Dopo il 13 novembre di Parigi: più geopolitica che geo
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Dopo il 13 novembre di Parigi: più geopolitica che geo
LECTURE Dopo il 13 novembre di Parigi: più geopolitica che geo-economia? Lecture di Pascal Lamy 25/11/2015 www.scuoladipolitiche.eu Piazza Sant’Andrea della Valle, 6, 00186 Roma c/o AREL N°1 Lecture - 11/2015 A cura di Alessandro Aresu e Andrea Garnero Traduzione di Maria Vittoria Prest _______________________________________________________________________________ After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 2 La geo-politica è tornata a surclassare la geo-economia? A seguito degli eventi del 13 novembre 2015 di Parigi, dobbiamo riconsiderare la relazione tra geopolitica e geo-economia. La geopolitica è tornata al centro dopo un periodo in cui tutti abbiamo pensato che fosse la geo-economia a governare il mondo? La mia generazione ha vissuto questa grande trasformazione che noi chiamiamo globalizzazione e per alcuni decenni si è pensato che la geo-economia fosse il processo che avrebbe condotto, nel mondo, a politiche più pacifiche. Questa è stata la concezione più diffusa e rilevante per molto tempo, ma negli ultimi anni “il vento sembra aver cambiato direzione”. C’è stata una gravissima crisi finanziaria, economica e sociale. Sono aumentati i problemi, anche in Europa, inerenti alla sicurezza. Il terrorismo si è fatto più forte. Questi sono i numerosi segnali che il mondo potrebbe diventare più “instabile”, più spaventoso e più pericoloso rispetto al passato. Sono proprio queste considerazioni che ci riportano alla nostra fondamentale domanda: la geo-economia e la geopolitica sono sincronizzate tra loro o meno? La globalizzazione delle infrastrutture economiche porta alla globalizzazione delle sovrastrutture politiche? Se, quindi, la globalizzazione delle infrastrutture economiche crea più stabilità, fa sì che anche le sovrastrutture geopolitiche siano parimenti più stabili? Naturalmente questo è un quesito importante per noi europei in quanto l’integrazione europea è, al momento, l’unico esperimento conosciuto di sinergia tra l’integrazione geo-economica e quella geopolitica. Il mio intervento si focalizza su tre punti essenziali: 1. Perché si pensava che la geo-economia avesse progressivamente superato la geopolitica? 2. Perché la geopolitica è tornata al centro del dibattito? 3. Che cosa significa questo per il “progetto” europeo? After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 3 La supremazia della geo-economia Incominciamo con la teoria secondo cui la geo-economia prevale sulla geopolitica, ipotesi nella quale il mondo della ragione e dei calcoli razionali supererebbe il mondo delle passioni e delle emozioni. Un ottimo esempio di questa scuola di pensiero è probabilmente il libro di Tom Friedman Il mondo è piatto, pubblicato nel 2005. “Il mondo è piatto” per via di un’integrazione geo-economica in cui la concorrenza mette sullo stesso livello i diversi sistemi di produzione. Tale livellamento porta a più efficienza e, di conseguenza, a un mondo più prospero per tutti, mitizzando le cause sociali ed economiche che portano insoddisfazione, frustrazioni, tensioni e conflitti. Non vi fornirò dati specifici, ma questo è, in breve, ciò che è successo negli ultimi 30-50 anni. Nessun momento della storia dell’uomo fino ad ora aveva visto un numero così grande di persone uscire dalla povertà e così rapidamente. Il numero di persone uscite dalla povertà ed entrate nella classe media è di un miliardo rispetto ad un mondo che è sette volte tanto. La causa primaria di questo fenomeno è sicuramente lo sviluppo tecnologico che, fra le altre cose, ha ridotto il costo delle distanze, come già successo nelle prime ondate di “globalizzazione” che hanno comportato dal 1500 una serie di salti in avanti. La rivoluzione informatica è sicuramente un primo esempio di progresso, ma è solo uno tra molti altri. Anche l’invenzione dei container ha ridotto drasticamente il costo dei trasporti. I costi legati alle distanze geografiche si sono ridotti, la divisione internazionale del lavoro è rapidamente aumentata. Siamo stati testimoni dello sviluppo di un processo di