13. Il trionfo dei poteri locali nelle campagne e nelle

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13. Il trionfo dei poteri locali nelle campagne e nelle
13. Il trionfo dei poteri locali
nelle campagne e nelle città
secoli X-XI
I secoli X e XI in Europa furono caratterizzati da un sistema politico, sociale ed economico che è stato a lungo definito «feudale», mentre
la storiografia attuale preferisce designarlo come «ordinamento signorile» [Barthélemy]. La tradizione storiografica ha spesso associato – a dire il vero abusivamente – l’aggettivo «feudale» al concetto di anarchia.
Parlare di «ordinamento signorile» costituisce invece un modo per sottolineare l’importanza di considerare tale periodo per se stesso, piuttosto che come un’epoca di disordine e di trapasso fra la dissoluzione dell’impero carolingio e la nascita di nuove strutture politiche quali i comuni cittadini, i principati e i regni nazionali.
13.1. Un concetto ambiguo: feudalesimo
«Feudalesimo» è una parola che non si trova nelle fonti coeve alla
nascita del fenomeno. Il termine venne coniato nel Settecento nell’ambito culturale illuministico e da quel momento in avanti è stato impiegato dagli storici in modi diversi e per indicare realtà di diversa natura.
Le definizioni che nell’ultimo secolo e mezzo sono state date di «feudalesimo» sono state riassunte da Chris Wickham in tre categorie di fondo: la nozione risalente a Karl Marx, che identifica nel feudalesimo uno
specifico modo di produzione; l’immagine delineata da Marc Bloch, che
definì «società feudale» l’intera civiltà europea dei secoli X-XIII; una
più ristretta definizione giuridica, legata alle norme che regolavano le relazioni vassallatico-beneficiarie [§ 8.1].
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La parola «feudo» trae origine dall’antico germanico fihu, che probabilmente significava «gregge, bestiame» – come l’odierno tedesco
Vieh – e che ben presto assunse il medesimo significato del tardo latino
beneficium. Feudo e beneficio sono dunque all’origine soltanto due termini diversi per indicare la stessa cosa. Il beneficio, si è visto [§ 8], era
uno degli elementi imprescindibili del legame vassallatico-beneficiario,
ossia la concessione patrimoniale che il senior faceva al vassallo in cambio di un servizio reso (aiuto militare o incarico funzionariale, per esempio l’amministrazione di una contea e l’esercizio della giustizia per conto del re). La stretta connessione fra servizio e beneficio ha condotto
molti storici a sovrapporre le due nozioni: da ciò è derivato che spesso
si è inteso come feudo non il compenso dovuto al vassallo per il servizio reso, ma piuttosto l’ambito territoriale nel quale il vassallo stesso
svolgeva il servizio. L’espressione «ottenere in feudo» è stata allora intesa, erroneamente, nel senso di ottenere una terra e con essa, automaticamente, la delega a esercitarvi poteri di natura pubblica.
La storiografia contemporanea distingue le diverse componenti del
rapporto vassallatico-beneficiario perché ciò consente di chiarire con
maggiore precisione le fasi di sviluppo e le modificazioni di tale rapporto nei secoli successivi.
Prima fase (VIII-IX secolo). Prima nel regno dei Franchi e poi, con
Carlo Magno, in tutto il territorio dell’impero carolingio si diffondono
i rapporti vassallatico-beneficiari, un sistema che rende oggetto di diritto pubblico, legali dunque, i rapporti clientelari [§ 8.1]. Tali legami si
costituiscono fra il sovrano e i suoi funzionari ma restano concettualmente distinti dalla delega del potere regio a esercitare funzioni pubbliche in un determinato territorio.
Seconda fase (fine IX-X secolo). Dopo la dissoluzione dell’impero carolingio viene meno il coordinamento regio e la grande aristocrazia del
regno si impadronisce del potere, «patrimonializza» la carica di ufficiale
pubblico in un determinato territorio assieme al beneficio connesso all’incarico. I conti, i duchi e i marchesi divengono dinasti nell’ambito del
loro territorio, che continuano a gestire sempre in base al sistema vassallatico-beneficiario, applicato, su scala più ridotta, a vassalli propri.
