Nel futuro La metropolitana procedeva velocissima
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Nel futuro La metropolitana procedeva velocissima
Nel futuro La metropolitana procedeva velocissima e silenziosa in direzione nord. Era il convoglio totalmente automatizzato Y-Drib, una nuova generazione di treni metropolitani immessa sul mercato da pochi anni da un consorzio finnico-mongolo leader di mercato nella progettazione di mezzi di locomozione sotterranei a propulsione pneumatica. All’interno i passeggeri erano comodamente sdraiati su panche ergonomiche inclinate all’indietro di circa venti gradi. Una musica, o meglio una serie di leggere melodie indefinite miste al suono campionato e sintetizzato della foresta, invadeva gradevolmente il lungo abitacolo illuminato da una luce soffusa tendente al verde acqua. Aleggiava nell’aria un buon profumo di muschio. L’anziano era immobile, respirava veloce e fissava un punto indefinito davanti a sé. Sulla parte alta del convoglio, proprio in linea d’aria col suo sguardo, si accendevano di tanto in tanto degli oleogrammi pubblicitari e, leggermente infastidito, cercava con lo sguardo di fissare oltre. La sua fermata era il capolinea e mancavano almeno quaranta minuti, così come annunciato in quattro diverse lingue da una voce femminile dagli altoparlanti posti sul soffitto della sua carrozza. 9 Marco Antonio Rovatti Era di ritorno da una visita medica specialistica che ripeteva oramai da diversi anni presso un suo vecchio amico medico che lo aveva in cura da tanto tempo. Ora stava per incontrare suo figlio, il minore dei due, che non vedeva da oltre due anni perché aveva deciso di vivere a Bled, una caratteristica cittadina in Slovenia che si affaccia su un piccolo lago dai riflessi verde-blu con al centro un’isola sulla quale vi è solo una piccola chiesa antica. Lì il paesaggio è incantevole e le varie amministrazioni locali erano riuscite, incredibilmente, a preservare quel posto che pareva uscire da un racconto fantastico dei fratelli Grimm. Suo figlio, Demetrio, era riuscito a comprare un paio di locali all’interno del castello posto sul monte che domina il lago e lì aveva installato la sua base di ricerca, così come la chiamava lui. Era un noto magistrato incaricato dagli Stati Uniti d’Europa di coordinare una task force transnazionale per investigare e disarticolare le reti telematiche legate alla pedofilia che infestavano come una metastasi la rete. Demetrio si ritirava da solo per lunghi periodi a Bled proprio per concentrarsi meglio quando un caso richiedeva maggior concentrazione rispetto ad altri e purtroppo, negli ultimi anni, non vi era più soluzione di continuità. Si era imposto, nonostante le pressioni che giungevano dalla capitale, di godersi una piccola vacanza e di andare a prendere suo padre, Luca, nell’Area Milano per poi riunirsi con sua sorella e sua madre che li aspettavano nella casa di famiglia a nord di Ajaccio, nel golfo di Sagone, che i suoi genitori avevano acquistato qualche decennio prima. 10 Gli occhi di Luca Il pensare con intensità a Demetrio fece sì che Luca chiudesse per un attimo gli occhi e il buio che calò attorno a sé fece correre la sua memoria più veloce della metropolitana, che in quel momento sfrecciava a circa trecento chilometri all’ora a una profondità di oltre cinquanta metri mentre attraversava da sud a nord l’intera regione Lombardia, che da circa dieci anni era stata ribatezzata Area Milano. I ricordi lo portarono in un luogo preciso della memoria: era la primavera del 2005, esattamente ventinove anni prima, quando la sua città natale era ancora una piccola e provinciale città del nord Italia che qualcuno chiamava allora grottescamente ‘il portale per l’Europa’ e i suoi abitanti parlavano una sola lingua e nella maggior parte dei casi male. Nello stesso momento, a più di seicento chilometri di distanza in linea d’aria, direzione sud-ovest, una donna non più giovane dai lunghi capelli grigi raccolti a coda, stava aprendo le imposte di un locale, adibito a studio, che dava sul golfo di Sagone. Il profumo inteso del maquis corso