano più attivamente alle lotte, non credevano più nella loro forza». Per Scheda non è sufficiente affidarsi all’adesione che
viene nei momenti di dura tensione sociale, ma c’è bisogno di un «agente consapevole» che permetta al movimento rivendicativo di acquisire «consistenza, continuità, organicità». Il problema del reclutamento è sì, quindi, il frutto di una buona politica di propaganda, ma è «soprattutto un lavoro di formazione di nuovi militanti
sindacali che si svolge nel vivo dell’iniziativa sindacale». Infine, tra le questioni più
stringenti dell’organizzazione egli individua la necessità di portare il sindacato nei
luoghi di lavoro e rifuggire dalla scelta organizzativa secondo cui «gli iscritti si fanno soltanto dove abitano e non nelle aziende», infatti, «occorre forse sotto questo
profilo cercare di arrivare ad una svolta». Un lavoro organizzativo importante, pertanto, va fatto con le leghe perché «è chiaro che in centri industriali dove ci sono diverse fabbriche della stessa categoria, o anche soltanto una grande fabbrica, non
puoi, non devi rinunciare ad avere una sede sindacale fuori dall’azienda, comunque
un punto di ritrovo che richiami i lavoratori, perché purtroppo la vita sindacale all’interno di una azienda anche quando si ha una certa consistenza è difficile; ci vuole un punto di incontro e la lega è una espressione organizzativa che realizza una certa possibilità di collegamento con le masse dei lavoratori».
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Sindacalizzazione e proselitismo
Ed è a questo proposito, e alla luce di questo breve excursus, che va sottolineato
come l’identità, la memoria e la storia della Cgil costituiscano un insieme concettuale e valoriale la cui valenza originale va individuata nel suo carattere non archeologico. Non stiamo, infatti, discutendo e studiando, e non abbiamo parlato e scritto, in questi anni, di un’istituzione sociale che si è esaurita o che ha esaurito le sue
funzioni originali. Al contrario, abbiamo ricostruito l’identità e il complesso percorso della memoria che ha contribuito a sedimentarla e trasmetterla, sia a livello
individuale sia di più ampie collettività sociali e culturali, traendola proprio dalla sua
storia ancora aperta e non conclusa. In tal modo è apparso evidente come l’identità e la memoria della Cgil s’identificassero con la sua stessa storia, a partire dal ruolo politico-sociale che essa svolge attualmente.
Discutendo dell’identità attraverso la storia abbiamo fornito la prospettiva politica per una riflessione sul futuro dell’azione della Cgil e del sindacato nella rappresentanza sociale del lavoro e delle sue inscindibili connessioni con l’intera struttura
della società. In altri termini, identità, memoria e storia della rappresentanza sociale del lavoro, lette attraverso la lunga durata della Cgil, si sono rivelate elementi es-
Temi
senziali e originali per incontrare la vicenda nazionale, la sua identità, la sua solidità. Ma soprattutto sono state coordinate fondamentali quando ci si è interrogati sul
ciclo unitario della storia italiana, di cui il lavoro è stato fattore preminente, e sulle
nuove dimensioni che lo Stato e la società italiana vengono ad assumere nella profonda trasformazione geopolitica ed economica in atto nel sistema degli Stati, soprattutto dell’area liberal-democratica, e dei loro fondamenti etico-politici.
Questo non vuol dire che la storia della Cgil e la sua identità siano una storia di
trionfi certificati dalla durata ultracentenaria e che tutto si sia svolto con regolare
continuità. Sarebbe quanto di meno storico si possa immaginare. Noi abbiamo soltanto voluto dire che la storia di questo paese è stata la storia della Cgil, o meglio,
che la storia della Cgil ha modellato la storia di questo paese più di qualsiasi altra
forza sociale, politica e culturale; che tutti i nodi principali sono passati attraverso
l’impatto delle strutture di potere economiche, politiche e istituzionali con il mondo del lavoro organizzato; che l’esistenza di questa forza nel tempo ha modificato e
ha costretto tutti, dallo Stato alle classi dirigenti, i ceti economici, la cultura, le istituzioni civili e amministrative di questo paese, ad avere sullo sfondo delle scelte e
delle decisioni il problema del lavoro. Questa operazione, naturalmente, come tutte le operazioni che hanno un significato politico e culturale, oltre che storiografico, subisce a propria volta una trasformazione, un’evoluzione; pertanto, per entrare
nel merito del tema che è oggetto di questo saggio, è necessario porsi prioritariamente un quesito: se l’identità della Cgil è riaffermata – e il suo valore non è in discussione – oggi essa come deve interagire con il nuovo contesto socio-economico,
politico e internazionale che si è venuto affermando a conclusione di quel lungo ciclo storico a livello mondiale avviato nel corso degli anni ottanta dalla Thatcher e
da Reagan? Cosa deve fare, come si deve muovere una grande organizzazione sociale in un quadro che è così radicalmente mutato? Come aggiornare all’interno di
questo contesto l’identità della Cgil? Cosa si deve fare per definire nuove modalità
di proselitismo e di organizzazione e con quali finalità rafforzare l’organizzazione e
la rappresentanza?
Innanzitutto è necessario avviare una discussione con gli attori principali, ossia
con coloro che hanno vissuto le origini e oggi subiscono gli effetti di questa lunga
chiusura del ciclo, che rappresentano al contempo l’oggetto e il soggetto attivo dello studio, il referente principale del confronto avviato dalla Cgil per capire in che
modo aggiornare la propria identità. Tuttavia, nel passaggio dall’identità al suo aggiornamento e quindi nello sforzo di ritessere nuove modalità organizzative, è chiaro che andrebbero comunque evitate due scorciatoie: da un lato, quella della facile
diluizione, che comporta una scomposizione identitaria e la riaffermazione di singoli frammenti; dall’altro, è necessario evitare un irrigidimento che porterebbe a una
sterile ripetizione «neogaribaldina» di ciò che è stato fatto.
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Cinque ragioni per un nuovo proselitismo
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In questo ragionamento vorremmo fornire, seppur schematicamente, alcuni elementi che si ritengono utili per imboccare questa via, sicuramente critica e autocritica, ma feconda, al fine di evitare che la Cgil si schiacci sull’identità, intesa come
memoria del passato, e al tempo stesso la proietti verso un orizzonte indistinto; così come è necessario coniugare l’identità con l’aggiornamento del modello organizzativo e più adeguati criteri di affiliazione. Infatti, la nostra identità non può annullarsi o cancellarsi per trasformarsi in altro se non abbiamo ben chiaro quale altra
identità si dovrebbe configurare e da questo discende anche la ratio che dovrebbe
presiedere al rinnovamento dei processi di adesione al sindacato. A proposito un
ruolo chiave ha la figura del sindacalista, soprattutto quello di base, che rappresenta l’anello di congiunzione tra sindacato e società, oltre ad essere il raccordo fondamentale sia nella struttura produttiva sia a livello territoriale. Ma se è necessario lavorare sull’identità della Cgil per trasformarla e adeguarla senza diluizioni e senza rigidità, così come sulla sua dimensione organizzativa e i processi di affiliazione, è
ugualmente indispensabile discutere su due blocchi di ragionamento.
In primo luogo, è necessario avviare una riflessione più approfondita sulle radici
politico-culturali dell’attuale fase storica e dei nodi concettuali fondamentali dai
quali ripartire a conclusione del lungo ciclo liberista della globalizzazione, al di là di
rozzi schematismi. A tal fine vanno analizzati i cinque concetti, la cui crisi ha portato alla fine di un mondo, e che ci aiutano a comprendere il significato della conclusione del ciclo della globalizzazione liberista, la crisi finanziaria ed europea, oltre
all’attuale situazione in termini di disoccupazione di massa e precarietà.
Il primo concetto, trasformatosi in una sorta di totem e che deriva dalle scienze
economiche, può essere sintetizzato nella formula «il mercato si autoregola». Questa espressione descrive non la sacralità del mercato di romitiana memoria degli anni ottanta, ma una realtà ben più complessa in cui l’economia capitalistica globalizzata crea una serie di attori che si comportano tutti secondo le stesse regole dalle
quali nasce l’economia globalizzata. La pluralità degli attori, comportandosi secondo gli stessi principi del libero mercato, della libera espansione delle proprie economie, produce un effetto di equilibrio in cui le contraddizioni che si aprono da una
parte vengono compensate dalle opportunità che si creano nelle altre.
L’effetto sistemico è di equilibrio; è la trasformazione della teoria dell’equilibrio
dell’economia capitalistica nella teoria globale che i mercati internazionali si autoregolano. Tuttavia, né la centralità del mercato né il principio dell’autoregolazione
hanno funzionato; e se c’è un punto oggi, in questo clima di confusione, su cui i
principali attori che stanno tentando di uscire dalla crisi internazionale finanziaria
concordano è che né il mercato né la sua autoregolazione hanno funzionato; in par-
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ticolare, gli studiosi e il governo tedesco sostengono che il modello anglosassone di
funzionamento del mercato autoregolato è fallito e, dunque, è lo stesso principio
cardine che dà legittimità alla globalizzazione liberista che è in crisi. Attualmente
tutti, più o meno surrettiziamente, seppure sia ancora assente un pensiero teorico
forte, stanno operando per trovare mezzi, formule, teorie, aggiustamenti che lecitamente consentano di rimanere dentro il principio del mercato e dentro il principio
dell’autoregolazione. Il mercato è oggi intaccato dall’interventismo statale su tutti i
piani e il principio dell’autoregolazione è messo duramente in discussione proprio
laddove sembra più raggiungere il suo risultato. Ad esempio l’imposizione ai cinesi
delle regole del capitalismo americano appare semplicemente una patina che non
nasconde il fatto che Cina, Russia, India e altri due-tre paesi in realtà intendono la
regolazione del mercato in una logica che è confliggente e non convergente con
quella degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali; dunque nessuna autoregolazione del mercato. Quindi cosa si sostituisce a questa formula? È questa la domanda che deve porsi il sindacalista.
Un sindacalista deve confrontarsi con questi quesiti e non può non sapere che
oggi non si parla di centralità e autoregolazione del mercato, ma di politiche che
hanno al centro le modalità per il suo superamento. Un nodo ancor più delicato attiene strettamente al secondo blocco del ragionamento, ossia al fatto che durante gli
ultimi due decenni si è affermato un capovolgimento teorico e pratico nel rapporto tra diritto ed economia. Questo rapporto è una delle «perversioni» del capitalismo che si è creata e in virtù della quale si è affermato un assunto teorico secondo
cui il diritto limita e frena la libera espansione dell’economia: l’economia è la libertà, il diritto in quanto regola è il vincolo alla libertà. In Italia avevamo già avuto una
tradizione, come al solito un po’ raccogliticcia, i famosi «lacci e laccioli» di cui parlava Guido Carli già negli anni sessanta, che si traduceva in un’ansia del capitalismo
liberale di identificare la libertà con l’economia, l’economia con l’azienda, l’azienda
con lo sviluppo, in una logica tutta tautologica volta a mettere tra parentesi il diritto come regola e come regolamentazione o, peggio ancora, il diritto quando diventa Costituzione, come punto invalicabile.
Oggi vi è ormai un consenso diffuso, sia in letteratura sia nella stampa, che è proprio nel travolgimento del diritto, nella libertà dell’economia senza alcun controllo
e norma; in ciò va rintracciata l’origine vera dell’implosione della globalizzazione liberista. Come appare del tutto evidente, non è vero che la libertà senza diritto produce lo sviluppo lineare o lo sviluppo geometrico, quello che si moltiplica; essa produce semplicemente un ammasso d’ingegnerie tra il finanziario e lo speculativo al
termine delle quali non c’è la somma zero, ma vi è la perdita secca di ricchezza nazionale e internazionale; dunque, senza diritto non si ha sviluppo, senza regole né
nazionali né internazionali in realtà non si favorisce lo sviluppo dei commerci mon-
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diali, la crescita, l’interdipendenza e quant’altro, al contrario si sanziona una generale tendenza alla depressione mondiale. Seppure siamo partiti dall’idea che con la
globalizzazione avremmo raggiunto vette importanti, il dato storico complessivo è
che, come dicono ormai gli analisti americani, siamo in una fase di depressione peggiore di quella del 1929. La depressione del 1929 è il must di tutta la storia economica e politica mondiale e, più del nazismo, costituisce il vero discrimine, quello da
cui è nato Keynes e da cui trae origine tutto. Il 1929 costituiva sinora una parte della storia rimossa, nessuno mai avrebbe ipotizzato che l’economia occidentale e mondiale potesse lontanamente ritrovare i meccanismi di depressione borsistica, monetaria e finanziaria che alla fine degli anni venti procurano lo sconquasso della seconda guerra mondiale. Oggi, invece, con il sovvertimento del rapporto diritto/economia, l’economia – soprattutto quella del modello anglosassone – finanziario-bancaria ha prodotto le condizioni strutturali di lungo periodo per una depressione più grave di quella di allora.
Terzo passaggio critico. Durante questi anni, questo tipo di globalizzazione liberista e questa ideologia hanno incorporato e sono state alimentate dall’ideologia
della scomparsa del lavoro; il lavoro è finito, non c’è bisogno del lavoro inteso come realtà materiale, cioè il lavoro come produzione di beni, merci manifatturiere,
di scambi tra poste, come si dice nel commercio; non ci sono poste, ci sono virtualità, e il lavoro deve in qualche modo scomparire, non ha senso; il capitale ha
incorporato talmente valore in sé che l’applicazione del lavoro è diventata una funzione irrisoria.
Questo assunto si è rivelato, come e più degli altri, una predizione ideologica;
era l’auspicio di una vera e propria rivoluzione sociale. L’Inghilterra in questo quadro ha rappresentato una parziale eccezione; infatti si è tentato negli ultimi venti
anni, giocando sui privilegi neoimperiali degli inglesi, di trasformare il lavoro in
una virtualità, trasformarlo cioè in finanza, quindi in qualcosa di immateriale.
Non è un caso che la Gran Bretagna sostenga che la crisi inglese è diversa da tutte le altre, perché non ha margini. Il modello inglese, ossia un mix di thatcherismo e blairismo (Terza via), ha giocato tutto sulla distruzione del lavoro e sulla
sua sostituzione, seguendo un modello opposto a quello tedesco; a oggi gli inglesi sono la nazione, lo Stato, l’economia, che nella crisi della globalizzazione rischiano di portare a casa, con l’avvio della distruzione della Terza via, il risultato
più tragico in termini di stabilità sociale, peso economico, anche internazionale,
e coesione sistemica. Il lavoro in realtà – a parte questo caso clamoroso, che a propria volta si differenzia da quello statunitense proprio perché applicato con radicalismo – in tutto il resto del mondo non soltanto è rimasto, ma si è straordinariamente moltiplicato e trasformato, uscendo dalla grande fabbrica. A livello planetario la globalizzazione non ha comportato una riduzione della forza lavoro, ma
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al contrario una sua moltiplicazione ed estensione anche ad altre categorie sociali che precedentemente erano in una sorta di limbo sociale. Il lavoro, dunque, non
è scomparso: esso permane come il punto fermo dei sistemi produttivi della globalizzazione liberista di questi decenni e ne risulta anche il fattore più coinvolto
nella sua crisi strutturale.
Un altro punto critico ed importante, poiché in sé riassume i precedenti, riguarda il discorso che segue dal 1989, con varie enfatizzazioni, e che consiste nel concetto di «fine della storia». Un concetto, questo, il cui impatto etico e ideologico è
devastante poiché è equivalso a sostenere l’impossibilità per il singolo e per le collettività di agire. È importante sottolineare con chiarezza che la storia non è affatto
finita perché non esiste quello che la fine della storia presupponeva, ossia non esiste
un solo sistema economico capitalistico, autosufficiente, e non esiste neppure il solo sistema liberal-democratico autosufficiente.
Negli Stati Uniti il pensiero filosofico-politico sta lavorando e ha lavorato per
molti anni sul rapporto tra libertà e democrazia. La discussione in atto si interroga sulla possibilità di ripristinare un circuito virtuoso che dalla libertà dei singoli
porti alla democrazia delle collettività. Questo è un punto interrogativo, non un
dato acquisito; quindi, non si può parlare di fine della storia e non si è ancora affermato alcun sistema compiuto. Il sistema liberal-democratico è sottoposto a tensioni e logoramenti come mai nella sua storia; questo è valido per gli Stati Uniti,
ma anche per la Francia o in esempi ancor più drammatici per le modalità con cui
vengono coniugati questi fattori come in Russia e Cina. Si parva licet, l’Italia in
questo contesto è un caso di scuola in negativo, dove il passaggio tra libertà e democrazia è stato praticamente, quasi in modo paradigmatico, interposto dalla ricchezza e dal personalismo, uno di quei modelli che i politologi studiano con maggiore attenzione per la sua rilevanza, come possibile esempio di sviluppo della crisi delle liberaldemocrazie, in cui l’elemento caratterizzante non è stato tanto la televisione quanto l’oligarchia, la ricchezza, l’individualismo, lo svuotamento degli
organismi collettivi democratici. Come abbiamo già sottolineato, non necessariamente la libertà fonda la democrazia né la democrazia integra la libertà; questo rimane un problema completamente aperto, che non ha niente a che vedere con la
caduta del modello sovietico o del comunismo, ma è tutto interno alla globalizzazione unificatrice e ai caratteri della sua crisi attuale. Oggi è chiaro che questo modello, proposto come vincente, non ha vinto e appare pieno di contraddizioni, di
evoluzioni interne che possono contraddirne il principio costitutivo; pertanto si
può andare verso sistemi in cui la democrazia diventa pura forma, la libertà diventa privilegio.
Infine, è da sottolineare come la crisi finanziaria sistemica che attraversa e divide
l’Occidente getti le premesse per una profonda depressione economica al cui centro
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vi è il passaggio dal ciclo flessibilità/precarietà del lavoro a quello della disoccupazione di massa e della conseguente contrazione dei diritti e interessi e dell’arma delle protezioni sindacali e contrattuali del lavoro. Dunque, rischia di conseguirne una
secca ridislocazione della forza e del potere del sindacato. In questo quadro il lavoro torna ad essere una merce contesa sul mercato e nel ciclo della sua utilizzazione
degli attori economici e aziendali e, per altri versi, dello stesso Stato amministrativo. Le regole, le ragioni, i vantaggi della singola organizzazione rischiano attraverso
il singolo proselitismo sindacale di trasformarsi in una competizione con le strategie di fidelizzazione aziendale e le tutele amministrative sussunte dallo Stato e dalle
sue articolazioni territoriali.
Questi sono i cinque blocchi teorici sui quali occorre in questo momento riflettere se si vuol attuare una trasformazione positiva dell’identità e conseguentemente
della ridefinizione organizzativa, anche in termini di adesione e fidelizzazione sindacale, nell’attuale riorganizzazione sociale: la crisi dell’autoregolazione del mercato, la crisi del rapporto diritto/economia, il «ritorno» del lavoro e non la sua scomparsa, il «ritorno» della storia.
La Costituzione, tutele e proselitismo
Di non minore importanza per il sindacalista è quanto riguarda più direttamente la ripercussione che tutto ciò ha sulla specificità della nostra storia nazionale e che
correttamente è stata assunta nel binomio Costituzione/lavoro che ricomprende la
tutela dei lavoratori nell’ambito della più ampia cornice costituzionale. Tuttavia, assumendo la Costituzione e il lavoro come asse di questa ridefinizione dell’identità,
occorre partire dalla constatazione che nella nostra storia Costituzione e lavoro hanno avuto una relazione speciale.
È del tutto evidente che se noi andassimo a discutere di aggiornamento dell’analisi dopo la crisi della globalizzazione in Inghilterra o in Francia, per non parlare degli Stati Uniti, nessuno parlerebbe di Costituzione, non sorgerebbe in nessuno l’idea di affrontare il problema del lavoro con riferimento alla Costituzione. In questi
casi l’orizzonte è il governo, non è la Costituzione. In Francia le mobilitazioni politico-sociali non avvengono in nome della Costituzione. La Francia ha avuto cinque
Costituzioni dopo la grande rivoluzione; esse riguardano l’ordinamento dei poteri
dello Stato (il governo, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, le modalità
delle elezioni, e quella che noi chiamiamo la seconda parte), non il fondamento della Repubblica (quello è stato deciso una volta per sempre nel periodo 1789-1793).
Invece in Italia il nodo fondamentale sta nel rapporto tra Costituzione e lavoro. In
Italia esiste questo tipo di rapporto così particolare giacché il lavoro ha dovuto legittimare costituzionalmente i propri diritti.
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Questa non è una banalità, ma la sostanza della storia sociale e politica italiana.
Infatti, se è stato necessario legittimare nella Costituzione il diritto del lavoro e i diritti sociali, cioè renderli immodificabili e indisponibili, vuol dire che questi diritti
erano disponibilissimi e per lunghi anni di questi diritti si faceva «mercato politico»,
potevano esserci e non esserci. Il diritto del lavoro poteva tutelare, ma poteva non
tutelare, la libertà di associazione poteva esserci e non esserci, si poteva scioperare e
non scioperare, avere il contratto collettivo o non averlo, potevi avere il salario corrispondente al lavoro che facevi, uguale per uomo e donna, e potevi non averlo.
Questa è la storia sociale di questo paese, dove il lavoro è stato sempre considerato
un terreno di scontro sul quale era possibile agire per eroderne la stabilità, i diritti,
il potere, le funzioni. La Costituzione è nella storia italiana, sostanzialmente, una
sorta di sostituto dei grandi compromessi politici e sociali che sono alla base delle
democrazie occidentali. Quello che altrove si è ottenuto per via di compromesso politico, in Italia lo abbiamo dovuto fissare in maniera irrevocabile nella Costituzione,
perché se il diritto è transeunte, e ovviamente si adegua alla realtà, anche la Costituzione si adegua alla realtà, ma nell’adeguarvisi mantiene una rigidità nei suoi principi costitutivi che le derivano da un dato che il diritto non ha. Il diritto non è un
patto, il diritto è un atto unilaterale che in genere è espresso da chi è più forte; le
Costituzioni, invece, sono dei patti e, dunque, prevedono dei contraenti; la Costituzione italiana è un patto e uno dei contraenti del patto è il lavoro.
Il lavoro è il contraente principale della Costituzione perché il lavoro nella Costituzione fissa in maniera irrevocabile i propri diritti; naturalmente l’altro contraente sono le classi dirigenti, sono coloro, cioè, che storicamente hanno tentato di
non riconoscere questi diritti, di camuffarli, di alterarli, di non applicarli quando la
Costituzione è entrata in vigore. Il lavoro è il contraente ed è per questo che l’articolo uno recita: «La Repubblica è fondata sul lavoro». Nessuna Repubblica è fondata sul lavoro: la Repubblica americana prevede la felicità, la Repubblica tedesca è
una Repubblica federale, quella francese è una e indivisibile; la nostra, invece, è fondata sul lavoro, e ci sono decine di articoli che riguardano in maniera esplicita la regolamentazione nella Costituzione dei diritti del lavoro, il che fa del rapporto tra
Costituzione e lavoro quello che i nostri padri costituenti definivano il carattere prescrittivo della Costituzione italiana.
Un altro aspetto da sottolineare è che la Costituzione italiana non è neutra, ossia non garantisce a tutti le stesse cose, ma garantisce al lavoro una superiorità rispetto al capitale, assegnandogli quella che Di Vittorio nella sua relazione alla Terza sottocommissione definiva «primazia morale» e che determina l’assetto degli articoli principali della parte economica della Costituzione. La nostra è una Costituzione nella quale non c’è equilibrio tra capitale e lavoro; il lavoro in essa è costrittivo rispetto al capitale; dell’impresa si parla in alcuni articoli, dei partiti si ac-
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cenna nella parte politica, e questo sta a dimostrare che i valori della Costituzione,
le regole fondamentali, traggono tutte origine dall’articolo uno, dal patto costituente fondamentale e, dunque, la Costituzione è un vincolo. Questo non può essere ignorato quando si discute del se e come modificarla; infatti, se le Costituzioni si modificano tra i contraenti e il lavoro è uno di essi, occorre venire al punto e
dire: «questo contraente c’è ancora o lo vogliamo togliere?». Questo è il nodo della riforma della Costituzione. Il punto difficile da risolvere è capire se quell’articolo uno e il suo ordinamento sono ancora alla base del patto costituente o se, invece, vi deve essere un altro valore coesivo che lo va a sostituire, ma con chiarezza, affinché da essa scaturisca il sistema dei valori che regge la società. Infatti, se la società non è tenuta insieme dal lavoro bisogna capire da cosa è tenuta insieme, soprattutto in un paese come l’Italia, al fine di evitare la dissoluzione della comunità nazionale e una sua decostituzionalizzazione.
