Il mondo non finirà mai per la mancanza di

Transcript

Il mondo non finirà mai per la mancanza di
IL MONDO NON FINIRÀ MAI PER LA MANCANZA DI MERAVIGLIE
MA PER LA MANCANZA DI MERAVIGLIA
In una sera apparentemente normale, quando tutti i cittadini della grigia Milano tornavano dal
lavoro annoiati da un’altra delle solite giornate, mentre il traffico componeva il monotono inno
cantato dalle automobili e la gente stava seduta nei bar pieni e silenziosi, un suono acuto di
trombetta anticipò lo starnuto di un motore a scoppio. Dal fondo di Corso Buenos Aires apparve
una macchinetta unica e irripetibile nel suo genere. Quest’auto era talmente strana che sembrava
avere una personalità: il colore della carrozzeria non si poteva definire, infatti era come un puzzle
di varie tonalità di verde. Il motore, troppo a scoppio, del tutto fuori luogo, non si addiceva alla
carrozzeria, più moderna; sembrava persino strano che la macchina avesse quattro ruote tanto era
strampalata. Con l’ennesimo starnuto la macchina sterzò in Via San Gregorio sotto gli occhi di tutti
i cittadini sorpresi di vedere una così buffa automobile e un così strano conducente il quale
parcheggiò davanti al numero 3, imponendo finalmente una pausa al terribile raffreddore di
quell’utilitaria che sembrava aver dato fondo ai suoi polmoni di ferro.
Ne scese un ometto basso e paffutello, sui quarant’anni, provvisto di un polposo e ben domato
paio di neri baffoni, dai capelli folti e brizzolati che, al tatto, davano la sensazione di una spugna di
gomma piuma. La pelle del volto appariva alquanto stagionata e come indurita. La targa dell’auto
svelava la provenienza toscana dell’inconsueto personaggio: Prato.
Massimo Bertelegni, così era il suo nome, frugò tra un mazzo di chiavi e, scovata quella giusta,
riuscì ad alzare la saracinesca di un piccolo negozio, aprì la porta dalla quale tolse il cartello
“Vendesi”, ed entrò.
Nello stesso momento un uomo distinto e impeccabile nel vestito e nel comportamento, entrò
nella sua lussuosa casa in Via Andrea Doria 18. Sbattuta la porta di casa e appoggiata
perfettamente la nera e lucida valigia di pelle nel solito posto, cioè dietro la porta che dava sullo
studio, l’avvocato Monterone, così si chiamava, si sedette e chinò il capo nell’intento di ripassare
le leggi di diritto privato.
Egli si distingueva per la corporatura slanciata: le sue lunghe gambe sembravano poter fare una
falcata di almeno un chilometro, il portamento impettito denotava autorevolezza, il suo volto
secco, dal quale spuntava il mento pronunciato e quadrato, lo rendeva un uomo freddo e
determinato. Il suo sottile naso aquilino gli conferiva un’espressione molto decisa. Ma ciò che più
attirava l’attenzione sul suo viso erano i suoi occhi strabuzzati, col suo sguardo vitreo e scrutatore
e nello stesso tempo occluso, opaco, impossibilitati a riconoscere ciò che in qualche modo non
aveva già immaginato.
Il nome di Monterone era conosciuto da tutte le persone più rispettose di Milano, perché grazie
alla sua malizia non aveva mai perso una causa; soleva ricercare accuratamente la vicinanza delle
persone intellettualmente inferiori a lui: un modo come un altro per sentirsi superiore alla
plebaglia. Eppure quest’uomo, apparentemente estraneo ai sentimenti, aveva messo su casa e
famiglia, quindi aveva amato una donna e i suoi figli, e a suo modo li amava ancora. Ciò
nonostante era troppo preso dalla sua carriera di avvocato e non poteva permettersi di perdere
nemmeno una sola causa, per questo non aveva il tempo di manifestare il suo amore per loro.