Terza fase (XI-prima metà XII secolo). È il momento in cui si arriva
alla massima frammentazione del potere pubblico su scala locale, la fase
che viene definita ordinamento signorile. La frammentazione del potere
pubblico si innesca anche su quelle parti dei territori comitali e marchionali affidate ai vassalli dei conti o proprietà di ingenti possessori fondiari. Cellula base di questa organizzazione è il castello, con il territorio
più o meno ampio che ogni singola fortificazione riesce a controllare.
Quarta e ultima fase (dalla seconda metà del XII secolo in avanti). È
la fase in cui i poteri signorili vengono progressivamente coordinati all’interno di nuove compagini territoriali e i signori locali assoggettati ai
regni mediante nuovi strumenti giuridici, che vengono a costituire il diritto feudale. L’intricata materia dei poteri signorili viene chiarita ed ela-
Feudo e beneficio
Il periodo carolingio
Ereditarietà
degli incarichi
pubblici
L’ordinamento
signorile
Il diritto feudale
Storia medievale
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Debolezza regia
Sviluppo spontaneo
di poteri di fatto
La teoria
mutazionista
borata; un formale sistema di deleghe riesce a ricomporli secondo una
struttura gerarchica. Solo da questo momento in poi può diventare ammissibile parlare di una «piramide feudale», ossia di una rete gerarchica di rapporti politici basati sul legame feudo-vassallatico [§ 17].
La storiografia tedesca di fine Ottocento è responsabile della definizione di «anarchia» del sistema che si definì con la frammentazione dell’impero carolingio: essa riteneva che re deboli avessero ceduto parti di
potere in feudo a signori che a loro volta ne avevano concesso parti ad
altri, creando in tal modo una struttura gerarchica espressa attraverso la
metafora della «piramide feudale» che prevedeva al vertice il re, poi i
vassalli del re, e ancora i valvassori, ossia i vassalli dei vassalli, e infine i
valvassini, vassalli dei valvassori.
Agli inizi del Novecento sia la storiografia francese che quella tedesca, pur mantenendo una considerazione negativa del sistema, proposero di attribuire le cause di tale anarchia non alla cessione di poteri dall’alto ma piuttosto allo spontaneo sviluppo dei poteri che di fatto i grandi proprietari di terre potevano esercitare sui loro uomini, poteri che
con il venir meno di un’efficiente autorità pubblica diventavano di fatto indipendenti. Questa spiegazione dell’origine della frammentazione
locale del potere pubblico ebbe grande successo e fu accolta e arricchita da molti studiosi – Marc Bloch in primo luogo – che identificarono
come fattori decisivi di costruzione della società feudale l’istituto dell’immunità [§ 8.3] e la patrimonializzazione dei poteri pubblici nelle famiglie dei funzionari.
Dopo la seconda guerra mondiale la storiografia francese – per primo
Georges Duby – ha elaborato una nuova teoria «mutazionista» [§ 15.2]
che ha trovato riscontro in numerosi studi specifici a carattere regionale,
come la fondamentale ricerca dello stesso Duby sul Mâconnais, quella di
Pierre Toubert sul Lazio o quella di Pierre Bonnassie sulla Catalogna. Tale interpretazione si incentra su un periodo ben preciso, compreso fra la
fine del secolo X e la prima metà del successivo, epoca di una vera e propria «rivoluzione signorile» in cui sarebbe venuta meno l’effettiva capacità di controllo dei funzionari regi sui loro territori. Verifiche in ambito
europeo, soprattutto in Italia e in Spagna, hanno però evidenziato i limiti
di questa teoria, che attribuisce a un periodo troppo breve fenomeni e
cambiamenti che si svolsero invece in un lungo arco di tempo, con modalità differenti a seconda dei luoghi.
Al centro della nostra attenzione porremo ora la seconda e la terza
delle quattro fasi individuate sopra.