multi-localizzazione dei sistemi di produzione: quello che in genere era prodotto in un paese, ora è prodotto in cinque, sei, dieci paesi e questo fenomeno riguarda sia i beni che i servizi. La progressiva espansione di queste catene di valore globali ha portato ad un intenso aumento dell’efficienza economica. Secondo la scuola classica di pensiero economico, Ricardo-Schumpeter, volumi più alti, mercati più grandi, più concorrenza ed efficienza, conducono a maggiore crescita. E più crescita significa maggior benessere, o più precisamente un aumento della capacità di incrementare il benessere. Un ulteriore quesito riguarderebbe il come, ovvero quali sono le condizioni che hanno permesso l’incremento dell’efficienza e creato più crescita (economica, After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 4 sociale), poi trasformata in benessere. Quesito complesso e che non sarà, perciò, parte del mio intervento di oggi. La teoria generale, quindi, riferisce che se c’è un aumento nella crescita, ci sarà anche un aumento del benessere e della felicità, mentre diminuiranno le sofferenze. Questo processo porta quindi a più pace e meno violenza. In altre parole, porta a un periodo che si distingue per l’espansione del mercato capitalista delle democrazie liberali. Naturalmente, come sappiamo, non tutti i paesi di questo mondo sono democrazie liberali, ma se mettessimo a paragone la situazione di oggi con quella degli anni ’60/’70, noteremmo decisamente la differenza. Nel complesso, quindi, questo processo è stato qualcosa di estremamente positivo che ha portato tra l’altro alla caduta del muro di Berlino dopo il fallimento del sistema economico sovietico. La geopolitica dell’Impero sovietico si è sgretolata proprio per ragioni economiche. Il sistema comunista è un chiaro esempio di come la questione dell’efficienza economica abbia portato al crollo delle strutture politiche. Abbiamo assistito ad un fenomeno del genere in un’altra area: nella relazione tra USA e Cina. Vi sono innumerevoli ragioni che spiegano le tensioni geopolitiche tra i due paesi, ma in un sistema economico in cui l’economia degli Stati Uniti si trova in una situazione di “deficit cronico” in particolare con la Cina, questo porta a una situazione in cui i risparmi cinesi finanziano il deficit commerciale degli USA. Questo è un esempio di interconnessione economica, una sorta di interdipendenza che porta stabilità: nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero divenire più aggressivi con la Cina, la Cina potrebbe usare questa interdipendenza come deterrente e viceversa. Abbiamo anche visto la crescita demografica dell’America Latina che per 30-40 anni ha coinciso con una organizzazione economica del mercato più aperta e liberale. Ancora: simili sviluppi si sono registrati in Africa, che è il prossimo continente che sta emergendo laddove, almeno in alcuni paesi, anche se non tutti, vediamo lo sviluppo della classe media. La crescita, aumentata dal 5 al 6%, ha portato a una stabilizzazione in quelle aree che prima erano caratterizzate da numerose e accese tensioni. Durante questo periodo di tempo e secondo questa tesi, la governance globale è migliorata e si sono susseguiti numerosi eventi, come l’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che tra l’altro conosco molto da vicino. A metà degli anni Sessanta, la creazione della Corte Penale Internazionale è stata un grande passo in avanti in termini di organizzazione dei After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 5 sistemi governativi mondiali, in quanto ha significato che i leader nazionali possano essere perseguiti per i loro comportamenti nei confronti dei rispettivi popoli. È sicuramente vero che nel 2008 vi è stata un’enorme crisi ma, nel complesso, potremmo dire che non ha condotto a fenomeni simili a quelli registrati durante la crisi degli anni Trenta, con una forte ondata di protezionismo e tensioni geopolitiche le quali, secondo gli studi di numerosi storici, si sono aggiunte alle cause che hanno condotto allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Al contrario, le crisi registrate più recentemente hanno comportato la creazione del G20, un nuovo tentativo su cui fare affidamento