Il secondo punto che occorre sottoporre con molta forza è che la Costituzione,
proprio per questo suo carattere, è stata accettata in modo diseguale dalle diverse
forze sociali; infatti, mentre le forze sociali che si richiamano sostanzialmente al capitale hanno mantenuto verso la Costituzione un atteggiamento di riserva, se non
di lotta aperta, e hanno preferito crearsi una Costituzione materiale, il lavoro, invece, ha fatto della Costituzione il proprio programma. Pertanto, se dovesse prevalere
la Costituzione materiale rispetto a quella formale, cui la Cgil si attiene, si creerebbe un problema d’identità programmatica di carattere valoriale.
Va introdotta, infine, la riflessione sulla rimessa in discussione del rapporto tra
Costituzione e lavoro. La Costituzione e il lavoro così come sono declinati consentono di ampliare la rappresentanza del lavoro da parte del sindacato? Questo quesito che viene proposto ripetutamente da molti studiosi e forze politiche, che è volto
a sostenere che solo accettando il cambiamento della Costituzione il sindacato può
avere maggiore capacità di rappresentanza sui cosiddetti «nuovi lavori», contiene al
suo interno un salto logico e un grossolano errore storico. In realtà non c’è nessuna
ragione concettuale o fattuale per cui la Cgil debba divorziare dalla Costituzione per
rappresentare le ragazze dei call center o i giovani immigrati. Non si riesce a leggere
nella Costituzione nessun passaggio che in qualche modo renda impossibile alla
Cgil allargare il proprio fronte sociale e nessun logico collegamento tra questi due
elementi. Al contrario, c’è soltanto un dato storico: la Cgil ha sempre rappresentato il lavoro frammentato e soltanto per 10-15 anni è riuscita a rappresentare il lavoro nelle grandi fabbriche. La Confederazione generale del lavoro è nata sulla frammentazione, sul lavoro individuale, sul lavoro precario, sul lavoro delle poche unità
e non su quello delle migliaia; essa è vissuta per gran parte dei cento anni a questo
livello e, dunque, non c’è nel codice genetico della Cgil un’impossibilità strutturale
in base ai suoi valori identitari di allargarsi al nuovo modo di essere del lavoro. Per-
tanto l’allargamento della rappresentanza sociale, che costituisce il punto fondamentale nell’aggiornamento della sua identità, è sì una questione reale, ma che tuttavia non attiene al collegamento perverso tra la Costituzione, la sua modifica e la
capacità della Cgil, in quanto accetti di modificare la Costituzione, di diventare improvvisamente un sindacato aperto al «nuovismo» del mondo del lavoro.
Innanzitutto queste forme di «nuovismo» non esistono né storicamente né concettualmente; esiste, invece, un problema di adeguamento, aggiornamento e trasformazione dell’identità del sindacalista e della sindacalizzazione e che si traduce
oggi nelle modalità organizzative con cui ritessere le fila degli organizzati. E ciò è
possibile attraverso un rafforzamento del potere contrattuale, andando anche oltre
i servizi e il bilateralismo. Al centro va posta, infatti, la questione dei diritti e dei
contratti e della riacquisizione del potere sindacale. Ciò permetterebbe di sottrarre il lavoratore alle offerte che provengono dall’azienda e dagli imprenditori, offrendo una scelta tra le opportunità dirette che provengono dall’azienda e il potere del sindacato nel gestire la forza lavoro. Dunque, la scelta di sindacalizzarsi deve avere un effetto e una ricaduta effettiva sulla vita lavorativa, oltre che essere una
scelta ideale. Poiché come sostenuto da Di Vittorio nel corso del Convegno nazionale d’organizzazione del 1954: «la questione decisiva, quando si hanno un programma chiaro e prospettive giuste, come noi indubbiamente abbiamo, è quella
dell’organizzazione del nostro lavoro, che sia la più adeguata possibile ai compiti
cui dobbiamo assolvere».
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Conclusioni
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■ Modelli organizzativi e politiche di affiliazione in Europa
Il modello inglese
Maria Paola Del Rossi*
Premessa
Il sindacato britannico ha rappresentato a lungo uno dei sindacati più forti e
combattivi al mondo, ma a partire dalla fine degli anni settanta ha preso avvio la sua
parabola discendente a cui, tra l’altro, è corrisposto un forte declino sia in termini
di iscritti, sia del suo potere30. La grave crisi economica registratasi alla fine della golden age, parallelamente all’affermarsi delle politiche neoliberiste portate avanti dai
governi conservatori guidati dalla Thatcher e la maturazione della società postfordista, infatti, hanno avuto riflessi diretti sul movimento sindacale inglese, mettendo
in crisi non solo il suo modello di relazioni industriali, ma facendogli perdere quel
ruolo di protagonista della vita economica e politica, conquistato nel corso del Novecento e riaffermatosi negli anni del secondo dopoguerra31. All’interno di un contesto contrassegnato da una forte contrazione della crescita economica, accompagnata da fenomeni di recessione e stagnazione, emergere di nuovi attori internazionali (multinazionali), apertura dei mercati e affermarsi dei nuovi processi di globalizzazione e deregolamentazione, si assiste dunque ad un progressivo logoramento
*
Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Nelle trade union britanniche le statistiche riportate dalla letteratura fanno osservare come le affiliazioni sindacali siano cresciute costantemente dal 1900 al 1920, portando gli iscritti a 8.400.000 circa,
con una successiva recessione fino al 1933, anno di minima fra le due guerre, con circa 4.400.000 iscrizioni. Una nuova fase di crescita si registra negli anni del secondo dopoguerra in cui le iscrizioni passano a 7.875.000 nel 1945 e a 13.289.000 nel 1979, con un picco nel 1970 quando gli iscritti crescono del 6,8%. Tali risultati si inseriscono all’interno di un trend positivo che riflette la crescita d’importanza del «sindacato» in tutta Europa e la sua tendenza ad istituzionalizzarsi. Un processo inverso,
seppure destinato presto a qualificarsi in maniera più complessa, si ha col parziale declino degli anni
thatcheriani, che facevano scendere gli iscritti agli 8.089.000 del 1995, ma con la contemporanea conferma verso l’istituzionalizzazione dei sindacati in genere e la sindacalizzazione di settori «nuovi». Si
trattava di tendenze riflesse nella struttura e dimensione del Tuc che passava dai 6.671.000 del 1945
ai 12.947.000 del 1980, e nuovamente ai 6.681.000 del 1997. All’interno di questo quadro va segnalato come una delle maggiori novità del dopoguerra sia l’aumento della presenza femminile, che nel
1995 raggiunge la media nel Tuc del 38,5% (+32% nel solo 1989). Su un quadro complessivo sul tema si rinvia ad A. Maiello, Sindacati in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002 e B. Ebbinghaus,
J. Visser (eds.), Trade Unions in Western Europe since 1945, MacMillan, London 2000.
31 Cfr. M. Carrieri, Sindacati in bilico, Donzelli, Roma 2003.
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della forza e incisività del sindacalismo britannico, anche in termini numerici. Ed è
a fronte di tale trasformazione, che ha visto protagonisti gli stessi partiti politici europei a partire dal Labour Party32, che il mondo sindacale ha avviato un processo di
revisione dei suoi tradizionali orizzonti sociali e del suo modello organizzativo, che
ha comportato anche un ampliamento delle sue tradizionali funzioni.
Modello sindacale e rappresentanza
Nell’evoluzione storica, oltre che politica, del sindacalismo britannico e della sua
centrale sindacale – il Tuc – una costante fondamentale è la peculiarità del suo modello, caratterizzato da un lato dal carattere fortemente corporativo delle trade
unions, basate sulla tutela sindacale rigida non del lavoro in quanto tale, ma del lavoro inteso come professionalità e mansione, e dall’altro dai rapporti tra il sindacato ed il partito laburista. Infatti, la stretta relazione tra l’espressione industriale e
quella politica del movimento laburista britannico costituisce un filo rosso che percorre trasversalmente l’intera vicenda del sindacalismo inglese ed è il frutto di una
complessa dialettica spesso caratterizzata da tensioni e divergenze33. Frutto della prima rivoluzione industriale della storia che trasforma la Gran Bretagna da paese prevalentemente agricolo a «officina del mondo», il movimento sindacale britannico è
il prodotto delle particolari circostanze politiche ed economiche che ne sono state
alla base, insieme a talune peculiarità della società inglese, e che lo formano e condizionano distinguendolo da quello degli altri paesi europei34. La sua stessa evoluzione da un punto di vista organizzativo risentirà di questa impostazione laddove il
confine tra le diverse forme di organizzazione che maturano in Inghilterra nel passaggio dalla fase dell’artigianato (corporazioni) a quella della manifattura (club e associazioni) e poi del macchinismo (nascita dei primi sindacati) non è mai stato così netto.
Se agli albori del movimento sindacale britannico, infatti, un ruolo di primo piano viene giocato dalle friendly society (società amichevoli di mutuo soccorso) e dalle craft society (società di mestiere) – alcune delle quali avevano origini antiche e
grande prestigio come quella dei cappellai di Londra – e quindi da associazioni basate sul mestiere, composte da operai specializzati e artigiani, caratterizzate da alte
quote di associazione, che godevano di una posizione contrattuale strategica ed i cui
obiettivi erano il mutuo soccorso e il controllo dell’apprendistato, con la fissazione
32
Negli anni novanta i tradizionali partiti di massa registrano un crollo organizzativo e di legittimità
sociale senza precedenti. Quasi ovunque i partiti mostrarono grandi difficoltà, perdono iscritti e divengono sempre meno di «massa».
33 E.J. Hobsbawm, Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli, Milano 2001, pp. 276-277.
34 A. Maiello, Sindacati in Europa, cit.
35
Fra il 1920 e il 1933 le iscrizioni ai sindacati si dimezzano passando da 8.400.000 circa a 4.400.000
circa, con una sindacalizzazione media del 45% all’inizio del periodo ed un 22% alla fine.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
di minimi salariali, orari e condizioni di lavoro; è solo a partire dal 1824, dopo l’abolizione delle leggi antisindacali promulgate tra 1797 e il 1800 – come ad esempio la Master and Servant Law – che iniziano a costituirsi le unions dei carpentieri,
dei marittimi e dei tessili, ossia i primi sindacati che si propongono la difesa dei lavoratori senza mestiere. Nel 1851, invece, si costituisce all’interno del settore dell’industria l’Amalgamed Society of Engeneers (Ase) che si distingue qualitativamente
dall’associazionismo precedente poiché non solo ha una maggiore diffusione territoriale, ma svolge funzioni contrattuali stabili a livello locale ed attua la pratica dell’arbitrato e della conciliazione, oltre all’utilizzo del closed shop. Tuttavia, se è con la
costituzione della Miner’s Federation of Great Britain nel 1889 che si può datare la
nascita del sindacato industriale inglese, in cui si organizzano i lavoratori sulla base
del processo produttivo (non del mestiere); lo sciopero dei Docks dello stesso anno,
che coinvolge 10.000 scaricatori, rappresenta il punto di avvio del new unionism che
organizza orizzontalmente i lavoratori non organizzati (general unionism).
Dotati di una forte autonomia amministrativa, i sindacati inglesi si incontrano
annualmente in occasione del Congresso. A partire dal 1868, attraverso una lenta
strutturazione, viene infatti costituito il Trade Unions Congress la cui politica è il
frutto dei compromessi su cui i principali sindacati britannici convengono. Di fatto però la strutturazione del Tuc viene avviata solo nel 1921, con la costituzione
del Consiglio generale, e successivamente completata dall’allora segretario generale Walter Citrine al fine di permettere il funzionamento di un organismo che, se
nel 1914 contava 4 milioni di iscritti, nel 1925 raggiungerà i 5,5 milioni35. Il Tuc,
inoltre, ha il compito di interloquire con il governo sulle politiche sociali, nell’ambito di una netta separazione tra la sfera economica e quella politica che viene demandata alla propria rappresentanza parlamentare nell’ambito del Labour Party.
Questa impostazione organizzativa ha caratterizzato a lungo il modello sindacale
britannico, in cui l’effettività della rappresentanza dei lavoratori nell’industria si
basa sul conflitto piuttosto che su una rappresentanza riconosciuta per legge ed è
una funzione del livello delle iscrizioni e delle dimensioni e incisività dell’attività
sindacale di base. Infatti, la rappresentatività in Gran Bretagna viene indicata dal
tasso di sindacalizzazione.
La «libera contrattazione collettiva» connota l’azione del sindacalismo britannico
che, seguendo il cosiddetto «principio volontaristico», si è mostrato da sempre riluttante di fronte a qualsiasi tentativo di regolare legalmente i diritti dei lavoratori,
così come alla regolamentazione statutaria delle relazioni industriali; contemporaneamente, al principio della libera negoziazione collettiva per settore e professione
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è tradizionalmente corrisposta da parte del sindacato una maggiore attenzione alle
logiche di mercato e alla definizione degli interessi particolari dei propri membri,
basata sul canale unico di rappresentanza e sull’organizzazione militante dei delegati in azienda.
Il proselitismo sindacale
In Gran Bretagna, infatti, l’affiliazione sindacale è improntata al filone funzionale: ossia essa avviene a federazioni organizzate sulla base di categorie professionali dei
lavoratori (secondo la tradizione delle craft unions). Inoltre, anche se la maggioranza degli iscritti appartiene a sindacati affiliati al Trade Unions Congress, è possibile
che diverse federazioni del Tuc possano essere rappresentate negli stessi stabilimenti e che vi sia una concorrenza per guadagnare il maggior numero di iscritti. Da qui
è nata l’esigenza, soprattutto a partire dagli anni settanta, di avviare un processo di
fusione tra più federazioni, anche a fronte del duro attacco alle funzioni e prerogative del sindacato attuato dal governo conservatore di Edward Heath, giunto nel
giugno 1970 a Downing Street dopo le dimissioni del governo laburista36. L’imposizione dell’Industrial Relation Bill 37– che verrà poi abolito nel 1974 – e di una linea anti-working class sono i due cardini dell’offensiva avviata dal governo Heath in
una fase in cui la Gran Bretagna raggiunge il più alto tasso di disoccupazione dal
1930, oltre che di inflazione, mentre aumentano le rendite grazie all’Housing Fi36
L’entità di tale fenomeno appare ancor più evidente a partire da uno sguardo di lungo periodo; infatti se nel 1945 le union esistenti erano circa 800 – di cui 500 di livello nazionale –, a metà degli anni novanta se ne contano circa 250. Tali cifre registrano di fatto una contrazione non solo numerica,
ma soprattutto organizzativa, che riflette le fusioni che sono state effettuate. Inoltre, la frammentazione del mercato del lavoro porta progressivamente a un’ulteriore inversione di tendenza rispetto al
modello classico del sindacalismo britannico: ossia si assiste a una maggiore diffusione delle general
union rispetto alle industrial union. Infatti, se nel 1950 i quattro maggiori sindacati britannici erano
la Tgwu, la Num e la Nur, e corrispondevano al 37% circa del totale dei sindacalizzati (9.293.000)
e del totale degli affiliati al Tuc (7.832.700) ed erano tutte industrial union con una sola general union,
nel 1995 il panorama muta radicalmente. Le maggiori union divengono l’Unison – frutto di una fusione nel 1993 fra sindacati impiegatizi multisettoriali del pubblico impiego –, la Tgwu, la Gmb,
l’Aeeu, che rappresentano circa il 70% del totale degli affiliati e dei sindacalizzati. Quindi, accanto a
un’inversione del rapporto fra general e industrial union, diviene sempre più evidente il processo di
concentrazione.
37 Questo provvedimento vincola legalmente i contraenti ai contratti scritti; rende responsabili le
union per i danni prodotti dai suoi aderenti, limita con sanzioni penali il diritto di sciopero, interferisce nelle procedure interne delle union, limitandone i privilegi in mancanza di registrazione. Sull’Industrial Relation Act esiste una vasta letteratura, tuttavia per un quadro generale si rinvia a: A. Campbell, N. Fishman, J. McIlroy (eds.), British Trade Unions and Industrial Politics, Voll. I, II: 1945-1979,
Ashgate, 2000; H. Armstrong Clegg, The Changing System of Industrial Relations in Great Britain,
Oxford 1979; D. Coates, The crisis of Labour: Industrial Relations and the State in Contemporary
Britain, Philip Allan, 1989.
38 Nel 1967 quattro dei cinque maggiori sindacati affiliati al partito laburista eleggono leader di sinistra: Hugh Scanlon alla guida dei metalmeccanici, Jack Jones della Tgwu, Lawrence Daly segretario
dei minatori e Richard Seabrook dei commessi.
39 Cfr. R. Hyman, Understanding European Trade Unionism, cit., pp. 97-101; l’autore sottolinea che:
«By 1970 it was estimate that there were some 300.000 shop stewards representing workers in manual occupations, and over 50,000 staff representative as well. In many industries it was collective bargaining at plant level-often fragmented across different departments and occupational groups - which
determined the larger share of earnings increases, and also regulated production methods, the organisation of working time, hiring and firing and a host of other issues. This process was perhaps most
elaborately developed in the motor industry, where researchers in the 1960s wrote of what might be
termed parallel unionism... The shop stewards’ organisation has become the real union».
40 A. Maiello, Sindacati in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, p. 71.
41 Ibidem.
42 Il governo laburista scelse la politica dei redditi come metodo per affrontare l’inflazione e le relazioni industriali. All’inizio, il governo Wilson ritenne di non poter conseguire i suoi obiettivi sociali ed
economici, rappresentati ad esempio dal Piano Nazionale, senza un accordo sui salari. In realtà, il controllo salariale divenne molto presto parte dell’arsenale economico impiegato per evitare la svalutazione e difendere la sterlina. Comunque, né la politica dei redditi né la difesa della sterlina registrarono
un successo significativo. L’accordo tra il governo e il TUC del 1964, con il Consiglio nazionale per i
prezzi ed i redditi, fu seguito da un accordo tra il governo e il sindacato nel 1965, ma entrambi si rivelarono inutili. Nel 1966 il governo decretò un blocco dei salari statutario e impose ulteriori norme
salariali fino al 1969. La saga della politica dei redditi contribuì al sistematico deterioramento dei rapporti tra il governo e il movimento sindacale. Wilson si trovò, inoltre, a presiedere un governo laburista lacerato dalle vertenze sindacali e negoziò in questi anni un accordo di cooperazione in base al quale i sindacati avrebbero volontariamente limitato le rivendicazioni salariali in cambio dell’adozione di
politiche a loro favore da parte del governo. E fu la firma di tale accordo che diede l’impressione di un
governo tenuto in ostaggio dalle organizzazioni sindacali. Cfr. W.I. Hitchcock, Il continente diviso, Carocci, Roma 2003, pp. 392-393.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
nance Act, crescono i prezzi del servizio sanitario regionale e si pone fine allo storico free milk scheme.
Ed è in questo quadro che prende avvio il processo di ridefinizione del ruolo e delle funzioni del sindacato britannico, mentre si registra un calo drastico del numero
degli iscritti e del tasso di sindacalizzazione. Parallelamente in questi anni si afferma
una nuova generazione di leader sindacali, maggiormente legati a istanze di sinistra38,
mentre cambia la stessa struttura del tradeunionismo in cui si diffondono diversi
sindacati di categoria, vagamente legati dall’appartenenza al Tuc, che rendono difficile lo sviluppo di una coerente politica sindacale39. Infatti, lo spostamento della
leadership del movimento da destra al centro-sinistra riflette il mutamento dell’equilibrio dei poteri all’interno dei sindacati, dove la contrattazione viene sempre più
controllata dalla base, seguendo in tal modo anche uno sviluppo europeo40. Come
afferma Adele Maiello «i funzionari sindacali a tempo pieno, ora, più che dirigere
consigliano»41, mentre la legislazione introdotta sia dai conservatori che dai laburisti,
oltre alla politica dei redditi e ai controlli salariali richiesti e sostenuti da entrambi i
partiti, favoriscono il protagonismo dell’ala sinistra del sindacato42.
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Tuttavia il reale punto di svolta è rappresentato dalla scelta neoliberista effettuata dal governo conservatore di Margaret Thatcher – eletta nel 1979 e alla guida del
paese per le tre successive legislature – che pone fine a quella sorta di tacito accordo, tra tories e labour, sul welfare e sulla formula «Keynes + Beveridge», che aveva
caratterizzato l’ultimo trentennio, attraverso l’imposizione di una stretta disciplina
monetaria, la fine dell’intervento diretto dello Stato nel funzionamento del mercato e la rimozione delle barriere istituzionali. Ed è all’interno di questa cornice che si
produce una reale «marginalizzazione» del sindacato che si traduce, a partire dai primi anni ottanta, nella loro esclusione politica, cui corrisponde non solo una diminuzione della loro libertà di manovra, ma anche una diminuzione dei propri iscritti. Infatti, sulla base dell’assunto che «solving the union problem is the key to Britain’s recovery»43, nell’arco di tre legislature (1980-1993) l’amministrazione conservatrice attua una serie di riforme che aumentano le difficoltà dei sindacati, già minati nella loro base dal forte indebolimento dell’industria manifatturiera e, dopo il
1984, dalla vicenda dei minatori44. A partire dal 1980 si susseguono otto atti del
Parlamento che agiscono sulla legislazione delle relazioni industriali. Il principale effetto è l’ulteriore indebolimento della limitata protezione legale attuabile per i lavoratori individuali, mentre si capovolge la tradizionale «immunità» dei sindacati britannici. Se da un lato viene ridotta drasticamente la possibilità di azioni di sciopero
legali, dall’altro le procedure interne ai sindacati vengono assoggettate a una dettagliata e onerosa regolamentazione, trasformando il sistema di relazioni industriali
britannico in uno tra i più giuridicamente prescrittivi45.
Parallelamente il governo conservatore decapita i poteri dei governi locali; liberalizza il mercato del lavoro; riduce le imposte sul reddito a livelli inimmaginabili negli anni settanta; privatizza la maggior parte del settore statale e introduce una parvenza di criterio di mercato nel sistema di allocazione delle risorse all’interno della
43
Cfr. A. Fox, History and Heritage, Allen and Urwin, London 1985, p. 373; H.A. Clegg, The Changing System of Industrial Relations in Great Britain, Blackwell, Oxford 1979, p. 378; C. Crouch, G.
Baglioni, European Industrial Relations: the Challenge of Flexibility, Sage, London 1990.
44 Le adesioni diminuirono dall’apice raggiunto nel 1981 di 12 milioni di un milione all’anno nei successivi tre anni (per giungere a solo sette milioni alla fine degli anni novanta). A proposito cfr. G.A.
Dorfman, British Trade Unionism against the Trade Unions Congress, MacMillan, London-Basingstoke
1983. Mentre sugli anni della Thatcher cfr. H. Young, A. Slaman, The Thatcher Phenomenon, British
Broadcasting Corporation, London 1989; P. Riddell, The Thatcher Decade: How Britain Has Changed
During the 1980s, Blackwell, Oxford 1989.
45 Sul thatcherismo e le relazioni industriali cfr. D. Marsh, The New Politics of British Trade Unionism. Union Power and the Thatcher Legacy, cit., pp. 238-249; inoltre cfr. S. Savage, L. Robins
(eds.), Public Policy under Thatcher, Macmillan, London 1990, p. 245 che tentano di descrivere gli
effetti del governo conservatore nella public policy identificando le relazioni industriali come una
delle quattro aree che avevano subito seri e spesso radicali trasformazioni durante gli anni della
Thatcher.
