Attaccamenti perversi - Società Psicoanalitica Italiana

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Attaccamenti perversi - Società Psicoanalitica Italiana
Attaccamenti perversi *
BENEDETTA GUERRINI DEGL’INNOCENTI
È sempre meglio che chi ci incute paura abbia più paura di noi
Umberto Eco
La bellezza ha dentro il terrore
William Wordsworth
La paura è un’emozione potente e indispensabile per la sopravvivenza. È la
paura che segnala il pericolo ed è la paura che attiva le strategie di protezione. È
un’emozione primaria che svolge una funzione auto-regolativa e relazionale e che si
contrappone, filogeneticamente, al bisogno di sicurezza insito nell’essere umano. In un
certo senso la paura è una trasformazione emotiva del rapporto sensoriale che ciascun
individuo costruisce con il mondo così come ha imparato a conoscerlo (Cyssau, 1997,
citato in Galli, 2000): è quello che si prova quando un evento «sensibile» modifica
l’abitudine e quello che è consueto e familiare diventa imprevedibilmente ostile,
minaccioso, incomprensibile. La paura è l’heimlich che diventa unheimlich; situata sul
confine tra mondo interno e mondo esterno, «è come un custode pronto a provocare una
reazione di allarme nell’animale e nell’uomo» (Golinelli, 2000, 87).
La paura è sempre paura di qualcosa o di qualcuno. Ci sono paure in cui la
presenza/assenza dell’altro gioca un ruolo primario: paure primitive che, come
suggerisce Guntrip (1968), «sono paure non dell’effetto dei nostri bisogni e impulsi forti
e pericolosi, ma della nostra debolezza infantile di essere piccoli e impotenti di fronte ad
un ambiente che o non riesce a darci il sostegno di cui avevamo bisogno da bambini, o è
attivamente minaccioso» (31). «Hilflos», ovvero «senza aiuto»: la dipendenza primaria
del bambino implica un affidamento e una dipendenza totale e incondizionata da un
adulto che ha il compito di essere interprete dell’esperienza somatica del bambino.
Svolgere adeguatamente questa operazione significa, come sottolinea Marta Badoni
(2000, 37), «permettere al bambino di transitare dall’esperienza del bisogno alla
dinamica del desiderio». In altre parole il bambino necessita di una madre che metta e
tenga insieme le sue esperienze sensoriali, che altrimenti resterebbero disorganizzate, e
che dia loro significato. Se l’oggetto primario fallisce in questo compito evolutivo e,
anziché contenere e trasformare, spaventa e disorienta, la paura può diventare
un’esperienza sensoriale dilagante, disorganizzante e in grado di minacciare l’integrità
stessa del Sé. La paura può diventare non solo l’esperienza somatica che non potendo
essere contenuta e trasformata dilaga e saccheggia l’unità mente-corpo, ma può fissarsi
*
Questo articolo è il frutto di lunghe conversazioni e di riflessioni che ho avuto il privilegio di condividere con Sandra
Filippini sulle tematiche del maltrattamento e della perversione relazionale. Avevamo pensato di scrivere insieme
qualcosa che provasse a integrare le sue idee sulle caratteristiche psicologiche del «perpetratore» e sulla dinamica
relazionale perversa con un possibile modello evolutivo di stampo relazionale. La sua prematura scomparsa, quattro
anni fa, ci ha impedito di realizzare questo progetto. Spero, con questo contributo, di rendere il giusto merito
all’originalità del suo pensiero e di pagare, in parte, il mio debito di riconoscenza intellettuale.
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nella memoria relazionale come una minaccia che «sta» nella relazione con l’altro.
L’esperienza dell’altro, che è la forma più immediata e primaria dell’esperienza, può
legarsi così inestricabilmente all’esperienza della paura e del senso di dolorosa e
disorganizzante impotenza che ne deriva da creare uno «stampo» relazionale
profondamente radicato, in parte inconscio e in parte «implicito», in cui alle classiche
strategie difensive «intrapsichiche» si affianca un repertorio difensivo/offensivo più
propriamente «interpersonale».
Esistono dei contesti relazionali patologici, che solo recentemente sono diventati
oggetto di riflessione, le cui peculiari caratteristiche sfuggono, a mio avviso, alla
possibilità di lettura offerte dalle concettualizzazioni tradizionali e che sono intrisi di
una violenza subdola in cui la paura gioca un ruolo fondamentale e potente. Mi riferisco
in particolare al maltrattamento psicologico che, tra tutte le dinamiche relazionali
violente, è la più difficile da riconoscere, perfino per chi ne è vittima, (Hirigoyen,
2005). Sandra Filippini è l’analista italiana che più si è occupata di questo specifico
tema da un versante psicoanalitico (Filippini, 2005; 2005a; Ponsi e Filippini, 2003)
definendo perversione relazionale quella dinamica che si attiva all’interno di una coppia
e che si sostanzia in una serie di comportamenti messi in atto da uno dei due partner allo
scopo di controllare e dominare l’altro, di sottometterlo e trattarlo come una cosa non
umana.