1
Era solito servirsi di frutta fresca per non appesantirsi dal troppo lavoro, infatti vagava per viuzzole
sperdute in cerca di un buon fruttivendolo. E un giorno in una delle sue passeggiate s’avvide della
presenza del nuovo negozio di ortofrutta. Così compiaciuto della scoperta entrò con aria
circospetta passando a rassegna prodotti e prezzi in un nano secondo. Improvvisamente sobbalzò
al caloroso saluto del Bertelegni:
“Buongiorno signore, vuole assaggiare un po’ di frutta fresca toscana ?”
E lui: “Gradirei gustare un po’ d’uva senza semi”.
Bertelegni gli porse un bel grappolo e Monterone lo gustò cercando di assaporare al meglio il
frutto; dopo averlo ingerito fece una smorfia di approvazione.
Il contadino soddisfatto esclamò:“Viene dalla Toscana! Lei c’è mai stato?”
E Monterone con aria superiore rispose: “No signore! io non ho tempo per queste cose, devo
lavorare. Non lo sa che il lavoro nobilita l’uomo?”
“Sono d’accordo in parte, ma lei è mai stato in Toscana, e ha mai provato ad apprezzare le sue
meraviglie: il mare, la campagna, le colline verdi, le montagne, la frutta fresca e colorata? Oh… è
tutto così bello e affascinante!”
Monterone pagò il grappolo d’uva e s’avviò verso la porta, arrivato sull’uscio si girò e disse con
calma: “Le ho già spiegato che non ho tempo per certe cose”. Chiusa la porta s’avviò a casa.
Il giorno dopo si presentò una donna finemente elegante la quale gli disse che suo marito,
l’avvocato, aveva gradito la frutta, così le aveva chiesto di andare a comprarne dell’altra. Dopo
aver assaggiato una pera dalla polpa dolce e succosa gli chiese se faceva servizio a domicilio, e lui
scherzoso esclamò: “Lo inizio adesso!”
La donnina soddisfatta lo ringraziò per il servizio e se ne andò. Così Massimo, appagato anche lui,
salutò gentilmente la cara donna.
Trascorsero alcune settimane, e Bertelegni conobbe molti clienti e continuò il suo servizio a
domicilio per la famiglia Monterone e intanto la gente iniziò ad accorgersi che non era matto, ma
aveva un modo diverso di stare di fronte alle cose.
Un giorno come gli altri, Massimo stava per compiere il suo dovere di fruttivendolo a domicilio
portando a casa di Monterone un pesante sacchetto di frutta fresca. Entrato nel palazzo e arrivato
sul piano entrò in casa e cercò qualcuno che gli indicasse dove appoggiare il sacchetto. Non
trovando nessuno iniziò a vagare in quella casa apparentemente isolata. Girovagando per la casa
sentì un vociare, aprì la porta della stanza da cui esso proveniva e si trovò davanti a una schiera di
avvocati in nero e mormorò:
“Scusate per l’intrusione, ma sto cercando qualcuno che mi indichi a chi consegnare la frutta
fresca”.
E uno degli avvocati esclamò: “Se è il signor Monterone quello di cui lei sta chiedendo, lo stiamo
attendendo per cominciare una riunione importante. In ogni caso lei non si deve permettere di
interromperci!” e con tono arrogante si voltò.
Bertelegni gli rispose: “Scusate ma pensavo che voi sapeste dove si trovava il signore, essendo voi
uguali a lui.”
“In effetti ha ragione, ci vantiamo di essere tutti bravi avvocati.”
“Complimenti, ma in realtà non era questo che volevo dire! Intendevo che siete molto simili
nell’abbigliamento, nel portamento e nel comportamento.”
2
“E con questo cosa vuole dire?”
“Per esempio siete mai andati in Toscana? Lì la maggior parte della gente è molto ospitale e
questo modo di agire è dovuto alla gioia e allo stupore che provano nel vedere i doni nella realtà, il
più grande dei quali è l’uomo. Vi dico questo perché io sono uomo e così anche voi, ma non ce ne
é uno uguale a me in tutto il mondo, ne sono certo, ed è per questo che mi stupisco perché io
vedo in voi degli uomini identici al mio cliente e persino nella stessa città!”
Dopodiché Massimo Bertelegni se ne andò senza che nessuno aggiungesse altro.
Il giorno dopo, in tarda mattinata, uno degli avvocati presenti nella riunione del giorno prima andò
nel nuovo negozio del contadino toscano.
