La dinamica del pacifismo
Transcript
La dinamica del pacifismo
Articolo per Parole Chiave, luglio 2000 La dinamica del pacifismo di Giulio Marcon e Mario Pianta Oltre un decennio dopo la fine della guerra fredda, nuove guerre - locali, etniche, civili, ma anche quelle del nuovo interventismo della Nato - rioccupano buona parte dell'atlante mondiale, dall'Asia sud-orientale a metà dell'Africa, da parti dell'America Latina alla stessa Europa, segnata delle guerre dei Balcani e da quella dei russi in Cecenia. Proprio in Europa il ritorno della guerra ha rappresentato una drastica rottura, dopo il lungo tabù che almeno nei paesi occidentali aveva caratterizzato i quarant'anni di guerra fredda. Ora il ricorso all’opzione militare caratterizza le politiche estere e di sicurezza degli stati, disegna le nuove strategie di intervento, consolida il nuovo potere delle gerarchie militari in tutti i paesi, produce un aumento delle spese militari e degli acquisti di armi più sofisticate, fondate sul primato della ricerca tecnologica; si profila addirittura una ripresa della corsa al riarmo tecnologico con il progetto degli Stati Uniti di realizzare “scudi” antimissile in aperta violazione del Trattato Abm sulle armi contro i missili balistici. Queste nuove strategie militari nazionali sono state formalizzate nel 1999 con la definizione del nuovo concetto strategico della Nato, che cambia la natura dell’Alleanza atlantica e apre la porta a interventi militari in ogni parte del pianeta. Il fondamento di questo rinnovato ruolo del potere militare è l’affermazione degli interessi economici, politici e strategici dei paesi occidentali e in primo luogo degli Stati Uniti, il recupero di egemonia dell'occidente sulle periferie del mondo, degli Stati Uniti sull'Europa, del potere militare sull'integrazione politica e sociale, della forza delle armi sulle strutture di un possibile ordine democratico internazionale, basato sul sistema delle Nazioni Unite. Un velo ideologico al ritorno della guerra e all’opzione militare è stato fornito dalla giustificazione “umanitaria” dei nuovi interventismi: in nome di questo umanitarismo si intraprendono non solo azioni militari dirette, ma anche il ricorso ai protettorati internazionali garantiti dalla presenza degli eserciti, la subordinazione dell’azione delle organizzazioni non governative in una logica integrata a quella militare, il controllo delle vie di comunicazione di rifornimento energetico. Ma la retorica sulla "guerra umanitaria", che ha raggiunto le vette più alte ai tempi dell’intervento della Nato in Kosovo, nella primavera del 1999, è stata presto cancellata dal via libera che pochi mesi dopo Stati Uniti ed Europa hanno dato alla guerra dei russi in Cecenia, ben più feroce della repressione di Milosevic contro gli albanesi del Kosovo. Così la vecchia realpolitik dei rapporti tra grandi potenze ha ripreso il suo posto dopo la breve frenesia di progettare interventi militari ovunque siano violati i diritti umani.1 1 Un esempio significativo di questa illusoria velleità è stato l'inserimento nella dichiarazione finale del vertice dell'Internazionale socialista, tenuto a Parigi nel 1999, del principio della legittimità della "guerra umanitaria" da parte dell'occidente, rovesciando decenni di elaborazioni su disarmo e “sicurezza comune”, a cui personalità socialdemocratiche come Willy Brandt e Olof Palme avevano dato un determinante contributo negli anni ‘70 e '80. 1 La dinamica della guerra Diverse analisi recenti hanno messo in luce la nuova natura dei conflitti scoppiati dopo la fine della guerra fredda e le nuove strategie dei paesi occidentali.2 Come si possono riassumere i caratteri di fondo dei nuovi conflitti, quali sono gli elementi chiave della dinamica delle nuove guerre? In primo luogo sono guerre contro la società, che possono vedere protagonisti stati veri e propri, alleanze internazionali, corporazioni politiche o militari organizzate (clan locali, bande paramilitari, ecc.) in nome quasi sempre di un nazionalismo rinnovato e strumentale. Non sono più guerre tra stati e tra eserciti, e producono soprattutto vittime civili, rifugiati, violazioni dei diritti umani. Stati di diverso potere usano strumenti militari diversi, dalle bande paramilitari ai bombardieri strategici, ma la logica resta la stessa. Le guerre dei nazionalisti non hanno come conseguenza, ma come obiettivo la pulizia etnica, per creare territori omogenei e controllabili, disumanizzano l’avversario, epurano il proprio campo, producono logiche imitative di terrore, dove non c’è spazio per mediazioni e neutralità. I nuovi conflitti - specie nei paesi dell’est e in quelli del Sud del mondo - esprimono in modo drammatico e perverso nodi irrisolti e contraddizioni portate allo scoperto dai processi della globalizzazione e di una modernità sotto il segno dei poteri forti, economici e militari: la crisi delle funzioni e dei poteri dello Stato nazionale, il progressivo svuotamento dei legami e della coesione sociale, la crisi del fondamento laico della cittadinanza sotto la spinta identitaria delle matrici etniche e religiose, il progressivo affermarsi del populismo come cifra della politica delle nuove leadership. 3 In secondo luogo sono guerre periferiche, sia in senso geografico che sociale; i conflitti che scoppiano più violentemente non interessano le aree centrali dell'Europa e delle popolazioni dei paesi coinvolti, gli interventi occidentali sono effettuati senza eserciti di terra (“dall’alto”, come la recente guerra della Nato) con la preoccupazione di evitare a ogni costo morti tra i "nostri" soldati. Si tratta di conflitti che vanno tenuti lontano, insegnando alle società ricche che si può vivere tranquillamente avendo i propri professionisti della guerra Anche la sinistra che governa l'Europa accetta la concezione di un “ordine mondiale” fondato sulla forza militare dell’egemonia degli Stati Uniti e della Nato 2 La strategia della Nato è esaminata in I signori della guerra di Isidoro D. Mortellaro (Manifestolibri, 1999); gli aspetti economici sono trattati sul numero 2 della rivista Surplus (Editoriale l'Espresso, maggio 1999) nell'articolo di Andreas Corti "L'economia dei signori della guerra" e nel Forum tra esperti su "L'economia mondiale delle armi". La natura dei nuovi conflitti è esaminata in Le nuove guerre. La violenza organizzata nell'età globale di Mary Kaldor (Carocci, Roma, 1999); gli interventi occidentali sono analizzati da Noam Chomsky in Il nuovo umanitarismo militare (Asterios, 2000). I conflitti nell’ex Jugoslavia, fino a quelli in Kosovo, e le alternative di pace sono analizzati in Dopo il Kosovo. Le guerre dei Balcani e la costruzione della pace di Giulio Marcon (Asterios, 2000). 3 Mary Kaldor in op.cit. sottolinea l'indebolimento degli stati nazionali e la "privatizzazione della guerra" da parte di forze che affermano una particolare identità (etnica, religiosa o di altro tipo) contro altri settori della società. Si veda inoltre Hans Magnus Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einuaudi, Torino 1994; AAVV, Delle guerre civili, il manifesto, Roma 1993; Gabriele Ranzato, a cura di, Guerre fratricide, Bollati Boringhieri, Torino 1994) 2 all'opera dov'è opportuno, un po' come è successo per secoli alle potenze coloniali europee e agli Stati Uniti fino alla guerra del Vietnam, e dopo la guerra del Golfo. Questo rappresenta un cambiamento di fondo rispetto alla guerra fredda, quando l’Europa era il teatro principale di confronto strategico e i territori delle stesse superpotenze erano minacciati dalla distruzione nucleare. Ora i teatri di guerra sono nelle aree periferiche, ai confini tra Nord e Sud del mondo, dove si gioca il controllo delle risorse e delle vie di comunicazione strategiche (Golfo persico e Medio Oriente, Europa sud-orientale e prossimamente Caucaso, ecc.). In terzo luogo le guerre hanno natura asimmetrica, diversa per i diversi protagonisti. La seconda guerra mondiale e quelle di liberazione nazionale anticoloniale avevano la stessa posta per entrambi gli avversari: l'affermazione di valori universali e di un progetto di società. Ora invece per i paesi in cui si combatte si tratta di guerre fondative (e spesso fondamentaliste), nel senso che la guerra stessa fa parte della fondazione dell'identità particolaristica del paese (o dell’area interessata dal nuovo nazionalismo), in contrapposizione ad altre identità differenti. Per gli stati più potenti che si trovano a decidere di intervenire militarmente in questi conflitti, la scelta tra le identità particolaristiche in lotta viene ricondotta sul piano della propaganda ai valori universalistici che si dichiara di voler sostenere (la difesa dei diritti umani dei musulmani in Kosovo, l'autodeterminazione o la sovranità nazionale.), mentre sul piano della politica concreta si rivelano essere guerre strumentali, costruite a tavolino, per affermare il proprio potere internazionale (Clinton), per ricostruire consenso interno e vincere le elezioni (Eltsin e Putin), legittimarsi sul piano internazionale (D'Alema). Se da un lato le "nuove guerre" hanno avuto spesso una matrice interna, intrastatuale, etnica