Partirò dalle riflessioni di Filippini per mettere a fuoco un dispositivo relazionale
che a mio parere fa da ancoraggio a questa particolare dinamica in cui due partner sono,
per motivi e finalità diverse, tenacemente e perversamente legati. Ritengo che nel caso
del maltrattamento psicologico, come in altre situazioni nelle quali la fenomenica
psicopatologica si estrinseca prevalentemente nella relazione con l’altro, un modello
evolutivo/esplicativo di stampo relazionale che integri il modello di sviluppo più
caratteristico delle relazioni oggettuali con alcuni contributi dell’infant research, possa
cogliere il complicato intreccio in azione in queste situazioni fra dinamiche
intrapsichiche, interpsichiche e intersoggettive. Questo dispositivo, non
omnicomprensivo, né omniesplicativo potrebbe forse aiutarci a rispondere a una serie
d’interrogativi che queste situazioni ci pongono: chi ha cominciato? Si tratta
dell’incontro, perverso quanto si vuole, di due persone che sono fatte così, oppure è
qualcosa che si attiva in quello specifico incontro che li fa diventare così?
Una prospettiva «disposizionale» per il perpetratore del maltrattamento
Filippini (2005; 2005a) situa il punto di origine delle dinamiche del
maltrattamento nel peculiare profilo di personalità del perpetratore, all’incrocio tra il
concetto di narcisismo e quello di perversione, considerando come ancoraggi principali
della sua argomentazione i concetti di «perversione narcisistica» di Racamier (1992) e
di «perversione relazionale» di Anna Maria Pandolfi (1999).
Quello che Filippini (2005a) ha chiamato il «perpetratore» della violenza
psicologica nella coppia, non è un narcisista tout-court: è necessario che all’assetto
narcisistico di personalità si aggiunga il tratto della perversione:
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«Propongo di considerare i comportamenti di maltrattamento come riferibili ad
una psicopatologia che si estende lungo un continuum che dal disturbo narcisistico,
attraverso il disturbo borderline, giunge fino alle forme più gravi di disturbo antisociale
di personalità. Questa linea continua viene attraversata in un punto da un’altra linea,
quella della perversione: intorno a questo incrocio di linee si forma un alone con varia
densità e dispersione, che rappresenta la gamma dei comportamenti che si possono
denominare come perversione narcisistica, oppure come perversione relazionale,
termine che preferisco. Il primo termine, perversione narcisistica, denota il meccanismo
intrapsichico di questa perversione, mentre il secondo ne mette in risalto la fenomenica
intersoggettiva, relazionale»
Il termine perversione fu usato da Freud per indicare le perversioni sessuali
(Freud, 1905, 1919, 1924, 1927); successivamente, e soprattutto a partire dagli autori di
scuola Kleiniana, il suo significato è andato estendendosi, fino a coprire tutta l’area
semantica che il vocabolo ha nel linguaggio comune.1 Alla voce «perversione» il
dizionario italiano Treccani riporta: «Qualsiasi modificazione, in senso ritenuto
deteriore, patologico, di un processo psichico, di un sentimento o comportamento, di
una tendenza istintiva», mentre al verbo pervertire spiega: «Determinare una
deviazione, un mutamento in senso deteriore; guastare, corrompere». Così Meltzer
(1973) dilata il senso del termine perversione quando afferma che «non c’è attività
umana che non possa essere pervertita, dato che l’essenza dell’impulso perverso
consiste nel trasformare la parte buona in cattiva, conservando l’apparenza della bontà».
Per indicare un tratto di carattere, uno stile relazionale, viene spesso usato il termine di
perversità. Sulla linea di Meltzer il termine può essere usato nel significato letterale di
atti, o comportamenti, o stili di relazione che determinano una deviazione, un
mutamento in senso deteriore, che guastano, corrompono.
L’essenza della perversione come modalità di relazione è quel «qualcosa in più»
rispetto al concetto di narcisismo inteso come disturbo di personalità; quel qualcosa in
più che implica uno spostamento del vertice osservativo, dal contesto intrapsichico,
dominio di gran parte della teoria freudiana e di quella parte della teoria delle relazioni
oggettuali che fa capo a Melanie Klein, al contesto che è dominio dei fenomeni
relazionali interpersonali. La strada a questa prospettiva relazionale in Psicoanalisi è
stata aperta da autori, come Winnicott e Bowlby, che hanno radicalmente modificato
l’ottica evolutiva sostituendo il modello di sviluppo intrapsichico con un modello
relazionale della mente. L’essenza della perversione come modo di relazione consiste
nel trasformare la relazione con l’altro in relazione di potere, nel disconoscere i diritti
dell’altro, nel corrompere la relazione per ottenerne il controllo ed esercitare su di essa
il proprio dominio (Ponsi, Filippini, 2003; Ponsi, 2004).