13.2. La frammentazione dell’impero carolingio
Negli ultimi anni dell’impero carolingio le aristocrazie europee avevano acquisito sempre maggiore importanza e un’autonomia spiccata
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dal potere centrale. Tale autonomia aveva trovato un riconoscimento ufficiale nel cosiddetto capitolare di Quierzy, una disposizione emanata
dall’imperatore Carlo il Calvo il 14 giugno 877 a Quierzy-sur-Oise, località della Francia settentrionale, mentre si apprestava a intraprendere
una spedizione militare in Italia per combattere i Saraceni. La disposizione prevedeva che gli incarichi funzionariali o i semplici benefici concessi ai vassalli, eventualmente rimasti vacanti durante l’assenza dell’imperatore, non fossero assegnati ad altri in attesa del ritorno dalla spedizione dei figli di quei funzionari o di quei vassalli. Fino a quel momento dunque – almeno formalmente – alla morte del vassallo il beneficio,
così come la carica che eventualmente vi fosse connessa, tornava al senior che ne poteva disporre liberamente. Nella prassi però era comune
che i grandi benefici e le cariche funzionariali fossero riconfermati agli
eredi del defunto. Il capitolare di Quierzy, che pure era stato emanato
come disposizione provvisoria, fu assunto dall’alta aristocrazia come
una legittimazione dell’ereditarietà dei benefici e delle cariche maggiori. Il fatto poi che, per lungo tempo, dall’888 in avanti, estintasi in linea
diretta la dinastia carolingia, l’autorità imperiale sia rimasta vacante o sia
stata gestita da uomini che non riuscirono a esercitare un potere reale,
consolidò di fatto il privilegio dell’ereditarietà dei benefici e degli incarichi per la grande aristocrazia.
Nei comitati e nelle marche i titolari del potere pubblico, conti e marchesi, dalla fine del IX secolo esercitarono le loro funzioni in modo ampiamente svincolato dal controllo – e, allo stesso tempo, dalla legittimazione – di qualsiasi autorità pubblica. La legittimità del potere si basò da
quel momento in avanti sulla concreta e materiale possibilità di essere in
grado di esercitarlo. Occorreva poter disporre di cospicue risorse economiche – e ciò significava, in quella struttura produttiva, soprattutto disporre di un vasto patrimonio fondiario – e di un congruo seguito di fedeli armati, ricompensati a loro volta grazie alla concessione di benefici.
Nei territori che la distrettuazione carolingia aveva assegnato all’alta aristocrazia dell’impero i discendenti degli antichi funzionari non erano peraltro gli unici in grado di esercitare effettivamente il potere. Nell’ambito territoriale di un comitato o di una marca esistevano proprietari laici di cospicui patrimoni fondiari che grazie alla loro posizione
economica potevano emulare, nello stile di vita e nell’esercizio del potere, i discendenti delle famiglie comitali. Grazie al servizio militare reso in favore dei sovrani, che di volta in volta cercavano di riaffermare un
controllo unitario del territorio, tali gruppi familiari ottennero dai rappresentanti del potere pubblico la concessione dell’immunità [§ 8.3]
nell’ambito delle loro proprietà. Le grandi aziende fondiarie divennero
in tal modo isole di giurisdizione autonoma dagli altri centri di potere
del medesimo territorio. Anche le grandi proprietà ecclesiastiche, le dipendenze delle grandi abbazie o del patrimonio dei vescovi e delle canoniche episcopali cittadine, godevano del diritto di immunità in gran
parte già dall’età carolingia. Inoltre, anche nel caso in cui un grande pro-
Capitolare
di Quierzy
Basi materiali
del potere
Il ruolo
dell’immunità
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«Edictum
de beneficiis»
prietario non riuscisse a ottenere ufficiale riconoscimento dell’immunità, egli di fatto si comportava come se ne potesse disporre.