o nazionalista, sviluppatasi anche per reazione a crisi economiche, ai rapidi e incontrollati processi di globalizzazione e alle trasformazione delle relazioni internazionali, oggi questi conflitti sono diventati centrali nelle strategie di potere politico e militare delle grandi potenze. Non si può comprendere la dinamica delle nuove guerre quindi se non si tiene conto di tre fattori chiave che si inseriscono sulle radici locali dei conflitti: a) l’interventismo occidentale per il controllo di aree di interesse strategico ed economico (ad esempio in Medio Oriente o nel Golfo Persico) e per le ambizioni geopolitiche (a volte contrapposte) di potenze regionali (l’Europa nei Balcani o la Turchia nel Caucaso); b) l’assenza di meccanismi di prevenzione e di intervento (il ruolo dell’ONU, dell’OSCE e degli altri organismi internazionali) dopo la fine del controllo dei Usa e Urss sulle rispettive aree di influenza, c) la carenza di una prospettiva di integrazione politica ed economica capace di offrire un quadro strutturale per la soluzione di conflitti in aree caratterizzate storicamente da forti tensioni e violenze interetniche o per il controllo di risorse naturali (si pensi all’Africa – Congo, Ruanda, Burundi, Angola, Sierra Leone, ecc.). La dinamica della pace Se questa è, molto schematicamente, la dinamica della guerra, quale può essere la dinamica della pace? Una discussione delle soluzioni strutturali ai nuovi conflitti sopra descritti richiederebbe un esame approfondito dei problemi attuali e delle alternative possibili 3 sul piano dell’ordine economico, degli assetti politici, delle autorità sovranazionali e degli strumenti per realizzare interventi di polizia internazionale e per la soluzione dei conflitti.4 Ci concentriamo qui piuttosto sulla dinamica della pace in quanto forza politica e sociale capace di contrapporsi alle scelte di guerra e di interventismo militare all’estero dal punto di vista dei paesi occidentali, e in particolare sulla dinamica del pacifismo in quanto movimento capace di influenzare l’opinione pubblica, di condizionare l’azione dei governi, di costruire politiche alternative, in primo luogo in Italia e poi in Europa. Il ritorno della guerra, naturalmente, rappresenta di per sé un arretramento dell’orizzonte della pace.5 Tuttavia, le dinamiche internazionali e le risposte delle società civili alle guerre non possono essere interpretate come una partita tra due forze schierate e contrapposte. Non esistono un fronte della guerra e un fronte della pace definiti in modo predeterminato. I risultati di un movimento complesso e variegato come il pacifismo vanno esaminati sull’onda lunga dei processi che definiscono valori, politiche e culture: la caduta del muro di Berlino, la fine della guerra fredda, perfino l’inizio dell’inversione di tendenza nei Balcani (la vittoria della sinistra alle elezioni politiche in Croazia e a quelle municipali in Bosnia Erzegovina) indicano la validità delle intuizioni e del lavoro pacifista svoolto in profondità e con continuità in questi anni. In realtà, di fronte alle guerre, le forze sociali e politiche si compongono e scompongono in base alle dinamiche specifiche dei conflitti: l'opposizione alla guerra fredda aveva natura e fondamenti assai diversi da quella contro gli interventi militari dell'occidente nei nuovi conflitti. Così, la dinamica delle guerre attuali sopra delineata è costruita anche per assicurare la scomposizione dei soggetti di opposizione potenziale, ai livelli più diversi, da quello 4 Tra le analisi e le proposte disponibili si possono ricordare quelle della Commission on Global Governance nel suo rapporto Our global neighbourhood (Oxford university press, 1995); Johan Galtung, Peace by Peaceful Means, Sage, Londra 1996; Jean-Marie Muller, Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; AAVV. Fare la pace, Ed. Kaos, 1992. Le prospettive di un ordine politico internazionale di pace, nella prospettiva cosmopolitica, sono delineati in Cosmopolis. E' possibile un governo sovranazionale? di Archibugi, Falk, Held, Kaldor (Manifestolibri, 1993), Diritti umani e democrazia cosmopolitica di Archibugi e Beetham (Feltrinelli, 1998) e Per un governo umano. Verso una nuova politica mondiale di Richard Falk, (Asterios, 1999). Le proposte dei pacifisti italiani sono state sviluppate in lavori come quello della Campagna Venti di Pace, Addio alle armi, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1992 e in Carla Manzocchi (a cura di), Il vizio della guerra, Edizioni Associate, Roma 1992. Alcuni problemi degli “interventi umanitari”, nel filone discutibile della teoria della “guerra giusta”, sono proposti in “Humanitarian intervention and just war”, di Mona Fixdal e Dan Smith, Mershon International Studies Review, n.42, 1998; si veda infine, Les ambiguites de l’humanitarie, in “Panoramiques”, Parigi, 24/1996) e Noam Chomski, op. cit. Per un quadro dell’evoluzione del pacifismo si veda C.Ingrao, G.Marcon e M.Pianta Pacifismo, voce della Quinta Appendice dell’Enciclopedia Italiana, Istituto Treccani, Roma, 1994. 5 Un articolo di Pietro Ingrao sulla Rivista del Manifesto (n.2, 1999) sosteneva che ogni guerra dimostra "la sconfitta grave e dolorosa del pacifismo". Si tratta di un giudizio non nuovo - era stato già detto dopo la guerra del Golfo e, ancora prima, per gli euromissili negli anni ’80 - ma a cui sfugge la natura più complessa e dinamica degli schieramenti politici e sociali sui temi della pace e della guerra. Si veda anche Alex Langer, “Pacifismo tifoso, pacifismo dogmatico, pacifismo concreto”, in Antonino Drago e Matteo Soccio (a cura di), Per un modello di difesa nonviolento, Editoria Universitaria, Venezia 1995. 4 ideologico (la "guerra umanitaria"), a quello strategico (la guerra aerea senza vittime "nostre"), da quello sociale (la costruzione del consenso) a quello politico (la razionalità della guerra nel quadro della politica internazionale del paese). Quali sono allora i canali in cui si può costruire un’alternativa a questo modello, l'opposizione alla guerra e una cultura di pace? Iniziamo dai meccanismi che hanno alimentato il pacifismo negli anni dopo la fine della guerra fredda. Se ne possono individuare tre: la solidarietà informata della società civile, lo sviluppo di un pacifismo concreto, con una rete di relazioni dirette con i paesi in conflitto, la capacità di produzione diretta di politiche a livello nazionale, europeo e delle Nazioni Unite. Questi meccanismi hanno poi condotto, nei campi di maggior intensità dell’impegno per la pace, a una serie di pratiche più avanzate per la prevenzione dei conflitti, per fermare le guerre in corso, per la costruzione della pace e per la ricostruzione sociale dei paesi usciti dai conflitti. In primo luogo è stata importante la solidarietà informata della società civile, che univa valori universalistici come la difesa dei diritti umani, declinati anche con spinte ideologiche o religiose diverse, con il crescente ruolo svolto dall'opinione pubblica internazionale, o almeno della parte in grado di sottrasi alla manipolazione dei media. In questi anni vi è stata l’elaborazione di una vera e propria politica della solidarietà (cosa diversa dalla pratica della solidarietà politica con i movimenti di liberazione nazionale degli anni ‘60 e ‘70). In secondo luogo, tra i soggetti più attivi è nato un pacifismo concreto, con lo sviluppo di una rete di relazioni dirette con le società civili delle aree dei conflitti, unendo volontariato, solidarietà concreta disobbedienza civile e pratiche politiche in forme originali di diplomazia popolare. Iniziata, a Muro di Berlino appena caduto, con l'esperienza di Time for Peace in Palestina nel 1989-90 (1000 pacifisti italiani ed europei insieme a palestinesi e israeliani), questa pratica ha segnato il decennio di risposte ai conflitti dei Balcani, con 15 mila persone che dall'Italia sono andate a portare solidarietà e realizzare progetti di convivenza e costruzione della pace in tutte le repubbliche dell'ex Jugoslavia e in Albania. Questa strada della globalizzazione dal basso, della costruzione di una società civile che sappia attraversare i confini degli stati, ha caratterizzato dal 1995 in poi il percorso delle ultime Marce per la pace Perugia-Assisi e le tre edizioni dell'Assemblea dell'Onu dei popoli, coinvolgendo una rete capillare di organizzazioni ed enti locali in tutta Italia e centinaia di migliaia di persone che hanno partecipato alle manifestazioni. Questi aspetti sono particolarmente forti nell'esperienza italiana del pacifismo, che ha tenuto viva l'opposizione alle guerre assai più che in altri paesi europei, grazie anche ad una maggior politicità e una visione più generale, come si è visto durante la guerra del Kosovo. In terzo luogo, la dinamica del pacifismo dell'ultimo decennio ha mostrato l'importanza di trasformare le pratiche sociali in produzione diretta di politiche a livello nazionale, europeo e delle Nazioni Unite. Questo è quello che è stato fatto con successo su terreni come i trattati di disarmo degli anni '90 e poi la messa al bando delle mine, le attuali campagne per limitare armi leggere e bambini-soldato, l'istituzione del Tribunale internazionale dell'Aia. Anche queste sono importanti risultati dei pacifisti, del loro lavoro nel profondo, che hanno prodotto nuove norme di comportamento internazionale e nuovi vincoli per l'azione militare che fino a poco tempo fa erano impensabili. 