Il fruttivendolo stupito di vederlo lì gli chiese: “Cosa desidera?”
“Mi sono accorto solo ora che da tempo sto cercando il frutto della passione”.
“Caro signore mi dispiace dirglielo ma sicuramente non lo troverà da un fruttivendolo toscano,
essendo un frutto esotico”.
Esitante l’avvocato gli disse: “Ma quando è entrato nel pieno della riunione ho notato che ce
l’aveva, eccome!”
Pensieroso l’altro gli rispose: “Eppure Monterone non l’aveva ordinato.”
“ Che cavolo… proprio non ci arriva! Non parlo del frutto, ma della passione che ha dimostrato ieri
e della semplicità con cui lei ci ha fatto notare il nostro modo di guardare le cose.”
“Ah, proprio non me l’aspettavo! Deve sapere però che anche io ho imparato a guardare le cose
così come sono e le persone per quelle che sono grazie ad un mio carissimo amico che un giorno
mi disse: “Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno mai osserva e si cura di considerare”.
Caro avvocato queste cose ovvie hanno sempre un significato e questo a priori per il fatto che ci
sono per noi. Queste cose hanno sempre un contenuto enorme, un mistero ma è difficile da
trovare tutto questo, bisogna perciò avventurarsi.”
L’avvocato Libertini, così si chiamava, iniziò a frequentare Massimo e finalmente riuscì a trovare il
frutto della passione. Questo si era anche manifestato nel cambiamento del suo modo di lavorare:
aveva perso una causa!
La causa gli era stata affidata da Monterone in persona, e Libertini doveva vincerla, pur essendo
dalla parte del torto. Doveva riuscire ad adattare a questa causa le leggi a riguardo, come gli era
stato sempre insegnato da Monterone, per riuscire a conquistare per l’ennesima volta il titolo di
vincitore. Questo in realtà significava giocare sporco, e Libertini aveva capito grazie a Bertelegni il
gusto che si prova nel far trionfare la verità, e questo vuole dire essere avvocati; ma Libertini,
come tutti i suoi colleghi, nel tempo aveva perso questo concetto, pensando solo alla sua carriera,
alla fama, e non cercando più il vero senso del suo lavoro. Questa, come ripeteva spesso Massimo,
è una cosa molto negativa, perché una persona agendo in tal modo potrebbe iniziare a annoiarsi
svolgendo il suo mestiere, che era stato scelto tempo prima dalla persona stessa con buone
ragioni e una voglia infinita di iniziare.
Così Libertini era riuscito a travolgere i suoi colleghi con il suo cambiamento nel modo di vivere, di
guardare e osservare le cose, di affrontare i problemi, e perfino nel modo di lavorare. Aveva capito
che niente era scontato, neppure avere il lavoro, di cui loro spesso si lamentavano; proprio
seguendo l’esempio di Bertelegni, Libertini era riuscito miracolosamente a staccarsi dalla massa,
3
dove spesso l’uomo cerca di nascondere se stesso, per sfuggire al giudizio degli altri così da piacere
loro.
Libertini non si faceva più vedere ma si lasciava vedere e così iniziarono a fare anche gli altri
avvocati.
Era stato Monterone a far credere che l’unico modo per valere, diventare qualcuno, era
uniformarsi alla massa, sicché nessuno avrebbe potuto criticarti, perché avrebbe criticato anche sé
stesso. Eppure questa gente aveva un desiderio, cioè diventare capo della massa stessa, riuscire a
seguirne perfettamente tutte le caratteristiche per essere considerati l’esempio da seguire.
Nella società di Monterone iniziarono a verificarsi episodi alquanto singolari. Piano piano, molti
avvocati si accorsero che Libertini era più libero di esprimere e agire come pensava e iniziarono a
fare come lui. Prima invece erano tutti attenti a ponderare le proprie parole, cercando di dire solo
ciò che poteva far piacere a Monterone.