Su questa frammentazione del potere pubblico cercò di incidere nella
prima metà del secolo XI l’imperatore Corrado II, emanando nel 1037 una
disposizione detta Edictum de beneficiis (ribattezzata in età moderna come Constitutio de feudis). Il testo stabiliva l’ereditarietà dei benefici minori, ossia dei benefici concessi dall’alta aristocrazia ai propri vassalli, precisando che nessun vassallo poteva essere privato del beneficio ottenuto
senza una giusta causa, che doveva essere giudicata da un tribunale di pari grado o direttamente dal sovrano. Con questa disposizione si mirava a
ricondurre l’insieme dei detentori di poteri signorili in un ambito di fedeltà unitaria, cioè quella dovuta al re, e si intendeva pertanto colpire l’eccesso di potere nelle mani dell’alta aristocrazia, riportando ordine e pacificazione sociale mediante il coordinamento dei poteri locali. Di fatto però
la disposizione non sortì effetti di rilievo, se non quello di legittimare poteri signorili già di fatto esistenti e di svuotare ancor più la capacità di intervento sui rispettivi territori dei funzionari regi.
13.3. L’incastellamento
Insicurezza diffusa
Centri
di insediamento
fortificati
Uno dei fenomeni più vistosi che accompagnarono la dissoluzione
dell’impero carolingio e il sorgere di molteplici centri di potere locale fu
quello dell’incastellamento. A partire dagli ultimi decenni del secolo IX
l’Europa aveva conosciuto le cosiddette «seconde invasioni» [§ 12]. Gli
attacchi della cavalleria degli Ungari e delle navi saracene avevano provocato il panico in larghe aree del territorio imperiale. Un motivo probabilmente non secondario della perdita progressiva di autorevolezza da
parte degli esponenti della dinastia carolingia fu proprio quello di non
essere stati in grado di garantire la sicurezza del territorio. La diffusa
sensazione di incertezza che ne derivò è da considerarsi una delle cause
scatenanti del fenomeno dell’incastellamento.
Avvenne che qualunque grande proprietario in grado di allestire una
fortificazione cercò di realizzarla, recintando un’area anche solo con mezzi di fortuna, come lo scavo di un fossato o l’innalzamento di una palizzata di legno. Con tali mezzi si protessero e si chiusero molti centri dominicali delle grandi aziende curtensi, sia laiche che ecclesiastiche. I contadini
piccoli proprietari e i coltivatori liberi, coloro cioè che lavoravano dietro
contratto nel massaricio di una grande azienda, in tanti casi trasferirono la
loro residenza nell’area fortificata, a fianco dei servi che dipendevano direttamente dal proprietario. In tal modo il fenomeno dell’incastellamento
contribuì all’affievolirsi delle differenze sociali fra i coltivatori, accomunati dal bisogno di protezione alle dipendenze del proprietario, il quale assumeva nei confronti dei residenti nel castrum prerogative che oltrepassavano la sfera patrimoniale e diventavano di schietta natura pubblica.
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Questo cambiamento del ruolo politico dei grandi proprietari, che
in quanto possessori di castelli riuscirono a estendere la loro autorità su
comunità intere, rivela come l’incastellamento non sia stato un fenomeno legato soltanto all’insicurezza. Grandi proprietari laici ed ecclesiastici, assieme agli eredi dei funzionari regi di età carolingia che avevano assorbito nel patrimonio familiare cariche e benefici, utilizzarono il timore diffuso per consolidare le rispettive posizioni di potere. L’incastellamento diventò così un mezzo per estendere l’autorità del grande proprietario non soltanto sui coltivatori direttamente dipendenti ma anche
su tutti i residenti nell’area in cui si trovava la grande proprietà.
L’incastellamento apportò profonde modifiche anche nel paesaggio
e nelle forme insediative: scomparvero o diminuirono le abitazioni che
nelle campagne sorgevano direttamente sui poderi. L’insediamento divenne più accentrato e anche il paesaggio si conformò alla nuova organizzazione del territorio: a ridosso delle mura dei castelli si concentrarono le coltivazioni di maggior pregio, orti e vigneti, contornate dai campi e poi dai pascoli e infine dai boschi. L’Europa assunse una nuova fisionomia, di carattere duramente militare.