Quale contesto intersoggettivo precoce possiamo immaginare per
quell’individuo che un giorno, nelle relazioni con gli altri ed in particolare con la
1
La struttura teorica pluralistica che caratterizza la psicoanalisi attuale ha fatto sì che molti concetti, un tempo chiari e
ben definiti, siano andati incontro ad una estensione del loro campo semantico tale da oltrepassare, in alcuni casi, i
limiti stessi della definizione (Cooper, 1991). Il concetto di perversione è senz’altro uno di questi, venendo utilizzato in
psicoanalisi con diversi significati: di perversione sessuale, prima di tutto, ma anche di tratto di carattere, modo di
relazione oggettuale, stile di rapporto, modalità difensiva, forma di pensiero, aspetto del transfert. Sebbene sia un
termine di cui non si può fare a meno risente tuttavia della stessa confusione di cui soffrono molti altri termini-concetto
psicoanalitici: di poter essere cioè usato per indicare, nello stesso tempo, un fenomeno e la sua causa (Filippini, 2005).
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partner, diventerà quello che Filippini ha definito un «perpetratore»? In un lavoro del
2006, comparso sull’International Journal, Svetlana Bonner propone l’idea che la
perversione rappresenti essenzialmente una difesa necessaria alla sopravvivenza, che
prende origine, ed è causata, dall’angoscia che il bambino prova in conseguenza di un
misattunement 2 parentale. Questa difesa è posta in atto per far fronte a minacce
ambientali (della madre-ambiente) intollerabili. Poiché sembra funzionare, viene
mantenuta.
L’autrice assume come punto di partenza un problema di controtransfert: ha
l’impressione che certi pazienti non si possano raggiungere, che impediscano
all’analista l’accesso a un rapporto interpersonale vero e proprio, sebbene
apparentemente siano abbastanza adattati e magari capaci di intrattenere numerose
relazioni. Bonner immagina questi pazienti come persone che abitano in due diversi
mondi: il primo visibile e consensualmente accettabile e accettato; il secondo segreto e
silente: «uno spazio che nasconde le peggiori paure su sé stessi» e orribile fantasie.
Secondo questa autrice la perversione costituisce una sorta di adattamento necessario a
condizioni di sofferenza altrimenti intollerabili. Dunque una difesa.
Facendo riferimento a Freud e a Chasseguet-Smirgel (1978) la Bonner sottolinea
l’importanza dell’impotenza infantile, la helplessness attraverso cui ogni piccolo passa e
che lo rende totalmente dipendente da un altro, un caregiver, una madre, per la
soddisfazione dei suoi bisogni, ma, si può dire, per la vita stessa. Se la madre non
risponde sollecitamente attraverso quell’attività di «rispecchiamento creativo» che,
come dice Winnicott, restituisce al bambino il proprio sé, il bambino rimane in una
condizione in cui, se fosse capace di rappresentarselo, penserebbe di stare per morire. È
il terrore senza nome.
Peter Fonagy, in un lavoro del 1998 dal titolo «Uomini che compiono violenza
contro le donne: la prospettiva della teoria dell’attaccamento», ipotizza un collegamento
tra stili di attaccamento, qualità delle cure parentali e capacità di mentalizzazione. In
particolare Fonagy collega la psicopatologia del perpetratore a uno stile di attaccamento
disorganizzato. La teoria dell’attaccamento costituisce il modello concettuale principale
per comprendere il contributo del fattore relazionale alla regolazione dei comportamenti
di paura che si attivano nei primi anni di vita. In estrema sintesi: ogni bambino
costruisce nel corso del primo anno una strategia di attaccamento nei confronti della
figura di accudimento principale, strategia che è il risultato della qualità delle
interazioni quotidiane avute con la madre, cioè delle risposte della madre in termini di
riconoscimento dei bisogni, disponibilità emotiva e responsività sensibile. Potremmo
dire che ben al di là del riduttivismo semplificante del dato comportamentale, spesso
enfatizzato ed esasperato dai critici dell’attaccamento (anche se non sempre senza una
qualche ragione), la pulsione relazionale alla sicurezza, che Bowlby ha anteposto
gerarchicamente alla pulsione sessuale, si è rivelata elemento indispensabile allo
sviluppo psicologico del bambino.
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In psicologia dello sviluppo la parola inglese misattunement indica l’incapacità del genitore di sintonizzarsi
affettivamente con il bambino.