nel cercare di coordinare al meglio l’organizzazione dell’economia mondiale. Complessivamente la geoeconomia ha prodotto risultati positivi, ha condotto ad un mondo più pacifico e, in qualche modo, anche ad un ordine migliore. La geo-economia che guida la geopolitica è anche il fondamento logico delle sanzioni economiche o commerciali: questo metodo che ha concorso all’abolizione dell’apartheid in Sud Africa, sembra abbia contribuito alla stipulazione di un accordo sul nucleare con l’Iran, e potrebbe funzionare con la Russia in Ucraina. Il ritorno della geopolitica? Guardando, però, al recente passato, sembrerebbe che questa teoria non sia più valida. Tra l’11 settembre 2001, la guerra in Iraq, la lotta contro al-Qaeda, la Primavera Araba, l’ascesa dello Stato Islamico (Daesh) e la guerra in Siria, abbiamo assistito a grandi momenti di disordine. Pensiamo anche alla riaffermazione della supremazia territoriale cinese sulle isole nel Mar della Cina e all’annessione della Crimea alla Russia: questo è un tipico ritorno a comportamenti di supremazia territoriale degli Stati, un fenomeno a cui non si era assistito da molto tempo, da quando l’Iraq aveva invaso il Kuwait, con la conseguente reazione delle Nazioni Unite. Consideriamo anche quanto accaduto in Africa, in questo “arco” che va dalla Nigeria, Mali, Sahel alla parte orientale del Corno d’Africa, Sudan, Eritrea, che sotto certi punti di vista sta diventando una zona incontrollabile. E naturalmente, pensiamo a quello che accade in Iraq e Siria, che è un effetto collaterale dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, della Primavere Arabe, di Daesh, dello jihadismo e delle varie ondate di attacchi terroristici. Infatti quello che è successo a Parigi, il 13 novembre, è solo uno di una serie di attacchi terroristici nel After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 6 mondo, incluso la caduta dell’aereo russo in Egitto e l’attacco che ha avuto luogo in Libano la settimana prima degli attentati di Parigi. Sembrerebbe che viviamo in una situazione nella quale il mercato, l’economia non riescano più a guidare il mondo verso una realtà pacifica. Invece, sembra proprio che la passione, il fondamentalismo religioso, l’odio, le emozioni ed il problema dell’identità ci stiano portando in una situazione di grandi conflitti. Questo è il motivo per cui dobbiamo tutti porci una domanda fondamentale: perché sta accadendo tutto ciò? Rivolgendo la nostra attenzione alle varie teorie, troviamo sostanzialmente tre tipi di spiegazione. La prima è quella degli storici, secondo cui questo enorme riequilibrio della geoeconomia innescato dalla globalizzazione – la progressiva affermazione della Cina, dell’India, del Brasile, del Sud Africa, dell’Indonesia come nuove potenze economiche – non può tradursi in un nuovo ordine politico senza conflitti e guerre. Questo è il fenomeno che gli studiosi della storia della geopolitica chiamano la Trappola di Tucidide. Se osserviamo la Storia, nessuno di questi casi di riequilibrio geo-economico grazie ai progressi tecnologici è mai avvenuto in modo pacifico, laddove guardiamo alla storia più recente del Giappone, o a quella della Germania della fine del Diciannovesimo secolo. Quindi, in base a questa teoria, i cambiamenti geoeconomici hanno generato tensioni che devono essere affrontate e risolte attraverso guerre o conflitti, generando così un nuovo ordine. Questo concetto è presente nel pensiero geopolitico. Penso alle analisi che trattano la nostra ipotetica entrata in una “Nuova Guerra dei Trent’Anni” come gli eventi tra il 1618 e il 1648 che portarono poi alla pace di Westphalia. Secondo questa spiegazione, non vi può essere aggiustamento senza esplosione. Esiste un altro ordine di spiegazioni secondo cui queste tensioni esisteranno fino a quando non riusciremo a creare un ponte di collegamento tra l’economia globale e le politiche globali e, contemporaneamente, anche a sopravvivere in situazioni di incompatibilità tra l’economia globale e le politiche locali. Perché prendiamo in considerazione l’economia a livello mondiale? Il motivo sta nel nostro stile di vita – mercato capitalista – in cui le regole del gioco sono tutt’altro che semplici