inebriò la donna e le fece socchiudere, per un attimo, gli occhi. Dinanzi a lei il terreno declinava verso la costa in modo ripido per terminare, con un taglio netto, sul profilo del mare. Il vento, sempre presente per quasi tutto l’anno, teneva secca e bassa la vegetazione che si era arricchita, nel corso dei millenni, di diverse varietà di piante aromatiche e di bacche. Una su tutte, il mirto. La donna guardò con intensità l’orizzonte come se fosse per lei la prima volta. Poi si voltò in direzione della scrivania e iniziò a togliere un leggero 11 Gli occhi di Luca Marco Antonio Rovatti strato di polvere con un panno umido che aveva in mano. Accarezzò con lo sguardo alcuni oggetti del marito che aveva lasciato in disordine, prima di partire, due giorni prima. Un orologio a cipolla, un paio di foto che ritraevano, in due stagioni diverse, la vigna di proprietà e il mazzo di chiavi della vecchissima Volkswagen Pescaccia. Col sorriso sulle labbra, la donna si sedette sulla sedia e aprì, senza quasi accorgersene, il cassetto della scrivania. Si trovò tra le mani una cartelletta ripiena di fogli manoscritti. Più stupita che curiosa, iniziò a leggere la prima pagina. Col sorriso sulle labbra e gli occhi chiusi, quasi fosse un gioco, Luca iniziò a correre indietro nel passato della sua memoria storica. Tutto scorreva velocemente e a grandi balzi temporali. Poi, la sua macchina biologica del tempo fermò bruscamente la sequenza di ricordi in un preciso momento. * * * Luca era nato in una città che oramai stentava a riconoscere come ‘la sua città’. Quando si è piccoli e poi adolescenti, la città è vista con gli occhi di chi scopre e subito intercetta i confini del proprio quartiere, tracciando quei limiti invalicabili oltre i quali ci sono gli altri, il centro, le zone malfamate e le zone dei ricchi. La città diviene così per i ragazzi un puzzle di pezzi colorati sul quale saltellare qua e là con i vari gruppi di amici che nel corso degli anni si creano e si sciolgono in gioiosa continuazione. La sua città era in realtà il suo quartiere, brutto come lo era ora, periferia estrema di 12 qualcosa che in modo amorfo si allungava su pezzi di terra incolta mentre si decomponeva in altre parti che di colpo non si ritrovavano più. Non riconosceva il suo quartiere, questa città nella città, perché non vi erano più gli amici di allora; perché era scomparso anche lui, come tutti gli altri. Scomparire, vedere, scoprire. Verbi che vivono solo perché esistono gli occhi. Questi suoi occhi che allora avevano visto una città bellissima e oggi la vedevano vuota, inutile, fine a se stessa, triste e che non gli sorrideva più. “Questi occhi che mi permettono di vedere bene e di essere ben visto.” Si diceva spesso tra sé e sé, quando voleva filosofeggiare. Il vivace transito di Luca sulla terra era iniziato nel 1962 e aveva vissuto per circa trent’anni in quel quartiere, condividendo i classici momenti di crescita e scoperta con quasi tutti i bambini nati in quel posto. Aveva frequentato con poca voglia qualche mese di scuola materna poi era stato cresciuto a casa da sua madre che aveva deciso di non lavorare per accudirlo al meglio. Erano anni, quelli, nei quali le donne preferivano non andare al lavoro se avevano dei figli da allevare. I padri, invece, andavano in fabbrica o in ufficio e lavoravano tranquillamente per dare un futuro degno di questo nome alla propria famiglia. Molti di loro, come lo era il padre di Luca, stavano riscattando la casa popolare tramite la Gescal, un meccanismo inventato negli anni Cinquanta per offrire modo ai lavoratori di pagarsi la casa poco alla volta e senza interessi esorbitanti. Il mutuo ipotecario per la prima casa, in effetti, non era una pratica così diffusa in quel preciso periodo sto- 13 Marco Antonio Rovatti rico, come lo era invece ora, dove il sistema bancario offre la possibilità di accedere al prestito per l’acquisto della casa fino al cento per cento del costo totale dell’immobile. In cambio di una dilazione di pagamento che può addirittura arrivare a trent’anni e con degli interessi iniziali molto