Sulle strategie d`impresa sociale: ambiguità e possibilità Ota de
Transcript
Sulle strategie d`impresa sociale: ambiguità e possibilità Ota de
Sulle strategie d’impresa sociale: ambiguità e possibilità Ota de Leonardis In: J.L.Laville, M.La Rosa, a cura di, Impresa sociale e capitalismo contemporaneo, Roma Sapere 2000, 2009 1.Breve storia di una nozione ambigua La nozione di impresa sociale è parte integrante, oggi, del vocabolario pubblico sulle politiche sociali, ed è in riferimento a queste ultime che la di usa comunemente. Il contesto a cui essa si ancora e a cui fa prioritariamente riferimento è dunque quello delle politiche e degli interventi sociali, assistenziali e sanitari anzitutto, piuttosto che quello dell’economia e del lavoro, e delle politiche che vi insistono. In questo senso l’impresa in questione si qualifica come “sociale”.Tuttavia essa, in quanto “impresa”, chiama in causa temi e problemi, strategie e terreni di azione, che attengono appunto al mercato, al lavoro e all’economia. L’impresa sociale comincia a circolare nel discorso pubblico sulle politiche sociali alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, nell’ambito della crescente attenzione che viene posta sulla costruzione di mix tra Stato, mercato e 3° settore. Di impresa sociale si discute per la prima volta - o quanto meno la prima nella mia esperienza- nel 1988 in un convegno a Trieste, a proposito del rapporto tra assistenza e lavoro, e di come e perché la costruzione di opportunità di lavoro faccia parte integrante del mandato dei servizi sanitari di produrre “salute” dei cittadini, o più in generale ben-essere: well-being come si diceva sulla scorta di un confronto serrato, già allora, con l’approccio delle capabilities di Amartya Sen. Il luogo di questa messa a tema non è casuale: la prima cooperativa di lavoro di utenti era nata nel manicomio di Trieste, nel 1972, al cuore del processo di de-istituzionalizzazione guidato da Franco Basaglia poi sfociato nella legge nazionale di riforma della psichiatria, la cosiddetta “legge 180” (del 1978). Il registro argomentativo era quello dei diritti degli utenti, anzi del “protagonismo degli utenti”. E’ a partire da Trieste che un nuovo sistema di servizi di salute mentale sostitutivi dell’internamento psichiatrico ha innescato a livello nazionale una discussione sull’importanza del lavoro nei compiti e nelle strategie di integrazione sociale propri del welfare, con riferimento soprattutto alla psichiatria, ma poi anche al tema delle tossicodipendenze, dell’ handicap, e del carcere. Nel 1991 una legge interviene a regolare la materia istituendo le cooperative sociali, e differenziandole: da un lato quelle “di lavoro” il cui mandato consiste appunto nell’inserire al lavoro “soggetti svantaggiati” (cooperative dette di tipo B) e dall’altro quelle il cui mandato sociale consiste nell’erogare assistenza (tipo A). Con la diffusione delle cooperative sociali – che rispondono all’esigenza crescente di esternalizzazione dei servizi sociali e sanitari da parte delle amministrazioni pubbliche - l’idea dell’impresa sociale è diventata un tema corrente nella discussione pubblica sul welfare: materia di ricerche e di modellizzazioni, di riviste specializzate, di corsi di studi ed insegnamenti universitari (anche in luoghi simbolicamente importanti come l’Università Bocconi). L’attenzione prevalente è alle specificità che l’impresa sociale presenta rispetto all’impresa tout court, in ragione del suo mandato sociale; ma anche ai vincoli che con quest’ultima condivide sul terreno del management, delle condizioni di presenza nel mercato, delle caratteristiche del mercato del lavoro, eccetera. La diffusione della nozione di impresa sociale e delle questioni che attorno ad essa si dibattono è strettamente intrecciata alla storia e alla figura della cooperativa sociale. Possiamo dunque convenire su una prima definizione: “impresa sociale” designa quel tipo di organizzazione, e quel campo di azione, che è la cooperativa sociale, cui la legge ha dato riconoscimento giuridico. La forma organizzativa e giuridica della cooperativa segnala un primo elemento qualificante, poiché richiama il patrimonio storico della cooperazione e le specificità della sua collocazione di confine tra impresa e associazione, tra solidarietà e mercato; richiamando con ciò anche –conviene ricordarlo – i principi della democrazia interna e della proprietà comune che della forma cooperativa sono costitutivi 1. Questo se non altro aiuta a delimitare il significato della nozione di impresa sociale, rispetto alla varietà delle organizzazioni del 3° settore e al generico nonprofit. Infatti l’ impresa sociale è diventata nel frattempo una nozione-ombrello, che viene utilizzata per definire organizzazioni e strategie eterogenee, e che si confonde con la varietà di mix tra volontariato, lavoro informale, associazionismo civico, finanza etica, eccetera, che popolano il terzo settore nel suo insieme. Perciò la scelta di delimitare il suo significato ancorandola all’istituto della cooperativa sociale introduce un po’ di chiarezza nel campo di analisi. Ma anche dopo aver operato questa delimitazione, il terreno di analisi presenta una varietà di forme organizzative e di logiche di azione eterogenee, e la nozione resta ambigua. Un punto focale importante per indagare le differenze sottostanti al comune appellativo di impresa sociale, è costituito dal posto che hanno in tale impresa i destinatari dell’intervento, i “soggetti svantaggiati”, essendo questo comunque riconosciuto come il suo campo di azione centrale. La stessa distinzione introdotta dalla legge innesca una differenza significativa sotto questo profilo. Con riferimento alle cooperative sociali di assistenza, di tipo A, essa si fa semplicemente sinonimo di impresa non-profit che opera nel sociale e i “soggetti svantaggiati” restano destinatari di interventi (sociali, sanitari, formativi, ecc.) da questa gestiti ed erogati. Là dove invece l’impresa sociale mantiene un riferimento stringente al tema dell’integrazione sociale attraverso il lavoro (come nelle cooperative sociali di lavoro, di tipo B) i destinatari sono coinvolti a vario titolo nelle attività d’impresa, anche come soci lavoratori, e a volte anche come dirigenti della cooperativa. Ma, anche se si restringe l’analisi al campo degli inserimenti lavorativi il quadro si articola ulteriormente. In questo campo si ritrovano ad aver titolo d’impresa sociale non solo quelle cooperative con persone svantaggiate tra i soci, sia lavoratori che dirigenti, ma anche quelle imprese che vivono di formazione professionale e tirocini lavorativi senza che si arrivi ad un effettivo inserimento lavorativo delle persone svantaggiate; e anche quelle che fanno inserimento lavorativo in laboratori protetti, nei quali queste persone vengono impiegate in produzione su commesse esterne senza che venga loro riconosciuto uno statuto lavorativo, con le relative garanzie di diritti e di reddito: una vecchia pratica nelle istituzioni totali, nella versione dell’ergoterapia o in quella della rieducazione attraverso il lavoro coatto. E la nozione è così elastica che arriva ad applicarsi anche agli atelier di lavoro – di stampo prettamente assistenzialistico - che offrono a queste persone attività qualificabili come “intrattenimento”(Saraceno, 2000): il classico laboratorio di ceramica, che poi espone i suoi “prodotti” alla fiera rionale. Si tratta con tutta evidenza di situazioni molto diverse quanto alla posizione che vi assumono le persone svantaggiate, in termini di entitlements ed endowements, di capacità contrattuale, di autonomia, di voce. Un’ulteriore differenza emerge se si guarda a ciò che la qualificazione “sociale” riferita all’impresa è suscettibile di significare. In alcune sue forme questo aggettivo designa ciò che 1 Sulle specificità della forma cooperativa e sulle sue attualizzazioni nel campo del welfare, v. La Rosa, 2001 essa produce: essa viene qualificata come sociale in quanto ha per obiettivo quello di “generare legami sociali”, di “intensificare la socialità”, creando contesti e motivi di interazioni, scambi e incontri, di cui di nuovo le persone con problemi (più o meno gravi) siano attori (De Leonardis, 1990; Borghi, 2001). Questa forma va evidentemente distinta dall’impresa che si qualifica come “sociale” per le prestazioni sociali che eroga, avendo nel “sociale” il suo campo di attività, il suo spazio di mercato e il suo giro di affari. Esse si differenziano ancora una volta sotto il profilo della posizione dei soggetti deboli nei contesti relazionali che così si creano. Nel secondo caso la persona in questione è implicata in una rete più o meno densa di relazioni di servizio, in qualità di utente - definito tale volta a volta da un diritto, da un contratto tra cliente e fornitore di una prestazione, da un obbligo, o anche da una relazione di “dono”. Nel primo caso invece, anche quando si tratti di persone in carico a servizi, le reti di relazioni attengono a progetti e attività condivise, anzitutto quelle di natura produttiva o commerciale che implicano quelle persone per le loro competenze professionali e tecniche, per esempio in qualità di baristi o cuochi, tecnici del suono, responsabili della contabilità dell’impresa, eccetera. L’ impresa sociale continua a funzionare da nozione-ombrello, che copre tutte queste fattispecie, ed altre ancora – compresi degli ibridi – che non posso dettagliare qui. Essa mantiene un elevato grado di ambiguità che la rende suscettibile di interpretazioni ed applicazioni tra loro molto eterogenee. Lo scienziato sociale deve ammettere che non si tratta di un fatto sociale univoco - se non nel ruolo retorico che grazie