e uguali per tutti: due più due fa quattro in qualunque parte del pianeta. Ancora, Ricardo e Schumpeter hanno illustrato come funziona il sistema. Quello che cinesi, indiani, sudafricani, americani ed europei hanno in comune è il fatto che tutti operano in un mercato capitalista rispettando e ponendo in atto le stesse regole e i comportamenti fondamentali. Il capitalismo globale, come abbiamo After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 7 detto, si preoccupa sempre meno delle distanze. Lontano è bellissimo. Alla fine, i problemi globali rimangono estremamente distanti e, per la maggior parte delle persone di questo pianeta, completamente al di fuori delle loro competenze. Di conseguenza i politici sono responsabili a livello locale. Dobbiamo, però, ricordare che non tutti i paesi sono democratici, perciò non considerano la legittimità al nostro stesso modo. La democrazia è la forma migliore di legittimità sulla base del nostro sistema di valori, ma ne esistono altri tipi, come quello cinese. Il sistema cinese non è democratico ma vi assicuro che il punto di vista dei politici cinesi rappresenta molto di ciò che la popolazione cinese crede, vuole e non vuole. Non si tratta di una mera dittatura che impone le sue idee alla popolazione. Il partito necessita di legittimazione. Nel nostro sistema, inevitabilmente, i leader politici sono soprattutto responsabili nei confronti degli elettori locali e in qualche modo, lo sono anche nei confronti del resto del mondo. Questo crea un’enorme ondata di problemi di coordinazione in quanto in molti casi il modo di agire di un paese fa sì che, in un mondo totalmente interconnesso grazie alla tecnologia e all’economia, si producano reali conseguenze anche nei confronti dei paesi limitrofi. Abbiamo servizi pubblici a livello globale, ma i voti rimangono all’interno dei singoli paesi. Se la Banca Centrale degli USA, la Federal Reserve, deve prendere una decisione, si prenderà le sue responsabilità di fronte all’opinione pubblica degli Stati Uniti, ma non nei confronti di quella cinese o europea. Di conseguenza, il divario tra il funzionamento del sistema globale e le politiche che rimangono locali e interne ai singoli Stati, spiega i fallimenti di coordinazione che hanno portato a queste tensioni e crisi. Il terzo ordine di spiegazioni è che le recenti “ondate di identità” hanno molto a che fare con la velocità e la forza delle recenti “ondate di globalizzazioni”. All’interno di questa scuola di pensiero vi sono due tesi completamente opposte e differenti tra loro. a) Alcuni pensano che la globalizzazione abbia beneficiato tutti e abbia ampiamente ridotto la povertà, che è una cosa positiva, ma ha anche aumentato in maniera formidabile le disuguaglianze. Uno schema alla Ricardo-Schumpeter, più efficiente e più violento – più efficiente proprio perché più violento e più violento proprio perché più efficiente – che ha portato a squilibri distributivi ben conosciuti e ben diagnosticati. In un sistema più aggressivo di competizione e innovazione, il più forte batte il più debole. Le disuguaglianze crescono in quanto non sono affrontate After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 8 come dovrebbero dai sistemi locali, in termini di educazione, sicurezza sociale e di eguaglianze nelle opportunità, portando all’aumento dei disordini sociali. Se si guarda a quello che è stato scritto dopo gli attacchi di Parigi dai media internazionali, parte di quello che leggiamo ha che fare con il fatto che c’è un terreno ricco di disagio sociale che porta gli individui ad aderire a gruppi terroristici in nome di una dottrina che trovano in alcuni libri religiosi. Si tratta di un’islamizzazione del radicalismo e non di una radicalizzazione dell’islamismo. Quindi in un certo senso, secondo questa teoria, è la velocità e la forza della globalizzazione che sono all’origine di queste tensioni. West side story è riproposto con atrocità. b) Altri ancora credono che la perdita delle identità abbia a che fare con globalizzazione, ma in modo diverso rispetto alla prima teoria: i tumulti accadono in luoghi che sono rimasti al di fuori della globalizzazione. Ne troviamo le prove, se guardiamo al mondo arabo