Conclusioni
Dagli anni novanta, inoltre, si diffonde in Gran Bretagna l’organising model di
origine statunitense che punta, accanto all’erogazione dei servizi ai vecchi iscritti, a
reclutarne di nuovi e promuoverne la partecipazione e responsabilizzazione. Inoltre
nel 1998 il Tuc, guidato dal suo segretario John Monks, istituisce l’Organizing Aca-
46
Il mercato del lavoro viene drasticamente trasformato. Infatti, se nelle prime due decadi del secondo dopoguerra la media della disoccupazione era meno del 2%, cui succede un graduale deterioramento negli anni sessanta e settanta, negli anni ottanta il suo livello cresce fino a divenire uno dei maggiori in Europa. Nello stesso tempo, viene sostanzialmente alterata la struttura occupazionale: si accelera il declino ormai di lungo periodo delle manifatture; il numero dei lavoratori manuali viene superato da quello dei colletti bianchi; mentre il lavoro pubblico viene sostanzialmente ridotto dalle privatizzazioni governative e dalla convulsa contrazione dei diversi elementi del servizio pubblico. Ugualmente prende sempre più piede la flessibilizzazione della forza lavoro e si assiste a una rapida crescita
del lavoro part-time (circa un quarto degli occupati), dei contratti temporanei e del self employment.
47 J. McInnes, Thatcherism at Work: industrial relations and economic change, Milton Keynes, Open
University Press, 1987, pp. 123 e ss.
48 A proposito cfr. D. Marsh, The New Politics of British Trade Unionism. Union Power and the Thatcher Legacy, cit., pp. 169-170; P. Dorey, The Conservative Party and the Trade Unions, Taylor & Francis
Books Ltd., Routledge 1995.
49 Cfr. Richard Hyman, Understanding European Trade Unionism, Sage, London 2001.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
parte restante risultata invendibile, compresi i settori dell’istruzione e della previdenza sociale46. In questa fase – in cui mutano anche le politiche e le strategie attuate dalle imprese britanniche che assorbono molto del vocabolario americano della direzione delle risorse umane (Hrm)47 – l’aumento della decentralizzazione della
determinazione salariale e altri aspetti della regolamentazione del lavoro hanno dunque importanti conseguenze nella contrattazione collettiva in un contesto di declinante adesione ai sindacati. Infatti, alla fine del 1990 il Labour Force Survey mostra
che solo il 44% dei lavoratori era in posti di lavoro dove i sindacati erano riconosciuti e di questi solo il 36% aveva un salario e condizioni di lavoro regolamentate
da un contratto collettivo48.
A fronte della svolta copernicana portata avanti dalla Thatcher e di una struttura del lavoro sempre più deindustrializzata, il sindacato britannico avvia una revisione della propria politica e strategie volte anche ad aumentare i propri iscritti e
acquisire forza organizzativa. Se, da un lato, esso rivolge una maggiore attenzione
alle dinamiche politico-sociali riguardanti la generalità dei lavoratori; dall’altro,
compie passi decisivi quali l’accettazione delle definizioni di un salario minimo, nel
1986, e il superamento del canale unico della rappresentanza sindacale in azienda,
prevedendo quindi rappresentanze sui luoghi di lavoro anche di soggetti non sindacalizzati49.
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demy, un istituto finalizzato a formare organizzatori specializzati, ossia individui che,
pur non avendo avuto esperienza pregressa in ambito sindacale, portano con sé le
proprie capacità organizzative e promozionali sviluppate in precedenti campagne
promozionali o all’interno delle organizzazioni studentesche50. I sindacati britannici, dunque, puntano sempre più su politiche organizzative formali, orientate a reclutare i lavoratori con tradizione sindacale più ridotta, tra i quali gli atipici, anche
se il maggior sforzo organizzativo è diretto al consolidamento e al reclutamento di
lavoratori nelle aziende in cui già vi sono altri iscritti della stessa tipologia occupazionale e nelle quali i sindacati sono già riconosciuti dal datore di lavoro.
Tra le strategie adottate nei confronti dei membri potenziali vi è il reclutamento
«da pari a pari», basato sulla teoria che è più probabile che gli individui aderiscano
al sindacato se avvicinati da persone con le loro stesse caratteristiche, come l’età, il
genere e l’appartenenza etnica. A proposito, sulla scia dell’esperienza statunitense, si
è iniziato a puntare sui lavoratori migranti come potenziale bacino per il reclutamento di nuovi iscritti e sulla loro organizzazione. Anche alla luce di tali riforme organizzative si è registrata dalla fine degli anni novanta una stabilizzazione delle adesioni sindacali, a fronte però di un tasso di sindacalizzazione che ha continuato a
scendere passando dal 30,7% del 1997 al 28% del 2007, ossia all’interno di un quadro politico rinnovato dopo l’elezione dei laburisti nel 1997 e con l’entrata in vigore delle clausole per il riconoscimento dei sindacati (Union Recognition Provisions)
nell’ambito dell’Employment Relation Act nel 199951.
Di fatto, nel processo che ha portato negli anni novanta alla costituzione del New
Labour, e poi con il governo Blair, è prevalso un atteggiamento tutt’altro che con50 Sul tema si rinvia a Kurt Vandaele, Janine Lesxhke, Seguire l’Organising Model dei sindacati britannici? L’organizzazione dei lavoratori atipici in Germania e Olanda, e a Jelle Visser, L’iscrizione al sindacato in 24 paesi, in Economia & Lavoro, n. 3, 2008.
51 Negli anni recenti tali sforzi e i mutamenti del mercato hanno prodotto non solo la diversa qualità degli iscritti, ma anche una sua diversa percentuale di aggregazione che si può valutare anche solo
con la lettura dei seguenti dati. Quel 33% del 1992 indica così un incremento legato alla sindacalizzazione di nuovi settori e di nuovi soggetti, come le donne e i lavoratori di colore, il cui numero non
solo è aumentato nel secondo dopoguerra, ma ha dato anche luogo ad un mutamento in senso antirazzistico da parte delle union, soprattutto a partire dagli anni ottanta, tanto che, a metà del decennio, la densità di affiliazione dei lavoratori di colore (provenienti, soprattutto i più sindacalizzati, dalle West-Indies, col 46% e gli altri dal Pakistan e dal Bangladesh, col 25%) si è allineata a quella dei
lavoratori bianchi. Nelle aziende si è basato su di una situazione di forza acquisita di fatto, non di diritto. Infatti gli imprenditori britannici avevano accettato il principio del riconoscimento delle organizzazioni sindacali che, nei fatti, i propri dipendenti fossero riusciti ad impiantare all’interno delle
loro aziende. Solo a questo punto essi erano disposti – anche se ci volle tempo per far accettare tale
prassi – ad incontrarsi e negoziare coi funzionari sindacali a tempo pieno. Un fattore importante a
questo riguardo è stato a lungo il closed shop, dichiarato invalido dall’Industrial Relations Act del 1971,
ma che continuò a funzionare come prima fino alla legislazione thatcheriana che lo rese sempre più
inattuabile. Cfr. Paul Philo, I sindacati inglesi: declino o rinnovamento?, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 3, 2002, pp. 131-149.
52 Di qui ha spesso preso le mosse un ritratto dei governi, di sinistra o socialdemocratici, più inclini
alle riforme e orientati a sganciarsi dai condizionamenti del sindacato. Partiti, e soprattutto leader, che
sarebbero più pragmatici di quanto non siano i sindacati. G. Sapelli, Sul riformismo, Bruno Mondadori, Milano 2002.
53 J. Waddington, R. Hoffman (eds.), Trade Unions in Europe. Facing challenges and searching for solutions, Etui, Brussels 2000.
54 Tuc, Europe 1992 - Progress Report, 1988, pp. 10-11.
55 Cfr. Tuc, Managing the Economy Towards 2000, 1990, p. 3.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
cessivo verso le richieste delle unions52. Si è anzi affermata la tendenza nella Gran
Bretagna laburista e postliberista a promuovere una rappresentanza del lavoro «senza sindacati» (un riformismo senza sindacati) tradotta in un’azione di governo finalizzata a rafforzare i diritti dei lavoratori senza rilanciare in parallelo le prerogative
sindacali53, ricalibrando il rapporto all’insegna dello slogan «fairness not favours».
Tuttavia, va sottolineato come nell’evoluzione di questo scenario da parte dei sindacati inglesi sia stata attuata un’altra importante scelta strategica a partire dal 1992,
ossia la definitiva scelta dell’Europa quale canale privilegiato di azione politica. Infatti, il sindacato pone una forte enfasi sulla possibile estensione a livello europeo
dei diritti collettivi e industriali atrofizzati dalla legislazione conservatrice sull’impiego, mostrando una particolare attenzione alla partecipazione dei lavoratori e all’utilizzo dei fondi comunitari per le ristrutturazioni economiche e la creazione di
posti di lavoro. Il Tuc sottolinea l’utilità delle disposizioni contenute nell’Atto unico europeo sul «dialogo sociale» e la concezione europea della partnership sociale tra
managment e sindacati54.
Il dopo Delors corrisponde per il sindacato inglese alla fine della sua tradizionale insularità. L’istituzione di una Eu Strategy Committee a Bruxelles, a partire
dal 1989, suggella da un punto di vista istituzionale questo cambiamento, che
corrisponde a livello politico a un’azione più attiva nei consessi europei per il rafforzamento delle iniziative legislative e della contrattazione collettiva a livello comunitario55.
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■ Modelli organizzativi e politiche di affiliazione in Europa
Il «caso francese» tra culture politiche
e relazioni industriali (1895-1995)
Sante Cruciani*
Premessa
Nella storia della sinistra europea56, le organizzazioni sindacali devono essere analizzate prendendo in considerazione l’interazione con il sistema politico, i partiti del
movimento operaio e l’intervento dello Stato nelle relazioni industriali57. L’evoluzione dei sindacati francesi deve essere collocata nel contesto delle culture politiche
che hanno attraversato il movimento operaio dalla nascita della Confédération Générale du Travail alle dinamiche politiche e sociali della V Repubblica, fino al Trattato di Maastricht e all’avvento della moneta unica. Occorre fare attenzione alle scelte strategiche delle organizzazioni sindacali, al radicamento territoriale e alla base sociale, senza dimenticare l’andamento del tesseramento e le forme di rappresentanza
nei luoghi di lavoro. Nel lungo periodo possono emergere così elementi di comparazione suscettibili di essere proiettati oltre i confini del «caso francese», per uno studio unitario dei partiti e dei sindacati della sinistra europea.
La Terza Repubblica, il Fronte Popolare, la Francia di Vichy
Nella Francia della III Repubblica (1870-1940), il consolidamento del movimento sindacale è favorito nel 1880 dalla formazione del «Parti des travailleurs socialistes de France» (Ptsp) di Jules Guesde e dalla legge Waldeck-Rousseau del 21
marzo 1884. Nonostante la scissione interna al Ptsp, con la nascita della «Fédérations des travailleurs socialiste» di Paul Brousse e del «Parti ouvrier socialiste revolutionnaire» di Jean Allemane, la legge Waldeck-Rousseau costituisce una spinta notevole al radicamento delle Camere del lavoro. Il riconoscimento dei sindacati e delle associazioni padronali moltiplica i lavoratori iscritti alle camere sinda*
Università della Tuscia.
M. Lazar (sous la direction de), La gauche en Europe depuis 1945. Invariants et mutation du socialisme européen, Puf, Paris 1996; D. Sassoon, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale
del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1997.
57 M. Antonioli, L. Ganapini (a cura di), I sindacati occidentali in una prospettiva storica comparata,
BFS, Pisa 1995; A. Maiello, Sindacati in Europa. Storia, modelli, culture a confronto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.
56
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cali dai 40.000 del 1876 ai 400.000 del 1890 e le associazioni di mestiere dotate
di un coordinamento di tipo dipartimentale da 500 nel 1881 a 1.500 nel 189058.
Mentre nel 1886 il Congresso di Lione delle associazioni operaie è caratterizzato
dalla formazione della «Fédération nationale des syndicats», il Congresso di Limoges del 1895 sancisce la nascita della «Confédération générale du travail» (Cgt) guidata da Léon Jouhaux59.
Organizzata sui due pilastri della rappresentanza professionale e dell’appartenenza geografica, attraverso le Borse del lavoro e le Federazioni nazionali di mestiere, la
Cgt si sviluppa in aperta polemica con l’indirizzo riformista del Partito socialista
Sfio (Section française de l’Internationale ouvrière), riunificato a Parigi nell’aprile
1905. Nell’ottobre 1906 la Carta di Amiens della Cgt esprime in maniera esemplare l’antagonismo tra l’anima politica e sindacale del socialismo francese, con l’assunzione dell’anarcosindacalismo come ideologia del sindacato e il passaggio dalle
federazioni di mestiere alle federazioni d’industria. È una divaricazione approfondita dalla radicalizzazione dello scontro sociale perseguita dalla Cgt e riscontrabile sul
piano organizzativo. L’isolamento da larghi strati di lavoratori votati al riformismo
comporta per la Cgt una caduta dai 150.000 iscritti del 1906 ai 400.000 del
191460.
Nel primo dopoguerra, il movimento operaio francese è caratterizzato dall’emergere del sindacalismo cattolico e dalla rottura tra comunisti e socialisti nella Sfio e
nella Cgt. La nascita nel 1919 della «Confédération française des travailleurs chrétiens» (Cftc), con 100.000 iscritti fra le donne e gli impiegati, i minatori e gli operai tessili, introduce nella dialettica sindacale un nuovo soggetto destinato a rappresentare le rivendicazioni dei lavoratori cattolici. Alla formazione del «Parti communiste français» (Pcf) nel dicembre 1920 corrisponde l’espulsione dalla Cgt dell’ala
rivoluzionaria e la costituzione nel 1922 della «Confédération général du travail
unitaire» (Cgtu), egemonizzata dalla corrente comunista organica al Pcf.
Mentre la Cgt ribadisce la sua affiliazione alla Fédération internationale des
syndicats di ispirazione socialista e la Cgtu confluisce nell’Internazionale rossa dei
sindacati, gli anni venti vedono un generale declino delle due organizzazioni, con
491.000 aderenti alla Cgt nel 1924 e 431.000 alla Cgtu nel 1926 e una base sociale radicata rispettivamente nel mondo degli insegnanti e degli impiegati e nel lavoro operaio e manuale61. È una tendenza decisamente invertita dalle manifestazioni
di piazza del febbraio 1934 a difesa della Repubblica, dalla fusione tra la Cgt e la
58
G. Lefranc, Histoire du travail et des travailleurs, Flammarion, Paris 1975.
R. Mouriaux, La Cgt, Seuil, Paris 1982.
60 M. Dreyfus, Histoire de la Cgt, Complexe, Bruxelles 1995.
61 J. Montreuil, Histoire du mouvement ouvrier des origines à nos jours, Aubier, Paris 1946.
59
Comunisti, socialisti e cattolici nella IV Repubblica
Nella Francia della IV Repubblica il mantenimento dell’unità d’azione tra i partiti e i sindacati del movimento operaio nel biennio 1945-1946 è alla base della nazionalizzazione dell’industria automobilistica Renault, delle miniere di carbone, del
gas e dell’elettricità e della costruzione di un articolato sistema di Securité sociale65.
62
A. Prost, La Cgt à l’époque du Front Populaire 1934-1937, Presse de la Fondation Nationale des
Sciences Politique, Paris 1964.
63 J.L. Robert (dir.), Le syndicalisme sous Vichy, in Le mouvement social, 1992.
64 H.W. Ehrmann, French Labor from Popular Front to Liberation, Cornell University Press, New York
1947.
65 G. Elgey, Histoire de la IV République, première partie, La République des illusions 1945-1951, Fayard, Paris 1993.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
Cgtu sotto il nome di «Confédération générale du travail» (Cgt) e dalla vittoria del
Fronte popolare alle elezioni del marzo 1936. Gli «Accordi di Matignon» del 21-24
luglio 1936, l’aumento dei salari, la settimana lavorativa di 40 ore, l’istituzione delle convenzioni collettive e dei delegati di fabbrica, l’introduzione dell’arbitrato obbligatorio nei conflitti tra capitale e lavoro coincidono con un aumento vertiginoso
degli iscritti, con un balzo dai 780.000 aderenti alla Cgt nel 1936 ai 4.936.000 del
gennaio 1937 e ai 500.000 iscritti alla Cftc62.
La forza del movimento sindacale non è comunque sufficiente a garantire la tenuta del Fronte Popolare, disarticolato in maniera irreversibile dal Patto MolotovRibbentrop dell’agosto 1939.
L’immediata espulsione dei comunisti dalla Cgt e la messa al bando del Pcf da parte del governo Daladier non può riuscire a salvaguardare la coesione nazionale della
Francia di fronte all’occupazione nazista e al governo collaborazionista del generale
Pétain. Nella Francia di Vichy lo scioglimento di tutte le organizzazioni sindacali e la
costruzione dello Stato corporativo trova un debole argine nell’ottobre 1940 in un
manifesto unitario clandestino della Cgt e della Cftc, primo passo verso la creazione
dei Comités d’unité syndicale et d’action tra lavoratori socialisti, cattolici e radicali63.
Mentre l’attacco della Germania all’Unione Sovietica ricolloca le forze comuniste nel
circuito della resistenza, il grande sciopero dei minatori del Pas de Calais del maggiogiugno 1941 e la riammissione dei comunisti in virtù degli «accordi di Perreux» del
1943 trasformano la Cgt in un elemento cardine della Resistenza, fino alla proclamazione con la Cftc dello sciopero insurrezionale di Parigi dell’agosto 194464. Nei
primi mesi del 1946 la proliferazione nelle fabbriche di comitati politico-sindacali,
Comitati di Liberazione d’impresa e Comitati di autogestione conduce a un totale di
3.700.000 iscritti alla Cgt e a 365.000 aderenti alla Cftc.
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L’impatto della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sul sistema politico francese produce nel maggio 1947 l’espulsione del Pcf dalla compagine di governo del socialista Paul Ramadier e una nuova stagione di divisione tra comunisti
e socialisti sul versante sindacale. Mentre la scissione dalla Cgt della corrente socialista e la nascita del sindacato «Cgt - Force ouvrière» ratifica l’opposizione dei comunisti e l’apertura dei socialisti al Piano Marshall, il panorama sindacale francese
è contraddistinto dalla graduale laicizzazione della Cftc ad opera del gruppo «Reconstruction» di Paul Vignaux66.
L’abrogazione del provvedimento statutario originale che ne basava l’attività sull’enciclica Rerum Novarum, la critica al legame eccessivo con le gerarchie ecclesiastiche e con il «Mouvement républicain populaire» favoriscono l’insediamento della Cftc tra i metalmeccanici, gli edili, i lavoratori del gas e delle industrie elettriche,
i chimici e gli insegnanti e una sua evoluzione su posizioni non confessionali, democratiche e socialiste. Nonostante la diversa collocazione internazionale, le tre organizzazioni sindacali vivono negli anni cinquanta una comune fase di debolezza organizzativa, dovuta anche al sistema di relazioni industriali introdotto dalla legge
dell’11 febbraio 1950 sul regime delle convenzioni collettive e i conflitti di lavoro67.
La sostanziale equiparazione tra la contrattazione collettiva e i meno impegnativi accordi salariali squilibra i rapporti sindacali a vantaggio delle organizzazioni padronali, lasciando agli imprenditori assoluta libertà di manovra sia in campo salariale
che nell’organizzazione del lavoro all’interno delle aziende. La diversa determinazione dei salari nel settore pubblico e in quello privato rende ulteriormente problematica la funzione dei sindacati, contribuendo alla frammentazione della rappresentanza e alle difficoltà di rapporti tra organizzazioni portatrici di interessi spesso
in contrasto tra loro.
Mentre la teoria della pauperizzazione assoluta della classe operaia in regime capitalista affermata dal segretario del Pcf Maurice Thorez allontana la Cgt di Benoit
Frachon dalla comprensione delle trasformazioni in atto nella società francese, la nascita del Mercato comune europeo nel marzo 1957 rende più vicine le posizioni della Sfio, di Force ouvrière e della Cftc68. In assenza di dati affidabili per le altre centrali sindacali, la parabola della Cgt può essere colta dall’andamento del tesseramento, con il passaggio dai 3 milioni di iscritti del 1951 a un milione circa nel
1959.
66
H. Herve, P. Rotman, La deuxième gauche. Histoire intellectuelle et politique de la Cfdt, Seuil, Paris
1986.
67 G. Adam, J. Verdier, D. Reynaud, La négociation collective en France, Les Editions Ouvrières, Paris
1972.
68 S. Cruciani, L’Europa delle sinistre. La nascita del Mercato comune europeo attraverso i casi francese e
italiano (1955-1957), Carocci, Roma 2007.
Nella V Repubblica la dialettica tra le organizzazioni sindacali e le culture politiche del movimento operaio è scandita dalla questione algerina e dalla politica economica e sociale del generale De Gaulle, incentrate sull’austerità e la ristrutturazione del sistema produttivo69.
Se fino agli accordi di Evian del 1962 che riconoscono l’indipendenza dell’Algeria l’attività dei sindacati è assorbita dalla questione coloniale, gli scioperi dei minatori del 1963 danno il via a una tendenza unitaria interpretata dalla Confédération
française des travailleurs chrétiens. Nel novembre 1964 il cambiamento del nome
dell’organizzazione in Confédération française démocratique du travail (Cfdt) è il segno di un deciso avvicinamento al mondo socialista, pagato con la scissione di una
minoranza comprendente il grosso dei minatori e dei colletti bianchi riunita sotto il
vecchio acronimo Cftc, accompagnato dall’aggettivo Maintenu (Cftc - Maintenu).
Nel gennaio 1966 la proposta della Cfdt di un patto d’unità d’azione con la Cgt
anticipa la sollevazione sociale del maggio 1968, con la contestazione della guerra
del Vietnam da parte degli studenti dell’Università di Nanterre e la partecipazione
a fianco degli studenti dei lavoratori della Cgt, della Cfdt e di Force Ouvrière70.
Vero e proprio anno chiave per la storia dei sistemi politici europei, il 1968 coincide per la Francia con una esplosione delle organizzazioni sindacali, con
2.300.000 tesserati dichiarati dalla Cgt e 700.000 iscritti ciascuna dalla Cfdt e da
Fo, tanto da spingere il governo Chaban-Delmas a varare nel 1969 un sistema di
relazioni industriali fondato sulla negoziazione nazionale dei salari nell’industria
pubblica e privata e sul rafforzamento dei Comitati d’impresa nelle aziende.
Espressione del grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali, le elezioni dei Comitati d’impresa del 1970 assegnano il 46% dei voti alla Cgt, il 19,65%
alla Cfdt, il 7,3% a Fo e il 2,7% alla Cftc, confermando l’egemonia della Cgt e dalla Cfdt tra i lavoratori dell’industria pubblica e privata71.
Mentre il ciclo gollista continua con le Presidenze di Pompidou e Giscard d’Estaing, nel marzo 1970 l’ulteriore spostamento a sinistra della Cfdt e il suo rafforzamento nel settore del capitalismo privato contribuiscono alla ricomposizione della galassia socialista intorno a un nuovo partito politico.
La nascita al Congresso di Epinay del giugno 1971 del «Parti socialiste» di François Mitterrand è sostenuta da un processo unitario che si snoda a livello politico e
sindacale tra tutte le componenti della sinistra francese, dal «Programme commune
69
J.J. Chevallier, G. Carcassone, O. Duhamel, La V République 1958-2001. Histoire des institutions et
des regimes politiques de la France, Armand Colin, Paris 2001.
70 R. Martelli, Mai 1968, Messidor - Editions sociales, Paris 1988.
71 A. Maiello, op. cit., pp. 152-153.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
Partiti e sindacati nella Francia di De Gaulle e Mitterrand
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de gouvernement» presentato da comunisti, socialisti e radicali alle elezioni politiche
del 1973 alla vittoria di Mitterrand alle elezioni presidenziali del maggio 198172.
Nella Francia socialista del Presidente Mitterrand, con l’ingresso di quattro ministri comunisti nel governo Mauroy e un disegno riformatore basato su una ristrutturazione industriale volta a rendere il settore pubblico il motore degli investimenti e dell’innovazione tecnologica contro la disoccupazione, il rapporto del ministro del Lavoro Jean Aroux su Les droits des travailleurs marca nel settembre 1981
un tornante nelle relazioni industriali. Le legge Aroux del 4 agosto 1982 sui «diritti dei lavoratori nell’impresa», oltre a stabilire il diritto di espressione dei lavoratori
all’interno delle aziende e a proteggere i rappresentanti sindacali da licenziamenti arbitrari dovuti a ragioni politiche, sancisce il ruolo dei comitati d’impresa nella contrattazione collettiva nazionale e aziendale.