appunto all’ambiguità essa svolge nel discorso pubblico. Tuttavia proprio questa ambiguità è un indizio importante da seguire: essa si alimenta su un nucleo problematico costitutivo dell’impresa sociale, che sta nella sua collocazione su un confine, tra il mondo dell’assistenza e del “sociale”, e il mondo dell’economia, del mercato e del lavoro. Negli anni ’90 avevamo analizzato modalità, condizioni e implicazioni di questa collocazione di confine a partire da un’indagine su esperimenti locali d’impresa sociale in Italia e in Europa (de Leonardis et al., 1994; de Leonardis 1998). I casi esaminati si caratterizzavano nel fatto che questa collocazione di confine vi era tematizzata, anzitutto nei suoi potenziali di tensione e contraddizione, e in vario modo utilizzata come leva di cambiamento. L’idea centrale era che se la nozione di impresa sociale ha un senso, nel welfare, è perché si tratta di un evidente ossimoro, che associa due mondi tra loro separati, se non decisamente alieni: quello dell’impresa e del lavoro e quello del sociale e dell’assistenza, quello della produzione e della produttività e quello improduttivo dei costi sociali e della spesa sociale; il mondo in cui quello che Parsons chiamava “il vento freddo del mercato” fa – farebbe - piazza pulita di inefficienze e dipendenze, e il mondo delle incapacità, dei bisogni, delle dipendenze e delle esclusioni da quel mercato. L’impresa sociale si costituisce ai confini tra questi due mondi, e in vari modi prova a metterli in connessione, costruendo ponti, allargando gli spazi di manovra, esperimentando ibridi – anzitutto tra “protezione” e “promozione”. In questa prospettiva, dunque, la nozione designa più una strategia, che non un attore organizzativo. Nei casi messi sotto osservazione in quell’indagine – pur differenti per tipo di organizzazione e campo di azione - era evidente che gli attori sul campo parlavano d’ impresa sociale per riferirsi non a un’organizzazione –la loro impresa, appunto, per esempio la loro cooperativa sociale – bensì a una strategia, a un’ intrapresa collettiva proiettata piuttosto sull’ “organizzare” 2 contesti di confine, borderlands, che come tali funzionano da laboratori di trasformazione (v. anche Borghi, 2001; De Leonardis, 2003). Prima di proseguire su questa linea di riflessione conviene fermarsi a sottolineare questo punto, in cui la nozione d’impresa sociale acquisisce il significato di “intrapresa di costruzione del sociale”. Sotto il profilo analitico questo implica che si chiami in causa, oltre alla ragione sociale degli attori organizzativi, le logiche di azione, le pratiche, e ciò che esse generano nei contesti in cui si esplicano, ciò che appunto vi viene intrapreso. “Organizzare”, dicevo, costituisce il terreno strategico di azione delle intraprese perseguite nei casi sotto esame: posso richiamare soltanto a grandi linee alcuni aspetti, qui rilevanti, di questa strategia. Ciò che viene organizzato – su quei confini – ha nei destinatari, le persone che soffrono di uno svantaggio sociale, il proprio perno: il parametro (normativo) di riferimento per orientarsi su ciò che va costruito e per interrogarsi su ciò che si è costruito, in un processo per l’appunto aperto. Quelle imprese sociali creano contesti “ospitali” in cui quelle persone abbiano delle possibilità di vita e di auto-realizzazione, una fonte di reddito, dei legami sociali di supporto, e spazi per provare e per “aspirare”3. Sul versante dell’assistenza vengono privilegiate forme indirette, in cui le difficoltà di una persona e il suo bisogno di supporto e protezione vengono “prese in carico” (come si dice nel gergo dei servizi sociali) attraverso la cura del suo contesto di vita ,e la costruzione delle condizioni sociali del suo ben-essere. Il “lavoro” costituisce appunto una leva cruciale per tale costruzione, un terreno strategico attorno a cui mettere in piedi progetti imprenditoriali e relative attività lavorative, e per questa via far vivere dei “collettivi di appartenenza”che supportino le persone, le proteggano e insieme ne valorizzino capacità e desideri (Castel, 2003). Ma perché questo sia possibile anche il “lavoro”che vi si costruisce non è a sua volta un lavoro qualunque, un’occupazione purchessia. Queste formule d’impresa sociale esperimentano anche su questo versante condizioni perché il fatto di lavorare conferisca alle persone dignità, e cioè uno statuto sociale e le relative sicurezze, nonché ambienti lavorativi e prodotti la cui qualità sia tale da alimentare riconoscimento e rispetto. In sintesi, il punto di sutura tra assistenza e lavoro, tra l’intervento sociale e le attività d’impresa, consiste nella convergenza sulla “validazione”, cioè in un comune orientamento a valorizzare le “capacità di essere e fare” delle persone, sulle quali si misura il ben-essere che si tratta di produrre; detto altrimenti, i due mondi si avvicinano nel costruire “opportunità” che si convertano in capacità realmente esercitate da parte degli interessati 4. Precariamente, poiché si tratta di un’approssimazione sempre incompiuta, una “scommessa” su “una possibilità reale” 2 Questo passaggio, che è di metodo e di merito insieme, negli studi organizzativi, si deve soprattutto a Weick (1995). Per un’introduzione, v. Bifulco (2001); per un’applicazione al campo dei servizi pubblici v. Bifulco e de Leonardis, 1987. 3 Sulle condizioni perché le persone possano proiettarsi nel futuro, e sulla “capacità di aspirare”, si veda l’importante contributo di Appadurai, 2004. 4 Il riferimento all’approccio delle capacità di A. Sen ha costituito una costante di questa elaborazione sull’impresa sociale. Sui “fattori di conversione” delle opportunità in capacità nel campo delle politiche per l’impiego v. Bonvin e Farvacque, 2006, e con riferimento alle politiche socio-sanitarie v. De Leonardis, Emmenegger, 2005. (De Leonardis, Mauri, Rotelli, 1994). In ogni caso è evidente che questa intrapresa, nel suo farsi, chiama in causa altri attori, oltre alla singola cooperativa sociale – le autorità politicoamministrative, i corpi professionali, i servizi pubblici, i clienti e i fornitori delle attività economiche, le forme più o meno organizzate della società civile, eccetera; e chiama in causa poteri, diritti, norme e assetti istituzionali, che su questi confini insistono, e le possibilità del loro cambiamento. Con queste implicazioni, l’idea dell’impresa sociale partecipa alla riflessione critica e progettuale sui rapporti tra economico e sociale, sui limiti dell’economia di mercato, sulla pluralità delle forme economiche, e sui potenziali di sviluppo dell’economia sociale. Come tale, l’impresa sociale è parte integrante di una prospettiva di sviluppo sociale che, come ha ben mostrato Carlo Donolo, contrasti gli effetti distruttivi della crescita economica (Donolo, 2007). Resterebbe da domandarsi se questa “possibilità reale” dell’impresa sociale sia ancora perseguibile, oggi, e semmai in quali forme e a quali condizioni, poiché lo scenario del welfare, sul versante sia dell’assistenza che del lavoro, è andato cambiando rapidamente, sotto la spinta di diverse dinamiche di trasformazione che caratterizzano il capitalismo contemporaneo. Quei confini su cui si definisce e si misura l’impresa sociale sono diventati porosi, per certi aspetti, ma d’altro canto vi sono state istituite potenti barriere 5. La penetrazione di logiche del mercato e degli affari nel campo del sociale –la cosiddetta “marketizzazione” – e i suoi effetti di “colonizzazione dei mondi della vita”, per usare un’espressione di Habermas; la costruzione di un mercato del lavoro sociale (v. Fazzi in questo volume); l’attivismo di imprese e banche nel campo della responsabilità sociale; la centralità dell’imperativo dell’ “attivazione” nella costruzione dell’ “Europa Sociale” che a partire dalla strategia per l’occupazione orienta l’insieme delle politiche sociali; l’influenza nel governo delle politiche sociali del modello neoliberale del New Public Management, in cui il principio della responsabilità pubblica di bilancio si intreccia con idee e logiche dell’investimento e/o della produttivizzazione ( che a volte si esprime in fenomeni collusivi tra politica e affari); l’emergere di forme di “attività” in cui, come ha sostenuto Massimo Paci, il lavoro si disancora da uno statuto istituzionale, si ibrida con azione volontaria e impegno civico, e i confini tra lavoro e non-lavoro sfumano (Paci, 2005; Laville, 2007). Questi fenomeni, tra loro solo debolmente connessi, hanno frammentato, reso confusi e per l’appunto porosi i confini in questione. Ma se si guarda dalla prospettiva dei destinatari, come ho fatto fin qui, la porosità si fa selettiva e sui confini prendono forma altrettanto separazioni, soglie e barriere. Il lavoro – a cominciare dall’accesso al lavoro - si è andato indurendo nel frattempo, come sappiamo (Borghi, Rizza, 2006; Colonna, Pugliese, 2007); e se nel mondo del terzo settore possiamo rintracciare quelle forme ibride che Paci chiama “attività”, questo vale semmai per gli operatori, i fornitori di prestazioni, molto più che per i loro destinatari. Accade più spesso che, per le persone che patiscono uno svantaggio sociale il lavoro, quando non è semplicemente un traguardo irraggiungibile, acquisti viceversa tratti performativi, di obbligo, e di criterio morale di meritevolezza, come nelle misure di welfare-to-work. L’inserimento lavorativo, semmai riuscito, potrebbe destinare a quella condizione di obbligo e insieme di precarietà che caratterizza i working poor. In questi casi sul confine s’istituisce una soglia che agisce per sottrazione, un’area svuotata sia dei compiti di protezione che di quelli di promozione: assistenza ai minimi termini e lavoro senza dignità. Una soglia che alimenta una doppia invalidazione. 