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«Possiamo pensare che la maggior parte dei nostri comportamenti quotidiani ha
la funzione di mantenere un livello minimo di sentimento di sicurezza; molta parte del
comportamento normale e anche delle manifestazioni cliniche (come certi tipi di
comportamento psicotico e le tossicomanie) diventano più comprensibili se le
consideriamo come tentativi dell’Io per preservare tale livello di sicurezza» (Sandler,
1980, 12)
Si può dire che la teoria dell’attaccamento riguardi da un lato la modalità con cui
l’individuo impara a gestire le situazioni di difficoltà attraverso la relazione primaria di
aiuto (stile o tipo di attaccamento) e dall’altro la possibilità di sviluppare atteggiamenti
negativi o positivi verso la propria stessa esperienza emozionale. Il sistema di
attaccamento funziona come un «sistema psicologico immunitario» (Lyons-Ruth,
Bronfman, Atwood, 1999), facendo da cuscinetto in situazioni di stress psicologico e
mantenendo i livelli di attivazione psicofisiologica entro margini accettabili. Lo stile di
attaccamento infantile, fortemente dipendente dalla qualità della relazione primaria,
influenza in buona parte l’organizzazione precoce della personalità, soprattutto il
concetto che il bambino avrà di sé e degli altri.
Come suggerisce Liotti (2001), si potrebbe riassumere il risultato della
trentennale ricerca sulla categorizzazione dei diversi stili precoci di attaccamento
dicendo che essa riguarda la definizione di come varia il comportamento del bambino
lungo due dimensioni dell’attività mentale: la dimensione della Sicurezza-Insicurezza e
la dimensione della Organizzazione-Disorganizzazione. La prima permette di
differenziare sperimentalmente strategie di attaccamento sicure e insicure. La seconda
permette di differenziare le strategie di attaccamento ben organizzate, sia sicure che
insicure, dall’attaccamento disorganizzato che è considerato, al contrario, come un
fallimento della possibilità per il bambino di sviluppare una qualsivoglia strategia
coerente e organizzata che gli permetta di affrontare con successo le situazioni di
minaccia o di pericolo, sia interne che esterne.
Nello sviluppo normale madre e bambino sono coinvolti in un processo
intersoggettivo che implica la comunicazione affettiva, processo nel quale la madre
gioca un ruolo vitale nel modulare e regolare gli stati emozionali del bambino e che
richiede una continua attività di rispecchiamento affettivo parentale. Una relazione
primaria che offra conforto emotivo e senso di sicurezza fornisce al bambino il contesto
più congeniale per esplorare la mente del caregiver e sviluppare una piena
consapevolezza della natura dei suoi stati mentali. Attraverso l’esperienza di essere
contenuto nella mente della madre come un oggetto pensante, il bambino può strutturare
la consapevolezza di possedere uno spazio interno dove possono essere contenuti e
rappresentati i pensieri, i desideri, le angosce e le rappresentazioni della realtà esterna.
La mente del bambino come contenitore si costruisce cioè attraverso l'esperienza di un
altro contenitore che è la mente della madre; quel contenitore trasformativo (Bion,
1970; Ferro, 1996; 2002; 2007; Ogden, 2003; 2006) che consente le sintonizzazioni e le
metabolizzazioni congiunte che la coppia madre-bambino può sperimentare
creativamente nella situazione di rêverie.
Nella mente della madre il bambino trova sia l'immagine di se stesso come
individuo pensante sia un contenuto rappresentato dalle attribuzioni di significato che la
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madre gli fornisce attraverso il rispecchiamento delle sue espressioni facciali.
Un’acquisizione evolutiva fondamentale in termini di capacità di controllo sulle
emozioni. Il fallimento della funzione riflessiva materna spingerà il bambino a ricercare
modalità alternative di contenimento dei propri pensieri e delle intense emozioni che i
pensieri scatenano in lui.
Main e Salomon (1990) hanno coniato il termine disorganizzato/disorientato per
designare una gamma di comportamenti strani, contraddittori o timorosi che possono
essere osservati in alcuni bambini in occasione del ricongiungimento con la figura
materna dopo una separazione. A loro avviso queste condotte rappresentano un crollo
nell’organizzazione strategica del comportamento funzionale al mantenimento di un
contatto con la figura d’attaccamento in condizioni di stress. Tale crollo sarebbe il
risultato di un paralizzante conflitto fra il bisogno di rivolgersi al genitore per
accudimento e rassicurazione (la «base sicura» di cui parla Bowlby) e la contemporanea
percezione che il genitore possa essere la fonte stessa della paura del bambino per
incapacità, patologia o crudeltà, perché mentalmente incomprensibile, minacciosamente
imprevedibile o apertamente spaventante. Gli scambi precoci con questi caregiver
potrebbero far parte di un contesto di comportamenti sottilmente ostili, minacciosi o
«inspiegabili». L’attaccamento disorganizzato rappresenta infatti spesso il risultato di
relazioni di maltrattamento o di abuso, laddove questi termini si devono intendere non
solo nel loro significato «fisico» o «sessuale», ma in una più larga accezione che
include la trascuratezza, il maltrattamento psicologico, lo sfruttamento e l’abuso
emotivo. Oltre a ciò, una disorganizzazione delle strategie di attaccamento sarebbe la
possibile conseguenza di situazioni traumatiche non elaborate del genitore che, come
«fantasmi nella nursery», scatenerebbero la paura in risposta al bisogno di sicurezza del
bambino.