appetibili, milioni di italiani fanno la fila in banca per ritirare il loro buono premio. E poi via di corsa al bar o a riempirsi la bocca negli uffici dove lavorano o ad agosto, su una sdraio strapagata in uno schifo di spiaggia in Romagna a dire “Mi sono fatto la casa,” mentre è la banca che si è fatta la casa e pure loro! Nel salotto dell’abitazione dei suoi genitori, erano gli anni a cavallo tra il Sessanta e il Settanta, c’era il telefono grigio con il grande disco tutto bucato con i dieci numeri per la composizione analogica delle chiamate. Tutti gli italiani ne avevano uno nella propria casa. I genitori di Luca avevano scelto, perché in quel modo le telefonate costavano di meno, il servizio duplex. In pratica era la condivisione della linea con un altro abbonato sconosciuto della zona: chi alzava la cornetta occupava per primo la linea e all’altro non rimaneva che aspettare che la linea si liberasse, confidando in un sufficiente livello di educazione civica dello sconosciuto. La famiglia di Luca, in quell’occasione, era stata baciata dalla fortuna: la famiglia Sassoni abitava proprio al piano di sopra, in quel trittico di condomini grigi che raccoglieva novanta famiglie, denominato le case Fanfani. Si trattava di una misera realizzazione di urbanistica civile popolare, dei primissimi anni Cinquanta, costruita per decreto legge che portava la firma dell’allora ministro Fanfani. 14 Gli occhi di Luca La madre di Luca aveva escogitato un raffinato mezzo di comunicazione che permetteva di avvisare i vicini quando fosse scaduto, secondo i suoi personalissimi parametri, il tempo a loro disposizione per la telefonata e pertanto fosse giunto il momento di riattaccare il ricevitore. Si trattava della fine arte del picchiettare, con un’impercettibile vena nervosa, il soprastante pavimento della sala dei Sassoni, utilizzando all’uopo uno strumento arcaico ma decisamente funzionale all’operazione: il manico della scopa. Trovata geniale che era stata subito rielaborata dalla signora Sassoni che, di converso, pestava il tallone del piede tre volte quando desiderava, con grande dimostrazione di tatto e leggiadria, riprendersi la linea telefonica. La vicenda era andata avanti così per almeno quindici anni. Praticamente un delirio. Un improvviso cambio di velocità della metropolitana, fece sobbalzare il sedile sul quale Luca era comodamente rilassato. Come in un meccanismo a ingranaggi multipli, lo scossone fece fare un salto ulteriore alla memoria che moltiplicò la quantità di dettagli. Ora riusciva incredibilmente a visualizzare perfino i dialoghi di una cronaca nella quale si era trovato protagonista a quel tempo. Il dettaglio della memoria evidenziò immediatamente l’uomo quando era sulla soglia dei suoi quarantatré anni. Di media statura e con un fisico che presentava sicuramente un passato di intensa attività sportiva, era però appesantito da una muscolatura non proprio tonica e 15 Marco Antonio Rovatti decisamente fuori peso forma. Aveva una folta capigliatura di color nero corvino, leggermente ingrigita sulle tempie, che faceva da cornice a un bel volto ovale e uno sguardo intenso corredato da due grandi occhi scuri. Un giorno di primavera del 2005 Bloccato in un classico ingorgo cittadino Luca si trovava sul cavalcavia del suo quartiere. Quel cavalcavia che non esisteva ancora, guardando una sua foto in bianco e nero all’età di un anno, tra le braccia di un cugino di suo padre che non vedeva oramai da almeno venti anni. Quanti ne erano passati. In un attimo, le vetrine della moderna e squallida pizzeria che stava distrattamente guardando lì in basso, si trasformarono e comparve magicamente la vecchia insegna Trattoria del Gallo Nero che un tempo troneggiava su tre grandi finestre di vetro. Il classico ritrovo di vecchietti ubriachi e avventori squattrinati, che ricevevano un pasto caldo cucinato dalla cuoca toscana. Il Gallo Nero significava per molti un fiasco di Chianti a buon prezzo, con le vecchie sputacchiere con il talco ai lati a terra del bancone in legno, sul quale il piccolo Luca e il suo amico del cuore Moreno si aggrappavano