5 Più in generale la produzione diretta di politiche ha tentato di investire anche l’impostazione e la direzione della politica estera e di cooperazione e dei governi criticando lo strabismo verso le guerre dimenticate o quelle dove la realpolitik ha impedito alcun tipo di intervento (ad esempio la Cecenia e i Curdi in Turchia). Vi è qui un limite dell’azione dei pacifisti che da una parte non ha saputo incidere sulle dinamiche e i processi della politica dei governi, arginando solo in parte la nuova ideologia delle “guerre umanitarie”, e dall’altra non è sempre riuscita a non farsi condizionare dall’agenda mediatica dei conflitti imposti all’attenzione dell’opinione pubblica, trovando difficoltà a marcare la propria iniziativa verso le guerre lontane, soprattutto quelle drammatiche del continente africano (Sudan, EtiopiaEritrea, Congo, Sierra Leone, ecc.). Inoltre la giusta attenzione ai nuovi compiti da assegnare all’ONU attraverso una sua riforma (prevenzione dei conflitti, costruzione della pace, democratizzazione delle Nazioni Unite) ha fatto in alcuni casi perdere di vista i meccanismi materiali di riorganizzazione e ristrutturazione della NATO, che si è imposta come l’organismo centrale del mantenimento dell’ordine e della sicurezza mondiale a tutela degli interessi occidentali. A questa difficoltà del pacifismo non è estranea la pressochè totale abdicazione della sinistra politica - una tra le culture politiche di riferimento del pacifismo - che ha progressivamente abbandonato la visione della sicurezza comune, del disarmo, dell’interdipendenza e del dialogo Nord-Sud costruita negli ’70 e ’80 (pensiamo all’opera di personalità come W. Brandt e O. Palme) per accettare la strategia “unipolare” degli Stati Uniti e la politica di potenza della NATO. Le pratiche dei pacifisti Nei casi in cui l’impegno per la pace è stato più intenso sono emerse nuove modalità delle pratiche realizzate dalle forze pacifiste e, più in generale, dalle organizzazioni della società civile. 6 Il primo tipo di attività riguarda la prevenzione, che presuppone capacità di conoscenza, osservazione e monitoraggio delle aree di crisi e conseguente azione di informazione e di pressione sulle organizzazioni internazionali e sui governi, nonchè di azione sul campo, con iniziative di dialogo, di comunicazione, di mediazione, di compromesso, per evitare che il conflitto degeneri in guerra. Questo non è stato fatto in Kosovo, dove dal 1992 le organizzazioni pacifiste europee presenti nell’area avevano ripetutamente avvertito, senza trovare ascolto, dei rischi dell’esplosione di un conflitto. Già dal 1991 pacifisti e società civile avevano messo in guardia l’opinione pubblica e il mondo politico sui pericoli dallo scoppio di conflitti nella Federazione Jugoslavia (si vedano le previsioni dell’assemblea della Helsinki Citizens Assembly - rete di organizzazioni civiche europee dell’est e dell’ovest - che si tenne nel marzo del 1991 a Bratislava), sul rischio di un suo possibile allargamento in Bosnia Erzegovina (si pensi alle informazioni e testimonianze raccolte sul campo dalla Carovana della pace di 400 pacifisti italiani ed europei, conclusa a Sarajevo nel settembre 1991), sul pericolo di un suo prolungamento in Kosovo (a partire dal 1993 la Campagna per il Kosovo, 6 La stessa crescita quantitativa delle organizzazioni non governative è stata fortissima, moltiplicata in trent’anni da poche centinaia a decine di migliaia e ormai c’è un riconoscimento generale (si vedano a proposito le considerazioni di Boutros Ghali ne l’Agenda per la pace, 1992) del ruolo che la componente civile può avere in missioni di prevenzione, di mantenimento e di costruzione della pace soprattutto in conflitti etnonazionali, dove è importante il ruolo di gruppi civili e non governativi che possano ristabilire condizioni di fiducia e riconciliazione tra le componenti delle comunità che si percepiscono come nemiche. 6 composta da Mir, Pax Christi ed altre organizzazioni, era presente sul campo con una continua azione di monitoraggio), Purtroppo la comunità internazionale non solo ha sottovalutato quelle (e altre) avvisaglie e le valutazioni emerse dalle esperienze pacifiste e della società civile, ma ha anche accelerato alcune spinte (come dimostra la vicenda dell’avallo europeo al referendum che avrebbe sancito la separazione della Bosnia Erzegovina dalla Federazione Jugoslavia) che avrebbero inevitabilmente provocato ed esteso la guerra. Solo l’OSCE - non l’ONU, nonostante l’importanza data nell’Agenda per la pace di Boutros Ghali al ruolo della diplomazia preventiva - si è dotato di strumenti effettivi di monitoraggio permanente delle aree di tensione e di conflitti; ma con così pochi soldi e funzionari da rendere l’azione poco più che simbolica, anche se in alcuni casi con interventi positivi (si veda il caso del conflitto Azerbajgian-Armenia sul Nagorno-Karabach). La prevenzione, se attuata con convinzione, è efficace, come dimostra il caso della Macedonia, dove dal 1992 è stata presente la missione dell’ONU, denominata UNPREDEP (United Nation Deployment Prevention) e che con la presenza di caschi blu ha avuto un effetto dissuasivo (la presenza di osservatori aumenta il costo politico dell’impiego della violenza da parte degli attori locali) e di monitoraggio delle possibili tensioni sul territorio. Un intervento civile di prevenzione sul campo presuppone iniziative concrete e diffuse (e continuative) di educazione, cooperazione e radicate nelle comunità, che presuppongono tempi lunghi e capillarità sul territorio, coinvolgimento dei soggetti locali. Fermare la guerra è il secondo tipo di impegno che i pacifisti si sono assunti, sicuramente il più difficile, dove la sproporzione tra mezzi a disposizione e fini che ci si prefigge è più drammatica. I livelli di intervento nel corso di una guerra (per fermarla, ma anche per arginarne gli effetti, limitarne le conseguenze, evitarne un allargamento) possono essere diversi.7 Il più immediato è la pressione politica sul governo del proprio paese, se coinvolto nella guerra o se può esercitare una qualche influenza sulle sorti del conflitto: manifestazioni, azioni di lobby, mobilitazioni locali (e in Italia quelle contro la guerra della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia e la pulizia etnica in Kosovo sono state particolarmente intense). Un intervento più impegnativo nasce dalla rete di relazioni dirette stabilite con i luoghi di conflitto e porta a una presenza sul campo, a forme di interposizione, intesa non come separazione tra i combattenti, ma come attività diffusa tra le popolazioni. Nell’ex Jugoslavia le esperienze italiane sono state moltissime: i progetti e le iniziative realizzate dal 1993 a oggi dal Consozio Italiano di Solidarietà (ICS), le azioni di interposizione volta a fermare anche simbolicamente la guerra (la “marcia dei 500” e Mir Sada promosse dai Beati i costruttori di pace nel dicembre del 1992 e in agosto 1993), il sostegno alle forze democratiche e pacifiste offerto da ICS e Associazione per la pace, il dialogo interetnico, la diplomazia popolare e di riconciliazione (Forum di Verona per la ex Jugoslavia promossa da Alex Langer o gli incontri della Helsinki Citizens Assembly). Una precedente esperienza di questo tipo realizzata dai pacifisti italiani è stata quella, già citata, di Time for peace in Israele e Palestina, che vide nel 1989-90 oltre mille pacifisti italiani ed europei partecipare a iniziative comuni con organizzazioni israeliane e palestinesi coinvolgendo oltre 30 mila persone del luogo. 