Lyons-Ruth (2001) e colleghi (Lyons-Ruth e Block, 1996; Lyons-Ruth,
Bronfman e Atwood, 1999; Lyons-Ruth, Bronfman e Pearson, 1999; Lyons-Ruth e
Jacobitz, 1999) hanno ipotizzato che nell’attaccamento disorganizzato la difficoltà del
genitore di regolare l’attivazione della paura sia altrettanto determinante del
comportamento spaventato o spaventante del genitore stesso. In questi casi la relazione
primaria, emotivamente disregolata e diregolante, crea un contesto formativo
intersoggettivo la cui caratteristica principale consiste nel fallimento della
sintonizzazione affettiva; un fallimento che determina nel bambino l’impossibilità di
regolare l’intensità delle emozioni, in primis, la paura.
Se la traumaticità relazionale del contesto evolutivo rimane costante,
l’esperienza mentale della disorganizzazione può tendere a diventare, in questi bambini,
la risposta automatica di fronte a qualunque situazione che attivi il sistema di
attaccamento. Ogni situazione di difficoltà o di vulnerabilità, sia fisica o psichica, per la
quale sia necessario, al tempo stesso, ricercare il contatto per essere rassicurato, ma
temerlo e sfuggirlo per la paura che ne deriva, ogni situazione di questo tipo può
rappresentare per il bambino un’esperienza di discontrollo mentale spaventosa e
insopportabile. E che cosa può fare questo bambino per sopravvivere mentalmente e, al
tempo stesso, far sopravvivere «a qualsiasi costo» la relazione primaria?
La ricerca in questo settore ha documentato lo sviluppo di profili relazionali
peculiari che sarebbero associati alla disorganizzazione nell’infanzia; con il crescere
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delle competenze cognitive in età pre-scolare e scolastica, il bambino disorganizzato
sembra rimodellare le manifestazioni di attaccamento nei confronti della figura
genitoriale in una strategia complessiva basata sul controllo (Kaplan, 1987; Main e
Cassidy, 1988). Tale strategia comporta una rinuncia alla ricerca di conforto e
protezione rispetto ai propri bisogni per esercitare un controllo sul genitore che può
assumere due forme: un controllo di tipo premuroso o un controllo di tipo punitivo.
Questa strategia di coping, che è così immediatamente evocativa di molti aspetti
comportamentali del perpetratore, sembra funzionare come strategia difensiva in grado
di contrastare l’irrompere della disorganizzazione mentale, permettendo in molti casi
anche dei buoni livelli di adattamento sociale; tutto questo si realizza però a spese della
possibilità di sviluppare una relazionalità autenticamente affettiva. Se nella relazione
primaria che fa da stampo a tutte le successive relazioni, la paura si accompagna
pervasivamente al bisogno di sicurezza, la necessità di controllare la paura e il senso
d’impotenza annichilente che ne deriva può diventare necessità di controllare l’altro e di
renderlo emotivamente innocuo. Più i ruoli nella relazione vanno per il verso sbagliato,
più le iniziative di un partner vengono ignorate o cancellate dall’altro, più discontinui e
contraddittori diventano i modelli interiorizzati che regolano le possibilità del rapporto.
Si potrebbe dire che mentre in generale le persone entrano nelle relazioni con
delle aspettative, un perverso relazionale, che è stato un bambino disorganizzato, ci
entra con una strategia. Il dispositivo difensivo basato sul controllo si organizza
all’interno di un modello relazionale in cui si alternano ostilità e impotenza, in cui un
partner agisce a spese dell’altro, e si fissa nella memoria implicita come uno stampo
pronto ad attivarsi al contatto con un controstampo.
La dinamica relazionale perversa: dal controllo premuroso al possesso punitivo
La violenza perversa è sempre caratterizzata da un’ostilità costante e insidiosa;
anche se dall’esterno non appare, nella relazione maltrattante il partner 3 è tenuto
continuamente sotto scacco attraverso un sistematico sovvertimento della logica e della
realtà, entrambi elementi specifici dell’azione perversa, e per mezzo di una modalità di
comunicazione che viene sottilmente, pervasivamente e traumaticamente pervertita e
manipolata. Il perverso relazionale non comunica, si limita ad alludere; mentre rifiuta
ogni autentico scambio, in quanto per lui pericoloso veicolo di contenuti emotivi
potenzialmente annichilenti e disorganizzanti, dà però l’impressione di sapere. In
questo modo disorienta l’interlocutore, che non riesce a reagire. La menzogna, la
derisione e il sarcasmo, l’uso di messaggi paradossali tesi a instillare il dubbio anche
sulle questioni più banali (ad esempio iniziare una frase dicendo «figuriamoci se ti sei
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Sandra Filippini nei suoi lavori sulla perversione relazionale fa riferimento esclusivamente alla dinamica perversa che
si manifesta nella coppia, e in particolare nella coppia eterosessuale. Io ritengo che alcuni aspetti della dinamica
controllante-premurosa/punitiva possano attivarsi in quasi tutti i contesti relazionali. In modo più subdolo e,
auspicabilmente, transitorio anche nella relazione analitica con un paziente il cui tratto perverso abbia questa impronta
marcatamente relazionale. Per questo motivo nel testo ho scelto di non specificare il genere quando mi riferisco alla
«vittima» del perverso relazionale, ma di utilizzare il maschile generico, come è in uso nella lingua italiana.