È il pieno riconoscimento del ruolo del movimento sindacale nel sistema produttivo ed economico francese, teorizzato nella Cfdt e nel Partito socialista da un
esponente di punta come Jacques Delors, nominato superministro dell’Economia,
Finanze e Bilancio del governo Mauroy, con il compito di attuare una politica di risanamento finanziario e di ripresa economica dopo la svalutazione del franco del
198373. Mentre nel 1984 la formazione del ministero Fabius avviene senza la partecipazione dei comunisti al governo, la vittoria gollista alle elezioni politiche del
1986 porta alla sperimentazione della coabitazione tra il Presidente socialista Mitterrand e il primo ministro gaullista Jacques Chirac, destinata a lasciare spazio dopo la vittoria di Mitterrand alle elezioni presidenziali del 1988 al governo del socialista Michel Rocard, con un programma di rigore finanziario, moderazione salariale e coesione sociale74.
In questo quadro, la vittoria gollista alle elezioni politiche del 1993 e alle elezioni presidenziali del maggio 1995 con l’ascesa di Chirac all’Eliseo può essere considerata un passaggio di fase anche dal punto di vista del ruolo dei sindacati nel sistema industriale e produttivo francese. Nonostante il forte accento posto dal Presidente della Commissione europea Jacques Delors nel decennio 1985-1995 sul rafforzamento della dimensione politica e sociale dell’Unione dopo il Trattato di Maastricht del 199275, l’arretramento delle organizzazioni sindacali è testimoniato in
Francia dall’andamento delle elezioni dei Comitati d’impresa nel 1995.
72 J. Lacouture, Mitterrand. Une histoire de Français, I, Les risques de l’escalade, II, Les vertiges du sommet, Seuil, Paris 1998.
73 P. Favier, M. Martin-Roland, La Décennie Mitterrand, I, Les ruptures (1981-1984), Seuil, Paris 1990.
74 Idem, La Décennie Mitterrand, II, Les épreuves (1984-1988), III, Les Défis (1988-1991), Seuil, Paris
1991, 1996.
75 J. Delors, La France pour l’Europe, Clisthène-Grasset, Paris 1988; Le Nouveau Concert européeen,
Odile Jacob, Paris 1992; L’unité d’un homme, Entretiens avec Dominique Wolton, Editions Odile Jacob, Paris 1994; Mémoires, Plon, Paris 2004.
Conclusioni
Pur in una forma estremamente sintetica, una analisi di lungo periodo dei modelli organizzativi dei sindacati francesi mostra la possibilità di superare gli steccati
della storia politica e dei movimenti sindacali anche in relazione allo studio del «caso italiano»77, per una lettura maggiormente articolata delle culture e dei soggetti
politici e sindacali che hanno attraversato la sinistra europea. Negli anni compresi
tra la nascita della Confédération générale du travail e la prima guerra mondiale, le
modalità di radicamento territoriale del sindacato, il ruolo delle Camere del lavoro
e la dialettica tra riformisti e rivoluzionari all’interno della Sfio e della Cgt differenziano l’esperienza francese da quella tedesca o anglosassone ma costituiscono elementi ravvisabili nell’evoluzione del socialismo e del sindacalismo italiano78. Nel
periodo compreso tra le due guerre, la scissione tra comunisti e socialisti sul versante politico e sindacale e la loro convergenza nella stagione dei Fronti popolari costituiscono un fenomeno che attraversa in maniera trasversale il movimento operaio
internazionale, per riassumere con il governo di Léon Blum le potenzialità e le contraddizioni dell’unità antifascista, in un cortocircuito drammatico tra la spinta alla
solidarietà internazionalista e gli interessi nazionali dei governi.
Nel secondo dopoguerra, il ruolo di crocevia tra le culture politiche e sindacali
del movimento operaio assunto dalla Cftc e dalla Cfdc grazie a figure di assoluto
valore come Paul Vignaux e Jacques Delors costituisce un tratto fortemente originale del caso francese e conferma al tempo stesso l’esigenza di guardare da vicino
ai rapporti tra comunisti, socialisti e cattolici nella storia della sindacalismo italiano79, basti pensare alle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-1969 o all’e-
76 A. Bevort, A compter les syndiqués, méthodes et résultats: la Cgt et la Cfdt 1945-1900, in Travail et Em-
ploi, n. 62, 1, 1995.
A. Ciampani, G. Pellegrini (a cura di), La storia del movimento sindacale nella società italiana. Vent’anni di dibattiti e di storiografia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
78 R. Zangheri (a cura di), Lotte agrarie in Italia: la Federazione nazionale dei lavoratori della terra 19011926, Feltrinelli, Milano 1960; A. Pepe, La CGdL e l’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1971-1972.
79 P. Iuso, S. Misiani, A. Pepe, La Cgil e la costruzione della democrazia, 1944-1963, Ediesse, Roma
2001; C.F. Casula, A. Ciampani, A. Pepe, La Cgil e il mondo cattolico, Ediesse, Roma 2006.
77
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
Nel settore dell’industria privata, al di là del 21,1% ottenuto dalla Cgt, del 7,9%
totalizzato da FO, del 18,6% della CFDT e del 2,3% della CFT (Maintenu), il
34% dei non votanti e il 29,2% dei lavoratori non sindacalizzati esprime eloquentemente il bisogno dei movimenti sindacali di ripensare le loro modalità di organizzazione e il loro rapporto con la società nell’età della rivoluzione informatica e
della globalizzazione76.
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9-10/2012 Tesseramento e sindacato
sperienza della Federazione dei lavoratori metalmeccanici nell’Italia degli anni settanta80.
Nella Francia della V Repubblica, se non è possibile trascurare il ruolo dei sindacati nella lunga marcia che conduce il Partito socialista di François Mitterrand alla vittoria presidenziale del 1981, l’azione dei governi socialisti di Mauroy, Fabius e
Rocard può essere analizzata parallelamente alle politiche riformatrici seguite in Europa dalla socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt e dalla socialdemocrazia svedese di Olof Palme e alle difficoltà dei partiti comunisti di Italia, Francia, Spagna e
Portogallo di procedere compiutamente sulla strada dell’eurocomunismo.
Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, l’accelerazione del processo di integrazione europea e l’avvento della moneta unica81, l’esigenza di rafforzare i poteri della Confederazione europea dei sindacati82, la battaglia
di esponenti della sinistra come Bruno Trentin per la costruzione dell’Europa politica83 rafforzano ulteriormente le ragioni storiografiche e politiche per procedere
con convinzione sulla via di una storia comparata delle organizzazioni e delle culture politiche dei partiti e dei sindacati del XX secolo84.
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68
80
L. Bertucelli, A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008.
B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-1998, Il Mulino, Bologna
1993.
82 J. Moreno, E. Gabaglio, La sfida dell’Europa sociale. Trent’anni della Confederazione europea dei sindacati, Ediesse, Roma 2007.
83 S. Cruciani (a cura di), Bruno Trentin. La sinistra e la sfida dell’Europa politica. Interventi al Parlamento europeo, documenti, testimonianze (1997-2006), con una prefazione di Iginio Ariemma, Ediesse, Roma 2011.
84 Idem, L’Europa delle sinistre. La nascita del Mercato comune europeo attraverso i casi francese e italiano (1955-1957), Carocci, Roma 2007; Idem, Histoire d’une rencontre manquée: Pcf et Pci face au défi de la construction communautaire (1947-1964), in Cahiers d’Histoire. Histoire croisèes du communisme italien et français (dossier coordonnée par M. Di Maggio), n. 112-113, Juillet-Décembre 2010,
pp. 57-76I; I. Del Biondo, L’Europa possibile. La Cgt e la Cgil di fronte al processo di integrazione europea (1957-1973), Ediesse, Roma 2007; E. Montali, Il sindacato, lo Stato nazionale e l’Europa. Il sindacalismo tedesco e il processo di integrazione europea (1945-1963), Ediesse, Roma 2008; M.P. Del Rossi, L’altra Europa. Il Tuc e il processo di integrazione europea, Università degli Studi di Teramo, Facoltà di Scienze Politiche, tesi di dottorato, 2006, Biblioteca della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, in
via di pubblicazione.
81
■ Modelli organizzativi e politiche di affiliazione in Europa
Il modello scandinavo
Paolo Borioni*
Premessa
Come è noto i paesi nordici (Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia, non
tratteremo realtà demograficamente molto piccole come l’Islanda) vantano il più
elevato tasso di forza sindacale organizzata al mondo. La chiave che sceglieremo
per spiegare questo dato è quella della associazione fra sindacato e sistema assicurativo per la disoccupazione. In tutti questi paesi è (o è stato) in vigore il «sistema Ghent», che prevede fondi volontari per la disoccupazione con alto livello di sostituzione del salario e gestiti dalle federazioni di categoria raccolte nelle
confederazioni Lo (in Finlandia la sigla è diversa ma non cambia la sostanza). La
relazione fra libera adesione al fondo di assicurazione sindacale e alta sindacalizzazione è confermata dal Belgio, che adotta un sistema assai simile (Ghent non
a caso è una città belga) ed ha anch’esso oltre il 50% di sindacalizzazione. Ma di
quali cifre parliamo esattamente? E come incide esattamente sul sindacato e sul
modello di società nordico l’assicurazione per la disoccupazione di tipo «Ghent»?
L’iscrizione al sindacato
Economia & Lavoro due anni orsono ha pubblicato un esaustivo numero sull’organizzazione del sindacato nei paesi occidentali in cui l’esperto svedese Anders Kjelleberg ha prodotto dati a cui possiamo riferirci85. La densità sindacale è in Svezia al
73% della forza lavoro, in Danimarca al 69%, in Finlandia al 71% e in Norvegia al
52%. Questo ultimo dato norvegese rivela una questione importante: in Norvegia
il sistema Ghent è stato abbandonato dal 1938, ed esso, mentre di sicuro ha lasciato la propria impronta sulla mentalità e sulle finalità dell’azione sindacale, evidentemente però, scomparendo, ha reso la Lo norvegese meno in grado di reclutare i
lavoratori ai livelli degli altri paesi nordici. Se, in effetti, si guarda l’adesione alla cas-
*
Fondazione Brodolini.
85 A. Kjelleberg, Il sistema Ghent in Svezia e i sindacati sotto pressione, in Economia & Lavoro, n. 3, 2008.
Da segnalare anche S. Leonardi, Sindacati e welfare state: il sistema Ghent, in Italianieuropei, n. 3, 2005.
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sa sindacale per la disoccupazione e quella al sindacato si individua una notevole
corrispondenza.
Fino a qualche decennio fa, in effetti, la corrispondenza era ancora più netta: in
Svezia, per esempio, fino al 1987 solo il 10% di chi aderiva aduna cassa assicurativa poi non aderiva anche al corrispondente sindacato di categoria. Oggi questa percentuale è aumentata, ma nella media non supera il 15%. Anche negli altri paesi
nordici nella gran parte dei casi l’iscrizione alla cassa assicurativa Ghent continua ad
essere un potente tramite di reclutamento per il sindacato. Storicamente, ciò ha generato modalità organizzative e concezioni dell’azione sindacale capaci di grande
impatto sulla costruzione del modello sociale nordico. Come bene spiegato dalla
storiografia sociale, la radice storica originaria del modello Ghent è quella di una
forte compattezza categoriale che mira a condizionare il capitalismo nel senso di una
pressione costante per una vendita «ricca» e «forte» della forza lavoro. Infatti, specie
a partire dai primi decenni del XX secolo, la compattezza sindacale delle categorie e
la contemporanea possibilità di ottenere un’elevata sostituzione del salario (ammontante a circa i 2/3) costringeva l’investimento capitalistico a trasferirsi verso forme di produzione capaci di generare salari relativamente alti. La modalità organizzativa come quella della nostra Camera del lavoro in epoca pre-fascista mirava invece ad un’associazione «orizzontale» e pluricategoriale del lavoro nel sindacato in
una determinata zona. La diversità di condizioni operaie e salariate rappresentate in
questa specifica forma organizzativa rendeva difficile la costruzione di casse di disoccupazione omogenee. Corrispettivamente, l’organizzazione sindacale diveniva
più incline ad agire tramite una mobilitazione intercategoriale e localizzata, con
scarsa strategia nazionale, spesso non a caso agitatoria piuttosto che sistematica (ovvero «anarcosindacalista»)86. La forma d’investimento del capitalismo nordico, da
parte sua, dovendo puntare a produzioni con più alti salari, tendeva poi anche verso un maggiore coordinamento, e quindi alla negoziazione anche centrale e confederale sul piano nazionale. In effetti, il grado di copertura degli accordi nazionali è
ancora oggi elevato: va dal 70% della Norvegia al 90% della Svezia, paese in cui,
nonostante il sistema Ghent si sia realizzato appieno solo nel 1934, per motivi strutturali e politici le potenzialità del modello nordico si sono negli anni dispiegate più
pienamente. È importante che nei contratti nazionali l’incremento negoziato del salario sia in genere più che altro determinato (in Norvegia intorno alla metà del totale) dal settore manifatturiero privato, mentre gli aumenti salariali concertati del
settore pubblico incidono per una percentuale assai minore. Ecco, cioè, un’ulteriore conferma del fatto che la spinta sistematica verso gli alti salari e la competitività
86
P.H. Jensen, Grundlæggelse af det danske arbejdsløshedsforsikringssystem i komparativ belysning, i Arbejsløshedsforsikringsloven 1907-2007, Udvikling og perspektiver, København 2007.
La negoziazione sindacale
Per la prassi e gli obiettivi del sindacato, dunque, la riforma del capitalismo è avvenuta attraverso un forte sindacato capace di negoziare ad ogni livello (con gli alti
livelli di welfare, ricerca e sviluppo, politiche attive che ne sono discesi) piuttosto
che, per esempio, attraverso una forte e centralizzata industria pubblica (come in
Italia e in Francia: in Norvegia lo Stato ha un alto grado di gestione dell’economia,
ma solo nel grande settore petrolifero-minerario; in quello manifatturiero la proprietà pubblica anche in Norvegia è minore del 10%). Il livello alto dei salari e la
sua spinta riformatrice sull’investimento capitalistico avviene, tra l’altro, anche perché, se il sindacato intende mantenere il proprio formidabile mezzo di reclutamento di iscritti, è anche necessario lavorare sia per alti livelli di occupazione, sia per una
breve durata dei periodi di disoccupazione. Le alte spese in innovazione e in politiche attive del lavoro che caratterizzano i paesi nordici si devono proprio a questo.
Certo, anche nei paesi nordici esistono disparità di settore e di genere rispetto alla sindacalizzazione. In media le donne del settore privato sono meno sindacalizzate e i dipendenti del settore pubblico lo sono di più: in Svezia le donne del settore
privato sono sindacalizzate «solo» al 66% contro gli uomini che lo sono al 72%. Nel
settore pubblico, invece, le donne sono sindacalizzate all’86% e gli uomini al 79%.
In genere i governi, soprattutto se socialdemocratici (che come è noto nei paesi nordici hanno spesso governato), hanno riconosciuto a questo sistema Ghent un’utilità tale da cofinanziarlo, e da rendere più accessibile, tramite sgravi fiscali, il pagamento delle quote sindacali. La socialdemocrazia norvegese, l’unica ad aver governato pressoché stabilmente negli ultimi 12 anni, ha addirittura aumentato il livello
87
Si leggono spiegazioni simili specialmente in divulgatori (o semplificatori?) di ideologia neoliberale
e di culto anglosassone, come M. Salvati; si veda per esempio: M. Salvati, Contro il declino la lezione
di Blair, in Corriere della Sera, 14 maggio 2007.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
(per quanto possibile) «alta» è il dato centrale che poi determina il resto, compresi i
livelli di spesa pubblica e welfare, notoriamente elevati nei paesi nordici. Questi ultimi insomma non sono, come spesso si ritiene in maniera davvero infruttuosa e
semplicistica, una conseguenza della «compattezza etnico-religiosa» che favorisce la
volontà di pagare alte tasse87, ma un portato della regolazione del capitalismo, che
discende soprattutto da un sindacato forte.
Da tutto questo deriva anche uno speculare alto grado di organizzazione ed associazione delle parti datoriali che confluiscono nella propria confederazione: dal
55% dei casi (Norvegia e Danimarca) al 76% (Svezia) con la Finlandia collocata nel
mezzo, al 66%.
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di esenzione fiscale per le quote sindacali corrisposte dagli iscritti. Non a caso, in effetti, la coalizione di sinistra norvegese al governo ha vinto le ultime elezioni grazie
ad una unità d’azione assai stretta (più ancora di quanto lo sia in genere nei paesi
nordici) fra Lo e Ap (il partito socialdemocratico-laburista)88.
Ma questo atteggiamento ormai non è più scontato. Le maggioranze di centro-destra alla guida del governo a Copenaghen e Stoccolma, infatti, hanno fatto l’esatto
contrario. In Svezia e Danimarca è stato attaccato sia il sindacato in genere (per esempio in Danimarca al fondo di resistenza per lo sciopero sono state tolte le esenzioni
fiscali che garantivano un elemento importante della parità fra capitale e lavoro), sia
l’esenzione delle quote di iscrizione sindacali (in Svezia il centro-destra dopo il 2007
ha abolito lo sgravio del 25%) sia le casse assicurative (in Svezia sono state abolite le
esenzioni del 40% delle quote assicurative). Accanto a ciò, sia in Danimarca sia in
Svezia, sono stati negli anni abbassati cospicuamente i tassi di sostituzione del salario, che una volta giungevano per i redditi bassi fino al 90%. Come si evince da quest’ultimo dato, il sistema ha in parte perso il suo effetto fortemente progressivo (il potere d’acquisto delle categorie peggio retribuite era il meglio protetto in caso di disoccupazione) il che rappresentava uno degli elementi più importanti nel prevenire
una competizione basata sui bassi salari. Oggi invece sono calati in genere i tassi di
sostituzione del salario (fino al 65% del salario, il che, essendo i fondi sindacali Ghent
abbondantemente finanziati dallo Stato, ha ubbidito all’ambizione nordica di ottemperare ai parametri di Maastricht meglio di chiunque altro), e i periodi di fruizione (in Danimarca da 4 a 2 anni, con un aumento generalizzato dei primi giorni
di disoccupazione in cui non si percepisce indennità). Inoltre, come si diceva, sono
aumentati i costi reali delle quote per l’assicurazione sindacale di disoccupazione. Così, specie per le categorie con più bassi salari e maggiore frequenza di disoccupazione
(per esempio nel settore dei servizi turistico-alberghieri), oggi le riforme impongono
costi elevatissimi: cresciuti in Svezia da 60 a quasi 400 corone mensili.
In Svezia il calo è stato da oltre l’80% al 71% negli ultimi lustri, con una chiara
accelerazione recente. In Danimarca gli iscritti ai sindacati aderenti alla confederazione Lo sono calati cospicuamente. Si è anche spesso determinata l’adesione a sindacati e a relative casse sindacali nuove come la Krifa (il sindacato cristiano Kristelig Fagforening) e Det Faglige Hus (in 114.000 casi) per via, come paiono mostrare le ricerche, dei minori costi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, chi lascia il sindacato Lo danese (ben 257.000 lavoratori negli ultimi 15 anni) semplicemente non
aderisce ad altre sigle. Sia anche ricordato che in Danimarca il lungo boom economico (bruscamente esauritosi negli ultimissimi anni) aveva indotto molti a ritenere
remota la possibilità di rimanere disoccupati.
88
S. Reegård, Financial Crisi and Nordic model, Samak Conference, June 13, 2009.
Potrebbe essere quindi in atto un effetto desindacalizzante causato da un mix di
maggiori costi, minori benefici e mentalità acquisita negli anni duemila. Specialmente nelle giovani generazioni (più precarie e meno pagate, quindi meno inclini
ad iscriversi) il fenomeno appare allarmante: tra i 16 e i 29 anni la sindacalizzazione è appena superiore al 50%. Di fronte a tutto questo il sindacato e i suoi alleati
possono reagire in vari modi: si può, come fece la socialdemocrazia svedese nel 1997
dopo la grande crisi del 1992, riportare più in alto le quote di sostituzione del salario precedente. Oppure, si possono reinnalzare le esenzioni sia per le quote d’iscrizione, sia per le quote assicurative ai fondi di disoccupazione. Ciò potrà avvenire
specie se terminerà l’egemonia del rigore di Maastricht e si diffonderà un approccio
più regolativo e meno ideologicamente angusto ai fattori dello sviluppo.
Inoltre, come suggeriscono alcuni esperti del centro studi Carma89, bisogna evitare di estremizzare le soluzioni difensive adottate ad esempio da alcune federazioni
di categoria danesi: ci si riferisce agli accorpamenti organizzativi per risparmiare sui
costi (come nel caso di 3F: Fælles Fagligt Forbund: Federazione sindacale comune).
Ciò, infatti, contribuisce ad allontanare la base dall’organizzazione consolidata. Una
delle caratteristiche più tipiche del sindacato nordico, e delle ragioni del suo successo, è infatti quella della assidua presenza sul posto di lavoro: in Danimarca il 67%
dei luoghi di lavoro è presidiato dal sindacato, in Norvegia il 78%, in Finlandia
l’81%, in Svezia l’86%.
Infine, secondo questi esperti, il sindacato Lo deve elaborare meglio e far maggiormente circolare le ragioni della propria particolare esistenza e funzione nella storia sociale nordica: la presenza estesa e diffusa dai luoghi di lavoro a quelli più istituzionali della «economia negoziata» nonché, appunto, la concezione comune di
una società di alta occupazione con basso livello di sfruttamento e senza bassi salari. Occorre cioè un’offensiva egemonica, ovvero far argomentare meglio che i costi
relativamente più elevati delle Lo nordiche sono in effetti indispensabili per costruire un contesto sociale storicamente capace di mantenere elevati i livelli di competitività e contemporaneamente di spesa sociale.
89
Così Flemming Ibsen in Skal fagbevegælsen dø for at overleve?, in Ugebrevet A4, Fredag 21/10, 2011.
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
Conclusioni
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73
■ Modelli organizzativi e politiche di affiliazione in Europa
Il modello tedesco
Maria Paola Del Rossi*
Premessa
Il modello sindacale tedesco deve la sua specificità al coniugarsi di due elementi
fondamentali: codecisione e coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori nelle strategie d’impresa, investimenti di prodotto e di formazione e una forte azione rivendicativa del sindacato90. Il cosiddetto «Modell Deutschland», sviluppatosi a partire
dal 1945, che da un punto di vista organizzativo si traduce nella prevalenza dei grandi sindacati unitari articolati prevalentemente secondo il modello dell’organizzazione industriale, prevede infatti un sapiente mix bilanciato di forza economica e produttiva industriale, crescita, coesione sociale e alti salari reali. Elemento cardine delle relazioni industriali è invece il concetto della Mitbestimmung che si riferisce a due
tipi fondamentali di partecipazione o codecisione: quella al livello di consigli di fabbrica e quella a livello di strategia d’impresa. Infatti, la legislazione sulla Mitbestimmung sviluppatasi tra il 1951 e il 1976, è articolata in modo diverso a seconda della grandezza dell’impresa e della natura del settore dove essa opera (pubblico o privato). La cogestione a livello di consigli di fabbrica fa parte di una più larga serie di
diritti del lavoro garantiti nella Betriebsverfassungsgesetz, ossia la legge che regola la
collaborazione fra datori di lavoro e la rappresentanza eletta dei lavoratori; pertanto
la legge regola la formazione e l’elezione dei consigli di fabbrica, i loro rapporti con
i datori di lavoro e, soprattutto, diritti e doveri di ciascuna controparte.
Cogestione, codecisione e tesseramento
La cogestione a livello di strategia d’impresa è, invece, regolata da una legislazione
che si affianca temporalmente a quella sulla codecisione a livello di consiglio di fabbrica e in qualche modo la estende e viene approvata nel 1976 e stabilisce che ogni
impresa con più di 2000 dipendenti deve introdurre la Mitbestimmung, cioè la rap-
*
Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Cfr. Jacopo Pepe, Il «sistema» tedesco fra globalizzazione e Mitbestimmung, in Quaderni di rassegna
sindacale, n. 1, 2011.
90
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76
presentanza paritetica dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza91. Allo stesso tempo il modello tedesco di cogestione e codecisione è basato su una contrattazione decentrata regionale e per settori produttivi e nella singola fabbrica, tuttavia è in uso la
prassi della unitarietà del contratto (Tarifeinheit): con ciò si intende la pratica diffusa di riconoscere quale piattaforma valida di discussione e trattativa la sola presentata dal sindacato più rappresentativo nella fabbrica.