e più precisamente a quella parte del mondo arabo che pratica un’interpretazione radicale fondamentalista del Corano: la maggior parte di questi fenomeni è fuori dai giochi della globalizzazione. Questi soggetti rigettano la globalizzazione, non la mettono nemmeno in pratica. Vi darò un esempio che mi ha sempre colpito. Quando lavoravo all’OMC, ho collaborato con altri leader di organizzazioni internazionali incluso il mio caro amico Antonio Guterres, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con cui a volte mettevo a paragone le nostre rispettive mappe geografiche di competenza. Eravamo soliti porre sul tavolo la “mappa del mondo secondo l’OMC” nella quale si vedeva dove avevo i “miei” membri e dove non li avevo. L’OMC conta circa 170 membri, praticamente tutti i paesi del mondo tranne 10-20. Lui metteva sul tavolo anche la sua mappa sulla quale erano indicati i “suoi” clienti. I “suoi” clienti si trovavano dove io non avevo i “miei”. Esiste uno strano spazio sul nostro pianeta se guardiamo la mappa dell’OMC, che parte dall’Afghanistan (fino a poco tempo fa), passa attraverso l’Iran, il Libano, la Siria, l’Iraq, lo Yemen (fino di recente), e arriva al Sudan. È un arco dove si concentrano tutti i non-membri dell’OMC. Al di fuori di quest’arco si trovano solo l’Algeria e l’Etiopia, che stanno negoziando il loro accesso, e la Corea del Nord. After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 9 Questi sono anche i luoghi dove l’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) deve spendere la maggior parte delle risorse per i campi profughi. Questo è un esempio cruciale di questa tesi. Così approssimativamente si spiegano le recenti turbolenze geopolitiche. Non sono ancora sicuro di essermi fatto una mia personale e corretta interpretazione che possa stare in piedi intellettualmente ed essere comprovata da fatti oggettivi, ma quello che è sicuro è che questi sono elementi di quanto sta succedendo. Le teorie a cui ho appena fatto accenno naturalmente devono essere aggiustate alla luce degli eventi. Se prendiamo la prima teoria – quella della “globalizzazione felice” – dobbiamo ricordare la guerra nei Balcani, il genocidio in Ruanda e le tensioni ancora oggi esistenti tra Israele e Palestina. Di conseguenza, non è sempre stata una “globalizzazione felice”. Però, soprattutto di recente, abbiamo ricevuto buone notizie dall’America Latina, in paesi come la Colombia o Cuba. In Europa, potremmo avere dei movimenti secessionisti in Scozia e Catalogna, ma abbiamo anche visto la fine del terrorismo basco e irlandese. Si può adottare sia la prima tesi, secondo cui stiamo attraversando fasi di globalizzazione in qualche modo sconnesse fra loro, su cui però prevarrà il trend di lungo periodo della tecnologia e dei sistemi aperti; oppure si può adottare la seconda teoria per la quale i paesi continueranno a essere in competizione e a combattere a causa di interessi e/o valori, realtà o finzioni. In entrambi i casi quello che è sicuro è che le diseguaglianze contano e che c’è uno scontro impari tra l’unificazione dei sistemi economici e dei comportamenti di produzione da una parte, e, dall’altra parte le eterogeneità delle identità di valori che ruotano attorno al nesso di prossimità vs distanza. Sorge, quindi, una domanda importante per il futuro – non è originale, ma considerando quello che sta succedendo, è giusto porla –: «Alla fine, che cos’è che ci lega assieme?». Sappiamo che parte della risposta è l’economia. Sappiamo che siamo diventati completamente interdipendenti. Sappiamo che la tecnologia ci lega insieme sempre più. I problemi che si pongono in termini di etica (rapporto cervello-macchina, l’impatto delle bio-tecnologie, i problemi ecologici) rimangono a livello globale. Ma se i nostri orientamenti religiosi, spirituali, intellettuali o filosofici, le nostre tradizioni, le nostre attitudini mentali e la nostra lealtà, saranno in grado di far fronte a questi problemi, è qualcosa che penso rimanga senza risposta. After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 10 Il futuro dell’Europa Questo mi porta alle mie considerazioni finali: «Che cosa vuol dire tutto ciò per gli europei?». Questo è il principale problema