7 Si veda, tra gli altri, Jean-Marie Muller, Vincere la guerra, edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Antonino Drago, Peacekeeping e Peacebuilding. La difesa sociale con mezzi civili, Ed. Qualevita, Sulmona 1997 7 Altre iniziative hanno riguardato l’ Iraq, i paesi del Caucaso e l’America Centrale, dove la Peace Brigade International ha realizzato attività di “accompagnamento”, per garantire condizioni di sicurezza, a esponenti democratici e pacifisti in El Salvador, Haiti, Guatemala, fino all’Irlanda del Nord dove si è realizzato il programma Mutual Understanding and Contacts per ricostruire ponti di comunicazione e di dialogo tra le comunità. Di particolare interesse in questo contesto è la proposta dei Caschi bianchi, lanciata da gruppi di obiettori di coscienza e dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, una sorta di peacekeeping civile impegnato in attività di interposizione e di aiuto umanitario realizzato con alcune esperienze nelle Krajine della Croazia e in Kosovo. Un attività analoga è stata sviluppata in Chiapas, con la presenza di qualificati osservatori internazionali (in Italia è attiva l’associazione Ya Basta) nelle aree dove più intensa si faceva la repressione dei militari messicani, riuscendo a sollecitare l’attenzione dell’opinione e delle istituzioni italiane ed europee. A queste esperienze dal basso sono da collegare alcuni indirizzi politici delle istituzioni, come la risoluzione del Parlamento Europero del maggio del 1995 che prospetta “la creazione di un organo civile europeo di pace (European Civil Peace Corps) al quale partecipino obiettori di coscienza, un organo che possa formare al suo interno osservatori, mediatori e persone specializzate nel componimento dei conflitti “. Queste iniziative si collegano poi alle forme di diplomazia alternativa realizzata dalla società civile in parallelo a quella dei governi. I casi più noti sono quelli portati avanti dalla Comunità di S.Egidio di Roma, che grazie alla sua mediazione (soprattutto a livello di vertice), ha contribuito al raggiungimento dell’accordo di pace per il Mozambico e sulla libertà di insegnamento in Kosovo durante la guerra, e ha portato avanti un significativo tentativo di pacificazione in Algeria. L’Associazione per la pace e l’Arci hanno invece promosso nel 1995 il dialogo tra serbo-bosniaci e musulmano-bosniaci con gli incontri organizzati a Perugia tra i leader dell’opposizione bosniaca a Izetbegovic e di quella serbobosniaca a Karadzic: erano i primi incontri pubblici tra esponenti di primo piano di campi “nemici”. La varietà di azioni fin qui ricordate rientrano tra le tattiche di intervento civile per la riduzione della violenza in un conflitto che prevedono presenza dissuasiva sul campo, allargamento del coinvolgimento di soggetti interessati, azioni a volte a bloccare l’estensione del conflitto e le dinamiche di guerra.8 Un terzo tipo di impegno diretto riguarda la costruzione della pace. Quando le guerre finiscono, raramente si dà una pace già effettiva. Cessano le violenze e i combattimenti, ma restano da sradicare le ragioni della guerra avvenuta, da avviare la riconciliazione, da ricostruire le condizioni di una pace vera. Sul terreno della riconciliazione sono da registrare in questi anni iniziative di grande rilievo. La “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” in Sudafrica, la “Commissione nazionale per la Verità e la Giustizia” ad Haiti (1995) e la commissione “Verità per il Salvador” (1991), insieme ad altre esperienze in Guatemala e altri paesi dell’America latina, hanno avuto la funzione fondamentale di accertare la verità, le colpe e le responsabilità dei crimini commessi durante i conflitti, inserendo questo riconoscimento e risarcimento delle vittime in un processo di riconciliazione e, spesso, di perdono e concessione di impunità penale ai colpevoli. In ex Jugoslavia non è stato possibile fino ad oggi fare nulla di analogo, per l’assoluta mancanza di condizioni, ma questa strada potrebbe essere sperimentata in futuro. 9 8 Marta Martinelli, Track II Diplomacy as a Complement to Official Diplomacy, Training in EU Affairs for Diplomats from Central and Eastern Europe, Cervia, 1999. 9 Si veda Johan Galtung, Peace by Peaceful Means, Sage, London 1996 8 Un processo analogo di accertamento della verità, su pressione della società civile, come condizione per l’uscita da lunghi conflitti civili si sta svolgendo, utilizzando il sistema giudiziario dei paesi interessati e di altre nazioni sensibili alle violazioni dei diritti umani, attraverso i processi contro il dittatore cileno Pinochet, contro i militari argentini responsabili della “sparizione” di decine di migliaia di oppositori, contro i militari che sono stati al potere in Brasile, Bolivia e altri paesi. Una funzione diversa, ugualmente necessaria, è quella che sta iniziando a svolgere il Tribunale penale internazionale e il Tribunale internazionale per i crimini commessi in ex Jugoslavia (istituito nel 1993), che deve perseguire i colpevoli dei crimini realizzati durante il conflitto, anche se la legittimità e i poteri di questo organismo sono ancora condizionati dalla sovranità degli stati, come mostra la rinuncia, nella primavera del 2000, a perseguire come crimini i bombardamenti effettuati dai paesi NATO. La quarta forma di impegno dei pacifisti nei luoghi di conflitto riguarda la ricostruzione sociale dei paesi interessati. A guerra finita, spesso l’iniziativa dei politici locali e dei paesi occidentali si concentra sulla ricostruzione economica: la rimessa in sesto delle infrastrutture e il riavvio delle attività produttive. Ma la pace ha bisogno di veder ricostruite le condizioni sociali, civili e culturali. Ad esempio, in Bosnia Erzegovina dopo gli accordi Dayton (1995) la ricostruzione economica ha sì migliorato le condizioni materiali della popolazione, ma ha beneficiato le leadership nazionaliste, le stesse responsabili della lunga guerra, e i clan affaristico-mafiosi e di partito, che potrebbero alimentare una ripresa dei conflitti. Tanto che nel 1997 Carlos Westendorp, Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per la realizzazione dell’accordo, ha minacciato di bloccare gli aiuti. Nonostante siano passati quasi quattro anni l’obiettivo principale degli accordi di Dayton (il ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica) è di fatto fallito: solo circa un quarto dei rifugiati è tornato alle proprie case. Pacifisti, organizzazioni non governative e società civile hanno concentrato il loro impegno nella ricostruzione sociale delle comunità segnate dai conflitti, attraverso attività di cooperazione, di aiuto, di volontariato. In ex Jugoslavia come in Centro America, quattro sono le strade percorse. La prima è quella dell’ integrazione: gli interventi (anche quelli economici e per le infrastrutture) devono essere rivolti a mettere in contatto le comunità che si sono percepite come nemiche e che si sono combattute. Esperienze esemplari sono i progetti “delle lavatrici” e dei “centri giovanili”, che hanno “costretto” donne e giovani di Mostar est (musulmani) e Mostar ovest (croati) a incontrarsi e a dialogare. La seconda è quella dell’investimento sulle persone: formazione, scuola e università devono contribuire a sradicare dalle coscienze e dalla cultura il nazionalismo, l’ideologia del “nemico” e della guerra. La terza è l’intervento sulle comunità locali e la democrazia: favorire i gemellaggi tra comuni, la cooperazione decentrata (si vedano i progetti di UNOPS - l’agenzia delle Nazioni Unite per i Programmi umanitari - a Cuba e in Bosnia Erzegovina o le “ambasciate della democrazia locale” del Consiglio d’Europa) e il rafforzamento della democrazia dal basso, assicurando l’indipendenza dei media e il sostegno alle organizzazioni non governative necessari per prevenire ogni ritorno della guerra. La quarta strada è lo sviluppo di un’economia sociale che radichi lo sviluppo economico nelle comunità, eviti le diseguaglianze, offra servizi adeguati, favorisca la creazione di imprese sociali e cooperative, utilizzi il micro-credito per progetti di sviluppo locale. La combinazione di queste strade consente di fare società, di ricostruire un tessuto sociale che alla appartenenza etnica e nazionale sostituisca un’identità basata sui diritti e la cittadinanza, all’uso della violenza sostituisca la pratica nonviolenta della democrazia e della 9 mediazione, agli apparati ideologici costruiti su una visione escludente (sia etnica che nazionale) contrapponga una cultura democratica fondata sui diritti umani e la solidarietà. Questi sono i terreni di lavoro per le organizzazioni della società civile, del volontariato e del pacifismo, che, superando ogni residuo di astrattismo o ideologismo, si pongono l’obiettivo di costruire la pace, non solo come assenza di guerra, ma come crescita civile e della giustizia sociale. La lezione jugoslava La vicenda delle guerre nei Balcani dell'ultimo decennio rappresenta il caso più importante in cui è possibile leggere l'intreccio tra i nuovi problemi che il disordine internazionale faceva emergere e i meccanismi e le pratiche dell’azione pacifista. Nei Balcani il pacifismo si è costruito a partire proprio dalla solidarietà informata della società civile, ha sviluppato una rete di relazioni dirette, con una forte presenza sui luoghi del conflitto e fitti rapporti con le organizzazioni democratiche e pacifiste jugoslave, e ha infine proposto politiche alternative sulla base dell'esperienza realizzata sul campo e delle competenze acquisite con il lavoro umanitario nel corso della guerra. E' opportuno in questa prospettiva ripercorrere alcuni dei momenti essenziali dell'azione pacifista nei Balcani, analizzata in modo dettagliato nel lavoro di Giulio Marcon, Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace (Asterios, Trieste, 2000). Al momento della dissoluzione della Jugoslavia, il movimento pacifista italiano ed europeo non si era ancora confrontato con la realtà del nazionalismo etnico, delle guerre civili emergenti, dell’inedita situazione che si andava profilando dopo la fine della guerra fredda nelle società postcomuniste. Vi fu un ritardo nell’analisi delle società dell’Est in transizione e della portata violenta dei nazionalismi, considerati ancora come un fenomeno residuale.10 Nella seconda metà degli anni ‘80 il movimento pacifista aveva affrontato le novità e gli