5 A proposito di confini porosi e muri v. W.Brown, 2008. Bisognerebbe indagare diverse forme e combinazioni di queste porosità e barriere che ridisegnano i confini tra assistenza e lavoro nelle diverse configurazioni del welfare, e domandarsi quali caratteristiche assume e come vi agisca l’impresa sociale, che su questi confini ha il suo terreno di elezione. Proporrò una pista per indagare in proposito nel prossimo paragrafo. Ma prima ricapitolo il percorso fatto fin qui, per ricavarne un ancoraggio da cui partire. Abbiamo visto che la nozione di impresa sociale si riferisce a realtà tra loro eterogenee, e la cui eterogeneità è evidente se si guarda all’ impresa sociale dalla prospettiva del posto che vi occupano i destinatari; e che tale ambiguità va presa sul serio poiché ne esprime lo statuto costitutivamente contradditorio che deriva dalla sua collocazione ai confini tra assistenza e lavoro. L’eterogeneità delle logiche di azione va ricondotta a diverse declinazioni di questa collocazione e va indagata, per questo, spostando l’attenzione dalle imprese sociali intese come attori organizzativi – le cooperative sociali – alle strategie, alle logiche di azione, alle pratiche e a ciò che esse generano nei contesti in cui agiscono: all’impresa intesa come intrapresa, dicevo. Ho illustrato questo spostamento riprendendo l’analisi di casi nei quali l’intrapresa consiste nel costruire forme di sinergia tra assistenza e lavoro, tra protezione sociale e promozione delle capacità. Esso comporta che si analizzi il contesto complessivo del welfare: le reti organizzative in cui la singola organizzazione d’impresa, la singola cooperativa sociale, è inserita, la pluralità di attori che cooperano (e/o confliggono) nel corso di questa intrapresa, i poteri (tecnici, amministrativi, politici ed economici) che vi agiscono, e l’architettura normativa e istituzionale che di questo contesto è la cornice. Poiché se vi si intraprende l’organizzazione di formule che combinano assistenza e lavoro è questo contesto nel suo insieme che è coinvolto, che facilita o ostacola o orienta verso diverse configurazioni, e che è a sua volta sottoposto a tensioni e dinamiche di cambiamento. Detto in altre parole, la ricerca sulle imprese sociali chiama in causa le politiche pubbliche in cui esse sono immerse e in cui operano, da cui dipendono e che a loro volta influenzano partecipando alla loro implementazione, a ciò che queste politiche producono e organizzano 6. O quantomeno è attraverso l’analisi delle politiche sociali che in questi anni dedicati alla ricerca su come queste ultime stanno cambiando in Italia, a livello regionale e locale - ho avuto modo di interrogarmi sulle imprese sociali, e analizzare che cosa oggi esse siano, che configurazioni assumano, che cosa facciano, e generando che cosa nei contesti in cui esse agiscono. 2. Le imprese sociali nelle politiche: una chiave analitica Attingendo dunque ai risultati di questa ricerca intendo proporre e argomentare una griglia di lettura per distinguere diverse posizioni che le imprese sociali –intese come organizzazioni assumono nella mappa degli attori e delle reti organizzative in cui sono immerse, e diversi effetti organizzativi che la loro azione genera e alimenta. Prima di entrare nel merito è necessario inquadrare brevemente i principali aspetti di merito e di metodo della ricerca in questione 7. Essa è consistita nell’analizzare la diversa architettura 6 Questa indicazione, del resto, vale più in generale per le ricerche sul terzo settore e sull’associazionismo civico. V. per es. Evers, 2005, Cefaï, 2006, Eliasoph, 2007. 7 La ricerca – che si è svolta nell’ambito di due progetti d’interesse nazionale e ha usufruito di diversi finanziamenti di enti pubblici e fondazioni bancarie – si è appoggiata al Laboratorio di Sociologia dell'Azione Pubblica, Sui Generis, dell’Università di Milano Bicocca. Le principali pubblicazioni che presentano i risultati della ricerca verranno citati man mano. normativa delle politiche sociali e sanitarie – materia entrambe di un intenso lavoro di policy making in questi anni, a cominciare dalla legge 328 – in tre Regioni italiane, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia e la Campania. La diversificazione conseguente al decentramento introdotto dalla riforma del Titolo V della Costituzione e al connesso spostamento delle competenze in materia a livello Regionale ha dato l’opportunità di sviluppare un lavoro comparativo, che in questo caso è consistito nel comparare gli “strumenti di governo” adottati nelle diverse politiche regionali. L’ “approccio basato sugli strumenti” per l’analisi delle politiche pubbliche, messo a punto da Lascumes e Le Galès (2004; v. anche Bifulco et al., 2007), è stato sviluppato sia sul versante del disegno degli strumenti stessi, per vedere come gli elementi cognitivi delle politiche (definizioni, conoscenze e informazioni pertinenti, il cosiddetto policy frame) si fissano e si traducono in vincoli normativi per gli attori sul campo; sia sul versante in cui questi ultimi li mettono in opera, interpretandoli e adattandoli alle situazioni, per vedere quali effetti organizzativi siano generati dalla loro utilizzazione. Va sottolineato il fatto che questo approccio appare particolarmente coerente con le politiche che esprimono formule di “governo a distanza”, in cui cioè l’attività del governare è affidata non tanto ad atti autoritativi diretti, bensì piuttosto a strumenti che indirettamente “fanno fare” agli attori a vario titolo impegnati, orientandone e incentivandone l’iniziativa. Questo vale in particolare per le politiche sotto esame, in cui da tempo è stato ridotto il peso dell’intervento diretto delle amministrazioni pubbliche e vengono valorizzate le capacità d’iniziativa della società civile e la partecipazione del terzo settore alla gestione e alla fornitura di servizi, in ottemperanza al principio della sussidiarietà orizzontale. L’analisi attraverso gli strumenti costituisce perciò anche un punto di vista promettente sulle imprese sociali. Seguendo dunque gli strumenti, l’analisi ha connesso il livello macro delle legislazioni regionali e il livello micro e specifico di alcuni contesti locali, per osservare interazioni e pratiche “in situazione”. L’indagine ha riguardato gli strumenti corrispondenti ad obiettivi di attivazione, privilegiando quelli che introducono relazioni contrattuali sia al livello dell’erogazione di prestazioni, tra servizi e cittadini, sia al livello della governance e delle partnership locali di gestione di sistemi di servizi. Nel corso della ricerca, e nel confronto tra diversi strumenti di policy, è emerso un nesso tra tipi di strumenti e forme organizzative e interorganizzative che gli attori, con quegli strumenti in azione, costruiscono nei contesti in cui operano. Tra questi attori ci sono naturalmente anche quelli che abbiamo convenuto di chiamare imprese sociali; le abbiamo viste all’opera sia sul campo di ricerca relativo agli strumenti di inserimento lavorativo, sia su altri campi, relativi a dispositivi di erogazione contrattualizzata di servizi e di localizzazione della loro gestione 8. Da questi campi sono tratti gli esempi che illustrerò di seguito e su cui poggia il ragionamento, mettendo a fuoco contesti concreti - situazioni come dicevo - in cui gli strumenti sono in azione; con l’avvertenza che la selezione delle informazioni che sono costretta a fare qui sacrifica parecchio la ricchezza del materiale analitico e degli argomenti che potrebbe alimentare. 8 I risultati principali della ricerca sono raccolti in: Bifulco, 2005; Monteleone, 2007, 2008; Bifulco et al., 2006 (in particolare i contributi di De Leonardis, Bifulco, Giorgi e S.Tosi); Bricocoli, De Leonardis, Tosi, A., 2008. Guardando alle relazioni di servizio e alle posizioni che vi assumono i destinatari. Il primo caso inquadra l’uso di due strumenti di trasferimento monetario, il voucher (in Lombardia, dove ha acquisito un ruolo centrale) e il budget di cura (introdotto e a regime in alcuni territori in Friuli e Campania) e i diversi contesti organizzativi cui tale uso dà forma. Entrambi conferiscono un assetto contrattuale alle relazioni tra destinatari e servizi, imprese sociali nella fattispecie, dando ai primi la titolarità su una somma di denaro da impiegare a questo scopo; in entrambi i casi al contratto sono attribuite le virtù di promuovere il destinatario in un ruolo attivo e di incentivare le imprese sociali a fornire prestazioni qualitativamente migliori. Ma ciò che questo contratto organizza è diverso nei due casi 9. Nel caso del voucher il contratto che organizza la relazione di servizio corrisponde al prototipo della relazione di scambio sul mercato in cui s’incontrano in questo caso il fornitore di prestazioni sociali (che nei casi esaminati riguardavano interventi di assistenza sanitaria o sociale a domicilio) e il destinatario di queste, titolare del voucher da spendere su questo mercato, nel ruolo di cliente. Il ruolo attivo del destinatario–cliente si misura sulla sua “libertà di scelta” tra fornitori in concorrenza tra loro; e la qualità dell’offerta da parte delle imprese sociali fornitrici è affidata alle dinamiche della concorrenza e alle competenze del management d’impresa. Ma spostiamo l’attenzione sul budget di cura, che organizza un contratto di natura diversa. Intanto è un contratto a tre, una partnership, in quanto ad esso si vincolano il destinatario titolare del budget e l’impresa sociale fornitrice di servizi ma anche l’autorità pubblica responsabile del servizio di cui il destinatario è utente, cittadino utente per