Il potere
sugli uomini
Modificazioni
del paesaggio
13.4. Signoria fondiaria, signoria territoriale
L’incastellamento fu uno degli strumenti fondamentali attraverso cui
molti grandi proprietari si trasformarono in signori territoriali.
La storiografia distingue due forme di signoria: fondiaria e territoriale. Si definisce signoria fondiaria l’insieme dei poteri che un grande
proprietario di fatto si trovava a esercitare sui lavoratori di condizione
servile che gli appartenevano e anche sui coloni liberi che lavoravano le
sue terre. Oltre a riscuotere i canoni in natura e in denaro, infatti, il proprietario esercitava prerogative che andavano al di là del mero apporto
economico: i coltivatori dovevano alla proprietà diversi donativi, fissati
dalla consuetudine o, talvolta, da precise clausole contrattuali; erano
inoltre assoggettati all’obbligo delle corvées ossia delle prestazioni d’opera da svolgere sulle terre signorili, e dovevano ricorrere alla iustitia dominica, ossia accettare che fosse il proprietario a dirimere le controversie che potevano sorgere nell’ambito delle sue pertinenze patrimoniali.
Se questa forma di potere signorile contiene già elementi che configurano un controllo sugli uomini di natura pubblica, ancor più chiaramente ciò avviene nella signoria detta «territoriale» o «di banno». Così
come la signoria fondiaria è strettamente connessa alla grande proprietà
e al sistema di produzione curtense, la signoria territoriale è legata inscindibilmente al fenomeno dell’incastellamento. Si tratta infatti dell’esercizio di una serie di prerogative in gran parte analoghe a quelle della
signoria fondiaria, ma applicate anche a soggetti non legati da alcun vincolo di natura patrimoniale al proprietario del castello. L’aggettivo «ter-
Signoria fondiaria
Signoria territoriale
Storia medievale
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LE PRESENZE FONDIARIE DI UN GRANDE POSSESSORE
FEUDALI
ALLODIALI (in piena
proprietà)
AREE DI SIGNORIA FONDIARIA DEL GRANDE POSSESSORE
(dal punto di vista signorile
non c’è distinzione fra terre
feudali e terre allodiali)
Signoria fondiaria e
signoria territoriale
(da Curtis e signoria
rurale: interferenze
fra due strutture
medievali, a cura di
G. Sergi,
Scriptorium, Torino
1993)
SIGNORIA TERRITORIALE
si estende su molte terre che non competono economicamente
al signore fondiario; costruisce un dominio compatto facendo
perno sui principali nuclei fondiari signorili; rinuncia al controllo
politico sui nuclei fondiari troppo decentrati
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ritoriale» precisa dunque l’ambito di esercizio dei poteri signorili, imposti non più a singole persone economicamente soggette ma all’insieme degli abitanti di un determinato insediamento.
All’interno del castello il signore poteva richiedere prestazioni di lavoro per la manutenzione delle mura o per i turni di guardia, così come
per la manutenzione delle strade e della propria residenza. Si arrogava
il diritto di esercitare la giustizia e di dirimere le controversie. Incamerava le tasse tradizionalmente dovute al potere pubblico, quali il fodro
(originariamente l’obbligo di provvedere al sostentamento materiale
dell’esercito regio al suo passaggio, poi trasformato in regolare contribuzione monetaria), l’albergaria (l’obbligo di ospitalità dovuto al sovrano e ai suoi ufficiali), la curadia, ossia la tassa sui mercati, il teloneo, ossia il pedaggio stradale, assieme al ripatico e al pontatico, rispettivamente quanto dovuto per utilizzare un porto fluviale o un ponte, e infine le
multe e le pene comminate ai condannati dalla stessa giustizia signorile.
Il signore riscuoteva inoltre una «taglia», ossia un versamento in denaro dovuto dall’intera comunità come riconoscimento della funzione
di protezione esercitata dal signore: questa tassa era detta anche focaticum poiché spesso veniva applicata a ogni singolo «focolare», cioè a ogni
singola famiglia.
Il signore infine stabiliva un monopolio sulla vendita di generi indispensabili come il sale e su servizi collettivi come la molitura dei cereali e la cottura del pane, così come riscuoteva somme per consentire il pascolo, l’uso delle acque e lo sfruttamento dei boschi.