Questa impostazione ha avuto un ruolo cardine nel far affermare nel lungo periodo la forza e la rappresentatività del sindacato tedesco. Infatti, analizzando i dati
di iscrizione si è registrata dal secondo dopoguerra sino ai primi anni ottanta una
costante crescita; e se nel 1950 il numero di iscritti era pari a 5,4 milioni, nel 1981
si raggiungono 7,9 milioni di tesserati. Tale tasso di sindacalizzazione è rimasto inalterato per tutti gli anni ottanta e la stessa riunificazione tedesca del 1991 ha avuto
un impatto positivo sulla sindacalizzazione e il numero delle iscrizioni92.
Tuttavia negli ultimi dieci anni – seguendo una tendenza a livello europeo – la stessa Germania ha scontato un declino nel tasso di sindacalizzazione di circa il 20%, che
solo recentemente si è stabilizzato93. Tale inversione di tendenza si è registrata nonostante la Dgb continui a basare la sua forza su una posizione di monopolio e su un
forte radicamento istituzionale nell’ambito del sistema delle relazioni industriali, fondato ideologicamente sul sistema della collaborazione tra le parti sociali. Inoltre, la rappresentanza istituzionale nella contrattazione collettiva e il sistema di Mitbestimmung
dei consigli d’impresa, indipendenti, ma di fatto dominati dai sindacati, hanno contribuito a ridurre la concorrenza tra le diverse organizzazioni e a rafforzare la tutela degli interessi degli iscritti sui luoghi di lavoro. Questo mantenimento di forza del sindacato è inoltre favorito dal fatto che la maggior parte dell’organizzazione è sul territorio e permette il reclutamento da parte dei delegati nei punti di accesso alle aziende
sindacalizzate «oppure quando si minaccia uno sciopero». La riforma del mercato del
lavoro avviata da Shröder e il mutamento strutturale nella composizione della stessa
forza lavoro hanno però di fatto, a partire dalla fine degli anni novanta, contribuito
a tale processo. Infatti, la concorrenza instauratasi nell’ultimo decennio tra i sindacati ha incrinato il monopolio della Dgb e il principio del sindacalismo industriale, in
cui ogni sindacato rappresenta un singolo settore.
91 Dal 2004, attraverso una nuova legge di estensione da parte del governo Schröder, ogni impresa con
500 dipendenti deve introdurre una forma di Mitbestimmung senza tuttavia pariteticità nella rappresentanza (solo un terzo dei posti nel consiglio di sorveglianza è assegnato ai rappresentanti dei lavoratori).
92 Cfr. Martin Beherens, I sindacati tedeschi dopo un decennio di riduzione degli iscritti, in Quaderni di
Rassegna sindacale, n. 3, 2002.
93 Il tasso di sindacalizzazione, se nel 1990 era pari al 29,9%, nel 2004 era pari a circa il 22%. Cfr. J.
Visser, Germany, in B. Ebbinghaus, J. Visser (eds.), The societies of Europe. Trade Union in Western Europe since 1945, 2000 e Wsi, Tarifarchiv in www.boeckler.de.
La posizione dei sindacati è stata indebolita in seguito dalla costante diminuzione dei consigli d’impresa nei luoghi di lavoro, dalla decentralizzazione della contrattazione collettiva e dall’erosione del potere di contrattazione, causata dal diffondersi delle clausole di uscita dagli accordi collettivi varati nelle aziende, che le esentano dalle condizioni stabilite dai contratti collettivi di livello superiore.
A fronte della diminuita stabilità dei sindacati, anche in Germania si è dunque
proceduto a un processo di revisione organizzativa che ha portato alla fusione di diverse organizzazioni sindacali, tanto che in 10 anni le organizzazioni affiliate al Dgb
si sono ridotte da 17 a 8. Un caso emblematico al riguardo è rappresentato dalla fusione tra cinque sindacati esistenti nel settore privato e nel pubblico impiego nel
2001, i Ver.di, nata come strategia di rivitalizzazione e come reazione difensiva dinanzi alle crescenti difficoltà finanziarie e organizzative. Questa strategia ha avuto
effetti diretti anche sul processo di sindacalizzazione, che ha reso necessario affiancare ai precedenti metodi di organizzazione degli iscritti, delegati di fatto ai consigli
di fabbrica, nuove strategie di reclutamento. Inoltre tale rinnovamento e adattamento ai mutamenti strutturali dell’occupazione è passato anche attraverso la promozione di iniziative a livello locale e regionale.
Lo stesso lavoro atipico e la sua tutela è divenuto parte integrante della strategia
per rafforzare il suo potere associativo. A proposito significativa è l’attività svolta da
Ver.di che ha contribuito a migliorare la gestione degli atipici. Allo stesso tempo sono stati istituiti a riguardo dei «circoli di lavoratori» e piattaforme Internet per aumentare e agevolare la partecipazione da parte degli interinali e vengono realizzate
delle campagne volte ad arginare gli abusi nel lavoro interinale.
Un metodo innovativo è poi rappresentato dal monitoraggio dei comportamenti di adesione e il ricorso a centri servizi integrati nel centro della città per attrarre
nuovi iscritti tra i passanti, fornendo informazioni, consigli e consulenze riguardo a
domande su tematiche inerenti al mercato del lavoro.
Conclusioni
Tuttavia, nonostante questi metodi innovativi, compreso l’utilizzo di sms in sostituzione del volantinaggio, le iniziative dei Ver.di per gestire i lavoratori dei nuovi settori privati dei servizi sono in larga parte basate sui consigli d’impresa e sulla
contrattazione collettiva. Per esempio nel caso dei call center si è data priorità alla
negoziazione di accordi collettivi per regolamentare le condizioni lavorative e retributive. Nel 2004 lo stesso sindacato ha avviato una campagna contro la catena
di discount Lidl per le retribuzioni basse e le condizioni di lavoro inadeguate, il cui
Modelli e politiche di affiliazione in Europa
Contrattazione e sindacalizzazione
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9-10/2012 Tesseramento e sindacato
obiettivo finale era la costituzione del consiglio d’impresa. Ciò rientra all’interno
dell’attivismo promosso dai Ver.di per ampliare il proprio bacino di utenza ai lavoratori autonomi; in seno ad esso infatti esistono una loro rappresentanza apposita e una sezione dedicata. Inoltre, vengono forniti ai lavoratori atipici i servizi
fondamentali, come l’offerta di consulenza legale, rappresentanza dinanzi ai tribunali del lavoro, formazione, istruzione ed una serie di prodotti assicurativi. La gestione degli autonomi tuttavia è resa più difficile dal fatto che non sono rappresentati nei consigli d’impresa, i quali costituiscono anche il principale strumento
di reclutamento degli iscritti in Germania. Una strada questa percorsa dalla stessa
unione industriale, Ig Metall, che si è mobilitata per istituire consigli d’impresa nel
settore delle agenzie di lavoro temporaneo e regolamentare il lavoro atipico con accordi collettivi 94.
Questo approccio è mirato in particolar modo a coinvolgere quei soggetti che
non fanno parte del bacino tradizionale del sindacato, dunque è rivolto a quei lavoratori non solo atipici, ma anche a coloro che lavorano in nuovi settori o ad esempio verso la fascia di lavoratori molto qualificati o all’inverso non qualificati.
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94
K. Vandale, J. Leschke, Seguire l’organising model dei sindacati britannici? L’organizzazione dei lavoratori atipici in Italia e Germania, in Economia & Lavoro, n. 3, 2009.
L’analisi
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■ L’analisi
La riforma della Politica comune della pesca:
gli effetti socioeconomici di breve periodo
Alessandra Borello*
Premessa
Il settore ittico europeo sta attraversando oramai da anni una profonda crisi alla
quale, secondo quanto riportato nel Libro Verde, hanno contribuito alcune carenze strutturali della Politica comune della pesca (Pcp).
La congiuntura economica negativa ha effetti preoccupanti sulla pesca in Italia,
al punto tale che tra il 2002 e il 2007 si è assistito alla fuoriuscita dal settore da parte di ben 4.635 addetti, pari a circa il 15% degli occupati totali (tabella 1). Questo
andamento riflette lo stato di recessione che sta attraversando il settore ittico europeo ma va attribuito in parte anche all’adozione di misure volte a rendere sostenibile lo sfruttamento delle risorse. Misure come il divieto di alcuni tipi di pesca e la
riduzione dello sforzo di pesca hanno sia determinato la perdita di posti di lavoro
sia aggravato il fenomeno dell’abbandono del settore dovuto agli scarsi livelli di remunerazione.
La situazione della pesca in Italia è resa ancor più preoccupante dal fatto che il
Programma Operativo Fep 2007-2013, al quale era stato affidato l’ambizioso compito di incrementare le condizioni di competitività del settore ittico e al contempo
di aiutare i suoi operatori ad affrontare le conseguenze negative del processo di ammodernamento strutturale, sembra non aver soddisfatto pienamente le aspettative.
Secondo i risultati di una recente indagine organizzata dalla Fondazione Metes al fine di identificare le criticità che finora hanno caratterizzato l’esperienza del Fep in
Italia, le imprese di pesca reputano che «alcuni obiettivi del programma non sono
stati raggiunti, ad esempio quello dell’incremento o almeno del mantenimento dell’occupazione, altri solo parzialmente» e che «le misure del Programma ignorino le
reali esigenze del mondo della pesca» (Borrello, D’Alessio, 2012).
Per colmare le carenze strutturali della Pcp la Commissione europea ha presentato una riforma95, la cui normativa di riferimento dovrebbe entrare in vigore a par-
*
Economista agraria.
Pacchetto di proposte di riforma della Politica comune della pesca: Com (2011) 417, Com (2011)
425, Com (2011) 416, Com (2011) 424, Com (2011) 418.
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tire dal 1° gennaio 2013, che si propone di introdurre importanti innovazioni nei
meccanismi di funzionamento della Politica comune della pesca (Massimo sfruttamento sostenibile, Regionalizzazione, Sistema di concessioni di pesca trasferibili,
Divieto dei rigetti, Dimensione sociale). Nell’ambito del processo di riforma la
Commissione europea intende, inoltre, proporre anche un nuovo meccanismo di
finanziamento della Pcp attraverso la costituzione del Fondo europeo per gli affari
marittimi e la pesca (Feamp), che nel periodo 2014-2020 dovrebbe poter contare
su circa 6,7 miliardi di euro.
La riforma ha come obiettivi prioritari la protezione, la conservazione e il risanamento delle risorse ittiche e degli ecosistemi, perché la sostenibilità ambientale è ritenuta essenziale per il raggiungimento di quella sociale ed economica. D’altro canto, quanto meno nel breve termine, gli obiettivi ecologici sono fortemente in conflitto con quelli socioeconomici per cui è spontaneo domandarsi quali saranno gli
effetti a breve della riforma della Pcp sulle condizioni di vita degli operatori del settore ittico e soprattutto se i lavoratori si sentiranno confortati dalle novità introdotte oppure riceveranno un’ulteriore spinta verso l’abbandono del settore.
Il presente articolo intende presentare brevemente la situazione di difficoltà in cui
si trova il settore della pesca in Europa e in Italia e fornire una sintesi dei contenuti della proposta di riforma e delle principali novità che il Feamp introdurrà, per poi
offrire qualche spunto di riflessione in merito ai possibili effetti che tali innovazioni avranno sulle condizioni socioeconomiche degli operatori del settore, già fortemente vessati dalla crisi economica.
La crisi del settore ittico in Europa e in Italia
«... Il continuo declino delle catture praticate dalla flotta europea si è arrestato intorno al 2015... La pesca eccessiva e indiscriminata, con il vasto impatto che ne deriva per l’economia delle regioni costiere, è ormai un ricordo del passato... La disponibilità di popolazioni ittiche più abbondanti, composte da esemplari maturi e
di taglia più grande, rende più redditizia la pesca, che i giovani delle comunità costiere sono tornati a considerare una professione stabile e interessante... Efficiente e
indipendente dal finanziamento pubblico, il segmento industriale della flotta è
commisurato alle risorse di cui è autorizzata la cattura e opera con imbarcazioni che
rispettano l’ambiente... il settore europeo dell’acquacoltura è all’avanguardia dello
sviluppo tecnologico e continua ad esportare know-how e tecnologia nei paesi extraeuropei... Gli operatori del settore alieutico sono concretamente incentivati a
comportarsi in modo responsabile...» (Commissione europea, 2009). Ecco alcuni
dei punti salienti che descrivono lo scenario ideale per la pesca europea nel 2020,
descritto nel Libro verde sulla riforma della politica comune della pesca che la Com-
96
Eurostat, database commercio estero (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/external_
trade/data/database).
L’analisi
missione europea ha pubblicato il 22 aprile del 2009. Eppure, come si evince anche
dal documento stesso, siamo lontanissimi da un simile scenario e l’obiettivo della
sostenibilità della pesca è un traguardo ancora distante.
La situazione reale che il Libro verde presenta è drammatica: secondo stime recenti, ben il 30% degli stock comunitari rischia di esaurirsi in modo definitivo.
Quasi il 90% di essi è sfruttato oltre il livello del massimo rendimento sostenibile
e numerose popolazioni sono costituite prevalentemente da individui giovani, poiché le catture indiscriminate non consentono loro il raggiungimento dell’età riproduttiva.
Ciò ha conseguenze gravissime dal punto di vista non solo ecologico ma anche
economico: la produttività delle popolazioni ittiche è in continua diminuzione, oltre ad essere notevolmente inferiore rispetto a quella che si otterrebbe allentando la
pressione di pesca. Inoltre, la dipendenza del mercato comunitario dalle importazioni è in crescita.
Secondo i dati Eurostat96, le catture totali europee si sono ridotte di circa 3 milioni di tonnellate di peso vivo in meno di quindici anni, passando dal valore di 8
milioni di tonnellate relativo al 1995 a quello di circa 5 milioni del 2008. Nello stesso intervallo di tempo, le importazioni dai Paesi terzi sono passate da poco meno di
4 milioni di tonnellate a circa 6 milioni.
Per capire a fondo la gravità della situazione si pensi che la gran parte della flotta europea non potrebbe sopravvivere senza gli aiuti comunitari e che, addirittura,
in molti paesi membri «l’incidenza della pesca sul bilancio nazionale supera il valore totale delle catture» (Commissione europea, 2009).
La crisi, comunque, non coinvolge solo il settore di cattura ma l’intera industria
della pesca e il depauperamento degli stock rappresenta solo una delle numerose sfide che oggi essa deve affrontare. Tra queste vi sono l’aumento dei prezzi del carburante, i cambiamenti delle abitudini dei consumatori e la maggiore convenienza dei
prodotti allevati nei Paesi terzi rispetto a quelli comunitari.
La congiuntura negativa ha profonde ricadute anche dal punto di vista sociale.
«Da numerosi anni si sta assistendo ad una contrazione del numero di pescatori a
bordo dei pescherecci comunitari. Dal 1996/98 al 2002/3 sono infatti diminuiti del
20%, ovvero all’incirca del 4-5% all’anno» (Ismea, 2007). A ciò hanno contribuito, da un lato, le politiche adottate dalla Commissione al fine di ridurre lo sforzo di
pesca e, dall’altro, fattori contingenti quali, ad esempio, le migliori prospettive occupazionali all’esterno del settore, la riduzione dei livelli di retribuzione, l’immagine negativa del settore, ecc.
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La situazione del settore ittico italiano riflette quella descritta a livello europeo.
Come evidenziano i dati dell’Istituto di ricerche economiche per la pesca e l’acquacoltura (Irepa), la produzione ittica nazionale è diminuita enormemente nell’arco di
un solo decennio. Dal 2000 al 2010, essa è passata da quasi 760.000 tonnellate a
un volume pari a meno del 60% di tale valore (tabella 2). La riduzione ha interessato sia l’acquacoltura sia la pesca in mare nonostante per quest’ultima si sia registrata la maggiore contrazione. Anche in termini economici il trend ha avuto un andamento simile e, come per i volumi, la riduzione del fatturato derivante dall’allevamento è stata più contenuta di quella dei ricavi relativi alle attività di pesca.
«Il ridimensionamento della produzione ittica totale va attribuito soprattutto alla riduzione dello sforzo di pesca e in misura minore ad una diminuzione della produttività giornaliera» (Irepa, 2011). In particolare, l’aumento dei costi di produzione, i minori fatturati medi e la stabilità della domanda interna hanno determinato
un calo delle attività di cattura e quindi della produzione nazionale.
Per quanto riguarda il lavoro, la riduzione delle remunerazioni medie e dello sforzo di pesca nonché l’immagine negativa di un settore oramai in declino hanno determinato l’abbandono del settore da parte di numerosi addetti. Tra il 2002 e il
2007 gli occupati si sono ridotti del 15%, ben 4.635 lavoratori sono fuoriusciti dal
settore. Vale la pena di evidenziare, comunque, che, a fronte di tale riduzione, nell’intervallo di tempo considerato il numero di donne occupate nel settore è aumentato dell’8% (tabella 1).
La proposta di riforma
Secondo quanto riportato nel Libro Verde, le carenze della Pcp che hanno contribuito in maggior misura al depauperamento delle popolazioni ittiche, e quindi
anche alla crisi dell’industria della pesca, sono l’eccessiva capacità della flotta comunitaria rispetto all’effettiva disponibilità di risorse97, la carenza di obiettivi politici precisi e quindi di orientamenti chiari per i policy maker, la limitata responsabilizzazione del settore, il mancato rispetto delle regole e la visione miope sulla
quale si basa la Pcp attuale che ha lasciato che venisse attribuita troppa importanza ai ricavi di breve periodo a discapito della sostenibilità del settore a lungo termine98.
97 Il problema della sovraccapacità della flotta è aggravato dall’avanzamento tecnologico che rende possibili catture per unità di sforzo crescenti.
98 Si pensi che è di uso comune la pratica del rigetto a mare del pescato che non può essere venduto
o che ha scarso valore commerciale e che i rigetti rappresentano una quota molto elevata del pescato,
in alcune pesche anche superiore al 50% del volume totale.
99
La normativa di riferimento dovrebbe entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2013.
L’approccio precauzionale è definito dall’art. 3 comma 1 lett. i del reg. (CE) n. 2371/02 del Consiglio del 20 dicembre 2002 relativo alla conservazione e allo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nell’ambito della politica comune della pesca: «la mancanza di dati scientifici adeguati non deve giustificare il rinvio o la mancata adozione di misure di gestione per la conservazione delle specie
bersaglio, delle specie associate o delle specie dipendenti, nonché delle specie non bersaglio e del relativo habitat».
101 Si stima che se tale obiettivo venisse raggiunto le catture totali aumenterebbero di circa il 17% e i
margini di profitto potrebbero addirittura triplicarsi, rendendo il settore ittico molto meno dipendente
dal sostegno pubblico.
100
L’analisi
Al fine di tali limiti, la Commissione ha recentemente proposto una riforma molto ambiziosa99 che ridisegna finalità e strumenti di funzionamento della Pcp con
l’obiettivo di gestire il settore in modo sostenibile e di ricondurre lo stato degli stock
di pesca ad una condizione tale da garantire la vitalità del settore.
La proposta di riforma contiene numerosi elementi innovativi rispetto al presente. In primo luogo il settore ittico dovrà essere gestito mediante la realizzazione di
piani pluriennali che garantiscano un basso impatto sugli ecosistemi e rispettino il
principio precauzionale100. Tali piani dovranno interessare più popolazioni al contrario degli attuali piani di gestione monospecifici e far sì che entro il 2015 tutti gli
stock siano sfruttati in modo sostenibile, ovvero che i volumi totali catturati consentano alle popolazioni di mantenere il loro livello massimo di produttività (Maximum sustainable yield - Msy)101.
Sempre con l’obiettivo di ridurre lo sfruttamento delle risorse e rendere la pesca
profittevole, la Commissione europea ha proposto l’istituzione a partire dal 2014 di
un sistema di «concessioni di pesca trasferibili», secondo il quale esse saranno distribuite in modo equo agli Stati membri che le divideranno a loro volta tra i propri pescatori.
La proposta di riforma dà molta importanza alla responsabilizzazione degli operatori, soprattutto nell’intento di ridurre l’impatto delle attività di cattura sulle popolazioni ittiche e gli ecosistemi. Essa infatti prevede un maggiore sostegno economico alle azioni collettive e l’attribuzione di un ruolo maggiore rispetto al passato
alle organizzazioni di produttori nella gestione, nel monitoraggio e nel controllo
collettivi. Le organizzazioni dovranno assicurarsi che i propri membri rispettino la
normativa in materia di pesca e di ambiente, gestiscano le catture indesiderate delle specie commerciali e attuino misure in favore della commercializzazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura.
Di estrema importanza per il raggiungimento dell’obiettivo di una pesca «a basso impatto» è anche la decisione di abolire i rigetti, che non solo contribuiscono a
compromettere lo stato degli stock, ma rendono impossibile la raccolta di dati attendibili sulle risorse disponibili. L’abolizione dei rigetti sarà graduale e avverrà con
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una tempistica ben definita fino all’entrata in vigore definitiva che è prevista per il
1° gennaio 2016.
Accrescere la disponibilità di dati scientifici attendibili e aggiornati sullo stato
delle risorse è ritenuto un elemento chiave per migliorare la gestione del settore, soprattutto per quanto riguarda la definizione delle norme finalizzate alla salvaguardia
delle popolazioni. Per questo motivo, la riforma prevede, da un lato, la stesura di
rapporti non più basati sugli sbarchi ma sul totale delle catture e, dall’altro, la raccolta, il mantenimento e la condivisione dei dati scientifici sullo stato delle risorse
nell’ambito di programmi di ricerca istituiti a livello nazionale.
L’ultimo elemento della proposta che affronta in modo specifico il problema del
depauperamento delle popolazioni ittiche riguarda le relazioni con i paesi terzi e, in
particolare, la decisione di sostituire gli accordi di pesca attuali con altri che prestino maggiore attenzione alla sostenibilità delle attività di pesca e alla salvaguardia degli ecosistemi.
All’obiettivo di salvaguardare le risorse alieutiche, la Commissione affianca quello
di potenziare il settore nel suo complesso. A tal fine, assume enorme importanza l’acquacoltura, che è ritenuta una valida soluzione per aumentare l’offerta di prodotti ittici, ridurre il deficit della bilancia ittica comunitaria e sviluppare le zone costiere e
rurali. Tra le principali proposte riguardanti l’acquacoltura vi sono la realizzazione da
parte degli Stati membri, a partire dal 2014, di piani strategici per lo sviluppo sostenibile del settore, l’obbligo per gli stessi di raccogliere anche dati per l’acquacoltura
nell’ambito del programma di raccolta dati per la pesca e la realizzazione di un comitato consultivo che fornisca consulenza sulle problematiche del settore.
Nella stessa direzione vanno gli interventi in favore dell’innovazione nel settore
della pesca e la creazione di una nuova Organizzazione comune dei prodotti della
pesca e dell’acquacoltura102.
Secondo la proposta saranno modificati anche gli standard di mercato e le norme di commercializzazione in materia di etichettatura, qualità e tracciabilità. Ad
esempio, i prodotti allevati dovranno essere distinguibili da quelli catturati.
Tra le proposte della Commissione vi sono anche la semplificazione della normativa e l’attuazione di una gestione decentralizzata. La prima dovrà attuarsi mediante la riduzione del numero di programmi e di strumenti differenti e l’istituzione di un quadro strategico comune per i fondi in gestione concorrente. La seconda
prevederà una suddivisione chiara dei compiti tra l’amministrazione centrale, a cui
102
Alcuni dei principali obiettivi della nuova Organizzazione comune del mercato sono: migliorare la
competitività dell’industria, la trasparenza del mercato e la sua efficienza, fornire incentivi e premi per
l’adozione di pratiche sostenibili, assicurare parità di condizioni per tutti i prodotti commercializzati,
migliorare le possibilità di previsione, la prevenzione e la gestione delle crisi di mercato.
103
Una delle tappe più importanti di tale processo di semplificazione è stata l’adozione (6 ottobre
2011) di un Regolamento che prevede un sistema comune di gestione controllo finalizzato a ridurre
l’onere amministrativo e i tempi necessari per la creazione di tali sistemi.
L’analisi
spetterà il compito di definire il quadro generale, i principi guida, gli indicatori di
risultato e la tempistica, e gli Stati membri che decideranno quali misure attuare per
raggiungere gli obiettivi dei piani pluriennali e collaborare a livello regionale.