esser più precisi. Questo terzo partner non è un contraente qualunque: è garante della contrattualità del destinatario – perché attribuisce il budget e perché lo supporta nella sua contrattazione con l’impresa fornitrice –; conferisce a quest’ultima l’incarico corrispondente al budget, e ha l’ultima parola in fatto di valutazione dei risultati su cui si misura l’ottemperanza del contratto. Il budget è speso su un “progetto”, che è la materia del contratto, un progetto relativo ad una risposta ai bisogni del destinatario. E’ un progetto che riguarda cambiamenti nelle sue condizioni di vita che, come recitano i bandi relativi, riguardano tre “assi” insieme: l’abitare, il lavorare e l’avere legami personali. Il ruolo attivo del destinatario, titolare del budget e soggetto contraente, non si esercita nello scegliere il fornitore da cui acquistare prestazioni, ma nel fatto di aver voce in capitolo sul progetto che lo riguarda, e nel partecipare alla valutazione della fornitura delle prestazioni, che in questo caso si misurano sul progetto perseguito. L’impresa sociale cui viene affidato il budget è la protagonista del progetto da perseguire, o per meglio dire della relazione con il destinatario su questo progetto, sui suoi passaggi quotidiani e sulle scelte da fare volta a volta. La qualità delle sue prestazioni, sugli “assi” che dicevamo, si misura sul progetto ed è oggetto di valutazione congiunta da parte dei tre partners. Torniamo ai voucher. Ciò che si organizza, o si costruisce, con l’uso dei voucher è in definitiva un mercato sociale che –fatto salvo che il denaro in circolazione proviene quasi esclusivamente da fondi pubblici – funziona tanto meglio quanto più si approssima al modello astratto di mercato della teoria economica standard; quanto più si fa, per così dire, mercato del sociale. Il destinatario-cliente vi gioca il ruolo di consumatore, la sua libertà di scelta si esprime nella 9 Analisi più dettagliate di ciò che è emerso da questa comparazione si trovano in: Monteleone, 2005, 2008; Bifulco, Vitale, 2006 ; Giorgi, Polizzi, 2007; De Leonardis, 2009. possibilità di “exit” –cambiare fornitore – coerente con questo ruolo, come ha mostrato Hirschman. A sua volta l’impresa sociale fornitrice è incentivata ad acquisire le competenze in materia di management d’impresa necessarie a stare su questo mercato, con i vincoli performativi connessi e il vocabolario di motivi corrispondente (le quote di mercato e il marketing, la redditività, il risparmio sui costi, la fidelizzazione del cliente, ecc.). Nel caso dei budget di cura il perno delle dinamiche organizzative è il progetto – il “progetto terapeutico-riabilitativo personalizzato” – attorno a cui si creano relazioni di cooperazione e di partecipazione (e di conflitto). Il destinatario titolare del budget, avendo voce in capitolo sul suo progetto, vi acquisisce capacità di domandare. La sua libertà –statuita dal suo essere soggetto di contratto – si esercita nella scelta non del fornitore ma delle prestazioni di cui ha bisogno, e si esprime piuttosto nella “voce”, per riprendere Hirschman; o meglio la sua libertà si realizza nella misura in cui la persona in questione acquisisce capacità di voce sulle scelte relative al suo progetto e alla sua realizzazione. L’impresa sociale cui è affidato il progetto – può trattarsi di una cooperativa di tipo A, B, o mista, o ancora di una cooperativa B associata ad una organizzazione di volontariato - è incentivata ad acquisire capacità di cambiamento dei contesti di vita delle persone, esercitando le sue competenze in materia di produzione del benessere che, come abbiamo visto, si misura sulla costruzione di condizioni abitative, di opportunità di lavorare o comunque di impegnarsi in attività di scopo, e sulla creazione di legami sociali significativi. Riguardo agli effetti organizzativi di questi due strumenti in azione, si potrebbe dire in sintesi, richiamando Robert Castel (2003) che, se si guarda ai destinatari, il voucher produce “collezioni di individui” – i consumatori atomizzati, liberi ma soli, del mercato – laddove il budget di cura genera contesti di vita densi di relazioni sociali, di “collettivi” cui partecipare. Se si guarda alle imprese sociali e alla loro configurazione organizzativa, la dicotomia che forse meglio si presta a sintetizzarne la differenza è quella proposta da Theda Skocpol, a proposito delle forme organizzative dell’associazionismo negli Stati Uniti (Skocpol, 2003): tra organizzazioni basate sul management e organizzazioni basate sulla membership (v. anche Eliasoph, 2007; Cefaï, 2006). Una differenziazione dello stesso segno si registra spostando l’attenzione sugli strumenti relativi all’inserimento lavorativo, e in particolare sulla formazione professionale di persone svantaggiate, o “disabili”(Monteleone, Mozzana, 2008; Centemeri, Emmenegger, Monteleone, 2007 a/b). In questo campo di ricerca abbiamo riscontrato una differenza significativa nei modi di organizzare i percorsi di formazione e inserimento lavorativo (qui mi riferisco soltanto all’indagine condotta nella provincia di Milano). In alcuni casi il percorso gestito da un ente di formazione prevede un corso di formazione ed eventuale tirocinio, in funzione della domanda di lavoro da parte di aziende “esterne”. Il percorso può essere più o meno taylor-made, come si dice in gergo, e può felicemente concludersi in un’assunzione dell’ “allievo” in un’azienda. Ma è comunque precostituito in partenza (già nel progetto presentato per partecipare al bando): è l’interessato che deve corrispondere al progetto, non viceversa). E di solito non implica l’assunzione di responsabilità verso altri aspetti della vita della persona, né il coinvolgimento di altri attori rilevanti sotto questo profilo (compresi i servizi competenti in materia di disabilità). Una volta conclusosi il percorso –con un successo o un fallimento – la persona non è più di competenza dell’ente. In altri casi il percorso formativo si svolge all’interno dell’impresa sociale – una cooperativa sociale di tipo B- ed è dall’inizio intrecciato con le sue attività produttive o commerciali, e con la sua rete di scambi e di alleanze. Questo percorso è delineato in funzione di un progetto concordato, nei contenuti e nei tempi, con la persona e con altri attori significativi – ivi compresi i servizi socio-sanitari competenti – ed è valutato e adattato insieme man mano. Il progetto prevede l’inserimento lavorativo, e l’acquisizione dello statuto di sociolavoratore, ma prende in conto altri aspetti della vita della persona (tra cui l’abitare); comunque, ciò che il progetto deve in ogni modo alimentare è la densità dei legami sociali nei quali la persona in questione è implicata, a cui partecipa e dai quali è sostenuta (De Leonardis, Emmenegger, 2005). Vi ritroviamo gli effetti generativi di “collettivi” e la valorizzazione della membership. Vi ritroviamo anche le logiche di azione che ho delineato nel paragrafo precedente a proposito delle strategie d’impresa sociale che puntano sulla messa in connessione di assistenza e lavoro per costruire contesti di vita “ospitali”, densi di legami che proteggono e insieme promuovono le capacità delle persone. Nel primo tipo di percorso formativo la relazione di servizio, tra destinatario e fornitore, non genera contesti di vita per la persona, e gli ambienti sociali che le viene offerto di condividere sono comunque a termine. Salvo l’ambiente di lavoro, quando viene davvero ottenuto il posto di lavoro, e quando questo si stabilizza… Sarà, comunque, un ambiente di lavoro “normale” –di solito caratterizzato da un grado più o meno basso di promozione e di protezione. Questi due diversi assetti organizzativi del percorso di formazione-lavoro possono essere ricondotti, a grandi linee, a due diversi set di strumenti di policy. Il primo tipo è decisamente più presente nell’ambito dei programmi di implementazione della legge 68, sul collocamento obbligatorio, per persone che hanno una disabilità certificata. Il settore di policy è quello dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, ma è contiguo anche alle politiche di regolazione del mercato del lavoro: abbiamo riscontrato questa contiguità per esempio nella presenza di enti di formazione che somigliano ad agenzie di lavoro interinale. I percorsi di formazione-lavoro dell’altro tipo si appoggiano a diversi strumenti: la cooperativa sociale di lavoro, che ne è la principale responsabile e la protagonista, i servizi socio-sanitari responsabili della persona in qualità di utente (dunque, pubblici), la partecipazione a un programma europeo (i fondi strutturali, oppure un Equal) che prevede attività formative coerenti con i progetti delle persone, le borse di lavoro assegnate dall’ autorità pubblica competente, sanitaria o sociale. Possiamo riassumere in uno schema la tipologia di effetti organizzativi ricavata esaminando i quattro casi, relativi a strumenti di policy su relazioni di servizio, che ho delineato fin qui guardando ai contesti organizzativi che vi si generano e al posto che vi occupano i destinatari clienti o co-produttori (Pestoff, 2006) - di quel servizio. Processi organizzativi innescati dall’uso degli strumenti analizzati: la posizione dei destinatari le forme organizzative collezioni di individui management collettivi membership E’ necessario aggiungere che in entrambi i settori di policy e relativi dispositivi sono diversi nei due casi i criteri di giustizia (e le grammatiche di giustificazione) cui le azioni rispondono. Nel caso dei budget di cura e in quello dei percorsi di formazione e inserimento lavorativo che prendono in conto le condizioni complessive di vita delle persone svantaggiate il riferimento