sviluppi generati dal processo di distensione e dalla crisi del bipolarismo. In seguito, dall’agosto del 1990, con lo scoppio della crisi del Golfo, si era mobilitato contro il ritorno della guerra al servizio di un nuovo ordine imperiale. Se la fine del bipolarismo e della guerra fredda, frutto anche dell’onda lunga della mobilitazione pacifista internazionale degli anni ‘80, incoraggiava la definizione relativamente ottimistica di strategie e iniziative volte alla costruzione di un nuovo assetto delle relazioni internazionali, la guerra del Golfo riportò bruscamente alla dura realtà dell’indirizzo della politica statunitense che, con accentuato unilateralismo, utilizzava la nuova fase dei rapporti internazionali per rafforzare la sua posizione sul piano globale. Questi anni furono caratterizzati da una ricca elaborazione politica e teorica del movimento pacifista11 concretizzatasi, tra l’altro, nella promozione della campagna Venti di pace (1989-2000) per la riduzione delle spese militari e per un modello alternativo di difesa, come pure nella costruzione delle premesse della campagna per la riforma e la democratizzazione delle Nazioni Unite (1992) che ebbe il suo apice nella prima marcia per la pace dell’ONU dei Popoli da Perugia ad Assisi promossa nel settembre del 1995. Quest’ultima scelta si rivelò quanto mai tempestiva nel cogliere la necessità di sviluppare un’iniziativa per 10 Non mancò certamente l’attenzione al fenomeno nazionalista e alla crisi delle società dell’Est, tanto che l’ultima convenzione pacifista della END si tenne nell’agosto del 1991 a Mosca. Ma, a differenza della lotta al nucleare, la lotta al nazionalismo non si impose mai in quegli anni come la parola d’ordine del movimento pacifista europeo; non rappresentò la molla della mobilitazione. 11 Si vedano: Campagna Venti di Pace, cit. e Carla Manzocchi (a cura di), cit. 10 la trasformazione democratica delle istituzioni internazionali in alternativa alla strategia unipolare degli Stati Uniti e della NATO, che puntavano in quegli anni a ridurre progressivamente gli ambiti e i poteri degli organismi sovranazionali democratici. Al contrario dei decenni precedenti, quando il pacifismo si trovava a operare in un quadro di posizioni assai definite, stretto tra i due blocchi, tra riarmo e disarmo, interventismo militare all'estero o iniziative di pace, il decennio segnato dalle guerre etniche ha costretto il movimento pacifista a un approccio molto più raffinato e articolato. E' in questo contesto che l’esponente verde e pacifista Alex Langer – di fronte alla guerra in ex Jugoslavia – considerava inadatte e superate le vecchie forme del “pacifismo tifoso” e del “pacifismo dogmatico”, che a suo parere avevano caratterizzato in parte alcune vecchie esperienze.12 Le nuove guerre hanno così costretto il pacifismo non solo a contestarne le cause e i responsabili, ma a intervenire nel loro svolgimento, ad arginarle, a sostenere le forze locali che vi si opponevano, a costruire ponti di riconciliazione. Si è trattato di un compito assai più impegnativo e per certi versi inedito. Infatti, a differenza di tutte le esperienze precedenti del movimento pacifista, la guerra in Jugoslavia era stata una “guerra in casa”,13 alle porte delle nostre città; per la prima volta, per un periodo prolungato, migliaia di pacifisti poterono recarsi sui luoghi di guerra per assistere direttamente le vittime e conoscere dall’interno la complessità del conflitto.14 L’opposizione alle guerre nei Balcani e la solidarietà informata del pacifismo In Italia la sensibilità e la mobilitazione pacifista si svilupparono in modo sostanzialmente diverso dal resto d’Europa. La maggiore vivacità e resistenza del movimento pacifista italiano rispetto a quello di altri paesi – dopo la fine del movimento europeo contro gli euromossili –, il legame con alcune grandi associazioni nazionali (ARCI, ACLI, Legambiente), l’esistenza di un vasto arcipelago di pacifismo diffuso (Associazione per la pace, Pax Christi ecc.), l’importanza del radicamento del movimento nel Triveneto, ai confini della Jugoslavia, e la possibilità di recarsi sui luoghi di guerra furono all’origine della crescita di un movimento vasto e articolato: dal volontariato pacifista alle iniziative di interposizione, dalle attività di diplomazia popolare al sostegno alle forze di opposizione alla guerra. Vi fu subito una grande spinta di volontariato e di solidarietà, anche se mancò una mobilitazione politica diffusa attraverso le manifestazioni per chiedere la fine della guerra. Con il passare dei mesi il movimento pacifista era uscito da una dimensione di critica generica ai governi 12 Alex Langer, “Pacifismo tifoso, pacifismo dogmatico, pacifismo concreto”, in Antonino Drago e Matteo Soccio (a cura di), Per un modello di difesa nonviolento, Editoria Universitaria, Venezia 1995. 13 È questo il titolo di un libro di Luca Rastello (Einaudi, Torino 1998). 14 In quegli anni il movimento europeo di associazioni, gruppi pacifisti, civici e di volontariato trovò nella Helsinki Citizens Assembly (HCA) una nuova sede – dopo la fine della END – di incontro e di confronto. Fondata dal presidente cecoslovacco Vaclav Havel e da altre personalità del pacifismo europeo (Sonia Licht, Mary Kaldor ecc.), l’organizzazione raggruppava e dava voce a moltissime associazioni e movimenti dell’Europa centrorientale. Come c’era stata una “Helsinki degli Stati” (con l’Atto del 1976), si voleva creare una “Helsinki dei Cittadini” che desse voce alla società civile e alle espressioni democratiche non governative. Come luogo di elaborazione e di analisi a livello europeo va ricordato l’importante ruolo esercitato dalla rivista Balkan War Report, edita dall’ Institute for War & Peace Reporting e dal gruppo che vi collaborò, formato prevalentemente da persone di origine jugoslava. 11 europei improntata sulla denuncia dell’impotenza, dell’indifferenza, dell’inazione di fronte alla guerra, e si era concentrato sulla critica delle scelte sbagliate compiute (o meno) dalle leadership occidentali e sulle cause delle loro evidenti divisioni interne di fronte al dramma jugoslavo. Nel 1993 era nato il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) che univa Associazione per la pace, ARCI, ACLI, organizzazioni di ispirazione religiosa come Pax Christi, la Federazione delle Chiese Evangeliche, e poi l’UISP, le Associazioni nazionali di pubblica assistenza e centinaia di gruppi e comitati locali, tutti impegnati in un lavoro di sensibilizzazione sui conflitti dei Balcani, di costruzione della solidarietà e di ricerca di soluzioni politiche di pace. L’approccio globale di fronte alla guerra jugoslava fu anche la conseguenza della scelta del movimento pacifista italiano – a differenza di gran parte degli intellettuali proiettati prevalentemente solo sul dramma di Sarajevo – di recarsi in tutte le zone di guerra e in tutte le aree della ex Jugoslavia, di assistere tutte le vittime, indipendentemente dalla loro etnia, e di stringere rapporti con gli oppositori alla guerra in tutte le aree. Sempre nel 1993 molti gruppi di una vasta area nonviolenta (Mir, Pax Christi, Associazione Papa Giovanni XXIII ecc.) iniziarono ad operare sotto la sigla Campagna per il Kosovo. Quando dal marzo del 1998 la tensione serbo-albanese sfociò in atti aperti di repressione militare e di terrorismo, le proposte dei pacifisti si indirizzarono a favore dell’invio di un contingente di interposizione di caschi blu (ICS, Consiglio nazionale, marzo 1998 e Campagna per una soluzione nonviolenta in Kosovo, dicembre 1998) e poi del rafforzamento del numero e del mandato degli osservatori dell’OSCE presenti in Kosovo a seguito dell’accordo tra Milosevic e Holbrooke nell’ottobre del 1998. Nel marzo 1999, con l’inizio dell’intervento militare della NATO, l’opposizione alla guerra si estese rapidamente. Non si trattava di respingere in astratto l’uso della forza, verso la quale – in base a determinate regole e al rispetto del diritto internazionale e del ruolo dell’ONU – larga parte delle organizzazioni pacifiste non nutriva riserve di principio e anzi richiedeva in nome del rispetto dei diritti umani. Il movimento pacifista denunciava piuttosto la strumentalità dell’intervento occidentale dopo il fallimento pilotato di Rambouillet; i bombardamenti della NATO non potevano essere considerati un’azione di polizia internazionale, ma un atto di guerra, di cui i pacifisti sottolineavano gli effetti drammatici in termini umanitari, per i danni sia ai civili serbi che a quelli albanesi, oggetto di vendetta delle forze serbe dopo i bombardamenti. 15 Le iniziative di opposizione e protesta contro le guerre nell’ex Jugoslavia – intorno alla Bosnia prima e al Kosovo poi – non vanno sottovalutate. E’ stato calcolato che dal 1991 al 1995 sono state organizzate più di 800 iniziative locali e nazionali (manifestazioni, sit-in ecc.) contro la guerra. Si sono formate oltre 500 nuove organizzazioni (comitati locali, gruppi di base ecc.) impegnate, soprattutto attraverso gli aiuti e la solidarietà, contro il conflitto in ex Jugoslavia. Al centro di molte di queste manifestazioni c’era la parola d’ordine di “fermare la guerra”, la richiesta di un cessate il fuoco, per riaprire il negoziato e consentire l’assistenza alle vittime del conflitto. 