Al comparto della piccola pesca vengono riservate attenzioni particolari. Esso ha
un ruolo importantissimo dal punto di vista sociale ed economico in molte aree costiere comunitarie, ma è necessario un sostegno specifico perché tali realtà possano
sopravvivere. A tal riguardo i due elementi principali della proposta di riforma sono il diritto degli Stati membri di limitare la pesca nella fascia compresa all’interno
delle 12 miglia nautiche dalla costa fino al 2022 e l’esenzione della piccola pesca dal
sistema delle concessioni trasferibili. La proposta prevede anche un contributo finanziario per l’attuazione di misure in favore della sopravvivenza e dello sviluppo
delle comunità costiere e interne dipendenti dalla pesca.
Per quanto riguarda le modalità di finanziamento della nuova Pcp, nell’ambito
del processo di riforma, la Commissione europea ha proposto l’istituzione di un
fondo unico per le politiche Ue in materia di affari marittimi e pesca (il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca - Feamp), che nel periodo 2014-2020 dovrebbe poter contare su circa 6,7 miliardi di euro.
Le priorità del Feamp coincideranno con gli obiettivi strategici di lungo periodo
della Politica comune della pesca (Pcp) e della Politica marittima integrata (Pmi) e
cioè, per la Pcp, favorire la sostenibilità e competitività della pesca e dell’acquacoltura e, per la Pmi, garantire un quadro politico coerente e contribuire allo sviluppo
territoriale equilibrato ed integrato delle zone di pesca. In linea con tali obiettivi
strategici, il Feamp si articolerà intorno a 4 pilastri: pesca intelligente ed ecocompatibile, acquacoltura intelligente ed ecocompatibile, sviluppo territoriale sostenibile e inclusivo e politica marittima integrata.
Uno degli obiettivi prioritari del Feamp sarà la semplificazione delle formalità
burocratiche. A tal riguardo l’unificazione degli strumenti finanziari della Pmi e
della Pcp implicherà anche quella delle relative norme, decisioni finanziarie, procedure di rendicontazione, controllo103 e valutazione e garantirà quindi una notevole semplificazione, nonché una riduzione dei costi amministrativi. Inoltre, per
armonizzare la gestione del Feamp con quella relativa agli altri Fondi dell’Ue, esso
rientrerà nell’ambito del quadro strategico comune che raggrupperà tutti i fondi
strutturali.
Un’altra importante novità rispetto al passato consisterà nella condizionalità, cioè
nella stretta connessione tra il finanziamento e gli obiettivi della riforma della Pcp.
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Secondo tale principio, il contributo finanziario sarà garantito solo agli operatori e
agli Stati membri che dimostreranno di utilizzare i fondi comunitari per il raggiungimento degli obiettivi della Pcp riformata e nel rispetto delle sue norme.
Il Feamp avrà il compito di sostenere gli imprenditori ittici durante la fase di
transizione verso una pesca a basso impatto sull’ambiente e sulle risorse. Di conseguenza esso fornirà incentivi all’adozione di pratiche in grado di ridurre l’impatto
negativo sulle risorse e sugli ecosistemi, all’acquisto di attrezzature a bordo e a terra
per l’utilizzo degli scarti di pesca, alla diversificazione delle attività e alla valorizzazione della produzione.
Saranno supportate anche la promozione e la trasformazione dei prodotti e la realizzazione di progetti innovativi, soprattutto se promossi dalla collettività (approccio bottom-up). Verranno incrementati gli aiuti a favore delle flotte costiere artigianali e la disponibilità di risorse per le consulenze scientifiche, la raccolta dati e il controllo. Inoltre, saranno rafforzati i meccanismi di sorveglianza e controllo.
Sempre nel quadro di una gestione sostenibile del settore ittico le organizzazioni
della produzione riceveranno assistenza per pianificare la loro produzione in modo
tale da rispondere al meglio alle esigenze della domanda. Il Feamp sosterrà la collaborazione tra la ricerca e i pescatori e favorirà il coinvolgimento di questi ultimi nelle iniziative per la protezione e la ricostruzione degli ecosistemi marini nonché in
quelle per il mantenimento della biodiversità.
Altre rilevanti novità rispetto al passato saranno l’introduzione di misure per mitigare i cambiamenti climatici, l’eliminazione degli aiuti per l’arresto definitivo delle attività di pesca e il sostegno in favore dei coniugi ai quali viene riconosciuto un
ruolo importante all’interno delle imprese di pesca a conduzione familiare.
Gli effetti socioeconomici di breve periodo sul settore ittico italiano
I contenuti della proposta di riforma indicano chiaramente che la nuova Pcp avrà
quale obiettivo prioritario la protezione, conservazione e risanamento delle risorse
ittiche e degli ecosistemi. «La sostenibilità socioeconomica non può prescindere dall’esistenza di stock ittici produttivi e da ecosistemi marini sani. Solo ripristinando la
produttività degli stock è possibile preservare la vitalità economica e sociale del settore della pesca. A lungo termine, quindi, non vi è alcuna incompatibilità tra obiettivi ecologici, economici e sociali» (Commissione europea, 2009). D’altronde, a
breve termine esiste un chiaro conflitto tra gli aspetti ecologici e socio-economici e,
a tal riguardo, la Commissione sottolinea che è l’obiettivo della sostenibilità ecologica di lungo termine a guidare le scelte politiche a livello comunitario: «È essenziale che qualsiasi compromesso volto a mitigare gli effetti socio-economici immediati di eventuali riduzioni delle possibilità di pesca sia compatibile con la sosteni-
L’analisi
bilità ecologica a lungo termine, in particolare per quanto riguarda l’instaurazione
di modelli di sfruttamento atti a consentire il rendimento massimo sostenibile, l’eliminazione dei rigetti e la riduzione dell’impatto ecologico della pesca» (Commissione europea, 2009).
Ciò premesso, è legittimo domandarsi quali saranno, in Italia, gli effetti socioeconomici della riforma della Pcp nel breve periodo e, soprattutto, se essa sarà in
grado di supportare i lavoratori già tanto colpiti dalla crisi economica o, al contrario, peggiorerà ulteriormente la loro condizione spingendoli ad abbandonare il
settore.
Va aggiunto anche che in Italia gli addetti al settore sentono fortemente l’esigenza di un cambiamento. L’Italia è attualmente impegnata nell’attuazione del Programma operativo Fep (Fondo europeo per la pesca) 2007-2013 ma gli operatori ritengono che esso «non sia stato in grado, almeno fino ad oggi, di venire incontro
alle esigenze delle imprese né, tantomeno, di favorire lo sviluppo sostenibile del settore» (Borrello, D’Alessio, 2012). Durante l’implementazione del Po Fep 20072013 sono emerse numerose criticità (assenza di integrazione del programma con
altri fondi strutturali, eccessiva complessità delle procedure, scarsa coerenza tra
obiettivi prestabiliti e scelte strategiche effettuate, ecc.) che hanno rallentato enormemente l’attuazione delle misure non permettendo agli operatori del settore di cogliere a pieno le occasioni di sostegno e di sviluppo offerte dalle risorse comunitarie
per la pesca.
In particolare alla luce degli effetti che la crisi economica sta avendo sul settore
ittico e dato che l’attuale momento storico impone il massimo rigore nella spesa dei
fondi pubblici, è evidente l’esigenza di una riforma che metta a disposizione dell’industria del pesce misure quanto più possibile efficaci ed efficienti.
L’analisi dei contenuti della proposta di riforma della Pcp e del nuovo strumento finanziario per gli Affari marittimi e la pesca suggerisce che alcune delle novità
potrebbero essere molto utili al settore ittico italiano non solo ai fini della sostenibilità ambientale, ma anche di quella socioeconomica. D’altro canto, esse potrebbero favorire l’attenuazione di alcune criticità che hanno caratterizzato la programmazione in corso poiché risultano coerenti con le esigenze emerse. Ciononostante,
il pacchetto di proposte appare eccessivamente incentrato sulla gestione delle risorse e alcune di esse sembrano non tenere sufficientemente in considerazione le sfide
socio-economiche alle quali è soggetta la pesca.
Tra gli obiettivi prioritari del Feamp vi è la semplificazione delle formalità burocratiche che è indispensabile sia per facilitare la gestione e l’attuazione dei programmi da parte delle amministrazioni, sia per consentire agli operatori di accedere agevolmente ai finanziamenti. A tal riguardo gli strumenti finanziari della Politica marittima integrata e della Politica comune della pesca saranno integrati in un unico
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fondo. Questa novità implicherà l’unificazione di norme, decisioni finanziarie, procedure di rendicontazione, controllo104 e valutazione e dovrebbe quindi garantire
una notevole semplificazione nonché una riduzione dei costi amministrativi. Su
questo tema comunque ci sono opinioni discordanti e il dibattito è ancora acceso.
Ad esempio, secondo quanto riportato nel documento della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome che contiene le prime osservazioni sulle proposte
di riforma della Pcp, vi è il timore che «l’integrazione degli strumenti finanziari esistenti (Fep, sostegno alla Pmi e dispositivi dell’Organizzazione comune dei mercati) in un unico Fondo... di fatto possa implicare un aumento della complessità burocratica delle disposizioni normative, provocando un non auspicabile aumento dei
costi di gestione amministrativi e un rallentamento nell’utilizzo dei fondi relativi al
periodo di programmazione 2014- 2020».
Il Feamp, inoltre, rientrerà nell’ambito di un quadro strategico comune che raggrupperà tutti i fondi strutturali (Fesr, Fse, Fondo di coesione, Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e il futuro Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca). Questo dovrebbe favorire l’integrazione e il coordinamento tra le iniziative finanziate con le risorse dedicate al settore ittico e quelle promosse dagli altri fondi
strutturali e, quindi, lo sviluppo di sinergie. Conseguentemente, il settore ittico italiano dovrebbe poter beneficiare non solo delle risorse economiche del Feamp ma
anche di quelle disponibili su altri fondi, tramite, ad esempio, il potenziamento della ricerca o la formazione degli operatori e degli impiegati della pubblica amministrazione.
Altri due elementi della proposta di riforma che potranno incidere positivamente sul grado di soddisfazione sociale post-riforma sono il maggiore sostegno che verrà garantito alle azioni collettive, comprese la commercializzazione e la produzione,
e il rafforzamento del ruolo delle organizzazioni di produttori. Entrambe le novità
dovrebbero essere accolte di buon grado dagli operatori del settore, visto che le azione collettive si basano su un approccio bottom-up, in cui gli interventi sono attuati dagli operatori stessi.
Anche la condizionalità, cioè la connessione tra il finanziamento e gli obiettivi
della riforma della Pcp, favorirà le imprese di pesca, se non altro quelle che rispettano le regole. La condizionalità non consentirà che le già scarse risorse economiche
vengano utilizzate in modo improprio e garantirà una maggiore disponibilità per le
imprese virtuose. Infatti, come precedentemente accennato, il contributo finanziario sarà garantito solo agli operatori che dimostreranno di utilizzare i fondi
104
Una delle tappe più importanti di tale processo di semplificazione è stata l’adozione (6 ottobre
2011) di un Regolamento che prevede un sistema comune di gestione e controllo finalizzato a ridurre
l’onere amministrativo e i tempi necessari per la creazione di tali sistemi.
105
Produzione dati sulla pesca necessari ad una corretta gestione, controllo delle attività di pesca e
adozione di un approccio strategico alle attività di acquacoltura.
L’analisi
comunitari per il raggiungimento degli obiettivi che la Pcp riformata si prefigge e
nel rispetto delle sue norme. In particolare i pescatori non rispettosi delle regole
rischieranno la riduzione degli importi, il divieto di accesso ai contributi o dovranno restituire le somme già ricevute. È doveroso sottolineare, comunque, che l’efficacia di questo sistema è strettamente connessa a quella dei meccanismi di controllo e sorveglianza perché esso si baserà sulla capacità di dimostrare le eventuali inadempienze da parte dei pescatori.
La condizionalità riguarderà però anche gli Stati membri per i quali il finanziamento sarà condizionato al rispetto della normativa e alla creazione delle precondizioni per la corretta attuazione del Feamp105. I Paesi membri che non rispetteranno queste condizioni andranno incontro all’interruzione, alla sospensione o alla
rettifica del finanziamento. Questo, al contrario, potrebbe non incontrare il favore
degli operatori perché potrebbe tradursi in un’interruzione del flusso di risorse dovuto a carenze gestionali delle amministrazioni pubbliche, a danno dell’intera industria.
La decisione di fornire un sostegno in favore dei coniugi, per il finanziamento
della loro formazione e la realizzazione di attività economiche collegate alla pesca è
particolarmente adatta al contesto ittico italiano, dove le donne hanno una grande
importanza all’interno delle imprese di pesca a conduzione familiare. Ad esempio in
alcune realtà siciliane esse si occupano dell’impresa di famiglia dal momento in cui
il pesce viene sbarcato fino a quando viene venduto. Tra l’altro, come precedentemente osservato, la percentuale di donne che lavorano nel settore ittico è in aumento benché il numero di occupati nel settore si stia riducendo.
Anche le iniziative supportate dal Feamp in favore di un aumento del reddito dei
pescatori (diversificazione delle attività, valorizzazione e promozione dei prodotti,
realizzazione di progetti innovativi, ecc.) saranno senza dubbio gradite agli operatori
del settore, purché le amministrazioni si sforzino di ideare un pacchetto di misure
in grado di tradurre i buoni propositi in risultati concreti.
Per quanto riguarda l’acquacoltura, l’Ue punta al suo potenziamento, in un’ottica di sostenibilità ambientale. A tal fine, il Feamp favorirà l’innovazione di prodotto (es. produzione di specie per il consumo non alimentare) e di processo (es. acquacoltura offshore), la multifunzionalità del settore, cioè l’integrazione delle attività di allevamento con attività turistiche o educative, la vendita diretta, ecc. Tutte
queste iniziative sono pienamente coerenti con il fatto che, in Italia, vi è poca sperimentazione nel settore dell’acquacoltura e la variabilità delle produzioni è piuttosto ridotta. Tra l’altro, la modifica degli standard di mercato e i nuovi obblighi sul-
a
e
91
9-10/2012
a
e
92
la chiarezza delle etichette, previsti nell’ambito della Pcp riformata, miglioreranno
il livello di consapevolezza dei consumatori e li metteranno in condizione di
scegliere i prodotti che desiderano acquistare106. Questo darà la possibilità ai consumatori di sostenere sia la pesca responsabile sia l’acquacoltura e di boicottare la
pesca irresponsabile.
Un altro elemento di rilievo consiste nel fatto che il Feamp sosterrà la collaborazione tra la ricerca e i pescatori. Nel mondo della pesca vi è una certa sfiducia nei
confronti del ruolo della ricerca per lo sviluppo del settore e appare quindi preziosa
l’occasione fornita dal nuovo fondo di rafforzare il dialogo con gli operatori al fine
di indirizzare le attività di ricerca in direzioni più proficue per il settore ittico, evitando, inoltre, duplicazioni di ricerche e sprechi di risorse. Tra l’altro la realizzazione
di partnership tra scienziati e operatori del settore contribuirà a «migliorare la qualità e la disponibilità dei dati e di introdurre un livello più trasparente sia nella fase
preparatoria che nella fase di attuazione della Pcp» (Conferenza delle regioni periferiche marittime d’Europa, 2011).
Anche la scelta di intensificare gli aiuti a favore della piccola pesca e della sostenibilità economica delle comunità costiere e interne dipendenti dalla pesca, potrebbe
avere un’enorme utilità per il settore ittico nazionale. Basti pensare che dei 13.839
natanti, che risultavano iscritti nell’Archivio licenze di pesca alla fine del 2007, circa il 65% erano afferenti al segmento della piccola pesca. È necessario però che per
la programmazione futura vengano superati gli ostacoli dovuti alla mancata coincidenza tra la definizione comunitaria di «small scall fisheries» e quella italiana di «piccola pesca». Dato che le due definizioni non coincidono, una parte della «piccola
pesca» italiana rientra, secondo la classificazione Ue, nel segmento industriale e, di
conseguenza, non ha diritto ai contributi.
Una novità introdotta dal Feamp in merito alla quale il dibattito è particolarmente acceso è l’eliminazione degli aiuti per l’arresto definitivo (attuale misura 1.1)
e per l’arresto temporaneo delle attività (attuale misura 1.2), decisione dovuta al fatto che queste tipologie di intervento non sono risultate efficaci a garantire il miglioramento della condizione degli stock di pesca.
Nella situazione di crisi in cui da anni si trova il settore, il sostegno economico
previsto dalle misure 1.1 e 1.2 dell’attuale programmazione ha avuto un ruolo determinante per la sopravvivenza di molte imprese della pesca, soprattutto di piccole
dimensioni. In particolare, il contributo alla demolizione della flotta ha assunto il
ruolo di «valore dell’usato dell’imbarcazione» e ha mantenuto in vita imprese che
grazie ad esso, da un lato, hanno avuto la possibilità di accedere al credito e dall’al106
Ad esempio in base alla nuova normativa i prodotti della pesca dovranno essere distinguibili dai
prodotti dell’acquacoltura.
107
La European Transport Worker’s Federation (Etf) rappresenta più di 2,5 milioni di lavoratori nel
settore del trasporto e della pesca e 235 sindacati in 41 paesi europei.
L’analisi
tro, di saldare, al momento della fuoriuscita dal settore, eventuali debiti contratti in
precedenza. Ciò premesso, è indubbio che se la riforma prevederà l’abolizione immediata del contributo alla demolizione della flotta, come previsto dalla proposta,
numerose imprese non riusciranno a rimanere in vita. D’altro canto, la situazione
sarà ancora più grave se non verranno attuate opportune misure a favore dell’ingresso nel settore di giovani lavoratori.
Appare dunque condivisibile la posizione della Federazione europea dei lavoratori dei trasporti107 (Etf) in merito alla necessità di introdurre nella nuova programmazione delle misure che affrontino i problemi sociali in modo diretto e che aiutino
i pescatori e, in particolare, i lavoratori salariati, ad affrontare i cambiamenti in atto.
Particolarmente importanti in tal senso dovranno essere gli interventi di riconversione degli addetti soprattutto poiché il paese sta andando incontro ad una situazione
economica tale che è assolutamente utopistico pensare che gli operatori che fuoriescono dal settore ittico possano trovare facilmente un’occupazione alternativa. Inoltre, anche al fine di evitare sprechi di risorse, sarà opportuno contestualizzare gli interventi per la diversificazione e la riconversione, considerando adeguatamente aspetti quali la vetustà delle imbarcazioni, l’età degli operatori, la vocazionalità del territorio per attività alternative come il pescaturismo, e così via.
Sorgono alcune perplessità anche relativamente all’obiettivo di vietare il rigetto a mare delle catture indesiderate. Essendo la pesca nei nostri mari di tipo multispecifico, inevitabilmente il mix di specie oggetto di cattura include una certa
quantità di pesce indesiderato che in alcuni casi e in alcuni periodi dell’anno può
risultare anche piuttosto consistente. L’obbligo di sbarcare interamente il pesce
catturato si tradurrebbe perciò nella necessità di stoccare a bordo quantità variabili di prodotto non destinato alla vendita e quindi in una riduzione dello spazio
destinato a quello di interesse commerciale, cosa particolarmente problematica
per le imbarcazioni di piccole dimensioni che rappresentano un’ampia quota della flotta nazionale. Tra l’altro, il volume delle celle frigorifero a bordo delle imbarcazioni dovrebbe aumentare e le imbarcazioni sarebbero costrette a tornare a
riva più frequentemente con un conseguente aggravio dei costi. A questo problema si somma quello della mancanza di strutture tecniche e amministrative a terra atte a registrare il prodotto «di scarto», conservarlo e assicurare che sia poi destinato al consumo non umano o alla beneficenza, come previsto dalla proposta
di riforma. In ultimo va osservato che la proposta di riforma non prevede l’esistenza di misure finalizzate in modo specifico a scoraggiare i rigetti e a formare gli
operatori del settore sulle modalità applicative della nuova normativa, né consi-
a
e
93
9-10/2012
a
e
94
dera gli effetti che le nuove regole avranno sui lavoratori, ad esempio in termini
di orario di lavoro e sicurezza.
Tali considerazioni suggeriscono che la proposta di abolire i rigetti, sebbene si
proponga di raggiungere l’indiscutibile obiettivo di rendere lo sfruttamento delle risorse in mare più razionale, dovrebbe essere rivista, prestando maggiore attenzione
ai problemi tecnici e alle conseguenze sui lavoratori e, soprattutto, considerando la
specificità sia delle realtà costiere sia dei tipi di pesca. A riprova di tali necessità si
consideri che inizialmente la Commissione europea aveva deciso addirittura di
escludere temporaneamente il bacino del Mediterraneo dall’applicazione di questa
misura e di effettuare azioni pilota finalizzate ad affrontare nel modo opportuno i
problemi tecnico-economici di ciascuna realtà locale, anche se successivamente tale
scelta è stata rivista.
La proposta di riforma prevede l’istituzione a partire dal 2014 di un sistema di
«concessioni di pesca trasferibili», con la convinzione che esso, da un lato, conferirà maggiore flessibilità al settore e maggiore responsabilità agli operatori e, dall’altro, obbligherà gli Stati membri a riequilibrare le dimensioni della flotta alla disponibilità di risorse. Le opinioni in merito all’opportunità di introdurre nel settore il
sistema delle concessioni trasferibili sono molto controverse.
In particolare, la maggior parte delle Ong e delle Organizzazioni della pesca che
hanno partecipato alla fase di consultazione sulla riforma hanno espresso un parere
negativo sul sistema delle concessioni di pesca trasferibili (Cpt).
La principale motivazione a sfavore è il fatto che non è giusto privatizzare una
risorsa pubblica e che dovrebbe essere invece lo Stato ad assegnare nuovamente le
concessioni che si liberano quando gli operatori fuoriescono dal settore. In questo
modo gli Stati membri potrebbero anche controllare i diritti di pesca e rilasciarli
solo ai pescatori che dimostrano di rispettare le regole. Come suggerito dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, in caso di adozione delle Cpt potrebbe essere utile «l’introduzione di una clausola di condizionalità che vincoli l’assegnazione delle Cpt alle imprese al rispetto da parte delle imprese della Pcp, delle leggi sociali e di sicurezza sul lavoro e dei contratti collettivi nazionali. In relazione a ciò, in un quadro di maggiore chiarezza nel nuovo strumento finanziario
in materia di ammortizzatori sociali assegnati agli Stati membri, analoga clausola
di condizionalità dovrebbe prevedere il sostegno economico degli equipaggi nei periodi di sospensione del lavoro» (Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, 2012).
La seconda ragione è che, mentre i proprietari dei pescherecci sarebbero agevolati nella fuoriuscita dal settore dalla vendita dei diritti di pesca, i pescatori salariati
non riceverebbero nessuna forma di compensazione in caso di interruzione dell’attività. In altri termini tale sistema non garantirebbe la continuità dell’occupazione.
Esiste inoltre il rischio che le attività di pesca si concentrino nelle mani di pochi
gruppi economicamente più forti, dando origine ad ingiustizie e fenomeni speculativi e riducendo il potere delle comunità costiere come è accaduto nei paesi in cui
sono stati introdotti i diritti di pesca trasferibili.
Al di là di tali rischi, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome individua numerosi ostacoli applicativi che tale sistema incontrerebbe nel Mar Mediterraneo data la multispecificità che caratterizza le attività di pesca in questo mare,
ma si rimanda al documento che riporta le sue osservazioni sulle proposte di riforma della Pcp presentate nel 2011 per una trattazione approfondita.
La Commissione europea ha recentemente presentato un pacchetto di riforme
con il quale intende risolvere i problemi strutturali dell’attuale Pcp. La proposta, che
prevede cambiamenti molto rilevanti in tutti gli ambiti della Pcp, ha scatenato un
acceso dibattito sulle possibili conseguenze socioeconomiche in Italia, dove la crisi
economica e le misure adottate per la salvaguardia delle risorse hanno già causato la
fuoriuscita dal settore di numerosi addetti.
Il presente articolo si è posto l’obiettivo di presentare brevemente i contenuti
della proposta di riforma e di offrire qualche elemento su cui riflettere relativamente ai suoi probabili effetti di breve periodo sulle condizioni di vita degli addetti
al settore.