privilegiato è a “quelli che stanno peggio” –per usare la formulazione di Rawls – cui corrisponde un principio universalistico tipico della tradizione del welfare, evidenziato tra l’altro dalla presenza e dal coinvolgimento di servizi pubblici e dell’autorità pubblica. Negli altri casi è all’opera una logica selettiva: l’uso dei voucher favorisce quelle persone o quelle famiglie che hanno risorse economiche, culturali e relazionali - il capitale sociale – per supplire all’asimmetria informativa inerente alle relazioni di servizio, ed esercitare un potere contrattuale nei confronti dei servizi e degli operatori. Una selezione avversa si verifica anche ad opera delle imprese fornitrici che tendono ad evitare di occuparsi di casi più complicati o problematici (non avendo oltretutto alcun obbligo in tal senso); l’uso dei percorsi di formazione-lavoro, nella cornice della legge 68, sono a loro volta selettivi in base al grado e al tipo di disabilità, e alla sua coerenza con la domanda di lavoro. Reti interorganizzative. Spostiamo ora l’attenzione sulle connessioni, o i “coordinamenti”, tra gli attori impegnati in un’arena di policy, tra cui gli attori del terzo settore e in particolare le imprese sociali. Gli strumenti di policy pertinenti sono relativi alla regolazione dell’offerta, con l’accreditamento e relativi standard, e con la valutazione dei risultati ottenuti dai servizi offerti. Ciò che è sotto osservazione in questo caso, sono gli effetti organizzativi nell’uso di questi strumenti che si possono registrare sul terreno delle reti interorganizzative, nei tipi di coordinamento e nelle forme di cooperazione, di conflitto o di competizione. Riprendendo, per non complicare l’argomentazione, il caso dei voucher, in Lombardia il loro uso prevede un basso grado di regolazione poiché, in base al modello puro di mercato, autoregolato, si lascia alle dinamiche della domanda e dell’offerta il conseguimento di obiettivi di efficienza e qualità dei servizi. Gli standard di accreditamento delle imprese fornitrici sono molto laschi 10; la valutazione dell’utilizzo del singolo voucher è affidata a un questionario di customer satisfaction, somministrato dall’impresa fornitrice, mentre per il sistema nel suo insieme sono previste indagini valutative, di norma esternalizzate ad agenzie specializzate private (che in certi casi provengono dalla stessa rete, compagine, o lobby cui appartengono imprese fornitrici di servizi da valutare). Le imprese sociali accreditate attive su questo mercato sono indotte dalle logiche della concorrenza ad assumere tra loro rapporti strumentali in vista della conquista di quote di mercato (o per semplici ragioni di sopravvivenza): si aggregano, per esempio in consorzi; o convergono sugli stessi programmi per spartirsi i finanziamenti in una configurazione in cui l’aggregazione in una rete diventa un obiettivo in sé che fa aggio sugli obiettivi del programma stesso; e danno luogo a lobbies o a concentrazioni d’impresa in cui, come accade nel mercato, i pesci grossi mangiano o emarginano quelli piccoli 11. In altre arene di policy – in quelle delineate a proposito dei budget di cura e in altre emerse dall’analisi di altri strumenti, che non posso illustrare qui – le dinamiche interorganizzative sono orientate diversamente. Nel caso dei budget di cura, per esempio, l’accreditamento delle imprese sociali coinvolte avviene non sulla base della coerenza rispetto a standard di affidabilità e competenza fissati una volta per tutte – condizione, questa, affidata a una semplice 10 Che il rappresentante legale non abbia pendenze penali e che l’impresa possa certificare un’esperienza di almeno due anni nel settore di attività in questione. 11 Nelle dinamiche della competizione si producono anche comportamenti “incivili”, come li definisce Adalbert Evers sottolineando quanto poco essi siano messi a tema nella ricerca sul terzo settore (Evers, 2008). In proposito si veda anche, con riferimento agli Stati Uniti, il saggio di Hunter che parla di “adversary philantropy” (Hunter, 1998). autorizzazione - bensì sulla base dei progetti individualizzati da perseguire. Lo stesso vale per la valutazione, che prevede la compartecipazione degli attori interessati – nell’Unità di valutazione – e fa riferimento ad indicatori di realizzazione del progetto, e la cui regia è comunque in mano pubblica. Con riferimento più in generale alla valutazione nell’ambito delle politiche sociali e sanitarie, nel caso della Regione Friuli –a differenza che in Lombardia –le competenze restano internalizzate, articolandosi dal livello locale a quello regionale e ancorandosi a progetti. Le imprese sociali autorizzate che vengono coinvolte nei progetti –non soltanto negli ambiti a cui ho accennato – apprendono a cooperare con gli altri attori implicati, tra cui altre organizzazioni del terzo settore e altre imprese sociali, partecipando alla definizione di obiettivi condivisi e alla costruzione di un vocabolario comune, e corresponsabilizzandosi. I progetti –per esempio quelli personalizzati cui facevo riferimento – funzionano da punto di convergenza in cui diversi attori sono spinti ad integrarsi tra loro. Situazioni critiche, tensioni, resistenze e conflitti fanno parte delle dinamiche che si creano in queste arene di progetto. A proposito di integrazione merita di essere richiamato brevemente il fatto che proprio “integrazione” rappresenti la parola chiave che ricorre più spesso nei testi normativi della Regione Friuli e che costituisce un’impronta chiaramente riconoscibile negli strumenti di policy, anche in quelli esaminati. A cominciare dal fatto che la legge regionale attuativa della 328 si chiama per l’appunto “Sistemi integrati per la cittadinanza sociale”12. Non posso che accennare qui ad un paio di aspetti salienti. Anzitutto, questa parola chiave che ricorre nel disegno normativo delle politiche sociali e sanitarie si riferisce non ai destinatari, da integrare o reintegrare nella società –come nella semantica del welfare state – bensì ai sistemi di servizi, “sistemi integrati” appunto. O più precisamente l’orientamento a far convergere diversi servizi e competenze su progetti di cambiamento delle condizioni di vita di individui o di contesti locali, perché si integrino tra loro, costituisce la leva strategica per costruire contesti integranti, capaci di supportare –e di sopportare – situazioni e persone problematiche. L’integrazione riguarda, prioritariamente, competenze pubbliche di settori diversi a livello operativo, gestionale e istituzionale; e orienta il coinvolgimento del terzo settore in genere, della società civile, e delle imprese sociali in particolare, verso l’integrazione nel sistema pubblico di welfare. In secondo luogo nella rilevanza data all’integrazione, con questo significato, possiamo forse riconoscere delle assonanze significative con quelle strategie d’impresa sociale che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, investono sulla posizione di confine tra assistenza e lavoro, creandovi sinergie per costruire contesti sociali per l’appunto integranti. Come se da quelle esperienze si fossero innescati processi di apprendimento che si sono tradotti in un disegno istituzionale. Del resto, stiamo parlando della Regione Friuli, che ha fatto da incubatore di quelle strategie, anche in ragione dell’esperienza della deistituzionalizzazione psichiatrica da cui la nostra storia dell’impresa sociale è cominciata. Riassumiamo dunque: nei due casi le imprese sociali si trovano coinvolte in reti interorganizzative differenti e che incentivano comportamenti differenti. La differenza tra queste due forme di legami interorganizzativi può essere sintetizzata dalla dicotomia tra “aggregazione” e “integrazione” elaborata da March e Olsen a proposito di come diversi assetti organizzativi corrispondano a diverse modalità di traduzione delle preferenze individuali in scelte collettive 12 V. Mauri, 2007. V. anche Bifulco, De Leonardis, 2006. L’ integrazione tra le politiche è del resto una delle parole d’ordine dei programmi Europei per la costruzione dell’Europa sociale (March, Olsen, 1995): quando gli attori “si aggregano”, lo fanno per perseguire ciascuno le proprie preferenze, o interessi, e la costruzione del collettivo è strumentale a questo obiettivo; quando gli attori “si integrano”, si coinvolgono in un processo di tematizzazione, discussione e rielaborazione delle proprie preferenze. Nella loro teoria le due forme corrispondono ai registri d’azione rispettivamente dell’economia e del mercato, e della politica. Sintetizziamo dunque le differenze riscontrate nelle dinamiche inter-organizzative aggiungendo questa dicotomia al nostro schema. Processi organizzativi: la posizione dei destinatari le forme organizzative le reti inter-organizzative collezioni di individui collettivi management membership aggregazione integrazione Lo schema comincia a delineare una forma, un disegno in cui s’intravvedono dei nessi, delle assonanze, o forse degli isomorfismi, tra gli effetti organizzativi riscontrabili sul terreno delle relazioni di servizio, e nella posizione dei destinatari, e gli effetti organizzativi che emergono dall’analisi delle dinamiche inter-organizzative. Governance locale. Resta da esaminare brevemente un ultimo campo di azione, quello che viene comunemente designato come la governance locale delle politiche, per vedere se e come vi sono coinvolte le imprese sociali. Nel corso della ricerca abbiamo analizzato la messa in opera di alcuni strumenti di localizzazione delle competenze e sedi di gestione delle politiche in alcuni contesti locali, come i Piani di Zona (in Lombardia e Campania) e i distretti socio-sanitari (in Friuli) e alcuni