15 Non fu questa la posizione di molti esponenti pacifisti e verdi del Nord Europa, che giustificarono la guerra della NATO in nome degli obiettivi generali di difesa dei diritti umani. Si vedano ad esempio le conclusioni del volume di Mary Kaldor - che è stata un'animatrice del movimento per la pace in Europa al tempo degli euromissili – in cui si sostiene che dopo il rifiuto serbo degli accordi di Rambouillet "non si poteva fare altro che dare inizio alla campagna di bombardamenti" (op. cit. p.179), anche se poi ne criticano l'efficacia, facendo pensare che sarebbe stato preferibile l'intervento terrestre. 12 La mobilitazione contro l’intervento della NATO in Kosovo nel 1999 è stata ben più estesa e incisiva. Il 3 aprile 1999 veniva organizzata a Roma la prima manifestazione nazionale, con la partecipazione di circa 100 mila persone. La novità era che i promotori – organizzazioni aderenti o vicine all’ICS, Consorzio Italiano di Solidarietà – erano associazioni e movimenti che avevano promosso l’aiuto umanitario e il volontariato in ex Jugoslavia. La manifestazione aveva due principali parole d’ordine, una indirizzata contro l’intervento della NATO e l’altra contro la guerra e la pulizia etnica di Milosevic. Dopo un’altra manifestazione a Roma di 100 mila persone organizzata da Il manifesto e da altre forze il 10 aprile del 1999, fu proprio lo slogan contro la “doppia guerra” (della NATO e di Milosevic) a caratterizzare la marcia Perugia-Assisi del 16 maggio del 1999, che vide la partecipazione di circa 80 mila pacifisti. Furono organizzate altre centinaia di iniziative (tra cui alcune alla base NATO di Aviano, l’ultima il 6 giugno del 1999) a livello locale. Il pacifismo concreto e le reti di relazioni dirette nell’ex Jugoslavia In ex Jugoslavia le iniziative di volontariato, le esperienze di diplomazia popolare dal basso, l’azione umanitaria e il sostegno alle forze democratiche e non nazionaliste - tutti aspetti chiave delle nuove pratiche dei pacifisti sopra delineate - sono state le forme più originali di intervento e di mobilitazione della società civile italiana ed europea contro la guerra. I numeri evidenziano l’ampiezza che ha assunto questo movimento. Dall’inizio della guerra in ex Jugoslavia, si sono recati nelle zone di conflitto oltre 15 mila volontari e operatori umanitari; sono stati promossi in loco oltre 900 progetti (interventi nei campi profughi, attività di assistenza, spedizione continuativa di beni umanitari), sono stati organizzati oltre 2200 convogli di aiuti, mentre in Italia – solamente attraverso la struttura del volontariato e delle associazioni – sono stati accolti oltre 4000 profughi. Difficile la quantificazione finanziaria di questi interventi; stime approssimative relative al valore degli aiuti inviati, allo spostamento di risorse in denaro e alla mobilitazione di mezzi e volontari danno una cifra di oltre 300 miliardi di lire.16 Sarebbe riduttivo affermare che il pacifismo abbia scelto la via della solidarietà perché costretto a rinunciare alla strada della politica, della contestazione della guerra, dell’azione nonviolenta. La novità di questi anni è invece che la solidarietà si è dimostrata una via della politica e il volontariato una sua forma concreta. La denuncia, la protesta, la contestazione si sono via via arricchite della responsabilità attiva, dell’agire in prima persona volto ad aiutare le vittime della guerra. Naturalmente il pacifismo in ex Jugoslavia ha avuto molte anime, molteplici espressioni, diverse esperienze, comprese quelle più ambigue e senza prospettiva.17 E' stata proprio la consapevolezza politica e critica del pacifismo a evitare o almeno ad arginare il rischio dell’ambiguità, costruendo una metodologia dell’intervento umanitario fondata sulla correttezza della scelta degli interlocutori locali, sulla valutazione dell’impatto di pacificazione e di quello sociale degli interventi e della promozione del dialogo tra le parti. È evidente un dato di fatto: migliaia di pacifisti che avevano fino ad allora partecipato solamente a manifestazioni e a marce, a catene umane e a sit-in hanno scoperto il valore politico e di pacificazione dell’intervento umanitario, facendo volontariato, gestendo un progetto, 16 Questi dati sono ricavati dai dossier sugli aiuti dell’ICS. Cfr. La sfida della solidarietà, Lunaria, 1993 e Newsletter ICS, Roma 1993-1998. 17 Cfr. “Les ambiguites de l’humanitarie”, in: Panoramiques, Paris, 24/1996. 13 accogliendo i profughi. Ma non si è trattato in molti casi della sostituzione di una pratica con un’altra; è stata invece un’integrazione tra culture ed esperienze diverse. Non è un caso che molte di queste organizzazioni impegnate nell’azione umanitaria e solidale nella ex Jugoslavia siano state poi capaci anche di promuovere manifestazioni, azioni nonviolente, iniziative di lobby sul governo, di mettere in campo iniziative di diplomazia dal basso. A differenza del movimento contro gli euromissili degli anni ‘80 e anche, in parte, di quello contro la guerra del Golfo, è stata mantenuta una maggiore indipendenza dalle forze politiche: con la guerra in ex Jugoslavia il movimento pacifista ha rafforzato un’importante autonomia politica. In secondo luogo quest’esperienza ha prodotto un profondo radicamento sociale e nel territorio.18 La produzione di politiche per la pace nei Balcani Il pacifismo concreto non è si mosso tuttavia senza un disegno più complessivo per la costruzione della pace nei Balcani; si è già evidenziata nella trattazione precedente la politicità dell’intervento umanitario e di solidarietà. In un contesto più generale l’azione dei pacifisti ha contribuito a portare nel dibattito politico e culturale italiano la consapevolezza delle caratteristiche europee (il nazionalismo e il populismo come pericolo per la politica degli anni ’90, il difficile equilibrio delle istanze comunitarie e federali con quelle statuali, la crisi dei meccanismi identitari della cittadinanza fuori dall’appartenenza etnica: nodi che investono oggi molti paesi dell’Europa occidentale) delle guerre jugoslave. Mentre i governi europei hanno affrontato la questione dei Balcani e la transizione nei paesi nell’est a colpi di privatizzazioni selvagge, sgretolamento delle reti sociali di protezione, e controllo militare con l’allargamento della NATO, i pacifisti già nel 1991, nelle iniziative dell’ Helsinki Citizens Assembly (un coordinamento delle organizzazioni civiche e di società civili dell’est e dell’ovest) sottolineavano la necessità di politiche integrative e di cooperazione e una dura lotta al nazionalismo, con il quale invece diversi paesi europei erano complici. Nella sua proposta politica il pacifismo ha sempre insistito sulla necessità di una politica di prevenzione per fermare il progressivo “effetto domino” dei Balcani, di un approccio integrato e complessivo a tutti i conflitti nell’area; la lotta a tutti i nazionalismi, la necessità di un’integrazione europea dei Balcani.19 In questo quadro di proposta politica generale avanzata dai pacifisti, c’è stata una produzione di politiche specifiche, a partire dall’azione concreta realizzata che ha messo in discussione e influito sulle politiche dei governi italiano ed europei. 18 Accanto agli interventi umanitari, di emergenza o di cooperazione sul campo, va ricordata la costante azione di accoglienza di profughi e rifugiati provenienti dal territorio della ex Jugoslavia in Italia e in loco.18 Grazie soprattutto all’opera di gruppi di base operanti nei luoghi di arrivo e di transito dei profughi (Trieste soprattutto, ma anche Ancona, Bari, Vittoria e altre città), sono stati ospitati, assistiti e integrati nelle comunità locali oltre 4000 profughi, mentre gli altri rifugiati dalla ex Jugoslavia presenti in Italia (quasi 90 mila dal 1991 al 1995) hanno dovuto sbrigarsela da soli o hanno trovato assistenza in ex caserme o centri di accoglienza (punta massima di 2200 profughi) gestiti dal Ministero dell’Interno in condizioni desolanti. L’esperienza del volontariato pacifista nell’accoglienza dei profughi e dei rifugiati ha contribuito ad accrescere la consapevolezza del legame tra gli obiettivi e i contenuti del pacifismo e i temi della convivenza e dell’antirazzismo. 19 Si veda, ad esempio Josep Palau, Il miraggio Jugoslavo, Selene edizioni, Milano 1998. 