Egli incominciò ben presto a rendersi conto di questi cambiamenti che ostacolavano i suoi piani di
perenne vittoria. Parlò con alcuni dei suoi avvocati che continuavano a mettere in evidenza il loro
nuovo modo di lavorare, il gusto di vincere onestamente le cause, trasmesso da Libertini, il quale
aveva ricordato loro la vera ragione per cui avevano scelto di praticare questa professione: aiutare
la gente difendendo la verità.
Grazie a tutte queste informazioni Monterone capì che c’era lo zampino di Libertini. Così decise di
parlargli. Lo convocò nel suo studio e iniziò a scrutarlo accuratamente da capo a piedi poi disse:
“Mi è stato riferito che da un po’ di tempo lei mostra un modo personalmente studiato di lavorare
non idoneo agli obiettivi della nostra società.”
Libertini, sicuro di sé, rispose: “Si riferisce per puro caso all’unica causa che ho perso?”
E Monterone, precisando, rispose: “E alle molteplici che ha rifiutato!”
“Le ho rifiutate perché erano cause senza speranza, e d’altronde lo sa anche lei che per un
avvocato non è bello perdere troppe cause”.
“Scusi, ma chi le ha messo in testa questi irragionevoli modi di ragionare?”
“Potrebbe farle ridere ma è stato il suo fruttivendolo, quel Massimo Bertelegni; l’avevo proprio
giudicato male. Inoltre la ragione è sempre ragionevole, anche nell’ultimo limbo, all’ultimo confine
delle cose. “Anche l’universo più inesauribile è solo infinito fisicamente e non infinito nel senso
che fugge alle leggi della verità, alla ragionevolezza.”
Nel sentire nominare Bertelegni, Monterone s’irrigidì, creando intorno a sé un gelo totale che
chiunque avrebbe avuto paura di rompere. Come poteva un contadino, un fruttivendolo della
Toscana, sicuramente estraneo alla legge e alla politica e intellettualmente inferiore, molto
inferiore a Monterone, bloccare i suoi piani studiati perfettamente nel minimo particolare?
Ma non poteva mostrare un sentimento di spavento, terrore, subita sconfitta, lui che era il primo a
dover sempre vincere. Così, impassibile, ordinò a Libertini di lasciare il suo studio e per la prima
volta chinò il capo sulla sua scrivania, non per studiare leggi ma per pensare ad un modo per
sconfiggere il suo primo vero rivale. Doveva prepararsi a una lotta all’ultimo sangue, al suo caso
più difficile, che gli avrebbe cambiato la vita: con questa causa si sarebbe definitivamente
affermato il capo della massa, che sarebbe caduta ai suoi piedi!
Doveva sconfiggere quell’inutile e così piccolo fruttivendolo e diventare lui il più forte, il più voluto
bene e il più lodato. Ma come? Come?
4
Per prima cosa bisognava accusarlo di un crimine commesso, non importava che fosse vera o no
l’accusa, bastava che quell’impiccione di Bertelegni andasse in tribunale. Il problema ora, era
quindi trovare un crimine per accusarlo. Ma quale crimine avrebbe potuto commettere quel
sempliciotto, che comunque gli era costato metà dei suoi avvocati?
Pensandoci bene però, se era riuscito a cambiare così tanti avvocati, quel Massimo Bertelegni non
poteva essere poi così innocuo.
Monterone, uomo molto preciso e abile nel pianificare, stese uno schemino su cui scrisse quelle
che le lui riteneva principali caratteristiche del fruttivendolo, o per meglio dire, le più importanti
per attuare il suo piano.
Lo schema era il seguente:
• Di rango inferiore e apparentemente stolto e buono, ma con nell’animo un’infinita cattiveria
pronta ad esplodere.
• Non troppo benestante.
• Furbo (si prende gioco di Libertini per arrivare ai miei soldi).
• Geloso della mia fama e della mia grande popolarità.
In conclusione questi sono i suoi possibili moventi per la mia messa in scena, che lo rendono un
criminale perfetto!
Con questo schema Monterone trovò, finalmente, un piano perfetto. Questo piano probabilmente
non sarebbe costato la reclusione a Bertelegni, ma di sicuro gli avrebbe fatto perdere la stima degli
altri avvocati.