programmi sperimentali di coordinamento e attivazione degli attori nei territori (come il programma “Microaree” a Trieste e l’Azienda speciale consortile del Vimercatese, in Lombardia). E abbiamo rilevato differenze rispetto a diversi aspetti dell’organizzazione della governance che incidono sui modi e i gradi in cui le imprese sociali sono coinvolte nelle scelte e nelle attività di gestione (Bifulco, Centemeri, 2007; Centemeri, 2007). Tali differenze riguardano in particolare il grado di formalizzazione delle partnership , la loro composizione - anzitutto chi vi sia incluso e a che titolo i contenuti e le procedure in cui avvengono i processi decisionali, la presenza e articolazione di arene di partecipazione, il ruolo che vi svolgono le autorità politico-amministrative e i tipi di coordinamento orizzontale o verticale tra loro. Va precisato che il quadro è reso confuso da due fattori: anzitutto il fatto che, come del resto la letteratura in materia di governance segnala, le forme di coordinamento e di coinvolgimento esplicite e visibili nei tavoli della governance non sempre esauriscono il quadro delle dinamiche tra gli attori sul campo, poiché si possono dare alleanze e accordi fuori dai tavoli, a volte sotto-banco, che incidono sulla geografica del potere e influiscono sulle decisioni; e in secondo luogo il fatto che il terreno della gestione delle politiche sociali e sanitarie è un cantiere aperto, per così dire, nel quale molti degli strumenti hanno natura sperimentale o comunque non hanno ancora dato luogo ad un disegno istituzionale stabilizzato; e nel quale anche giocano le contingenze della politica. E’ difficile dunque delineare un quadro chiaro e soprattutto fondato, tanto più che la ricerca in proposito è stata meno sistematica di quanto questa complessità renderebbe necessario. Malgrado queste difficoltà credo sia possibile tentare un’approssimazione: le diverse configurazioni che la governance locale delle politiche sociali può assumere, rispetto a ciò che esse generano in termini di partecipazione alle scelte pubbliche e al grado e tipo di democrazia che vi si esprime, costituiscono un punto di osservazione importante per interrogarsi su quali siano gli spazi e i repertori di azione delle imprese sociali nel gioco politico, nell’influire su qualità e tipo di politica, sui modi e i contenuti delle scelte pubbliche, e in definitiva nell’alimentare (o meno) democrazia nelle politiche in cui esse sono attive. Un primo risultato analitico, abbastanza chiaro benché grossolano, è dato dalla presenza di entrambi i modelli di governance che la letteratura in materia ha identificato: la governance basata sulla negoziazione tra interessi che riproduce sul terreno politico e di governo le logiche di azione che sono proprie del mercato, e la governance basata sulla partecipazione ad arene di discussione, conflitto e elaborazione di un frame comune, e sulla costruzione di relazioni di fiducia. Non posso dar conto qui delle forme concrete che assumono, in gradi e modi diversi, questi due modelli di governance nei nostri campi di ricerca. All’ingrosso si può dire che là dove è più forte un orientamento alla cosiddetta marketizzazione dei servizi, come in Lombardia, si fa sentire di più l’influenza del primo modello di governance, la logica degli interessi e il relativo vocabolario economico, nelle sedi e nei processi decisionali, e nel modo stesso d’intendere la gestione di sistemi di servizi; mentre al secondo modello sembra approssimarsi di più la gestione di queste politiche che, come abbiamo visto nel caso del Friuli investe piuttosto sulla loro integrazione per “far sistema” nei territori, attivando e integrando la pluralità di attori, la varietà delle organizzazioni, delle voci e delle forme di partecipazione (Mauri, 2007; De Leonardis, Emmenegger, 2005; De Leonardis, 2006). Questa differenza è d’altro canto individuabile anche, ad un’analisi più ravvicinata, nella comparazione tra diversi Piani di Zona, nel modo in cui sono disegnati e funzionano, e in particolare nel modo in cui coinvolgono gli attori del terzo settori. Da un confronto tra diversi casi in Lombardia (Polizzi, 2007; Centemeri, 2007; v. anche Bifulco, Centemeri, 2007), vi sono Piani di Zona più aperti e inclusivi, che favoriscono l’emergere della varietà delle organizzazioni attive nel territorio e curano le condizioni perché queste si esprimano e trovino ascolto, e perché si confrontino e cooperino tra loro. Ai tavoli si sviluppano discussioni su priorità, nodi critici e scelte di merito; e trova spazio la questione di quali siano le basi di legittimazione democratica degli attori che partecipano ai tavoli, chi rappresentino e a che titolo. E vi sono Piani di Zona nei quali la partecipazione ai tavoli è decisamente più selettiva, magari fondata su una consuetudine di rapporti tra le organizzazioni di servizio e le amministrazioni pubbliche (la cosiddetta fiducia focalizzata, o particolaristica) e che non funzionano da moltiplicatori di spazi e opportunità per attivare e coinvolgere altri attori; ciò che si fa nel corso delle attività di piano resta chiuso al proprio interno, e ha un basso grado di visibilità pubblica. Le interazioni ai tavoli lasciano poco spazio a discussioni, conflitti ed elaborazione di scelte realmente condivise, e fanno intravvedere orientamenti opportunistici e collusivi, verso l’alto, nei confronti dell’attore pubblico (che ha in mano i cordoni della borsa) e una scarsa propensione alla cooperazione, in orizzontale; vi sembra incentivata la logica dei propri interessi d’impresa. Aggiungo per concludere su questo punto che, evidentemente, in entrambi i casi è decisiva la strategia adottata dalle amministrazioni pubbliche nell’uso di questo strumento, e che a far la differenza è il tipo di legami che nei Piani si creano tra queste e le organizzazioni del terzo settore, le imprese sociali fornitrici di servizi in particolare. Per delineare, sempre all’ingrosso, questa differenza si potrebbe dire che nel secondo caso le loro logiche di azione sono inquadrate e definite prioritariamente da legami di dipendenza economica dal potere pubblico che è fonte di finanziamenti, o più in generale da legami che enfatizzano delle imprese sociali lo statuto di attori economici; esse si impegnano in attività di lobbying, e a volte le si trova coinvolte in alleanze tra politica e affari (si veda anche Gori, 2005). Nel primo caso quel potere pubblico si esprime piuttosto sul terreno politico, nell’attivare e governare potenziali sociali di partecipazione, e nel favorire la natura pubblica e collettiva delle discussioni su obiettivi e risultati delle politiche: con ciò le imprese sociali sono incoraggiate a organizzare ed esprimere spinte dal basso, bottom up, complementari all’esercizio del potere pubblico, top down, con gli strumenti di policy (Bifulco, Bricocoli, Monteleone, 2008; De Leonardis, Emmenegger, 2005 De Leonardis, 2006 b). E in queste interdipendenze tra imprese sociali e amministrazioni pubbliche si possono generare stimoli reciproci a cambiare e ad apprendere in materia di responsabilità politica e di governo della cosa pubblica. E’ evidente che le differenze che ho tratteggiato sul terreno della governance locale delle politiche sociali disegnano i tratti di due modi diversi di esprimersi e agire da parte delle imprese sociali, che le qualificano diversamente rispetto alla sfera della politica e del governo. Per sintetizzare queste differenze si può scomodare l’alternativa tra “arguing e bargaining” che Jon Elster ha discusso a proposito di processi di scelta collettiva e democrazia 13: l’analisi di questi due “atti linguistici” come Elster li qualifica riprendendo Searle - delle loro differenze e dei loro intrecci, aiuta a distinguere tra due arene pubbliche, che sono diverse per i repertori di azione cui gli attori organizzativi attingono e per le grammatiche giustificative con cui li legittimano, e perciò anche a indagare le diverse identità politiche che quegli attori collettivi che sono le imprese sociali assumono e coltivano in queste arene. Il nostro schema si completa così: Dinamiche organizzative: la posizione dei destinatari le forme organizzative le reti inter-organizzative la governance collezioni di individui management aggregazione negoziare collettivi membership integrazione argomentare/discutere 3. Conclusioni Si può convenire sul fatto che, quando si parla d’imprese sociali, ci si riferisce alle cooperative sociali, sia di lavoro che di assistenza. Ma, come abbiamo visto nel primo paragrafo, questo ancora nulla dice su ciò che esse sono e fanno. Le differenze in proposito che ho cominciato a tratteggiare guardando alla posizione che in esse rivestono i destinatari dei loro interventi, sono riconducibili a come le imprese sociali interpretano la loro collocazione ai confini tra assistenza e lavoro (o più genericamente tra economia e società) e riguardano ciò che esse producono e organizzano su questi confini. Per mettere a fuoco le differenze su questo terreno bisogna spostare l’attenzione dalle imprese sociali come organizzazioni (se sono cooperative di tipo A o B, in quale settore di attività, con quale organizzazione del lavoro, management, mission, eccetera) ai processi 13 Elster,1993. E’ importante richiamare il fatto che Elster ha elaborato questa differenza analizzando i lavori di due assemblee costituenti. Tale elaborazione è entrata a far parte del dibattito sulla democrazia deliberativa, un tema qui pertinente che tuttavia non posso sviluppare. Per un approccio al tema coerente con l’analisi che sto conducendo si veda Borghi, 2006. organizzativi in cui sono impegnate e che alimentano; suggerendo così di considerare l’impresa