La proposta di riforma appare nel complesso eccessivamente incentrata sulla
gestione delle risorse. Alcuni suoi elementi hanno la potenzialità di migliorare,
anche nel breve periodo, non solo lo stato delle risorse ittiche ma anche le condizioni socioeconomiche dei lavoratori. Altri, al contrario, se verranno attuati così
come suggerisce l’attuale proposta, potrebbero determinare un peggioramento
delle condizioni di vita dei lavoratori e contribuire ad aggravare il fenomeno dell’abbandono del settore. Alcuni aspetti della riforma sui quali il dibattito è particolarmente acceso sono l’introduzione del divieto di rigetto, l’eliminazione degli
aiuti per l’arresto definitivo delle attività di pesca e l’istituzione del sistema delle
concessioni di pesca trasferibili. Soprattutto a queste questioni, quindi, andrebbe
dedicata una maggiore attenzione. I possibili impatti socioeconomici di tali innovazioni dovrebbero essere valutati attentamente e caso per caso, in modo tale
da acquisire le conoscenze necessarie a rivedere la proposta minimizzandone gli
effetti negativi.
L’analisi
Conclusioni
a
e
95
a
e
v.a. %
1.426
4
31.737 96
33.163 100
v.a. %
1.342
4
31.835 96
33.177 100
v.a.
1.495
31.354
32.849
%
5
95
100
2004
Produzione (t)
Pesca marittima
Acquacoltura
Totale produzione
409.284
257.600
666.884
2000
348.562
261.450
610.012
2001
314.383
259.600
573.983
2002
329.343
191.650
520.993
2003
307.101
232.800
539.901
2004
282.365
234.100
516.465
2005
Tabella 2. Evoluzione della produzione del settore ittico italiano dal 2000 al 2010
Femmine
Maschi
Totale
Fonte: Mipaaf-Irepa
2003
2002
Tabella 1. Evoluzione del numero addetti al settore della pesca dal 2002 al 2007
96
296.523
241.900
538.423
2006
276.650
179.634
456.284
2007
v.a. %
11.469 36
30.412 95
31.881 100
2005
9-10/2012
227.011
157.872
384.883
2008
2009
242.437
162.325
404.762
v.a. %
1.483
5
29.359 95
30.842 100
2006
224.758
162.325
387.083
2010
v.a. %
1.449 5
27.093 95
28.542 100
2007
-45
-37
-42
Var. %
(2000-2010)
8
-15
-14
Var. %
(2002-2007)
Borrello A., D’Alessio M., Effetti del Fep sul settore e la Pesca dopo il 2013, Rapporto conclusivo di una ricerca organizzata dalla Fondazione Metes nell’ambito del
Progetto pesca, Edizione Flai Cgil, 2012.
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pesca post-2012, 2011.
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L’analisi
Bibliografia
a
e
97
Rubrica: Lavoro e salute
a
e
99
■ Rubrica: Lavoro e salute
Salute e lavoro delle donne nel settore
agroalimentare: risultati di un’indagine sul campo
Irene Figà-Talamanca*
T
utte le donne del mondo sono produttrici di cibo. Più della metà di loro
(53%) sono anche lavoratrici del settore agroalimentare. In Europa, dove
la presenza femminile si trova in tutti gli ambiti lavorativi, questa percentuale è molto più bassa. In Italia, in particolare, la percentuale di lavoratrici agricole è progressivamente diminuita dal 14,5% nel 1980, al 7,2% nel 1995 e all’attuale 3,5%, che corrisponde a circa 225.000 donne. Al contrario, in questo periodo, è stato registrato un progressivo aumento della presenza di donne nell’industria
alimentare che oggi raggiunge quasi 144.000 unità.
Le regioni italiane dove le donne sono maggiormente dedite all’agricoltura sono
le regioni del Sud e in particolare la Calabria, mentre la Lombardia ha la minore
presenza di donne in agricoltura. Nell’industria alimentare invece, la manodopera
femminile (ma anche maschile) è maggiormente presente nelle regioni del Nord e
Centro Italia.
Storicamente il lavoro agricolo e di preparazione del cibo è stato considerato
un’attività «normale» per le donne, anche se già un secolo fa vari studiosi avevano
identificato i danni alla salute delle donne in relazione a lavori «femminili» come la
produzione di tabacco, di riso, di seta, di canapa, di lino ecc. Più recentemente è
stato anche studiato il rischio per la salute delle donne nel settore agroalimentare,
specialmente in rapporto all’uso sempre più diffuso di antiparassitari e in relazione
ai problemi ergonomici dell’industria alimentare.
Ma quali sono le condizioni del lavoro, i disagi, le malattie e i problemi che oggi hanno le lavoratrici del settore agroalimentare?
Dai dati ufficiali (Istat, Inail) disponibili si ricavano solo risposte parziali a questo quesito. Si vede, per esempio, che le donne in agricoltura sono in maggioranza
lavoratrici dipendenti piuttosto che indipendenti, nonostante il fatto che tali donne abbiano un livello d’istruzione in media superiore agli agricoltori maschi. Il lavoro con contratto annuale e part-time è prevalente nel Nord-est del paese, mentre
al Sud molte donne lavorano solo con contratto stagionale. Da altre speciali inda-
*
Università degli Studi «Sapienza» di Roma.
a
e
101
9-10/2012
a
e
102
gini Istat, inoltre, sappiamo che le lavoratrici agricole hanno famiglie più numerose, ma, nello stesso tempo, circa un quarto di loro lavora più di 40 ore alla settimana. Tutto questo indubbiamente conferma quello che intuitivamente è già noto: le
lavoratrici agricole sono più svantaggiate economicamente, professionalmente e socialmente rispetto alle lavoratrici di altri settori.
Sempre dalle fonti ufficiali si possono estrarre alcune informazioni anche per le
lavoratrici dell’industria alimentare. Anche in questo settore, così come in quello
agricolo, le donne hanno le qualifiche più basse, mentre in questo caso i contratti
di lavoro sono quasi sempre a tempo indeterminato.
Tuttavia sappiamo poco sulle reali condizioni del lavoro, sulla salute e la sicurezza delle donne nel settore agroalimentare oggi in Italia e su come loro stesse vivono
e affrontano questi temi. La carenza di informazioni dal mondo del lavoro reale, e
l’obbligo della nuova normativa che enfatizza la necessità di valutare il rischio lavorativo anche in relazione al «genere», hanno condotto al progetto della Fondazione
Metes Salute e sicurezza per le donne del settore agroalimentare108. Il progetto ha consentito di realizzare, nel periodo tra novembre 2011 e marzo 2012, interventi formativi sulla prevenzione dei rischi lavorativi in due aziende agricole e due aziende
dell’industria alimentare. È stato così possibile raccogliere dati direttamente da un
totale di 271 lavoratrici attraverso la somministrazione di un questionario con lo
scopo di indagare la percezione e la soggettività delle donne sui rischi e sui danni alla salute derivanti dal lavoro, sulle misure di prevenzione adottate (o omesse), sui
disagi e i problemi che queste donne affrontano ogni giorno nello svolgimento del
lavoro e nel conciliare il lavoro con i compiti famigliari. Vediamo ora alcuni dei risultati di queste indagini.
Alcuni risultati dell’indagine sulle lavoratrici agricole
Le due aziende coinvolte nella ricerca fanno parte del comparto ortofrutticolo e
florovivaistico e sono situate rispettivamente nella provincia di Ragusa e di Siena.
Esse presentano un ciclo lavorativo simile come scenario (coltivazione e immagazzinamento del prodotto), ma differenti nel trattamento del prodotto (ortaggi e piante/fiori).
I risultati dell’indagine mostrano come i dispositivi di protezione individuali siano più utilizzati nell’azienda toscana rispetto a quella siciliana. L’uso della tuta/divisa, per esempio, nell’azienda di Siena era presente nel 93% delle donne contro il
34% nell’azienda siciliana.
108
Aa.Vv., Salute e Sicurezza per le donne del settore agroalimentare. Indagine sulle condizioni di lavoro
e salute delle donne in agricoltura e nell’industria alimentare, Fondazione Metes, Roma 2012.
Rubrica: Lavoro e salute
Per quanto riguarda i disagi sul luogo di lavoro, il microclima è un aspetto riportato dalle donne in ambedue le aziende. Un altro disagio ancora più presente è
di tipo ergonomico. Lavorare in piedi, per esempio, è il problema in assoluto più
sofferto per le donne siciliane. Nell’azienda di Siena le donne hanno denunciato anche altri problemi ergonomici come il sollevamento di carichi e soprattutto il lavoro in posizioni scomode.
Il rischio chimico derivante dai pesticidi è presente soprattutto nell’azienda florovivaistica di Siena dove il lavoro si svolge in serra. Tuttavia il 98% delle donne rispetta i tempi di rientro dopo i trattamenti fitosanitari anche se solo il 40% conosce il grado di tossicità (classe di rischio) dei pesticidi utilizzati nel proprio lavoro.
Interessante è notare come la percentuale di donne che hanno avuto almeno un
infortunio lavorando nell’azienda attuale sia più elevata tra le lavoratrici toscane rispetto a quelle siciliane (23,3% contro 5,6%). Questo dato potrebbe dipendere, oltre che da una diversa propensione a denunciare gli infortuni nelle due realtà, anche dalla tipologia del lavoro.
Le donne dell’azienda florovivaistica di Siena, pur essendo più giovani, riportano
patologie croniche più frequentemente delle lavoratrici siciliane. Questo risultato,
apparentemente sorprendente, è probabilmente dovuto ad una maggiore consapevolezza delle lavoratrici toscane nel riconoscere il legame tra alcuni disturbi cronici
(ad esempio osteoarticolari) ed il lavoro. Infatti, come era da aspettarsi, tra le donne siciliane è stato rilevato, complessivamente, uno stato di salute più precario rispetto a quelle toscane.
Infine, dalle risposte aperte presenti nel questionario somministrato, riguardo
ai disagi delle donne nel loro ambiente di lavoro, si sono potute riassumere le
problematiche soggettive riportate dalle lavoratrici stesse. Sono stati confermati
i problemi relativi alla presenza di disturbi fisici e di fatica, derivanti anche da
problemi ergonomici. Un dato nuovo, che emerge soprattutto dalle dichiarazioni delle lavoratrici toscane, è il disagio dovuto a problemi dell’organizzazione del
lavoro (orari, turni, rotazione ecc.) nella loro azienda, confermando, così, una
consapevolezza dei rischi e della capacità di queste lavoratrici di fornire soluzioni praticabili.
I problemi che le lavoratrici coinvolte nella ricerca hanno sollevato in relazione
alle differenze di genere (ossia nei confronti dei loro colleghi maschi) riguardano soprattutto il doppio carico di lavoro (in famiglia e in azienda), particolarmente tra le
donne siciliane e il lavoro faticoso/discriminante del quale si lamentano specialmente le donne dell’azienda toscana.
Molte delle risposte al questionario variano secondo l’età della donna; ad esempio, l’uso dei dispositivi di protezione individuale è più frequente tra le lavoratrici
più giovani in tutte e due le aziende. Tuttavia la percentuale di donne che utilizza
a
e
103
questi dispositivi, a prescindere dalla classe d’età, è maggiore in Toscana (88,4%
contro il 23,7% della Sicilia).
Anche il numero dei disagi e dei rischi percepiti sembra essere più alto tra le donne più giovani e più istruite, mentre le patologie croniche presentano un trend crescente con l’aumento dell’età.
9-10/2012
Alcuni risultati dell’indagine sulle lavoratrici dell’industria alimentare
a
e
104
Le due aziende incluse nell’indagine fanno parte del comparto per la lavorazione
delle carni avicole situate rispettivamente nella provincia di Macerata e in quella di
Verona.
L’azienda marchigiana ha circa 1.800 lavoratori, dei quali il 70% donne, mentre
quella veneta è composta da circa 1.250 lavoratori, dei quali 300 circa sono donne.
Le lavoratrici intervistate nelle due aziende sono state complessivamente 190. In
generale, le lavoratrici dell’industria alimentare sono più motivate ad adottare misure di sicurezza e prevenzione rispetto alle lavoratrici agricole. Per esempio, l’uso di
mezzi di protezione (guanti, cuffie, mascherine, grembiuli, scarpe antiscivolo ecc.)
è sistematico ed è probabile che questo sia dovuto, almeno in parte, all’obbligatorietà dell’uso di Mpi per la protezione del prodotto e, quindi, alla continua sorveglianza dell’applicazione delle regole, cosa non presente nel settore agricolo. Le visite mediche periodiche sono in genere eseguite ed in tutte e due le aziende sono stati effettuate alcune attività formative sui temi della prevenzione e della sicurezza.
Anche in questo le due aziende industriali sono molto più avanti rispetto al lavoro
in agricoltura precedentemente riportato.
L’indagine evidenzia che i disagi più frequenti, derivanti dall’attività lavorativa,
sono: il lavoro in piedi, il microclima freddo e l’affaticamento del braccio/polso dovuto alla catena di montaggio. Infine, i ritmi di lavoro elevati sono stati riferiti da
più della metà delle donne. Sono, inoltre, stati riportati numerosi infortuni causati
da strumenti manuali taglienti e dovuti a ritmi lavorativi elevati.
Le patologie più frequenti sono quelle riguardanti la spalla/gomito/mano, sicuramente associate ai movimenti ripetitivi e al sollevamento di pesi. Queste patologie aumentano notevolmente con l’età.
Considerazioni conclusive
Questa indagine ha rilevato che i principali disagi e rischi per la salute delle partecipanti derivano dal doppio lavoro, dalla fatica fisica, dalle posizioni disagevoli
(per le addette al lavoro agricolo) e dai problemi microclimatici, ergonomici e organizzativi (per le donne addette all’industria alimentare). Le patologie croniche la-
Quali indicazioni per la prevenzione?
Il primo passo, in qualsiasi intervento di prevenzione nei luoghi di lavoro, è quello della valutazione del rischio. Già in questa fase, è importante adottare un approccio non «neutrale», assicurandosi che vengano rilevati e valutati i rischi specifici per le donne. La normativa vigente, cioè il Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008), prevede all’art. 6 l’obbligo di «promuovere la considerazione della differenza di genere in relazione alla valutazione dei
rischi e alla predisposizione delle misure di prevenzione». In assenza di una specifica considerazione delle problematiche di genere, la valutazione del rischio sarebbe
incompleta, in quanto priva di attenzione alla specificità delle donne dal punto di
vista biologico ma anche dal punto di vista sociale (si ricorda che le donne quasi
sempre devono sopportare un doppio carico lavorativo).
La valutazione del rischio lavorativo non è un mero esercizio burocratico da affidare esclusivamente ad «esperti» esterni, che spesso «valutano» i rischi in astratto, inserendo i dati forniti dall’azienda in programmi computerizzati standard. Queste
procedure valutative, prive di una conoscenza diretta del lavoro, dei disagi e dei problemi che i lavoratori affrontano nello svolgimento quotidiano del lavoro, possono
produrre un quadro molto diverso dalla realtà. Solo un diretto coinvolgimento di
tutti i lavoratori, uomini e donne, in tutte le fasi di accertamento del rischio e nell’analisi delle differenze di genere può fornire indicazioni utili per valutare il rischio
e, soprattutto, per trovare soluzioni che lo possano ridurre.
Nella fase di implementazione delle misure preventive, la prima opzione deve
essere quella della eliminazione della sorgente di danno alla fonte. Se l’unica soluzione è quella dell’uso di dispositivi di protezione individuale, questa deve essere concordata con le lavoratrici stesse in modo da consentire l’accettazione dell’uso di tali dispositivi con il massimo grado di protezione ed il minimo di disagio. Infatti, spesso questi dispositivi sono disegnati per il lavoratore «medio» e
male si adattano alle esigenze delle donne. Dall’indagine precedentemente riportata, abbiamo visto che l’uso di questi dispositivi è spesso trascurato specialmente dove mancano la formazione sulla loro utilità e l’incentivazione al loro
utilizzo costante.
Rubrica: Lavoro e salute
voro-correlate, emerse dall’indagine, dipendono dal tipo di lavoro, dalle misure di
prevenzione, dalle pause, dalle ore lavorate per settimana, dalle condizioni ambientali nel luogo di lavoro, ma anche dall’età e dalla formazione delle lavoratrici. La
consapevolezza dei rischi da lavoro e l’adozione di misure di prevenzione mancano
maggiormente tra le donne più svantaggiate, cioè quelle più anziane e meno istruite, specialmente nell’azienda ortofrutticola collocata in Sicilia.
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L’indagine ha evidenziato come la consapevolezza dei rischi e dei danni dalle condizioni di lavoro dipenda dal grado d’istruzione delle donne e dalla loro età (meno
presente tra le donne anziane e meno istruite) e, inoltre, è emerso anche come tale
consapevolezza sia determinante per l’applicazione di buone pratiche di lavoro e per
l’uso dei mezzi protettivi disponibili. Segue l’importanza della formazione per rendere le lavoratrici consapevoli. Tale formazione non deve essere semplicemente un
«intervento» unico e isolato. Mantenere alta l’attenzione per la prevenzione è possibile solo attraverso la formazione continua che possa permettere la partecipazione a
corsi periodici, con il rinnovo delle buone pratiche e la supervisione e incentivazione alla loro applicazione.
È probabile che alcuni di questi interventi di prevenzione siano già adottati nelle grandi aziende del settore agroalimentare. Come abbiamo constatato in questa indagine la situazione è particolarmente critica nelle aziende agricole del Sud. La sfida di domani è quella di portare un’efficace prevenzione in tutte le aziende agricole, specialmente in quelle piccole, dove gli investimenti in prevenzione non sono sostenibili. Interventi statali o/e degli enti locali, con facilitazioni fiscali, assistenza tecnica e, specialmente, interventi di formazione al livello capillare nelle zone rurali,
potrebbero incentivare le misure di prevenzione, nonché ridurre gli infortuni e i
danni alla salute delle lavoratrici e dei lavoratori del settore agroalimentare.
Segnalazioni e recensioni
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Letteratura e lavoro
S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, Milano
2010, pp. 368; E. Nesi, Storia della
mia gente, Bompiani, Milano 2010,
pp. 168; S. Scateni, Dove sono, nottetempo, Roma 2012, pp. 189.
Recentemente sono apparsi in libreria alcuni romanzi (S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, 2010; E. Nesi, Storia della mia gente, Bompiani, 2010; S. Scateni, Dove
sono, nottetempo, 2012) che si soffermano, nella narrazione, su alcune esperienze di lavoro. A una prima e sbrigativa lettura questi racconti possono
richiamarsi, in qualche modo, alla tradizione della letteratura industriale. Sul
rapporto tra letteratura e industria è
uscito recentemente un interessante libro di P. Mori, Scrittori nel boom. Il romanzo industriale negli anni del miracolo italiano, Edilazio, Roma 2012, pp.
337, dove si cerca, attraverso il romanzo industriale, di leggere la seconda trasformazione economica e sociale avvenuta alla fine degli anni cinquanta in
Italia. Gli autori di questa narrazione
sono noti: E. Vittorini (Industria e letteratura, 1961), I. Calvino (La «tematica
industriale», 1962), P. Volponi (Memoriale, 1962 e La macchina mondiale,
1965), O. Ottieri (Tempi stretti, 1957 e
La linea gotica, 1962), ecc. La peculiarità prevalente è il lavoro nella sua caratteristica antropologica, da cui il senso
della specifica attività (le condizioni, la
prestazione, i legami, ecc.) si fa narra-
zione e sentimento di personaggi nella
situazione di lavoro (fabbrica, comunità, ecc.). In altri termini, al di là delle diverse tradizioni narrative, il romanzo industriale si sofferma prevalentemente
sul lavoro visto soprattutto come esperienza etica, oltre che tecnica, umana e
sociale. È visto cioè come il fondamento di un vincolo che ogni persona sente
per sé, ma anche per la propria famiglia,
i propri amici, la propria comunità ed è
raccontato nelle sue implicazioni materiali e culturali sia collettive sia individuali così come queste si chiariscono
nei luoghi di lavoro. La caratteristica del
romanzo industriale, dunque, è quella di
soffermarsi sulla rappresentazione dell’esistenza delle persone nel lavoro.
Se assumiamo questa definizione, i romanzi ultimamente usciti in libreria, cui
si faceva cenno all’inizio, pur soffermandosi sulle esperienze lavorative, stridono con il romanzo industriale secondo la definizione che noi abbiamo dato.
Eppure il riferimento al lavoro è abbastanza presente. Come mai?
S. Avallone narra la storia di due ragazze
in un quartiere di operai di Piombino affacciato sul mare e, sullo sfondo, la Lucchini, una fabbrica di acciaieria con l’altoforno Afo 4 che condiziona l’esistenza
dei vari personaggi del romanzo. E. Nesi nelle sue pagine racconta la vendita dell’azienda di famiglia e il disfacimento del
distretto del tessile pratese. La globalizzazione dei mercati e la concorrenza cinese, in questa provincia, hanno avuto
un impatto inesorabile. Non è stato solo il collasso di un sistema economico e
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■ Segnalazioni
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produttivo ma di un mondo e di un’identità culturale cui tutte le persone di
quella provincia erano strettamente legate. È un racconto crudo e pieno di
malinconia sulla decadenza del modello
industriale pratese. S. Scateni narra di
Chiara che si raccoglie nel passato della
famiglia ed evoca la storia della provincia
dalla quale è fuggita. È un racconto di
donne sfortunate, di una povertà contadina e del lavoro nelle fabbriche di tabacco. A seguito di questa memoria la
protagonista riuscirà a trovare un senso
alla sua esistenza.
Nelle pagine di S. Avallone il lavoro,
pur presente, perde la funzione d’integrazione su valori condivisi propri di
una comunità operaia. È una comunità,
cioè, che infrange la condivisione dell’etica del lavoro per configurarsi in un’umanità aperta alle diverse infiltrazioni
della droga e al richiamo di forme più disperate, consumistiche e delinquenziali.
In quelle di E. Nesi la globalizzazione
sottrae il tempo del lavoro come attesa di
una possibile scelta e speranza verso il futuro e con essa il congelamento di un destino comunitario e individuale. È la fine di una storia collettiva fondata
sull’attività e sui suoi valori che, nella dissoluzione, non possono essere più tramandati alle nuove generazioni. Mentre
nello scritto di S. Scateni la memoria
non è un ricordo ma è l’attualità del
presente della protagonista in cui il lavoro delle tabacchine àncora l’esistenza
di Chiara alla fatticità della vita riconsegnandole le parole necessarie per poter
stare con gli altri.
In questi tre romanzi il lavoro è assente.
È dissolto nella competizione globale,
nella perdita della sua centralità e dei
suoi valori economici e culturali. La sua
presenza è solo memoriale (E. Nesi, S.
Scateni) o è addirittura spettrale e irriverente (S. Avallone). Differentemente
dalla letteratura industriale o di argomento operaio – in cui il racconto si sofferma sulla descrizione letteraria della
realtà – il lavoro è ricordato nella sua
mancanza, nella sua marginalità e nella
sua lontananza. Queste distanze aprono
una sorta d’inquietudine che gli stessi
romanzi citati mostrano e testimoniano.
È un’inquietudine legata alla separazione dall’azienda del padre e dal distretto
pratese (E. Nesi), vissuta nella dissolvenza dei valori solidaristici del lavoro
industriale (S. Avallone) e nell’incapacità di vivere il presente senza alcuni fondamenti esistenziali (S. Scateni). L’inquietudine è l’esito di una perdita su
cui i romanzi citati ci danno una rappresentazione letteraria. Ma questa perdita, così a portata di mano della lettura e legata ai protagonisti dei racconti,
dischiude, nelle diverse scritture, un’inquietudine più grande. È l’apprensione
del presente in cui il vivente è neutralizzato dall’abolizione del tempo e smarrito per l’assenza di speranza. In questi casi il ricorso al lavoro, che i tre titoli
impiegano, è un appello alla necessità di
un fondamento, a una storicità di principio in cui il lavoro non è un accidente sociologico ma un fondamento dell’esistenza, senza il quale non si dà valore
alla realtà. In questi romanzi il lavoro
Franco Farina
■ Recensioni
P. Bevilacqua, Elogio della radicalità,
Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 174.
Un excursus storico ed insieme un manifesto intellettuale programmatico.
Questo il primo nitido pensiero a conclusione della lettura dell’ultimo saggio
di Piero Bevilacqua. Il volume si caratterizza come un importante lavoro di
raccordo e ricostruzione dell’evoluzione
socio-economica internazionale che ha
portato l’attuale ordine mondiale delle
cose ad essere ciò che noi quotidianamente vediamo e viviamo.