per richiedere all’oste un bicchiere di spuma nera. La vecchia trattoria confinava con il parrucchiere da uomo Adamo & Salvatore. Come parevano buffi quei due signori alti, con i capelli ricci, i grandi baffi dritti e il loro sorriso ammiccante. E poi, poco più in là, la portineria dei Jelmini, dove si trovavano a guardare avidamente le pagine del mensi- 16 17 Marco Antonio Rovatti le Le Ore, uno dei primissimi ‘magazine’ porno che giravano tra i ragazzini, dopo aver ben dimorato nei bagni dei parrucchieri da uomo, sapientemente occultati tra le pagine di Grand Hotel e altri squallidi fotoromanzi. Dopo una sessione corale masturbatoria, che faceva di loro degni appartenenti del gruppo, correvano a giocare caoticamente a pallone per finire a sfumacchiare orgogliosi le prime sigarette rubate alla mamma o al nonno. Quanti ricordi e quanti profumi. Il profumo del panettiere Bertelli che preparava quei francesini così croccanti e buoni che la mamma riempiva con pomodoro fresco e una foglia di basilico. E poi il profumo di trielina misto ad amido che usciva dal negozio della tintoria, con quella signora dalle tette enormi, il viso che ricordava una vecchia dama di compagnia del Settecento, che li salutava con un sorriso ammiccante e il ferro da stiro sempre in mano, come una naturale protuberanza. Insomma un mostro. Quel negozio era stato nel passato l’ultimo punto vendita di carbone. Era gestito da suo marito. Un omino, nervoso e ossuto, che appariva di tanto in tanto da sotto la botola, indossando una coppola e sempre incazzato, fumando delle sigarette impossibili. A volte si fantasticava che tenesse là sotto, prigionieri in celle sporche e buie, i ragazzini cattivi che catturava durante il giorno. Morì pochi anni più tardi di un tumore ai polmoni, causato da tutta quella polvere che si era aspirato mettendo il carbone nei sacchi che venivano poi svuotati nelle cantine dei clienti del quartiere. La moglie, dopo la sua morte, trasformò la carbonaia nel negozio di tintoria. Durò per molti anni e poi, improvvisamente, sparì 18 Gli occhi di Luca tutto: l’anziana dama di compagnia, la trielina, le enormi tette. Ora vi era un’altra attività ma Luca non riusciva a ricordare cosa. Un colpo di clacson lo avvertiva di rimettersi lentamente in moto. “Se ci penso bene debbo ammettere che tutta la mia vita, vissuta sino a ora, è stata una serie di bei ricordi, anche stimolanti, avventurosi, a volte anche pericolosi, ma sempre piacevoli da ricordare. Come diceva Tiziano Terzani? ‘La libertà inizia quando smetti di scegliere’. Beh, debbo riconoscere che il più delle volte ho sempre dovuto scegliere tra questo e quello ma, almeno, ho avuto la possibilità di farlo!” Così si era espresso il giorno precedente con un suo cliente durante un’amabile conversazione fatta di quelle classiche chiacchiere di cui non ci si ricorderà più, perché prive di contenuto e poco ascoltate. Era un affermato manager titolare di un’agenzia di comunicazione. In tutte le sue scelte che riteneva di avere fatto sempre in grande autonomia, ve ne era una che lo infastidiva particolarmente: il non essersi laureato in sociologia. Aveva deciso di concentrarsi subito sul lavoro, nel campo della comunicazione aziendale come copywriter, annullando fin da subito qualsiasi aspettativa che i suoi genitori avevano posto nel suo diploma di geometra. Ma questa scelta di ricerca di autonomia e realizzazione personale, aveva del tutto annullato l’ipotesi di seguire un piano di studi regolari all’Università. La sua professione, che era mutata nel corso degli anni, attingeva però continuamente al campo umanistico ed era spesso costretto, con piacere, ad aggiornarsi, tanto da 19 Marco Antonio Rovatti apparire un sociologo fatto e finito. Ma lui sapeva che non era così, anche se spesso gigioneggiava in modo fastidioso. Era sposato e aveva messo al mondo, insieme alla sua compagna, due bellissimi bambini che si chiamavano Giulia e Demetrio. E come tutti aveva anche lui un grande sogno ancora irrealizzato: scrivere un libro, ma non era ancora riuscito a trovare un soggetto interessante. 20