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ricordata di questo…»), sono le armi che il perverso relazionale usa per squalificare e
soggiogare, per coltivare nell’altro l’idea di essere inaffidabile.
Ma le cose non sono sempre andate così: l’inizio di una relazione con un partner
che combina il fascino del narcisista e la strategia del perverso può essere molto
gratificante. Ruth Stein (2005) ha descritto bene come la persona perversa abbia spesso
un talento del tutto speciale nello stimolare, coinvolgere e affascinare l'altro. Il
narcisista perverso, finché ha bisogno di entrare in possesso dell’altro, può essere
capace di un fascino potente. Potremmo dire che è la faccia premurosa del controllo che
prevale in queste prime fasi e che fa sì che il partner si senta molto coinvolto e possa
avere la sensazione di vivere il rapporto più importante della vita. Questo controllopremuroso, che seduce e manipola al tempo stesso, crea quella condizione di
permeabilità emotiva che rende possibile l’effrazione psichica: una sorta di
colonizzazione, una presa di possesso della mente dell’altro. Il narcisista perverso riesce
così a instillare l’idea che lui solo sa che cosa l’altro veramente vuole, di che cosa ha
veramente bisogno.
«Dietro una facciata di ricca e fluida inventività, che può essere scambiata per
creatività spontanea, si dispiega una strategia del potere che segue un copione spesso
tanto collaudato da apparire naturale e anzi sorgivo, inventato lì per lì, e che dunque a
maggior ragione seduce» (Bolognini, 2007)
Mentre nella relazione con il narcisista l’altro, l’oggetto, può non accorgersi
dell'uso che di lui viene fatto e anzi può provare piacere, almeno inizialmente, nel
partecipare al senso di eccitazione grandiosa del partner, nella relazione narcisisticoperversa a un certo punto si attua un vero e proprio maltrattamento. Ma avendo la
dinamica perversa lentamente e impercettibilmente eroso e disorientato il senso critico
della «vittima», quando il vero e proprio maltrattamento comincia a manifestarsi proprio
la «vittima» non è in grado di riconoscerlo. La perdita della capacità di fare un sicuro
esame della realtà è, infatti, una delle conseguenze della relazione con un narcisista
perverso: una delle più dolorose. Come dice Racamier (1992), «a stare con un perverso,
quando non lo si è, si soffre».
L’oggetto per il perverso relazionale deve poter contenere la proiezione dei
propri aspetti bisognosi, spaventati, impotenti e disorganizzati e, al tempo stesso, la
capacità di accoglierli e di prendersene cura. Per questo il perverso non può agire da
solo: ha bisogno di un altro, di qualcuno che entri in specifica, e non generica, relazione
con lui. La strategia controllante-premurosa/punitiva caratteristica della perversione
relazionale è infatti una strategia difensiva «interpersonale»: questo significa che solo
all’interno di una relazione può estrinsecarsi pienamente e solo all’interno di una
relazione può essere pienamente compresa. Ci deve essere una relazione perché si possa
realizzare un ingranamento, come lo descrive Racamier:
«Molti aspetti dell'ingranamento, osservabili nel contesto originario della
macchina, ma che sono del resto piuttosto familiari, si ritrovano anche sul versante
psichico del meccanismo:
- la provenienza meccanica sottolinea il carattere sia dinamico che ripetitivo
dell'ingranamento, così come noi lo concepiamo;
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- l'idea di un collegamento» completo rimanda a un grado elevato di
organizzazione;
- l'esistenza di almeno due elementi in gioco (le due ruote dentate) ne definisce
la dimensione intrinsecamente interattiva;
- il fatto che gli elementi stessi vengano a formare, in stato di movimento, un
insieme unico (l'ingranaggio) fa pensare alla potenza unificante di tale
”accoppiamento”» (61).
Quando uno stampo, il perpetratore, modellato dalla strategia perversa incontra
un controstampo, la vittima, modellato, ad esempio, da esperienze precoci di
sottomissione, violenza o trascuratezza, si realizza l’ingranamento. Sta qui la
dimensione intrinsecamente interattiva del meccanismo psicopatologico: il perverso ha
bisogno di un altro e di un altro specifico, che possieda cioè, fra i molti possibili copioni
relazionali, quelli che meglio si adattino all’attualizzazione ed esternalizzazione della
sua specifica dinamica intrapsichica.