Attraverso un’indagine sì storiografica,
che abbraccia però una pluralità di elementi per farsi analisi economica ma
anche sociologica, culturale e politica,
Bevilacqua ci conduce lungo un sentiero che parte dalla metà del XIX secolo
per arrivare ai nostri giorni.
La riflessione da cui lo storico svolge le
sue considerazioni è quella dell’evoluzione negativa che il termine «moderato» ha avuto. Tale appellativo, nato per
definire un pensiero politico ed una conseguente azione rispondente a criteri di
«moderazione», ossia di capacità di equilibrio e di governo anche di forze eversive o estremiste, in grado di mettere in
atto riforme progressive e senza strappi,
ha assunto ai nostri giorni tutt’altre fattezze. I moderati del nostro tempo sono
divenuti «estremisti», portatori di una
perversione del concetto di politica riformatrice. Bevilacqua sottolinea infatti che «il loro atteggiamento e la loro col-
Segnalazioni e recensioni
non è più la rappresentazione di una
modernità ma di una necessità prima
che conferisce significato alle persone
sia nell’estinzione di un’epoca (E. Nesi)
sia nell’avvelenamento di un’etica (S.
Avallone) sia nella rammemorazione di
ciò che è stato (S. Scateni).
Questi romanzi diffondono una sensibilità e un sentimento legati al disorientamento che il presente, nelle sue illusorie manifestazioni, mostra al vivente.
Ma offrono, altresì, una risalita in cui la
responsabilità del pensiero è un’opera
aperta e in cui lo smarrimento ritrova,
nella memoria e nella realtà, il lavoro come fondamento della stessa autenticità
delle persone. La letteratura industriale
del secolo passato, per diversi e complessi motivi, non è riuscita a determinare un’attenzione letteraria generalizzata e rilevante per una scrittura
esemplare della vita industriale e dello
stesso progresso. Eppure il Novecento ha
rappresentato in Italia l’industrializzazione e il capovolgimento di un sistema
economico e sociale. Ciò che ieri la letteratura non è riuscita a rappresentare,
oggi, il valore lavoro, nonostante la sua
assenza nel dibattito politico e scientifico, è rappresentato da alcuni romanzi
che s’incaricano di figurare la lontananza dal lavoro come la vicinanza di un
fondamento indispensabile all’esistenza. È una letteratura dell’assenza che invoca la necessità di un reale, quale la
centralità del lavoro come condizione
per essere nel mondo.
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locazione politica non solo non contrasta, ma anzi favorisce il dispiegarsi di fenomeni economici, sociali ed ambientali
che sono obiettivamente estremi». Difensori di uno statu quo economico e sociale in modo pervicace e privo di respiro, essi mirano, nel nostro tempo, a
mantenere immutata la realtà preservandone i caratteri a loro favorevoli,
mentre non producono alcuna azione
migliorativa delle sperequazioni sociali
drammaticamente evidenti. Questa
aberrazione appare, secondo lo storico,
in tutti segmenti che compongono il
nostro tempo, dall’economia alla politica, dallo sfruttamento delle risorse naturali alla cultura.
Il saggio analizza, capitolo dopo capitolo, in che modo il moderatismo politico
ed il suo pari economico, ossia il liberismo, hanno prodotto l’involuzione politica, culturale, economica e sociale che
oggi viviamo, facendosi promotori di
un mondo fondato sulla smodatezza,
l’eccesso, il superamento del limite che
ogni cosa possiede, la totale assenza di rispetto per l’essere umano e la natura. E
tale analisi viene fatta partendo da quella figura grottesca, a tratti ridicola, che ha
piegato la cosa pubblica ad uso e consumo dei propri interessi e delle proprie
necessità e che ha dominato la scena politica italiana sino al novembre dello
scorso anno. «La più dirompente smodatezza Berlusconi l’ha manifestata sul
piano politico, subordinando, come mai
era accaduto nella storia dell’Italia unita,
il governo del paese e parte del Parlamento ai suoi interessi personalissimi,
mettendo in discussione la divisione dei
poteri e l’indipendenza della magistratura, occupando i mezzi di comunicazione di massa, facendo violenza alla
Costituzione, stracciando le procedure e
le regole della vita democratica, trafficando segretamente con affaristi e criminali». Ora, c’è forse qualcosa che può
apparire come estremismo immorale più
di una condotta politica con queste caratteristiche?
Non è tuttavia sull’antiberlusconismo
che Bevilacqua intesse la sua critica al
moderatismo «estremista», quanto sugli
effetti economici e sociali che la sua base ideologica ha prodotto. Le vicende
della crisi economico-finanziaria hanno
infatti avuto il pregio di risvegliare lo
spirito critico e gli studi attorno ai fondamenti teorici che l’hanno prodotta,
ossia il capitalismo ed il pensiero liberista, determinando una vasta e interdisciplinare produzione saggistica ma anche, e forse in modo più significativo,
un risveglio da quello che lo storico definisce il «sonno dogmatico». «Non solo Karl Marx è stato fatto scendere dalla soffitta [...] ma è una schiera sempre
più vasta di economisti, giornalisti, studiosi spesso conservatori, o di formazione e ispirazione liberal, che muove
critiche radicali al capitalismo nella sua
estrema incarnazione neoliberista». L’attuale società, per dirla con le parole del
Candide di Voltaire, non è più il migliore dei mondi possibili. Si va sgretolando quella visione di naturalità e di
eternità immodificabile che i modi di
produzione capitalistici hanno avuto fi-
nei processi evolutivi in campo sociale,
scientifico, tecnico.
Allo stato attuale, secondo Bevilacqua,
la spinta propulsiva verso l’emancipazione ed il cambiamento, in certo senso naturalmente connessa al modo di
produzione capitalistico, si è esaurita, lasciando spazio esclusivamente alle storture prodotte da esso. Il portato della
globalizzazione economica è fatto di individualismo, profitto per il profitto,
saccheggio dei beni comuni, sfruttamento delle popolazioni e dei territori
del Sud del mondo, in una logica di perpetuazione di una sistema che non ha
più, come contropartita, il dispiegarsi di
quegli elementi positivi che ne hanno
fatto il perno su cui è stata costruita la
società moderna. Perfino i saperi sono
stati asserviti alla logica capitalistica,
perdendo il loro carattere di autonomia e divenendo strumenti delle forze
economiche.
È venuto, dunque, il tempo di rivedere
in modo «radicale» le modalità di produzione e di fondamenti delle nostre
stesse società.
Così come per il termine «moderato»,
anche la parola «radicale» viene analizzata da Bevilacqua. Se il primo ha subito,
nel tempo, una trasformazione in senso
estremo, divenendo nei fatti l’antitesi di
ciò che originariamente incarnava, il secondo ha avuto un destino assai diverso
e certamente una minor fortuna. Nel
nostro paese l’aggettivo «radicale» ha a
lungo identificato un pensiero politico
ben definito e piuttosto elitario, salvo il
permanere del suo utilizzo più comune
Segnalazioni e recensioni
no a questo momento all’apparire, in
modo sempre più tragicamente chiaro,
delle storture e dei disastri che essi hanno prodotto nel dispiegarsi secondo
modalità incontrollate.
L’analisi non si limita tuttavia ad una
semplicistica critica della società capitalistica, sulla scia di un redivivo pensiero
marxista, ma si domanda se il capitalismo non abbia esaurito la sua «doppia
natura» e non sia arrivato il momento di
creare un nuovo concetto di vita, società, lavoro, economia: un nuovo mondo
insomma.
Da un lato, infatti, il capitalismo ha dispiegato la sua natura di sfruttamento e
di asservimento delle popolazioni in nome del profitto e dell’accrescimento del
proprio potere, in funzione di una perpetuazione dei propri modi di produzione e della sua stessa natura.
D’altro canto, però, esso ha portato, come suo naturale prodotto, una «potenzialità di lotta e di trasformazione» manifestatasi nell’ascesa economica e sociale
delle classi lavoratrici, facendosi volano,
in certo senso, della creazione di un proletariato e di una coscienza di classe, con
quelle rivendicazioni e quelle conquiste
che hanno costellato la storia socio-culturale del XX secolo. Ma c’è di più. Esso è stato anche motore del progresso
della scienza e della tecnica, strumenti
attraverso cui ha dispiegato la sua azione innovatrice. Dunque un duplice ruolo quello dell’economica capitalistica,
che ha avuto il compito di disegnare e
definire in certa misura la società moderna, nei suoi tratti negativi ma anche
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ad indicare posizioni politiche estreme,
per certi versi quasi un insulto in termini politici. «Essere radicale significa cogliere le cose, dalla radice, ma la radice
dell’uomo è l’uomo stesso». Recuperando la definizione data da Marx nel 1843,
Bevilacqua prova a dare una diversa interpretazione di questo aggettivo, capovolgendone il senso comunemente affidatogli. Essere radicale significa tornare alla
radice delle cose e dunque affondare lo
sguardo e l’analisi oltre il «belletto ideologico dell’industria culturale», nel tentativo di recuperare l’origine dei fenomeni appunto, al fine di disvelarne la
finitezza. «Per incredibile che possa apparire, viviamo una fase storica nella quale, nonostante l’immenso patrimonio di
conoscenza di cui disponiamo, stiamo
soffocando sotto la coltre di un occultamento totalitario della nostra umana radice». Se le idee dominanti sono quelle
delle classi dominanti, sempre per citare Marx, allora occorre uno sforzo per recuperare le «radici», per comprendere
che la società in cui viviamo e che ci viene presentata come natura, ossia unico
mondo possibile, è in realtà il prodotto
di una costruzione tutta umana. È una
possibilità, non l’unica possibilità, ed è
su questo che i nuovi movimenti spontanei e le nuove scienze, come l’ecologia,
vanno fondando un modello diverso di
società, di economia, di sviluppo del
territorio.
L’elogio è dunque alla volontà di andare oltre, di avere la capacità di creare un
nuovo progetto di mondo e di società.
I movimenti spontanei, da Seattle in
poi, hanno avuto un respiro mondiale,
sono stati transnazionali, hanno coinvolto persone accomunate non dalla
bandiera bensì dalla volontà di cambiamento, ed un esercito sempre più numeroso di scontenti, di privati dei propri diritti e delle possibilità di vivere in
modo dignitoso si va facendo strada,
senza trovare una interlocuzione ed una
rappresentanza a livello politico.
Una nuova Internazionale sembra auspicare Bevilacqua, con connotati politici ovviamente diversi da quelli leninisti, ma capace di dare fiato alle tante
voci che si vanno risvegliando e che
gridano a gran voce la volontà di avere
un mondo diverso.
Antonella De Marco
M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo
(quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 192.
Nel 2007 scoppia negli Stati Uniti quella che viene definita «bolla immobiliare»
le cui conseguenze non tardano a farsi
sentire su tutta la realtà economica americana. Tale grave situazione ha esattamente lo stesso effetto di una pietra gettata in un piccolo stagno che dà luogo a
cerchi concentrici che si allargano lentamente, dilagando in tutto il mondo finanziario.
L’Unione Europea ha da sempre creduto nel liberismo quale motore trainante
del mercato, convinta che quest’ultimo,
lasciato totalmente a se stesso ed alle
proprie meccaniche, fosse in grado di facilitare le produzioni giuste, creare occupazione e far crescere di conseguenza
una sana economia. In questo contesto
generale, quando nel 2011 la drammatica accelerazione della crisi finanziaria
raggiunge le sue coste come un implacabile tsunami, l’Unione Europea si lascia trovare totalmente inerme ed impreparata. La politica di austerità
proposta dal cancelliere tedesco Angela
Merkel non solo non riesce a far fronte
a tale disfatta, ma rischia di far scivolare
tutta l’Unione nel baratro di una nuova
grande depressione.
Dal canto suo l’Italia, guidata da Berlusconi prima e dal governo tecnico di
Monti dopo, ha ricalcato passo a passo
quanto già espresso nei riguardi dell’U-
nione Europea, riuscendo ad esaltare
queste due principali caratteristiche (il liberismo esagerato da un lato e la soffocante austerità dall’altro) ed ottenendo
posizioni di netta rilevanza nella classifica europea per questo triste risultato:
l’aumento spropositato del divario fra
ricchi e poveri, raggiungendo l’emblematico traguardo del rapporto di uno a
dieci.
È infatti proprio questo l’argomento
trattato, nel suo libro, da Mario Pianta,
professore di Politica economica all’Università di Urbino ed uno dei fondatori della campagna «Sbilanciamoci!».
L’autore ripercorre la storia dell’economia mondiale partendo dal Trattato di
Maastricht del ’92 che apre la strada all’Unione economica e monetaria dell’Europa, con l’abbandono degli strumenti «keynesiani» di spesa pubblica e
svalutazione del cambio, ma confidando, forse eccessivamente, nelle potenzialità della domanda privata per investimenti ed esportazioni in un’economia
in via di globalizzazione. In questo scenario però, in base all’analisi del professor Pianta, mancano una politica fiscale comune – armonizzazione delle
imposte, misure di sostegno alla domanda su scala europea, politiche di
contrasto ai paradisi fiscali – e politiche
comuni per l’economia reale che sostengano una convergenza in termini
di produttività, investimenti, esportazioni ed occupazione. Quest’integrazione europea, basata su finanza e liberismo, non ha fatto altro che rendere
più forti economie già forti, mentre per
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■ Recensioni
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altri paesi, in particolar modo per quelli «periferici», non è rimasta altra via che
«arrangiarsi» prendendo direzioni diverse: paradisi fiscali, spesa pubblica finanziata dal debito, bolle immobiliari.
In pratica i governi non hanno saputo
investire, o indirizzare gli investimenti,
sull’economia reale, mentre hanno dato
spazio ad una finanza speculativa che
ha permesso ai potenti di indirizzarsi
dove, senza grandi rischi, si potevano
ottenere maggiori guadagni o minori
tasssazioni. Tutto ciò ha portato alla crisi del debito pubblico all’inizio del 2010.
Pianta ci propone un’analisi dettagliata
della situazione italiana e della distribuzione della «torta» dei redditi prodotti dall’economia, facendo un confronto con altri paesi europei, ed il
risultato è agghiacciante. Ci troviamo di
fronte ad una nazione dove i salari, la
precarietà e la disoccupazione sono tra
i peggiori del continente, ad una struttura produttiva e tecnologica non adeguata a confrontarsi con la concorrenza
internazionale, con imprese troppo piccole, scarsi investimenti in tecnologia e
comunicazione, e sempre maggior distanza tra ricchi e poveri. In media, la
posizione economica di uno degli italiani «super-stra-ricchi» vale quella di
trecentomila italiani poveri.
L’autore non si limita però a segnalare le
pecche di questa situazione politico-finanziaria e gli sbagli che ci hanno condotto ad essa, ma propone anche delle
soluzioni, indica anche cosa si può fare
per risalire la china, per riaffiorare dalle
sabbie mobili in cui stiamo affondando.
Tra le proposte illustrate nell’ultimo capitolo per far fronte al problema sociale
ed economico in cui si trova l’Italia attualmente, assume grande rilevanza una
nuova riorganizzazione della spesa pubblica in tre aree prioritarie: le tecnologie dell’informazione e comunicazione,
l’economia del verde e le attività per la
salute e i servizi sociali. Si tratta di attività ad alta intensità di lavoro con qualifiche medie e alte che permettono un
miglioramento dell’efficienza con ridotto impiego di risorse ed energie, rivolte
al mercato nazionale o a nicchie specializzate del mercato estero in modo tale
da eludere la concorrenza a basso costo
dei paesi emergenti.
Nonostante le numerose proposte che
troviamo in questo testo, alcune domande sorgono spontanee: siamo ancora in tempo per attuare tali manovre
o la crisi è ormai troppo estesa? Siamo in
grado di effettuare questi cambiamenti
nonostante siano così lontani dalla nostra realtà e ne rappresentino un radicale sconvolgimento? La speranza, vissuta
come positiva forza motrice, è l’unica risposta accettabile.
Questo è un libro che tratta argomenti
di grande interesse ed attualità in modo
semplice e diretto. Non contiene suggerimenti volti ad «addolcire la pillola»,
né punta il dito verso una persona specifica a cui attribuire tutta la colpa. L’autore si limita semplicemente a riportare la realtà dei fatti, offrendo spunti e
idee a cui ispirarsi per fronteggiare questa situazione.
È un libro indirizzato soprattutto ai gio-
re unicamente dall’alto, ma scaturire da
ognuno di noi che, nel suo piccolo, deve fare qualcosa. Come sostiene Pianta,
questi nove su dieci devono unirsi e rappresentare il punto di partenza di una
politica forte, in grado di traghettarci
fuori da questa crisi.
Tiziana Pagnani
Segnalazioni e recensioni
vani. Non parliamo certamente di un romanzo da leggere tutto d’un fiato, ma di
un testo «utile e necessario» a cui ancorare le nostre strade future. I ventenni di
oggi, che vivono sulla propria pelle questa grave situazione, devono essere in
grado di capire i motivi che ci hanno
portati fin qui, e percepire la necessità di
un cambiamento che non deve avveni-
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Abstract
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■ Abstract
Stefania Crogi – Bargaining representation proselytizing. The discussion focuses on
the current Italian political situation and, in particular, on the measures adopted by Monti governement related to the reform of pensions and the labor market. The assessment of the attempt to marginalize the union from its negotiating role recalls the need for a close relationship between the revival of bargaining and membership. This consideration regards, also, the negotiation phase of
Flai Cgil and trade union membership is valued as essential to union power and
to achieve concrete objectives for all employees.
Ivana Galli – Membership and organizational policies. The work focuses on the importance for the organization to take root in the territory and to facilitate the
registration of the union and to leverage assertive policies. A territorial presence
that is oriented to the protection and extension of workers’ rights. The paper,
moreover, underlines the importance of the Committees Members in the workplace as a place to participate and to inform about union activities and issues addressed by the organization in general.
Franco Farina – Membership and union. The paper deals with a historical perspective the relationship between membership and bargaining. Especially in the mid
50’s the change of policy claims and contractual structure raised the action and
the membership of the union after the long decline of previous years. The analysis continues with the intention of verifying the validity of the merits of the current collective bargaining and business. The weakening of the effectiveness of
the contractual structure has reduced the attraction of workers into the union
thus promoting a free zone where the relationship between the interests of the
company and the worker are directly reguleted. The paper focuses on the need
of relaunching the content of political claims and, in a logic of discontinuity
with the past claims an intellectual reform of the organization that complies
with a new centrality of the Federations and a reminder of the recover of knowledge and union knowledge.
Adolfo Pepe – Trade unions and membership. The essay, from a broader reflection on
the organizational culture of trade unions, particularly Cgil, analyzes – within
the framework of a long historical period that came today – the evolution of the
affiliation and proselytizing model of trade unions, combining it with the more
general issue of representation and the system of values and identity of the trade
unions.
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Aa.Vv. – Organization models and affiliation policies in Europe. The authors study
the evolution of the affiliation and proselitytizing model of some European
trade unions: Great Britain, France, Scandinavia and Germany. The essays, from
a wide historical and political analyse, put in evidence how the structural change
of the economy, labour market and society influence the redefinition of trade
unions political and organizational strategies, also as membership. Finally they
discusses present and future conseguences of this.
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Alessandra Borello – The reform of the common fisheries policy: its socio-economic effects in the short run. The European Fisheries sector has been experiencing a deep
crisis for years, to which contributed, according to the European Commission’s
Green Book, some structural limits of the Common Fisheries Policy (Cfp). To
solve these problems, the Commission recently proposed a reform intended to
introduce relevant innovations to the functioning mechanisms of the Cfp as well
as a new financial instrument, the European Maritime and Fisheries Fund
(Emff). One of the priorities of the Cfp Reform is to improve the environmental sustainability of the fisheries, which is deemed essential to reach the social
and economic sustainability. On the other hand, given that in the short run environmental goals are in conflict with socioeconomic ones, one wonders what
the socioeconomic effects of the reform will be. This article was aimed to briefly
summarize the contents of the reform proposal and the main changes which will
be introduced by the Emff, in order to suggest some reflection on the possible
effects of these innovations on the socioeconomic conditions of the people employed in fisheries sector in Italy. Here the economic crisis and the policy measures intended to improve the conditions of the stocks have already greatly reduced the number of employed in the sector. The analysis suggests that some elements of the proposals already have the potential to improve the living conditions of the employers, while others should be revised alter having considered
carefully and case by case their possible socio-economic consequences.
Irene Figà-Talamanca – Occupational health and security of women working in agriculture and in the food industry: field study . The paper reports selected results of
a field study conducted by the Metes Foundation in two agricultural enterprises (one in Sicily and one in Tuscany) and two Poultry Processing Industries
(both in Northern Italy), which had the purpose of exploring the work conditions and the health status of women workers in these activities. Data were collected by a questionnaire from 270 women and included socio-economic conditions, occupational health prevention measures, occupational accidents and
diseases reported, subjective health status and the main problems encountered
Abstract
by women in reconciling their working and family life. The results show that the
agricultural workers of Sicily had the most precarious work conditions and were
less informed about work risks and prevention. Women working in the poultry
industry were generally better off, but they too suffered a number of occupational health problems especially in relation to ergonomic factors. The paper
concludes with a series of recommendations for the improvement of the occupational health of these women.
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Sommari dei numeri precedenti
N. 1/2010
Monografia: L’agricoltura e la nuova Pac verso il 2013.
Presentazione, F. Farina.
M. D’Alessio, Introduzione; La riforma dell’Health Chech; La riforma dell’Ocm vitivinicolo; La riforma dell’Ocm ortofrutta; Partenariato e approccio integrato: il contributo delle Organizzazioni sindacali allo sviluppo rurale 2007-2012.
N. 2/2010
Presentazione, F. Chiriaco.
L’analisi, A. Pepe, I congressi di svolta della Cgil; F. Farina, Le costellazioni contrattuali.
Monografie, A. Di Stasi, Dalla cittadinanza del lavoro all’apartheid dei diritti; M.
D’Alessio, Il lavoro migrante per la competitività dell’agricoltura italiana; F.F., I
dannati della terra; E. Olivieri, Schiavismo nel XXI secolo; C. Cesarini, L’essenziale è invisibile agli occhi.
Temi, G. Girolami, I giovani e la pensione: istruzioni per l’uso; L. Svaluto Moreolo, I
giovani italiani e l’emancipazione dalla famiglia.
Documentazione, A. Stivali, Immigrazione e lavoro.
N. 3-4/2010
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione, la qualità del lavoro e la centralità del territorio; A. Pepe, Il sindacato e la contrattazione in una prospettiva storica.
L’analisi, P. Di Nicola, Management e organizzazione nell’impresa contemporanea; M.
D’Alessio, La contrattazione, l’azienda agricola e gli aiuti comunitari; D. Pantini,
La Filiera agroalimentare in Italia.
Temi, F. Assennato, Contrattazione e qualità degli ambienti di lavoro.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, La salute delle donne e il lavoro agricolo.
Documentazione, F. Farina, Il sapere, il saper fare e il saper essere.
Recensioni.
Abstract.
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9-10/2012
N. 5-6/2011
Presentazione, La redazione.
Temi, F. Farina, Distretti agroalimentari e contrattazione territoriale; M. D’Alessio, I
distretti nell’industria alimentare italiana; D. Pantini, Nuovi scenari per l’agricoltura italiana; O. Cimino, Il lavoro salariato nell’agricoltura italiana: un’analisi sintetica.
L’argomento, A. Pepe, L’unità d’Italia tra Europa e trasformazione degli Stati nazionali.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, I bambini e i rischi ambientali in agricoltura.
Recensioni.
Abstract.
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N. 7/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare; A. Pepe, L’accordo interconfederale del 28 giugno in una prospettiva storica.
Temi, M. D’alessio, Il lavoro forestale e le normative regionali in Italia; G. Mattioli,
Energia ed agricoltura.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Il rischio infettivo tra i lavoratori dell’agroalimentare.
Memoria, M.L. Righi, Ricordo di Nella Marcellino.
Abstract.
N. 8/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, Intervista a Stefania Crogi.
Temi, F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda, A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil; D. Pantini, L’approvvigionamento
agricolo nell’era della scarsità e i possibili impatti per l’industria alimentare.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Integratori alimentari: possiamo fidarci
degli antiossidanti?
Recensioni.
Abstract.