L’avvocato si recò con la sua borsa del computer al negozio del suo acerrimo nemico. Ebbe la
grandissima fortuna di trovare la porta aperta e il fruttivendolo assente che sarebbe subito
tornato, come diceva un cartello appeso. Entrato, si recò in fretta e furia nel ripostiglio sul retro e
nascose sotto alcuni scatoloni la sua valigetta contenente il costosissimo e nuovo computer.
Compiuto questo miserabile atto scappò con falcate lunghe e veloci che gli permisero di arrivare in
Corso Buenos Aires in un batter d’occhio; allontanatosi dal negozio di Massimo rallentò la sua
corsa che si trasformò in una camminata tranquilla e disinvolta, come se nulla fosse accaduto.
Quindi entrò in un negozio e acquistò un paio di scarpe. Procedette poi, tranquillamente, fino alla
sua auto che finse di trovare aperta e vuota della sua valigetta. Molta gente accorse ai suoi
lamenti, persino la polizia che stava presidiando la zona. Monterone raccontò che era andato a
comprare delle scarpe e tornato alla sua macchina non aveva più trovato il suo computer.
Essendo Monterone un’importante persona a Milano, la polizia, che di solito non faceva più di
tanto per questi piccoli incidenti, gli affidò un bravo investigatore, sotto insistente richiesta
dell’avvocato.
Il detective era un uomo sui cinquant’anni, alto e robusto, con i capelli grigi scuri. Nulla in lui
faceva pensare che il cappotto blu nascondesse una rivoltella, che il taschino della camicia
nascondesse un distintivo della polizia e che la coppola custodisse uno dei più possenti cervelli di
Milano. Costui si chiamava Achille Bolognesi, ma era detto “El Tigre”, perché non aveva mai
seguito nessuna pista errata. Il suo fiuto era infallibile e Monterone l’avrebbe pagato riccamente
alla fine del processo, ma ci avrebbe guadagnato comunque, perché avrebbe sconfitto quell’essere
inferiore a lui. Fumava una sigaretta con la serietà di una persona in ozio.
“El Tigre”, grazie ad alcune informazioni dategli da Monterone, prese la giusta pista, o almeno,
quella che l’avvocato voleva fargli prendere.
5
In ogni caso nessuno, men che meno Bolognesi, sapeva dell’astuto piano di Monterone, né doveva
saperlo.
Così Bolognesi si diresse verso Via S. Gregorio e iniziò a scrutare le case, e il suo sguardo si posò sul
negozio di orto frutta del contadino toscano, il quale, come Monterone aveva ben spiegato, gli
portava a casa una volta alla settimana la frutta, per questo aveva un duplicato delle chiavi.
“El Tigre” entrò con aria sospettosa nel negozietto e iniziò a penetrare con lo sguardo tutto ciò che
vedeva, come se volesse poter vedere attraverso le cose per trovare l’oggetto tanto ricercato.
Dopodiché Bertelegni lo accolse calorosamente e gli chiese di cosa avesse bisogno.
Così Bolognesi, mostrando il distintivo della polizia, disse che era lì per perlustrare il negozio e
insieme al distintivo spiaccicò sulla faccia di Bertelegni il mandato di perquisizione.
Bertelegni, avendo la coscienza a posto, aprì la porta all’investigatore, il quale iniziò a perlustrare il
negozietto. Così l’attenzione di Bolognesi cadde su una porticina, quella che davo sul ripostiglio.
Bolognesi si diresse verso la porta, sicuro che dopo averla aperta avrebbe avuto il caso in mano:
quella sarebbe stata la porta che apriva sulla vittoria! Aprì ansioso la porta che nascondeva una
disordinata catasta di scatoloni, sotto i quali trovò il tanto ambito computer. La faccia di Bertelegni
mutò molto velocemente, come se avesse appena visto un fantasma. Il suo viso, colorito grazie al
sole della toscana, si fece bianco come una mozzarella, il respiro gli si bloccò e poi riprese
facendosi sempre più pesante. Gli occhi gli si sgranarono increduli alla vista di quell’oggetto a lui
estraneo.
Monterone era riuscito a mettere in atto il suo tremendo piano, lui aveva già vinto la sua causa più
importante, ora la strada per il successo pareva priva di qualsiasi tipo di ostacolo, era vittoria.