Signoria fondiaria e signoria territoriale sono definizioni create dalla storiografia e applicate a posteriori a una realtà complessa per cercare di capirla e interpretarla. Non si deve pertanto pensare che gli uomini dell’epoca fossero consapevoli di vivere assoggettati all’una piuttosto
che all’altra forma di esercizio delle prerogative signorili. È certo però
che le forme di potere affermatesi fra X e XI secolo comportarono il
moltiplicarsi di esazioni e imposizioni a carico degli abitanti delle campagne, e il sorgere di una permanente microconflittualità. Nel medesimo castello potevano infatti risiedere abitanti economicamente soggetti
al signore vicino ad altri che coltivavano terre di un diverso proprietario, fisicamente lontano ma che poteva rivendicare l’esercizio dei poteri
connessi alla signoria fondiaria. La medesima persona poteva così essere soggetta a più signori, che, magari, potevano entrare in conflitto fra
loro e combattersi attraverso azioni di saccheggio e di rapina che incidevano pesantemente sulla sicurezza patrimoniale e personale dei dipendenti. Inoltre, i diritti signorili erano assimilati nella prassi ai diritti
di proprietà: ciò significa che un castello alla morte del signore poteva
essere frazionato in diverse parti, corrispondenti al numero e alla consistenza delle quote ereditarie. Si frazionava la proprietà e con essa anche
i collegati diritti signorili. Le singole quote potevano essere liberamente
vendute: i documenti di compravendita attestano la divisione di un castello fino a dodici o addirittura a diciotto parti.
Le imposizioni
signorili
Frammentazione
e sovrapposizione
di poteri
Storia medievale
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13.5. Le città e i vescovi
Primato civile
dei vescovi
La difesa
dei cittadini
La giurisdizione
cittadina dei vescovi
Nell’aggrovigliato intreccio di poteri signorili che si contendevano il
controllo del territorio, una particolare posizione era quella delle città e
dei vescovi. Si è detto [§ 2] che le strutture ecclesiastiche si conformarono precocemente all’organizzazione amministrativa dell’impero romano: le sedi episcopali ebbero sede nelle città e l’ambito di giurisdizione ecclesiastica del vescovo, la diocesi, si estese su un’area i cui limiti tendevano a coincidere con quelli delle circoscrizioni amministrative
romane, le provinciae. Nelle città, poi, il vescovo fu sin dalle origini
espressione dei ceti dominanti locali: egli raccoglieva attorno a sé le
istanze della cittadinanza, che usava riunirsi periodicamente negli spazi
prossimi alla cattedrale per discutere i problemi comuni e partecipare
alle decisioni in merito alle soluzioni da adottare. L’insieme di queste circostanze ha condotto a definire la città come «luogo della continuità di
una nozione pubblica del potere» [Sergi].
Nelle città il vescovo aveva un primato non solo spirituale ma anche
civile; durante il periodo carolingio questa preminenza era stata recepita e salvaguardata dall’ordinamento pubblico, che si era avvalso dei vescovi come elementi di controllo sullo strapotere dei funzionari locali attraverso la loro cooptazione come missi dominici, controllori dell’attività
dei conti e dei marchesi [§ 8.2], e anche attraverso la concessione alle
chiese episcopali e alle loro pertinenze patrimoniali del diritto di immunità dal potere dei pubblici funzionari.
Con la dissoluzione dell’impero carolingio i vescovi mantennero e
rinsaldarono il loro ruolo in ambito cittadino. In occasione delle «seconde invasioni» [§ 12] si assunsero direttamente la prerogativa di provvedere alla difesa urbana: innalzarono o ristrutturarono mura che intendevano difendere le cittadinanze dall’attacco dei pagani (Ungari e Saraceni) ma anche dai mali christiani, i detentori dei poteri signorili nel
territorio e i loro vassalli.