in questione piuttosto nel suo essere un’intrapresa, e di interrogarsi su ciò che essa genera, in termini di organizzazione sociale, nel contesto in cui agisce. Per dotarmi di una chiave di lettura che aiuti a distinguere tra diverse intraprese e i relativi effetti organizzativi, ho attinto all’approccio e ai risultati della ricerca su diverse configurazioni regionali e locali delle nuove politiche sociali e sanitarie in Italia, nelle quali come è noto viene valorizzato il coinvolgimento del terzo settore, e delle imprese sociali, benché in modi diversi. Come abbiamo visto nel secondo paragrafo, le imprese sociali sono impegnate nelle arene in cui si gestiscono e si mettono in opera queste politiche, ne usano gli strumenti normativi, e usandoli interagiscono e si coordinano con gli altri attori, compresi i destinatari. Su questo terreno analitico ho selezionato tre punti focali, per individuare le differenze negli effetti organizzativi che in tal modo esse contribuiscono a generare e alimentare: il primo è quello delle relazioni di servizio e del rapporto con i destinatari, e gli effetti organizzativi si differenziano sia rispetto alla contrattualità conferita ai destinatari – se come collezioni di individui o come (membri di) collettivi – sia rispetto alla configurazione che assumono le organizzazioni che con loro interagiscono – se esse sono basate sul management oppure sulla membership . Il secondo punto focale è quello delle reti interorganizzative che si creano e funzionano nei processi di attuazione delle politiche, e in cui le imprese sociali interagiscono tra loro e con altri attori del campo di policy, in orizzontale. Gli effetti organizzativi riguardano la qualità dei legami che vi si creano – se essi si basano sull’aggregazione strumentale tra interessi egoistici o sull’integrazione finalistica di questi interessi in un frame condiviso. Il terzo punto focale riguarda essenzialmente i rapporti tre le imprese sociali e l’attore pubblico nelle partnership che gestiscono a livello locale queste politiche, nella cosiddetta governance, e gli effetti organizzativi si differenziano a seconda che vi prevalgano le logiche del negoziare o quelle dell’argomentare, la contrattazione di stampo economico o la discussione politica. Ho sintetizzato le differenze che emergono da questi punti focali in uno schema analitico che, nel suo insieme, presenta un grado di coerenza sufficiente a rendere riconoscibili, nelle due colonne e relative parole chiave, due diverse configurazioni dell’impresa sociale e di ciò che essa intraprende; e forse sufficiente anche a riprendere l’interrogativo circa i modi di stare sui confini tra assistenza e lavoro –tra economia e società – che ha guidato questa esplorazione. Come dicevo, questo interrogativo è tanto più rilevante oggi che questi confini sono investiti da dinamiche di cambiamento in cui sono in gioco equilibri (e squilibri) più generali del capitalismo contemporaneo, sul terreno dell’economia e su quello dell’architettura istituzionale. Ho accennato in proposito a porosità e barriere che ridisegnano questi confini; e in ogni caso il campo è denso di tensioni e d’incertezze. Lo schema in questione fornisce qualche indicazione per interrogarsi su ciò che le imprese sociali sono e fanno in queste tensioni e incertezze, che direzioni contribuiscono a imprimere a queste dinamiche di cambiamento. Si tratta di domandarsi se, quando e come accade che un’impresa sociale, embedded in un determinato contesto di policy, cresce sui processi di marketizzazione, sulle porosità attraverso cui le logiche del mercato e dell’impresa penetrano nel mondo dell’assistenza –e delle sofferenze che vi si addensano – per costruirvi il suo spazio di azione, il suo settore di attività, per fare anch’essa del sociale il suo campo di affari – non importa con quali argomenti morali essi siano giustificati. E se magari essa trae vantaggio anche dalle barriere che nel frattempo vengono erette nell’accesso al lavoro, e dalle opportunità complementari offerte da un mercato del lavoro secondario, quello della precarietà, del lavoro sottopagato e dell’assenza di garanzie. Temo non sia difficile rintracciare imprese sociali che si affermano grazie alla combinazione di un orientamento affaristico (o, nel migliore dei casi, assistenzialistico) nei confronti dei propri destinatari e, per ciò che riguarda i propri operatori, di un trattamento del lavoro come “obbligo” 14.Il che rende inevitabile, almeno a me, la domanda: anche questa è impresa sociale? E altrettanto si tratta di domandarsi se, quando e come accade che un’impresa sociale contribuisca viceversa a spostare in avanti la frontiera del controllo della società sull’economia capitalistica, valorizzando anche le risorse politiche della partecipazione democratica alla produzione di società. Le parole chiave raccolte nella colonna di destra forniscono qualche indicazione per esplorare più da vicino questa prospettiva. Cominciando con l’osservare le relazioni di servizio e la posizione dei destinatari in queste relazioni. E’ un terreno modesto, operativo, apparentemente lontano da questioni di politica e democrazia. Eppure queste relazioni, in ragione dell’asimmetria di potere che comunque vi si gioca, costituiscono una matrice di come si diventa cittadini, di come si agisce e si è riconosciuti in questo statuto, e se quest’ultimo si esprime nella partecipazione alla vita pubblica. E’, questa, un’acquisizione che la storia del welfare state ci ha lasciato in eredità; ed è un’acquisizione che le strategie d’impresa sociale orientate a costruire borderlands tra assistenza e lavoro, tra protezione e promozione, hanno raccolto e provato a praticare. Si tratta di vedere se l’imperativo dell’ “attivazione”, della promozione di un ruolo attivo dei destinatari precisamente in queste relazioni, è piegato verso la promozione della loro voce, della loro capacità di essere e fare, di aspirare e di pretendere, anzitutto rispetto alle questioni che li riguardano, e che li legano al servizio; se e come l’asimmetria di questo legame viene tematizzata e trasformata. Ciò che accade nelle relazioni di servizio è dunque un tassello di base di questioni pubbliche e politiche di portata più generale. Precisamente per questo è importante porre attenzione, tra i destinatari e le loro posizioni in queste relazioni, a “quelli che stanno peggio” 15 e vedere se sono le loro capacità di voce ad essere promosse, nell’impresa sociale: come nel caso della cooperativa di lavoro nel manicomio di Trieste da cui è iniziata questa mia riflessione 16. E poi si tratta di vedere se, anzitutto a questo scopo, l’impresa sociale intraprende la costruzione di collettivi di supporto - che proteggono e promuovono - senza i quali la capacità di voce non cresce, e non trova ascolto. Due parole sul significato della “membership” sono qui necessarie. Theda Skocpol, nella ricerca sull’associazionismo civico negli Stati Uniti che ho richiamato, ha mostrato con chiarezza l’importanza che rivestono le forme organizzative della società civile attiva – tra membership e management, dicevamo - nell’alimentare (o meno) culture e pratiche, abitudini e competenze , in fatto di democrazia. Nella sua ricerca viene bene in evidenza che differenza faccia sotto questo profilo come si formi e si legittimi la leadership, se e quali condizioni si diano per “combinare” la pluralità di persone e posizioni differenti in un collettivo in cui riconoscersi, e che 14 Vi è materia per riconoscervi aspetti di “lavoro servile” e quei “contratti di assoggettamento” cui si riferisce Supiot a proposito delle metamorfosi del diritto del lavoro e del diritto dei contratti (Supiot, 2005, 2007). V. anche Monteleone (2005, 2008). 15 Ricordo che i “worst off” , i “least advantaged people” sono alla base della teoria della giustizia di Rawls, e il punto di riferimento critico su cui Sen ha costruito l’approccio delle capacità qui richiamato. 16 E’ superfluo, forse, ricordare che una società democratica ha una vocazione inclusiva, e che le lotte per l’allargamento della cittadinanza, così intesa, costituiscono un motore cruciale della democrazia. relazioni si diano con le istituzioni politiche e di governo. E dà conto di come i cambiamenti in atto nelle organizzazioni civiche - dalla membership al management, appunto – tendano ad alimentare un orientamento “oligarchico”, non democratico, verso il potere e le istituzioni. Benché l’importanza di queste variabili organizzative sia argomentata con riferimento agli Stati Uniti, con una tradizione diversa sia rispetto all’impegno civico che all’architettura istituzionale della democrazia, credo che essa dovrebbe interessarci, tanto più che il riferimento alla tradizione civica degli Stati Uniti come a un modello è spesso evocata anche da noi. Le strategie d’impresa sociale orientate a costruire collettivi di supporto e di promozione delle capacità, che valorizzano questa membership - in cui si coltivano le combinazioni tra differenze, la capacità di supportarle e di sopportarle, e le abitudini del confronto e della partecipazione alle scelte su obiettivi e identità comuni - dispongono per così dire di un capitale politico per agire nell’arena delle politichee per influenzarne le forme di organizzazione. Si tratta allora di vedere se questo capitale è investito anche a questo livello nella costruzione di reti di conflitto cooperativo, in cui è promossa la partecipazione collettiva alla gestione e alla messa in opera delle politiche stesse, e se vi è in gioco l’elaborazione di norme generali e condivise, di regole del gioco, e dunque di istituzioni. In una parola si tratta di vedere se queste strategie d’impresa contribuiscono a