per noi europei. Come ho detto all’inizio, se guardiamo alla dialettica tra la globalizzazione economica della geoeconomia e la localizzazione politica della geopolitica, il progetto europeo era, fin dall’inizio, pensato, creato, promosso come una sinergia tra geo-economia e geopolitica. Quello che Monnet, Schuman e De Gasperi hanno chiamato “solidarietà di fatto” è la chiave delle dinamiche dell’integrazione europea che abbiamo conosciuto fin dal 1950. La credenza fondamentale dei padri fondatori era che l’integrazione geoeconomica dovesse creare l’integrazione geopolitica. Se questa sorta di chimica avesse funzionato creando più consumatori e lavoratori, questi consumatori e lavoratori avrebbero riconosciuto di stare meglio grazie alla costruzione europea. Questo poi avrebbe creato supporto e legittimità per alimentare lo stesso processo di costruzione europeo. Allo stesso tempo le cose erano tutt’altro che semplici. Si comincia con l’unione doganale, si passa ad un mercato comune, poi ad uno interno e si arriva ad un’unione monetaria e poi anche a quella politica. Questa è la sequenza con cui la geo-economia si traduce in geopolitica. Questo è il modo in cui si inizia da un’unione doganale classica, comuni tariffe doganali, per arrivare alla creazione di uno spazio politico sovranazionale. Comunque, è già successo nella storia. Molti di noi, non tedeschi, di solito non realizzano che questo processo richiama l’unificazione della Germania nel diciannovesimo secolo, partendo dalla Zollverein (Unione doganale tedesca) e arrivando poi al primo Reich. Questa sequenza che era nelle menti dei padri fondatori non era completamente campata in aria; era già successo e loro pensarono che fosse il modo giusto per riproporla. E infatti ha funzionato: risultato di tutto ciò è stata la caduta del muro di Berlino. I paesi europei esclusi da questo processo hanno sentito un desiderio profondo di far parte di un sistema sociale ed economico migliore, il quale ha portato a un processo politico che alla fine ha portato alla caduta del muro. Quindi, in un certo senso, questa chimica ha funzionato. Questo processo si è anche tradotto in un periodo di pace in Europa senza precedenti. Non vi è mai stato in Europa un momento nella storia in cui la pace sia durata così a lungo (se lasciamo da parte la guerra nei Balcani). After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 11 Questo è probabilmente, inoltre, il motivo per cui i bilanci per la difesa si sono ridotti così tanto se si analizzano i numeri degli ultimi 40-50 anni all’interno dell’Europa. Ma dobbiamo riconoscere che per gli ultimi 10 anni questo circolo vizioso di integrazione economica con ripercussioni politiche ha smesso di funzionare. Se guardiamo ai sondaggi dell’Eurobarometro sull’opinione dei cittadini europei sull’Europa, l’appoggio all’integrazione europea si è dimezzato negli ultimi 10 anni. Naturalmente, c’è stata una crisi economica e la gestione a livello europeo di questa crisi probabilmente spiega perché una parte dell’opinione pubblica si pone negativamente nei confronti dell’Europa e di Bruxelles. Sappiamo che vi è un aumento delle forze populiste anti-europee in molti paesi dell’Unione Europea. Il primo ministro inglese si è sentito obbligato a promettere al popolo un referendum per decidere se il Regno Unito debba o no uscire dall’Unione: questo ci dice sicuramente qualcosa riguardo al fatto che questo processo virtuoso non sta funzionando come nel sogno dei padri fondatori. Allo stesso tempo la performance geopolitica dell’Unione Europea, che come tutte le politiche estere e di sicurezza può probabilmente essere valutata in modo migliore se rapportata al vicinato, è piuttosto scarsa. Ci sono tensioni, per non dire altro, nella regione del Mediterraneo, nel Medio Oriente, con la Russia, tensioni nelle aree che circondano l’Europa. Se guardassimo il mondo dalla luna, vedremmo che molte zone calde e pericolose del nostro pianeta si trovano intorno all’Unione Europea, la quale si presuppone che sia il processo più pacifico di integrazione economica e geopolitica. Questo chiaramente fa sorgere in noi europei una domanda importante. Quello che è successo di recente con la