14 In Italia, sul piano politico e istituzionale, la mobilitazione pacifista ha influenzato in parte le scelte dei governi italiani: la legge 390/92 per gli aiuti d’emergenza alla ex Jugoslavia ha raccolto parte di queste richieste, aprendo la strada alla creazione del Tavolo di coordinamento per gli aiuti alla ex Jugoslavia, istituito presso la Presidenza del Consiglio. Per la prima volta le organizzazioni pacifiste e del volontariato hanno potuto discutere con il governo – in una situazione di trasparenza e di collaborazione – delle priorità e del coordinamento dell’intervento umanitario in ex Jugoslavia. Nel caso del Kosovo si è arrivati a una grave spaccatura tra istituzioni e parte del mondo del volontariato. All’approccio concreto del Tavolo di coordinamento si è contrapposta un’iniziativa strumentale come la Missione Arcobaleno caratterizzata da una pratica di cooptazione subalterna del volontariato.20 Finita la guerra, i pacifisti si sono occupati dei progetti di ricostruzione sociale nei Balcani, hanno proposto nuovamente un Tavolo di consultazione con il governo e chiesto che la legge sulla ricostruzione dei Balcani non fosse semplicemente uno strumento di sostegno agli affari delle imprese italiane. Nel maggio 2000 è stata organizzata una conferenza della società civile per la cooperazione e la democrazia nei Balcani il cui documento finale sottolineava l’esigenza di un intervento di pace complessivo, integrato a tutta l’area balcanica. Il testo è stato poi letto ai Ministri degli Esteri dei sei paesi della Conferenza Adriatica che si teneva contemporaneamente ad Ancona, ma la distanza rispetto alle strategie dei governi europei rimane fortissima. In ex Jugoslavia si svilupparono sin dall’inizio molte attività di sostegno alle forze democratiche e non nazionaliste, tenendo aperto un dialogo, a livello di società civile, tra le componenti democratiche delle varie repubbliche.21 Quest’attività fu particolarmente 20 Lanciata alla fine del mese di marzo 1999, pochi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti della NATO sulla Repubblica Federale di Jugoslavia, la Missione arcobaleno è stata promossa dal governo italiano per promuovere una raccolta di fondi da utilizzare prevalentemente in Albania nell’assistenza ai profughi provenienti dal Kosovo. Questa, oltre a essere un’abile operazione politica e ideologica volta a mitigare e a sviare la responsabilità del coinvolgimento italiano nei bombardamenti della NATO, ha introdotto un pesante elemento di subordinazione politica e militare nell’azione delle organizzazioni non governative nelle zone di guerra. Sotto una finta veste di managerialità – tale che, come ha rilevato il settimanale Panorama, alla fine di agosto del 1999 quasi la metà dei 2200 container di aiuti raccolti dalla missione non era mai arrivata ai profughi –, la missione ha spaccato il mondo del volontariato tra le organizzazioni che vi hanno aderito e ottenuto finanziamenti, e quelle che (come l’ICS e la Caritas) hanno deciso di operare in autonomia. 21 La prima – e più significativa – di queste esperienze fu il già citato Verona Forum for Peace and Riconciliation in the Territories of Former Yugoslavia (1992-4) animato da Alex Langer. Fu una sorta di Parlamento alternativo di esponenti altamente qualificati (parlamentari non nazionalisti, intellettuali, responsabili di organizzazioni sociali, sindaci ecc.) che si incontravano per confrontare ed elaborare posizioni comuni sulla soluzione del conflitto in ex Jugoslavia. La Helsinki Citizens Assembly e l’associazionismo italiano hanno poi promosso iniziative in Croazia, Bosnia e Macedonia. Un altro aspetto riguarda il ruolo delle donne; quelle italiane contribuirono in modo significativo a sviluppare il movimento delle donne jugoslave, in particolare quello delle donne in nero che fu l’unica vera esperienza trasversale tra le società jugoslave in guerra. In Italia si organizzarono numerose iniziative di sostegno politico e di solidarietà concreta, con incontri con le donne dell’ ex Jugoslavia; uno dei primi – promosso dalle donne dell’Associazione per la pace – si tenne nell’aprile del 1993 a Trieste e vi parteciparono oltre cento esponenti di gruppi di donne di tutta la ex 15 importante in Serbia, dove si stabilirono stretti legami tra organizzazioni pacifiste italiane e le Donne in nero, gruppi pacifisti, la Fondazione Soros, i sindacati indipendenti, Radio B92 e altri media non di regime, oltre ai movimenti degli studenti che in due fasi (1992 e 1996-97) si svilupparono soprattutto a Belgrado. Si trattò di un impegno spesso svolto in condizioni di impedimento e di repressione, con visite, delegazioni, iniziative politiche e gemellaggi. In Kosovo altrettanto significativi per le condizioni di difficoltà e di restrizione furono l’impegno e la presenza con cui, sin dal 1993, la Campagna per il Kosovo cercò di sostenere le forze albanesi nonviolente e in primo luogo la strategia politica di Rugova. Attive con iniziative concrete e politicamente lungimiranti furono alcune organizzazioni nonviolente come il MIR e altre di matrice religiosa come Pax Christi. Furono promosse diverse iniziative di solidarietà e nel 1998 (il 10 dicembre, in occasione dell’anniversario della Dichiarazione dei diritti umani) fu organizzata una marcia a Pristina con la presenza di circa 200 pacifisti italiani. Ancora prima (1996), la Comunità di S. Egidio si era impegnata in un’iniziativa di diplomazia parallela22 riuscendo a concludere un accordo sull’educazione (che prevedeva la riapertura di alcuni edifici universitari in lingua albanese) con le autorità serbe e gli esponenti albanesi dell’LDK. Il movimento nonviolento italiano e internazionale aveva dedicato sin dall’inizio un impegno particolarmente significativo al Kosovo, dove ravvisava la possibilità di un’azione nonviolenta efficace. Già dal 1992, numerosi organismi internazionali, primo tra tutti la svedese Transnational Foundation for Peace and Future Research, si erano impegnati nell’area, mentre dal 1994 la campagna italiana per il Kosovo aveva dato vita a un’“Ambasciata di pace”.23 Queste iniziative di diplomazia popolare e di sostegno alle forze democratiche contribuirono a favorire un nuovo clima politico tra le forze dei diversi campi che poterono così dialogare ed incontrarsi; soprattutto a livello locale tali iniziative ebbero il merito di dare forza e fiducia alle realtà democratiche e multietniche (come la città di Tuzla in Bosnia) che poterono porsi come alternativa alle leadership nazionaliste. La nuova bussola del pacifismo Le guerre dei Balcani hanno rappresentato una durissima prova per il pacifismo in Italia. Il risultato, dopo quasi un decennio di mobilitazione (1991-99) contro la guerra e il nazionalismo in ex Jugoslavia, è che il movimento pacifista italiano è riuscito a darsi una cultura politica capace di affrontare la complessità dei nuovi conflitti etnici e nazionali, sviluppatisi in ogni parte del pianeta. Quali sono allora i nuovi punti di riferimento, i valori politici generali che sono stati adottati, sono maturati in queste esperienze e rappresentano ora e in futuro i punti cardinali per la bussola del nuovo pacifismo? Ne possiamo presentare quattro. 1. Disarmo, prevenzione e soluzione politica dei conflitti, tutela dei diritti umani. La questione del disarmo, tema pacifista tradizionale, torna a rappresentare un punto di Jugoslavia. Furono stampate le pubblicazioni dei movimenti femministi, accolte le donne in difficoltà, promossi gemellaggi con i centri antiviolenza sorti in alcune città jugoslave. 22 Sull’esperienza di diplomazia non ufficiale di S.Egidio e più in generale sul ruolo degli attori non governativi nella diplomazia dal basso cfr. Marta Martinelli Quille, Track II Diplomacy as a Complement to Official Diplomacy, Training in EU Affairs for Diplomats from Central and Eastern Europe, Cervia 1999. 23 Una rassegna delle principali iniziative nonviolente e per la pace in Kosovo è contenuta in: Alberto L’Abate, Kossovo: una guerra annunciata, La Meridiana, Molfetta 1999. 16 riferimento in un contesto in cui le nuove armi sono gli strumenti della supremazia occidentale e dell’interventismo militare. La nuova crescita della spesa militare (in Italia non è mai stata così alta come negli ultimi tre anni), la ripresa di una corsa tecnologica agli armamenti, con lo sviluppo delle difese antimissile negli USA, e l’espansione della NATO chiamano il movimento pacifista ad un rinnovato impegno contro le nuove tendenze militariste dell’occidente. Il tema della prevenzione dei conflitti continua a essere assente nelle azioni della comunità internazionale. Nonostante ONU e OSCE discutano di preventive diplomacy e si sperimenti l’istituzione di centri di early warning (OSCE, Vienna) pochi passi in avanti si sono fatti per impedire lo scoppio delle guerre. La spinta generalizzata verso il disarmo e nuove forme di soluzione dei conflitti, ancora presente all’inizio degli anni ’90, dev’essere ripresa e rilanciata, sulla base anche dei risultati della conferenza lanciata dall’Appello dell’Aia per la pace che nel maggio 1999 ha riunito nella capitale olandese migliaia di esponenti della società civile di tutto il mondo, elaborando un dettagliato piano d’azione per la pace.24 2. La lotta al nazionalismo. La drammatica modernità del nazionalismo e del suo rapporto con i temi della cittadinanza e dell’autodeterminazione, principio che il movimento pacifista ha dovuto rivisitare e aggiornare, si è imposta alla luce delle vicende jugoslave come tema centrale dell’azione dei pacifisti. Questi hanno assunto il nazionalismo, in coppia con i processi e gli effetti della globalizzazione, come una delle principali chiavi di lettura dei nuovi conflitti in Europa e nel mondo, accanto alle cause di tipo strutturale (gli interessi economici, l’ordine politico-militare mondiale etc.). La lotta al nazionalismo richiede un impegno su molti fronti: politiche economiche di cooperazione e sviluppo all’insegna dell’integrazione, politiche istituzionali di allargamento e integrazione dell’Unione Europea, politiche culturali con formazione e scambi, informazione critica e aiuto ai media indipendenti. Quanto all’azione della società civile, è essenziale il consolidamento delle reti di relazioni dirette costruite con le aree di conflitto per ricostruire le condizioni di base per la convivenza. 