Questo è un punto fondamentale per capire la forza di un attaccamento perverso:
le persone che maltrattano gli altri allo scopo inconscio di esteriorizzare i propri conflitti
tendono a diventare dipendenti dalle loro vittime. Anche Cohen (1992) parla della
perversità, cioè del maltrattamento (mis-use) di una persona da parte di un’altra, come
di una forma di dipendenza patologica, un’organizzazione difensiva stabile e molto
resistente al cambiamento. Ma questa dipendenza è tanto inconsciamente potente quanto
consciamente insopportabile; relazioni emotivamente coinvolgenti possono essere
vissute come una minaccia all’integrità di un sé precario che ha adottato difensivamente
una strutturazione narcisistica. La soluzione immediata è quindi quella
dell’esteriorizzazione del conflitto, della proiezione sul partner del senso di confusione
disorganizzante e d’impotenza e della propria identificazione con il genitore che
spaventa, con il trionfo, maniacale, che ne deriva.
L’empatia, quando è presente, è totalmente asservita alla strategia controllantepremurosa/punitiva. Si svuota della presenza emotiva dell’altro e si attiva solo verso
quella parte di sé che il perverso relazionale espelle nell’altro e che rivede quando riesce
a farlo soffrire, supplicare, dibattersi. Gli uomini – dice Fonagy a proposito degli
uomini che esercitano violenza sulle donne (1998) – provano, dopo questi episodi,
calma, calo di tensione, come il «ripristino di una Gestalt interiore», uno strano stato di
tranquillità. «La calma rappresenta la riuscita distruzione dell’indipendenza psichica
della donna. Lei è ancora una volta solo il veicolo dei processi proiettivi patologici del
suo partner».
Se noi ritorniamo al modello relazionale dell’attaccamento disorganizzato, è
possibile pensare che in una relazione primaria del tipo di quelle descritte in precedenza,
il bambino che viene invaso da aspetti scissi della mente del genitore, spesso bizzarri e
paurosi, talvolta apertamente crudeli, espulsi sotto forma di emozioni primitive, non
potendo né proteggersi né rassicurarsi, si disorganizza. Nei casi in cui il processo di
sviluppo prenda la via della difesa perversa, anziché altre strade certamente possibili, il
controllo punitivo dell’altro potrebbe rappresentare l’unico baluardo contro la minaccia
della disintegrazione o dell’annichilimento del Sé.
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L’attaccamento perverso ovvero il legame come terzo soggetto del dramma
E queste, potremmo dire, sono le «ragioni» del perpetratore; ma cosa possiamo
dire della singolare acquiescenza che molte vittime di una relazione maltrattante
mostrano verso il partner? Come si spiega la difficoltà delle vittime a capire la natura
perversa del legame e a liberarsene? Molti, con non poche ragioni, potrebbero obiettare
che per rispondere a queste domande non è necessario trovare un nuovo costrutto o un
nuovo modello esplicativo dal momento che esiste il concetto di sadomasochismo
(Kernberg, 1995; De Masi, 1999). Tuttavia ritengo, in accordo con quanto sostenuto da
Sandra Filippini (2005), che, sebbene non sia in generale utile moltiplicare termini e
concetti, nel caso di questa particolare dinamica relazionale il concetto di
sadomasochismo non sia del tutto adeguato a descrivere il fenomeno per almeno quattro
buoni motivi:
1. In primo luogo il termine «sadomasochismo» connota soprattutto la
perversione sessuale e mette in risalto il piacere che entrambi i componenti della
coppia traggono dal loro modo di relazione. Nel caso della perversione
relazionale la componente sessuale, laddove venga coinvolta nella dinamica
perversa, rappresenta solo uno dei possibili strumenti offensivi e di controllo,
mentre prevalgono nettamente, in termini di dinamica interpersonale, i
meccanismi legati al controllo della mente dell’altro attraverso la manipolazione
sistematica di ogni regola di logica, di veridicità o di giustizia;
2. Nella relazione sadomasochista ci può essere inversione dei ruoli; nel caso
della perversione relazionale, al contrario, un’inversione dei ruoli non c’è mai
perché il perverso non la può permettere. Egli può esercitare soltanto il potere
nella relazione e trarre da ciò una forma di piacere, che forse si avvicina di più
ad una sorta di ripristino di una condizione interna di equilibrio e di sicurezza;
3. Nella mia esperienza come consulente di un centro anti-violenza ho avuto
modo di rendermi bene conto che la vittima non prova alcun piacere: può
provare confusione, sconcerto, perplessità, può sentirsi depressa e
colpevolizzarsi, oppure, su un registro più maniacale, può illudersi, almeno
all’inizio, di poter curare il partner, magari addirittura di «guarirlo», senza
avvicinarsi mai a qualcosa che si possa chiamare piacere;
4. In questi casi utilizzare il costrutto del sadomasochismo espone, oltre a tutto,
al rischio di biasimare la vittima, come giustamente sottolinea Nancy Mc
Williams (1994), come se essa stessa provocasse coscientemente la violenza per
cercare qualche forma perversa di godimento.