Grecia, la Russia, con i migranti, e ora con gli attacchi terroristici – questa sequenza di eventi traumatici e sfide degli ultimi due e tre anni – porta a chiederci: «Viviamo in un periodo in cui l’impatto di questi eventi traumatici porterà a più integrazione europea e più costruzione o, al contrario, a un dissolvimento di ciò che è stato fatto negli ultimi 50 anni sotto la pressione e minaccia di queste forze?». Questa domanda fondamentale è sorta al tempo dei fatti della Grecia insieme ad altri interrogativi. Ad esempio, quanto gli europei si interessano della Grecia per ragioni politiche, emotive e razionali? La Grecia si merita il nostro aiuto? La solidarietà è una cosa positiva o negativa? Le stesse domande sembra siano poste con riguardo alla Russia, nonostante vi sia una nota differenza in termini di opinione se la Russia rappresenti una minaccia tra i paesi Baltici e la Polonia e, dall’altra parte, Spagna, Italia o Francia. After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 12 Quanto ci preoccupa realmente che i russi inviino truppe in Crimea o in Ucraina? Questo genera dibattiti e reazioni. Quesiti simili sono nati con la questione dei migranti: fenomeno positivo o negativo? Consideriamo i migranti una soluzione ai problemi demografici dell’Europa? È il modo corretto per risolvere questo problema demografico così come la storia ci ha sempre dimostrato? E per quanto i calcoli degli economisti dicano che i migranti siano una risorsa, la passione e una sorta di appello all’identità e la prossimità portano parte della popolazione a pensare altrimenti. Allo stesso modo, con gli attacchi terroristici, quanta solidarietà da parte degli altri paesi abbiamo visto nei confronti della Francia? Gli altri europei sentono che ciò che è successo in Francia è anche un loro problema? Sentono che è anche un problema europeo? È probabilmente successo a Parigi perché la Francia è più attiva, incluse le truppe di terra in Africa, nel combattere gli jihadisti in questa coalizione che collabora per destabilizzare Assad, nel bombardare la Siria, quindi questa potrebbe essere una motivazione per cui la Francia è più nel mirino. Alcuni però potrebbero pensare che mostrare solidarietà alla Francia possa esporli ad un pericolo maggiore. Una reazione politica sicura a livello locale è quella di “andare a messa” la domenica e poi tirarsi fuori il lunedì... Questo è un comportamento di politici nazionali non eletti da cittadini europei. Mentre i membri del Parlamento Europeo sono eletti in qualche modo da cittadini europei (così come ci piace chiamarli), i leader nazionali sono responsabili per il loro popolo e potrebbero quindi avere ripensamenti in questo senso. Nel complesso, ci potrebbe essere una tesi secondo cui questa serie di minacce porta i politici a chiudersi nei confini nazionali, verso una sorta di rifugio in ciò che è vicino, in ciò che si conosce, in ciò che ci protegge, perché quello che ci protegge è ciò che è vicino e non lontano. E questo include l’appello ai confini nazionali che però in geo-economia non hanno senso. Rispetto a 50 anni fa, i confini economici non esistono più. I confini sono, oggi, metafisici e non fisici. Non esistono più, se non nella memoria e nell’immaginazione delle persone ma, come voi saprete sicuramente, ciò che esiste nella mente delle persone assume moltissima rilevanza. Vi sono molte cose nella vita che le persone fanno per motivi razionali ma anche molte cose che fanno per via di sogni e incubi. Dopotutto, il mondo delle emozioni e delle passioni è una grande cosa per After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 13 l’umanità ed è una delle ragioni per cui l’uomo è così diverso da altre specie viventi. Vi è anche un’altra opinione, un’altra tesi, un altro scenario, secondo cui, così come è già successo nel passato, la moltiplicazione delle minacce e dei pericoli porterà gli europei a unirsi di più. Infatti, quella era l’idea originale: ci dobbiamo unire così da evitare guerre e conflitti fra di noi. E la verità è che, fino ad adesso, la maggior parte di questi grandi traumi hanno portato a un aumento dell’integrazione europea, incluso quello che è successo con l’ultima crisi economica. Sappiamo