Mancava solo la condanna del giudice, che Monterone avrebbe facilmente portato dalla sua parte,
essendo lui il migliore avvocato di Milano, e avendo prove schiaccianti, che invece Bertelegni non
aveva affatto, per poter riuscire a discolparsi.
L’aria era tesa come alla vigilia della Prima Guerra Mondiale: si erano formati i due schieramenti,
da una parte Bertelegni, difeso da Libertini, e dall’altra Monterone, accompagnato da Bolognesi e
una scorta di avvocati rimastigli fedeli.
La causa si svolse in un botta e risposta fra Monterone e i suoi soci contro Libertini, seguito da
alcuni interventi degli avvocati, che continuavano a insistere che un uomo come Bertelegni non
sarebbe stato nemmeno in grado di concepire un’idea così folle e senza senso. Massimo non disse
una parola a riguardo e rimase con la testa china, e con lo sguardo perso nel nulla, come se stesse
cercando un senso a questo avvenimento.
La causa si concluse con la vittoria di Monterone, il quale accettò molto volentieri tutti i
complimenti, come se la sua vittoria fosse stata scritta fin dall’inizio di tutto. Inoltre il giudice
decise che Bertelegni avrebbe dovuto lasciare il suo negozio di Milano.
Bertelegni fu tempestato dalle domande dei suoi amici avvocati, i quali insistevano sul fatto che lui
avrebbe dovuto difendersi, dopo tutto era lui che aveva ricordato loro il valore della giustizia.
Bertelegni rispose che se lui non avesse perso questa causa Monterone non sarebbe cambiato,
sarebbe rimasto il solito avvocato egoista ed egocentrico. Gli avvocati a quella affermazione,
apparentemente folle, obbiettarono dicendo che non era cambiato, in quel momento era lì a
pavoneggiarsi, peggio di prima!
6
Ma il fruttivendolo replicò che bisognava solo aspettare, perché Monterone non si sarebbe mai
accontentato di una vittoria giudiziaria, ma avrebbe sicuramente preferito che Bertelegni stesso
dichiarasse di essere stato sconfitto.
Pochi giorni dopo Bertelegni entrò per l’ultima volta nel suo amato negozietto, privo di quella sua
solita allegria, che avrebbe contagiato chiunque l’avesse desiderato.
Entrò nel ripostiglio sul retro e iniziò ad impacchettare i suoi effetti personali, chiudendoli con cura
negli scatoloni.
Nel sollevare uno scatolone, però, notò un pezzetto di carta svolazzante, lo prese e vide che c’era il
timbro dell’ufficio di Monterone: era il famoso schemino scritto da Monterone stesso, su cui era
appuntato come distruggere, annientare Bertelegni. Probabilmente l’avvocato l’aveva perso nel
nascondere il suo computer. Così prima di partire, il fruttivendolo decise di andare da Monterone
per chiedergli a proposito del bigliettino trovato. Entrato in casa del prestigioso avvocato, si
diresse, questa volta sicuro di ciò che stava per fare, verso il suo studio.
Monterone, sicuro che Bertelegni fosse andato lì per dichiarare ufficialmente la sua sconfitta,
esclamò: “Caro Bertelegni, cosa desidera?”
E Bertelegni con un tono della voce che anticipava qualcosa d’importante, rispose: “Ho perso, è
vero, lei è riuscito a vincere la sua ennesima causa, mi complimento con lei. Ma lei sa meglio di me
che questa è solo l’ennesima causa da lei vinta, non grazie al gusto che ha provato nel ripassare le
leggi per far trionfare la giustizia, ma solo grazie all’inganno. Spero che lei sappia ammettere
questo!” così Bertelegni pose il foglietto da lui trovato sul tavolo. E continuò: “In caso contrario lei
starebbe facendo male a se stesso, non saprebbe essere vero neppure con sé stesso. A me non
interessa diventare importante per una massa di babbei, che, come delle api, cercano il fiore che
ha più nettare da offrire loro; io non sono venuto qua, a Milano, per rubarle gli avvocati, sono
venuto qua cercando di rimanere me stesso, cercando di dare poco peso al giudizio che gli altri
hanno di me, perché è solo un pregiudizio, che vuole distogliere lo sguardo dai propri difetti.