Nel suo testo Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Freud afferma:
«Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come
oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in questa accezione più ampia, ma
indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è allo stesso tempo, fin dall’inizio,
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psicologia sociale». La coppia è una situazione esemplare in cui si ha la presenza reale,
concreta dell’altro come modello, oggetto, soccorritore, nemico. Alcune di queste cose
o tutte insieme. L’interazione tra due partner di una coppia è determinata in gran parte,
sebbene non interamente, da quella che Sandler (1976) definisce «la relazione di ruolo
intrapsichica» che ciascun partner tenta di imporre all’altro. Il processo di scelta
oggettuale si compie a partire da un’esplorazione dell’oggetto che si realizza per mezzo
di «manipolazioni di prova» che hanno lo scopo inconscio di testare le caratteristiche
dell’oggetto e la sua possibilità di adattarsi alle proiezioni e alle attualizzazioni delle
dinamiche relazionali inconsce. L’altro è quindi sempre parte integrante del mondo
interno del soggetto e svolge, spesso inconsapevolmente, a volte addirittura suo
malgrado, una funzione: che sia per definire l’identità personale, per mantenere la
coesione del Sé o per venire usato, colonizzato o parassitato affinché la sofferenza che
può solo essere agita o evacuata, trovi un contenitore (Nicolò, 2005).
Se noi pensiamo alle situazioni di maltrattamento psicologico avendo in mente
questo specifico modello relazionale, potremmo leggere le dinamiche psicopatologiche
non più soltanto alla luce dei paradigmi classici, ma piuttosto, come ipotizza anche
Sandra Filippini nei suoi lavori sulla perversione relazionale, alla luce delle
caratteristiche del contesto nel quale la relazione si realizza e di come quelle specifiche
caratteristiche possano attivare aspetti dissociati e silenti del Sé. L’isolamento sociale e
affettivo, la clandestinità, particolari condizioni di sospensione delle coordinate spaziotemporali, l’ambiguità di cui parlano Bleger (1967) e Amati-Saas (1992), sembrano
essere tutti elementi costituenti un campo, come direbbero i Baranger (1990), o meglio
un legame, come lo definisce Anna Nicolò (2005).
È proprio il legame che diventa il nuovo soggetto psicopatologico:
un’organizzazione psicopatologica transpersonale costituita da ambiti di condivisione
inconscia che, una volta entrati in risonanza e trasformati in un nuovo soggetto, sono
inscindibili dall’apporto delle persone che interagiscono. Questo legame esiste in ogni
coppia sotto forma di potenziale relazionale; è, nella bella metafora usata da Anna
Nicolò, il palcoscenico sul quale si mette in scena la vita di coppia, il luogo del pensiero
e delle sue ricche e multiformi rappresentazioni. Ma se il pensiero è un pensiero
perverso, un pensiero che non pensa, se l’agire prevale sul pensare, sul parlare e sul
rappresentare, allora il legame diventa il personaggio principale del dramma, un terzo
soggetto che opera tra i due membri della coppia e li influenza potentemente. Nelle
relazioni di coppia dove il tratto perverso si manifesta nella forma del maltrattamento
psicologico la potenza perversa del legame consiste nell’immergere la «vittima» in una
sorta di ottusa intimità che confonde e rende ambigua la natura di quello che passa: il
controllo viene spacciato per premura, l’ostilità per ironia, la manipolazione per
interesse e accudimento.
SINTESI
Il maltrattamento psicologico si radica in un contesto relazionale patologico che solo
recentemente è diventato oggetto di riflessione e che, per le sue peculiari caratteristiche, sfugge
alle possibilità di lettura offerte dalle concettualizzazioni tradizionali. A partire dal concetto di
perversione relazionale, questo lavoro si propone di mettere a fuoco un dispositivo che possa
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spiegare la particolare dinamica in cui due partner sono, per motivi e finalità diverse,
tenacemente e perversamente legati. L’autrice ritiene che nel caso della perversione relazionale,
come in altre situazioni nelle quali la fenomenica psicopatologica si estrinseca prevalentemente
nella relazione con l’altro, sia necessario un modello evolutivo/esplicativo di stampo relazionale
che possa cogliere il complicato intreccio, in azione in queste situazioni, fra dinamiche
intrapsichiche, inter-psichiche e intersoggettive. Un tale dispositivo potrebbe aiutare a
rispondere a una serie d’interrogativi che queste situazioni pongono: Chi ha cominciato? Si
tratta dell’incontro, perverso quanto si vuole, di due persone che sono fatte così, oppure è
qualcosa che si attiva in quello specifico incontro che li fa diventare così?
PAROLE CHIAVE: Relazioni perverse, perversità, attaccamento disorganizzato, dinamica
relazionale perversa, strategia controllante premurosa/punitiva.
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