che l’unità economica e monetaria ha avuto dei difetti iniziali, come ad esempio l’assenza di un’unione bancaria che avrebbe potuto far fronte alla destabilizzazione del sistema finanziario nel caso di una grande crisi. La realtà è che noi ora abbiamo un’unione bancaria, che non era prevista né nel Trattato di Maastricht, né in quello di Lisbona. Quindi potrebbe farsi strada la tesi secondo cui questo problema è nato 40 anni fa. Io so bene, in quanto sono stato Commissario europeo, che non abbiamo una vera europeizzazione dei nostri confini esterni. La proposta di averla è stata fatta ripetutamente dalla Commissione Europea, ma c’è sempre stata molta resistenza e riluttanza da parte di molti Stati Membri nel pensare che quella parte dei loro confini territoriali in realtà non siano loro confini nazionali ma confini europei. Questo implicherebbe cooperazione, sorveglianza, controlli incrociati e soprattutto esprimere solidarietà che si traduca in fiducia. Infatti, la solidarietà è un sentimento. Se non si traduce in fiducia, allora si può sentire solidarietà, ma non ci si può comportare nel modo in cui la solidarietà autentica richiede. Troviamo un esempio perfetto nella limitata cooperazione fra le forze di intelligence e polizia contro il terrorismo. Pensiamo solo al fatto che un terrorista può essere classificato come soggetto pericoloso in Belgio e a 10 km di distanza la stessa persona viene fermata e controllata dalla polizia francese senza riscontro nella loro lista nera dei soggetti pericolosi. Non ci vuole un’intelligenza particolare, è semplicemente la conseguenza del fatto che non vi è cooperazione o che il sistema, in base al quale si dovrebbe cooperare, non funziona. Una semplice espressione di un inadeguato livello di fiducia e solidarietà. Per concludere, non sono sicuro verso quale di questi due scenari ci muoveremo negli anni a venire. Credo ancora che la geo-economia nel lungo periodo prevarrà; in ogni caso, però, non ha importanza se io abbia ragione o torto. Ho una mia idea su quale direzione dovremmo prendere. Sono profondamente convinto (e non solo perché ho speso venti anni della mia vita a servire le istituzioni europee) che c’è solo un modo per far fronte a questa evoluzione del futuro: dobbiamo unirci di più attorno a ciò che ci rende europei, attorno a ciò che siamo e che ci identifica. After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 14 Alla fine è una questione di valori, di comune identità europea. Quella che Federico Chabod chiama l’individualità morale e storica che gli europei hanno in comune, che ha a che fare con quella che io chiamo versione “civilizzata” della globalizzazione: un sistema nel quale c’è uno specifico equilibrio tra individui e collettività, dove c’è meno tolleranza nei confronti delle disuguaglianze, più sensibilità verso l’ambiente e la natura. Questi sono, quindi, alcuni degli elementi che caratterizzano l’identità europea e che abbiamo bisogno di tradurre maggiormente rispetto a quanto fatto in passato in una narrazione che parli alle emozioni. Credo fermamente che ci sia una qualche verità nel sogno dei padri fondatori, ovvero che la geo-economia possa portare ad una integrazione geopolitica, ma questo non può avvenire sulle basi di quanto fatto negli ultimi decenni, cioè il monopolio di una narrazione economica. Come disse un giorno Delors: «Non ci si innamora di un mercato interno». Quindi, la questione che ruota attorno alla geo-economia ha senso ma ha anche bisogno di qualcosa di diverso, un ingrediente diverso, una storia o un approccio differente che stimoli l’immaginazione per creare uno spazio politico all’interno del quale i cittadini europei costruiscano un sentimento di solidarietà a fianco alle loro altre identità. Avremo ancora probabilmente una preferenza nei confronti di ciò che è vicino a noi, ma alla fine il sentimento di essere europeo si farà parte di quella stessa prossimità. E credo che l’incertezza attuale sarà risolta in futuro in questa direzione. Quello che sta continuando a succedere da quel 13 novembre ci pone esattamente al cuore di questa questione. After Paris November 13: more geopolitics than geoeconomics Scuola di Politiche | 25/11/2015 15