Questi problemi vanno presi e affrontati, senza timore, per essere sé stessi e solo dopo ciò si può
giudicare gli altri ma per aiutarli a crescere. Le persone che lei crede che io gli abbia rubato, sono
venute da me di loro spontanea volontà e io non li ho fatti miei schiavi, ma ho dato loro il coraggio
di essere sé stessi, e così si sono resi conto che, affrontando in questo modo ogni cosa, tutto ha un
senso. E ogni cosa che per loro era totalmente scontata, anche il loro lavoro, in realtà aveva
un’importanza enorme, un mistero nascosto e da scoprire che solo l’avventuriero, quello che si
butta e si mette in gioco può scoprire. Vivendo in questo modo, osservando le cose così, tutto
racchiudeva un inesauribile segreto, ed esso sta anche dentro ad ognuno di noi, ma solo essendo
noi stessi possiamo spiegarlo. Questo mistero sta anche dentro di lei, deve solo volerlo scoprire, e
lasciare che gli altri lo scoprano”.
Dopodiché Bertelegni uscì, salì sulla sua macchina carica, attraversò la grigia Milano fra i clacson e
i frastuoni della città come qualche mese prima, ma questa volta ne usciva per prendere
l’autostrada in direzione di Firenze. Intanto anche i suoi ricordi andavano a ritroso da quella causa,
all’arrivo a Milano, fino alla sua partenza dalla sua amata Toscana dove voleva ritornare.
7
Epilogo
In seguito Monterone scrisse questa lettera agli avvocati: “Uscito Bertelegni, mi alzai dalla
scrivania, impietrito e corsi ad abbracciare mia moglie e i miei figli, e in quel momento capii come
loro fossero importanti per me, loro che avevo sempre trascurato erano la cosa più bella e più cara
che potevo avere, e non mi sarei meravigliato se non mi avessero più voluto, dati i miei precedenti
comportamenti. Quella causa mi aveva davvero cambiato la vita, non diventai il capo assoluto
della massa, come volevo diventare, ma diventai capo di me stesso, della mia libertà; la mia vita
non era solo cambiata, ma si era completamente sconvolta e travolta. Avevo capito qualcosa di
veramente grande: ogni cosa, ogni singolo particolare aveva dentro il rispetto della propria
persona e di quella altrui; solo se noi usiamo queste cose, il nostro lavoro, la famiglia per lo scopo
per cui ce le abbiamo quella cosa è veramente utile.
Era come un paradosso, cioè qualcosa che va contro il senso comune e la verosimiglianza: una
dimostrazione che giunge a conclusioni smentite dall’esperienza comune o empirica. Era quasi il
contrario di quello che ero prima, ma questo cambiamento mi rendeva più pieno, più felice, più
me stesso e mi stupivo di chi era ora.
Io, Aldo Monterone, concludo dicendo che il mondo non finirà mai per mancanza di meraviglie, ma
per mancanza di meraviglia. Se l’uomo non è capace di meravigliarsi delle bellezze che il mondo gli
dà, non può essere felice, perché non sarebbe capace di meravigliarsi di sé stesso, dell’essere
uomo. Infatti, l’uomo è la meraviglia delle meraviglie del mondo e se non si stupisce di sé non si
stupisce di niente e allora il mondo sarebbe inutile e finirebbe. Il mondo finirà dunque solo quando
noi non saremo più capaci di meravigliarci e stupirci verso qualcosa e qualcuno che è in grado di
farci sbalordire.
Ognuno, prima o poi, incontrerà qualcuno che gli insegnerà a stupirsi e bisogna essere pronti ad
accettare questo qualcuno a lasciarsi insegnare perché ciò porta ad essere più felici. Non importa
se non si riesce subito a cogliere quest’occasione, l’importante è coglierla. Tutti diventeranno
capaci di meravigliarsi di ciò che hanno, anzi che lamentarsi per ciò che gli manca e non c’è
nessuno che non possa avere niente, perché ha sempre sé stesso: la meraviglia più grande delle
meraviglie di cui si possa meravigliare.”
8