fare di quelle arene di policy in cui sono impegnate un cantiere di institution building. Questi interrogativi riguardano il modo di partecipare alle arene di policy, alle reti inter-organizzative e alle partnership della governance locale: se questa partecipazione imprima al passaggio dalla molteplicità di interessi a un interesse collettivo il senso di una trasformazione degli interessi stessi, di una loro “integrazione” (nel senso di March e Olsen), se essa aiuti a organizzare spazi pubblici di discussione, conflitto e deliberazione democratica - l’arguing - attraverso cui quegli interessi “integrati” definiscono e fissano un “interesse generale”. Il richiamo in proposito alla ricerca di Elster è pregnante: essa, in quanto riguarda due diversi processi costituenti, ci ricorda che anche sul terreno delle nostre politiche di processi costituenti si tratta, di cambiamento e costruzione di istituzioni. Ci ricorda che la ridefinizione dei confini tra assistenza e lavoro, tra economia e società, in cui le strategie di impresa sociale sono implicate è anch’essa una questione costituzionale, per così dire, che chiama in causa istituzioni e politica. Le singole imprese sociali come tali sono ben poca cosa in questo campo di forze, e rispetto a queste questioni; il loro potenziale si misura non sul loro essere nicchie di un’economia sociale alternativa all’economia capitalistica di mercato, bensì sulla loro capacità di funzionare da leve di processi di cambiamento sociale nei quali la logica della crescita sia contrastata da una prospettiva di sviluppo. Non so se questa sia una “possibilità reale”, ma almeno in questa prospettiva sta, mi pare, un motivo cruciale di interesse per l’idea dell’impresa sociale. Appadurai, A., 2004, “The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition”, in V. Rao, M. Walton, eds., Culture and Public Action, Stanford University Press Bifulco, L., 2004, Che cos’è l’organizzazione, Roma: Carocci Bifulco, L., 2005, a cura di, Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Roma: Carocci Bifulco, L., Borghi, V. De Leonardis, O., Vitale, T., 2006,eds., Che cosa è pubblico?, La Rivista delle Politiche Sociali, 2, 201-217 Bifulco, L., Bricocoli, M., Monteleone, R., 2008, “Activation and Local Welfare in Italy. Trends, Issues, and a Case Study”, Social Policy and Administration, 2 (forthcoming). Bifulco, L., De Leonardis, O., 1987, a cura di, L’innovazione difficile. Studi sul cambiamento organizzativo nella pubblica amministrazione, Milano: Angeli Bifulco, L., De Leonardis, O., 2006, “L’integrazione tra le politiche come opportunità politica”, in C. Donolo, Il futuro delle politiche pubbliche, Milano: Bruno Mondadori, 31-58 Bifulco, L., De Leonardis, O., Mozzana, C., Vitale, T., 2007, Policy Devices in Action. A Research Strategy for Analysing Normative Resources in a Capability Perspective, CAPRIGHT Papers, www. Capright.eu. Bifulco, L., Vitale, T., 2006, « Contracting for Welfare Services in Italy », Journal of Social Policy, 3, 495-513 Bonvin, J.-M., Farvaque, N., 2006, Promoting Capability for Work: The Role of Local Actors, in S. Deneulin et al., eds., The Capability Approach, Towards Structural Transformations, Dordrecht: Springer, 121-143 Borghi, V., 2001, “Terzo settore e legame sociale: logiche di azione nel non profit e forme di integrazione tra economia e società”, in M. La Rosa, a cura di, 157-200 Borghi, V., 2006, “Tra cittadini e istituzioni. Riflessioni sull’introduzione di dispositivi partecipativi nelle pratiche istituzionali locali”, in Bifulco et al., a cura di, 147-181 Borghi, V., Rizza, R., 2006, L’organizzazione sociale del lavoro, Milano: Bruno Mondadori Brown, W., 2008, Porous Sovereignty, Walled Democracy, Università di Roma Tre, marzo Bricocoli, M., De Leonardis, O.,Tosi, A., 2008, “Infléxions néo-libérales dans les politiques locales en Italie, in Donzelot, J., ed., Ville violence et dependence sociale, Paris: Editions du PUCA. Castel, R., 2001, L’insécurité sociale, Paris : Seuil Cefaï, D., 2006, “Due o tre cosette sulle associazioni…Fare ricerca su contesti ibridi e ambigui”, Centemeri, L., 2007, “La contrattualizzazione del governo del territorio: versioni diverse dei Piani di Zona e loro implicazioni, in Monteleone, a cura di, 81-104 Colonna, M., Pugliese, E., 2007, a cura di, Il futuro del lavoro in Europa. Occupazione, diritti civili, diritti sociali,Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane Giorgi, A., Polizzi, E., 2007, “Contrattualizzazione e mercato sociale: il caso dei voucher” in Monteleone, a cura di, 105-122. Centemeri,L., de Leonardis, O., Monteleone,R., 2006, “Amministrazioni pubbliche e terzo settore nel welfare locale”, Studi Organizzativi, 1, 145-170 Centemeri, L., Emmenegger, T., Monteleone, R., 2007a, “Gli enti di formazione impegnati nel campo della disabilità”, in M. Colasanto, L. Galetti (a cura di), Sostenere l'inserimento lavorativo di persone con diverse abilità, volume secondo di: Valutare la qualità, Milano: Franco Angeli, 59-82 Centemeri, L., Emmenegger, T., Monteleone, R., 2007b, “I risultati dell’indagine valutativa sugli esiti dei corsi FSE nel quinquennio 2001–2005 per persone con disabilità”, in M. Colasanto, L. Galetti (a cura di), Sostenere l'inserimento lavorativo di persone con diverse abilità, volume secondo di: Valutare la qualità, Milano, Franco Angeli, 137-190. De Leonardis, O., 1990, Il terzo escluso. Le istituzioni come vincoli e come risorse, Milano: Feltrinelli De Leonardis, O., 2003, Social Market, Social Quality and the Quality of Social Institutions, W. Beck, L. et al., eds., Social Quality: A Vision for Europe, The Hague/London/Boston: Kluwer Law International, 199-212 De Leonardis, O., 2006a, « L‘onda lunga della soggettivazione : una sfida per il welfare pubblico », in Bifulco et al.,a cura di, 13-38 De Leonardis, O., 2006 b, “Social Quality, Social Capital, and Health”, European Journal of Social Quality, 3 De Leonardis, O., Emmenegger, T., 2005, « Le istituzioni della contraddizione » Rivista Sperimentale di freniatria, 3, 13-38 De Leonardis, O., Mauri, D., Rotelli, F., 2004, L’impresa sociale, Milano: Anabasi Donolo, C., 2007, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita, Milano: Bruno Mondadori Elster, J., 1993, Argomentare e negoziare, Milano: Anabasi Eliasoph, N., 2007, « Cercando intensamente di creare ‘comunità’ , ‘natura’ ed ‘intimità’. Astrazioni sulla conoscenza locale”, in Vitale, T.,ed., In nome di chi?, Milano: Franco Angeli, 255286 Evers, A., 2008, “Observations on Uncivility – Points of Reference to Blind Spots in Third Sector Research”, ISTR/EMES World Congress, Barcelona, July Gori, C., 2005, ed., Politiche sociali di centro-destra. La riforma del welfare lombardo, Roma:Carocci Hirschman, A., 1970, Exit, Voice, Loyalty: Responses to the Decline in Firms, Organizations, and States, Cambridge, Mass./London:Harvard University Press Hunter, J.D., 1998, “The American Culture War”, in P. Berger, a cura di, The Limits of Social Cohesion, Boulder/Oxford: Westview Press, 1-37 La Rosa, M., 2001, a cura di, Le organizzazioni nel nuovo welfare : L’approccio sociologico, Rimini: Maggioli La Rosa, M., 2001, « Welfare rinnovato e ruolo della cooperazione », M. La Rosa, a cura di, 97111 Lascumes, P., Le Galès, P., 2004, Gouverner par les instruments, Paris : Presses de Sciences-Po Laville, J.-L., 2007, « La nuova questione sociale : ripensare l’articolazione tra lavoro e protezione sociale », in M. Colonna, E. Pugliese, Il futuro del lavoro in Europa. Occupazione, diritti civili, diritti sociali, Napoli/Roma: Edizioni Scientifiche Italiane, 233-248 March, J.G., Olsen J. P., 1995, Democratic Governance, New York: The Free Press. Mauri, D., 2007, “Friuli-Venezia Giulia: la leva dell’integrazione”, in Monteleone, a cura di, 62-80 Monteleone, R., 2005, “La contrattualizzazione delle politiche sociali: il caso dei voucher e dei budget di cura”, in Bifulco, L., ed., Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Roma: Carocci Monteleone, R., 2007, ed., La contrattualizzazione delle politiche sociali: forme ed effetti, Roma: Officina Monteleone, R., 2008, “La contrattualizzazione delle politiche e dei servizi di welfare: forme organizzative ed effetti sui territori”, in Cecchi, C., Curti, F., De Leonardis, O., Karrer, F., Moraci, F., Ricci, E., eds., Il management dei servizi urbani tra piano e contratto, Roma: Officina, 11-63 Monteleone, R., Mozzana, C., 2008 "L’inserimento lavorativo dei disabili nel contesto milanese tra vecchi limiti e nuove opportunità" , paper presentato al XXI Eura Conference, Politecnico di Milano, ottobre Paci, M. 2005, Nuovi lavori, nuovo welfare, Bologna : Il Mulino Pestoff, V., 2006, “Citizens and Co-Production of Welfare Services. Childcare in eight European Countries”, Public Management Review, 8(4), 503-519 Polizzi, E., 2007, Costruire le politiche sociali con la società civile. Programmazione locale e forme di partecipazione, Tesi di Dottorato, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano Saraceno, B., 2000, Oltre l’intrattenimento, 3° edizione, Milano: Etas Libri Skocpol, T., 2003, Diminished Democracy: From Membership to Management in American Civic Life, Norman: University of Oklaoma Supiot, A., 2005, Homo Juridicus, Paris : Seuil Supiot, A., 2007, « Les deux visages de la contractualisation : déconstruction du droit et renaissance féodale », in S. Chassagnard-Pinet, D., Hiez, Approche critique de la contractualisation, Paris : LGDJ, 19-44 Tosi, S., 2007, “La riorganizzazione dei servizi socio-sanitari in Lombardia: le nuove politiche sociali e la via del mercato”, in Monteleone, a cura di. Weick, K., 1995, Sensemaking in Organizations, Thousand Oaks, CA: Sage