3. Gli strumenti per un ordine di pace e il ruolo di un’ONU riformata. Le Nazioni Unite, rinnovate e democratizzate, sono state identificate da tempo dai pacifisti – e in particolare dalla fine della guerra fredda - come il possibile centro di un ordine mondiale pacifico e solidale in alternativa alla strategia dell’unipolarismo degli USA e della NATO. Le proposte dei pacifisti per la democratizzazione dell’ONU comprendono il funzionamento del Consiglio di Sicurezza (con l’abolizione del potere di veto e un allargamento a rappresentanti di tutte le regioni del pianeta), la costituzione di una seconda Assemblea espressa non dai governi, ma dai parlamenti e dalle società civili, e il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile nelle procedure decisionali e nelle attività svolte. Quanto all’esigenza di una maggior efficacia dell’azione dell’ONU di fronte a conflitti e violazioni dei diritti umani, le forze pacifiste hanno proposto l’attuazione del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che regola le azioni di polizia internazionale e hanno chiesto al governo italiano di destinare in modo permanente parte delle proprie forze armate alle missioni di pace dell’ONU. Queste sono state alcune delle richieste e proposte sviluppate nelle tre Assemblee dell’ONU dei popoli 24 Il testo, L’agenda dell’Aia per la pace e la giustizia, è stato tradotto e pubblicato nel numero di “Umbria Notizie” dedicato alla Marcia Perugia-Assisi, settembre 1999, dove sono raccolti molti altri materiali utili sulle iniziative per la pace. 17 (Perugia, 1995, 97, 99) e nelle marce Perugia-Assisi.25 Un’ONU riformata in questa direzione può legittimarsi come l’unico soggetto autorizzato a esercitare la forza per fermare i conflitti in corso e tutelare i diritti umani, al di sopra della sovranità degli stati. 4. Un’Europa aperta, solidale e nonviolenta. Le guerre dei Balcani e quelle del Caucaso hanno mostrato quanto siano urgenti anche all’interno dell’Europa i problemi della soluzione dei conflitti, della costruzione di un sistema di sicurezza, della capacità di integrazione politica e sociale, oltre che economica, della convivenza multietnica e della cittadinanza europea. Il tema della costruzione di un’Europa aperta, solidale e nonviolenta diventa tanto più urgente quanto più crescono le possibilità che l’Europa si sviluppi come potenza militare, oltre che economica e monetaria e quanto più forti sono le spinte autoritarie, razziste e riarmiste all’interno di molti paesi europei (basti pensare all’Austria di Haider). Su questo terreno pesa l’assenza di reti europee di società civile capaci di misurarsi con i nuovi centri decisionali europei che stanno ormai sostituendo molti poteri nazionali, e di organizzare in modo continuativo le iniziative per la pace, il disarmo e la convivenza in tutti i paesi del continente. Pacifismo, politica e sinistra La strada fatta dal pacifismo dalla fine della guerra fredda è molta, tra guerre locali e nuovi interventismi. I meccanismi che animano il pacifismo del 2000 sono fondamentalmente nuovi rispetto ai decenni precedenti e li abbiamo sopra descritti come la solidarietà informata della società civile, le reti di relazioni dirette con le aree di conflitto e la produzione diretta di politiche alternative. Se dobbiamo, in conclusione, mettere a confronto questi elementi con il rapporto stabilito in passato tra pacifismo e politica non si può che constatare la distanza crescente che si è stabilita. La politica resta ancora legata alla dimensione degli stati nazionali, incapace di stabilire strategie ed alleanze globali per misurarsi con le trasformazioni radicali dell’economia, dei conflitti e dell’ambiente. Tende sempre più a ridursi a mero ricambio di leadership incaricate di governare un processi dati, senza poterli condizionare o modificare, a esercizio del potere per il potere, senza alcun progetto politico, appunto, di riorganizzazione sociale ed economica. Le tre caratteristiche del pacifismo sopra descritte saltano tutte la politica in senso tradizionale, sia sul piano del pensiero, sia su quello della mediazione istituzionale, sia su quello dell'iniziativa concreta. Restituiscono alla società civile una capacità di incidere in modo diretto, senza passare per le strategie dei partiti e le decisioni dei governi, scegliendo un piano diverso sia nelle teorie che nelle pratiche. Ma con la politica, naturalmente, occorre comuque fare i conti: la strada che si apre oggi è quella di costruire politiche concrete, rimpiazzare l'idea totalizzante dello stato e della sua politica (e tantopiù la politica dei partiti) con una più concreta visione dei molteplici poteri che segnano oggi un mondo globalizzato, a cui bisogna contrapporsi affermando valori radicali, proponendo progetti alternativi, costruendo reti, relazioni e alleanze fondate sulla pratica della solidarietà e sulla proposta di politiche concrete. La politica tradizionale e la politica della sinistra in Italia e in Europa hanno mostrato di non saper cogliere questi cambiamenti, di non capire questa mutata dinamica dell'azione 25 Si veda F.Lotti e N. Giandomenico (a cura di), L’ONU dei popoli. Progetti, idee e movimenti per riformare e democratizzare le Nazioni Unite, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, prefazione di B. Boutros Ghali e “Umbria Notizie”, cit. 18 politica e sociale, hanno scelto di non farsi contaminare dalla cultura politica dei movimenti sociali e del pacifismo in particolare. Di fronte al ritorno della guerra in Europa, le sinistre si sono così polarizzate tra l'accettazione della realpolitik dei governi e la riproposizione di un'opposizione ideologica antimperialista minoritaria, che non coglie la natura delle nuove guerre. Due strade entrambe sviluppate in chiave strumentale e di partito, che hanno reso più difficile la ricomposizione di uno schieramento pacifista più ampio di fronte alle guerre, nei Balcani e altrove. La politica della sinistra finisce così per guardare al nuovo pacifismo con sufficienza e sospetto: la radicalità dei valori, la pratica dell’autonomia , l’irriducibilità alla realpolitik come a vecchi ideologismi, mal si prestano alle logiche di partito e tantomeno di governo.26 Riscopriamo così che le sinistre non sono necessariamente parte integrante del pacifismo, possiamo ritrovare le divisioni che nell'ultimo secolo hanno segnato le organizzazioni del movimento operaio di fronte alle guerre mondiali e a quelle coloniali, la loro incapacità di impedirle e di fermarle. possiamo riconoscere ancora una volta quanto le culture della sinistre siano nutrite di metafore, linguaggi, strategie belliche. Le radici dell'allontamento della sinistra dal pacifismo, come dagli altri movimenti sociali sono così assai profonde, le stesse che spiegano le difficoltà della sinistra ad andare oltre dalla logica della politica degli stati in una fase di svuotamento della politica e di indebolimento degli stati nazionali. In effetti, questo emergere di nuovi meccanismi dell’azione politica collettiva non vale solo per il pacifismo, si ritrova un po’ in tutte le iniziative della società civile sui temi internazionali. Provate a sostituire Kosovo e Cecenia con Organizzazione mondiale per il commercio e Accordo multilaterale sugli investimenti: le stesse dinamiche delineate sui temi della guerra sono le stesse che hanno mosso milioni di persone in tutto il mondo – manifestazioni di Seattle comprese - a impegnarsi contro l’ingiustizia dell’economia globale. Anche qui la politica tradizionale non c'era e non ha capito. Anche qui opinione pubblica, reti di relazioni dirette globali e produzione di politiche alternative sono stati il cuore della dinamica dei nuovi movimenti. E si può scommettere che continueranno a esserlo nel prossimo futuro. Così, su questa via i pacifisti stanno incontrando in misura crescente le reti delle campagne ambientaliste e le mobilitazioni contro la globalizzazione, con un intreccio di iniziative, proposte ed esperienze concrete che delineano alternative di convivenza, di organizzazione economica e di comportamenti sociali, un patrimonio questo che può dare nuove basi alla costruzione di un programma di trasformazione politica, sociale ed economica. Giulio Marcon è presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà e dell’associazione Lunaria. Mario Pianta è professore di Politica economica all’Università di Urbino. 26 D’Alema lo ha onestamente riconosciuto affermando che la sinistra non ha mai avuto un DNA pacifista. Si veda M.D’Alema, Kosovo, gli italiani e la guerra, Mondadori, Milano, 1999 19