Durante il secolo X molte sedi episcopali dell’Italia centro-settentrionale ottennero dai rappresentanti del potere regio, prima, e poi, da
Ottone I in avanti, del potere imperiale, il riconoscimento ufficiale del
loro ruolo in ambito urbano: ottennero cioè al posto e a fianco del diritto di immunità – un diritto «negativo» che rende immuni dall’azione
di terzi ma non delega l’autorità a governare – la cosiddetta districtio ossia l’autorità di costringere, di obbligare, l’essenza cioè del potere pubblico. Era il riconoscimento di una situazione ormai consolidatasi di fatto, ma era comunque importante poiché inseriva a pieno titolo i vescovi tra i legittimi detentori di parti del potere pubblico. A loro venne
normalmente concessa la giurisdizione sull’area della città murata e su
una ristretta fascia che la circondava, del diametro di 5-7 chilometri.
Anche le città vescovili rientrano, allora, a pieno titolo nel fenomeno di frammentazione del territorio in molteplici centri di potere locale. La tradizione però che sottostava al ruolo del vescovo in ambito ur-
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bano, ossia la compartecipazione alla gestione del potere delle classi
eminenti della città, rendeva molto diversi tali organismi – almeno nell’Italia centro-settentrionale – dai centri di potere signorile.
Per la definizione di ordinamento signorile di veda D. Barthélemy, L’ordre seigneurial, XIe-XIIe siècle, Seuil, Paris 1990.
Grande classico e insieme libro di piacevolissima lettura rimane il lavoro di M.
Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino 1949, più volte ristampato (l’originale
francese è del 1939-1940).
Per l’analisi del concetto di feudalesimo e la sua riconducibilità a tre categorie
fondamentali si è impiegata di C. Wickham la prolusione introduttiva al convegno Il feudalesimo nell’alto medioevo, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2000 (XLVII settimana di studio), pp. 15-46.
Le principali ricerche a partire dalle quali è stata elaborata la teoria «mutazionista»
sono: G. Duby, Una società francese nel Medioevo. La regione di Mâcon nei secoli XI
e XII, Il Mulino, Bologna 1985 (ed. orig. Paris 1953); P. Toubert, Les structures du
Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, École française de Rome, Roma 1973; P. Bonnassie, Le Catalogne du milieu du
Xe à la fin du XIe siècle. Croissance et mutation d’une société, Association des publications de l’Université de Toulouse-Le Mirail, Toulouse 1975-1976.
Costituiscono gli esiti più aggiornati della ricerca due volumi che raccolgono gli
atti di recenti convegni: Strutture e trasformazioni della signoria rurale nei secoli
X-XIII, a cura di G. Dilcher e C. Violante, Il Mulino, Bologna 1996, e Il feudalesimo nell’alto medioevo cit.
Sintesi recenti sull’argomento sono quelle di G. Sergi, Lo sviluppo signorile e l’inquadramento feudale, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. II, Il Medioevo. Popoli e strutture politiche, UTET, Torino 1986, pp. 367-93 e di S. Carocci, Signori, castelli, feudi, in Storia medievale, Donzelli, Roma 1998, pp. 247-67. Più tecnico e di complessa lettura l’insieme dei saggi di G. Tabacco raccolti in Id., Dai re ai signori.
Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
Dedicati all’analisi puntuale di specifiche realtà territoriali sono i contributi di G.
Sergi raccolti in I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Einaudi, Torino 1995.
Una dettagliata analisi dei poteri signorili in ambito italiano si trova nel libro di
L. Provero, L’Italia dei poteri locali. Secoli X-XI, Carocci, Roma 1998.
Sull’incastellamento si vedano A.A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Liguori, Napoli 1984, e P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Einaudi, Torino 1995.
Grande attenzione ai riflessi che l’ordine signorile ebbe sulla struttura sociale, sulla produzione economica e sulla vita degli individui si trova in V. Fumagalli, Terra e società nell’Italia padana. I secoli IX e X, Einaudi, Torino 1976.
Una chiara sintesi del dibattito storiografico si può leggere in S. Carocci, Signoria
rurale e mutazione feudale. Una discussione, in «Storica», 8 (1997), pp. 49-91.
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