Un puzzle la mia vita di psicologa. L`arte di mettere

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Un puzzle la mia vita di psicologa. L`arte di mettere
Un puzzle la mia vita di
psicologa. L’arte di mettere
insieme
i
cocci
della
precarietà
Un puzzle la mia vita di
psicologa
L’arte di mettere insieme i cocci della precarietà.
E’ certo che dopo tanti anni passati sui libri, con la
crescente sensazione che molto di quanto imparato sarebbe
stato difficile da mettere in pratica, ora non posso dire di
trascorrere le giornate sprecando il mio tempo. La mia
settimana è spartita tra il lavoro di educatrice in una scuola
materna, un laboratorio di ricerca in una scuola elementare, e
qualche ripetizione pomeridiana. Al fine settimana,
naturalmente, mi resta da gestire la casa e allora mi domando:
ma le mie amiche e colleghe psicologhe come fanno a
frequentare anche la scuola di specializzazione? Per campare
io devo fare cose diverse in posti diversi, incastrando tutto
come in un puzzle, soldi e tempo per la formazione ne restano
ben pochi!
Ho rinunciato –per ora- a ipotecare la mia vita per un titolo
da psicoterapeuta: non me la sento di dimenticare la mia vita
affettiva e sociale per dedicarmi solo e sempre al lavoro, ai
tirocini e alla formazione, come ho sentito fanno molte mie
amiche. Non ho rinunciato però a fare la psicologa, se non
fosse perché è la quota da pagare all’Ordine a ricordarmelo! E
poi, ogni tanto senti dire che in alcune regioni (ad esempio
in Lombardia), un esercito di educatori è pronto a spodestarci
da quei posti che permettono in qualche modo di mettere in
campo un minimo di competenze psicologiche, e allora ti
chiedi: “Ehi, ma se da un giorno all’altro non posso più fare
l’educatrice? Posso forse permettermi di cominciare solo
allora la libera professione?”. Rispetto alla possibile
estromissione degli psicologi dal lavoro di educatore,
talvolta mi prende la preoccupazione, e allora drizzo le
antenne alla ricerca di un posto più sicuro o che mi permetta
di fare conoscenze nuove, fuori dal giro delle cooperative.
Avendo sentito dire che in un comune limitrofo al mio, c’era
un concorso di supplente educatore di nido, mi sono informata
per sapere se potevo partecipare. Niente! La laurea in
psicologia non è ammessa come titolo valido, se solo avessi il
diploma magistrale o la maturità psico-pedagogica … Uno
potrebbe consolarsi ammettendo che sia giusto mantenere i
confini tra le varie professioni, e che comunque alcune
competenze necessarie per insegnare al nido, all’università
non le abbiamo imparate. Ma allora mi chiedo, perché in Veneto
e in Lazio lasciano partecipare gli psicologi a questo tipo di
concorsi, anche per posti a tempo indeterminato? Agisce bene
la regione Emilia-Romagna, tentando di mantenere un minimo di
confini tra le varie professioni, oppure le altre due regioni
citate sopra, accettando che alcune competenze per questo
lavoro le possiedono anche i laureati in psicologia?
Nonostante l’iscrizione all’Ordine, la mia consapevolezza di
essere una psicologa è piuttosto fragile. Da una parte è un
bene perché nessuno, nel mio lavoro di educatrice di sostegno,
mi chiede di mettere in campo competenze di questo tipo,
costringendomi a una sorta di doppio lavoro. Dal canto mio,
non mi sogno nemmeno di fare cose non richieste data la paga
che mi spetta.
D’altra parte, siccome come molti miei colleghi sono precaria,
la mia identità professionale torna spesso fuori come modo per
uscire dall’indefinitezza. Alla materna mi chiamano
insegnante, e pure nella scuola ove svolgo la ricerca è così:
ma io non lo sono, anche se per forza di cose alcune
competenze le ho acquisite.
Mi aveva ricordato chi sono la responsabile di una cooperativa
che avevo contattato l’estate scorsa per un lavoro estivo,
chiedendomi se volevo lavorare come psicologa per loro. In
pratica, qualche mese fa mi chiamò questa signora,
domandandomi se ero disponibile ad andare in una scuola ad
aiutare un gruppo di bambini di origine straniera, che mal si
integrava con il resto della classe e della scuola. Un
incarico duro, immaginavo, di cui si richiedeva urgente
copertura. 20 € l’ora era la paga, per 15 ore settimanali.
Interessante, mi dissi, e andai pochi giorni dopo presso la
sede della cooperativa per discuterne. Giunta lì, mi
comunicarono che per incassare i tanto agognati 20 € orari,
occorreva naturalmente la Partita Iva, che io non ho ancora
aperto. Perché non ci ho pensato? Eppure so bene quali tipi di
opportunità lavorative ci sono in giro! Senza la PI la paga
diventava di 15 €, che complessivamente corrispondevano ad una
paga mensile inferiore a quella che percepisco attualmente a
fare l’educatrice. Rinunciai: iniziare a metà anno scolastico,
cambiare cooperativa, ambiente, e lasciare la bambina a cui
facevo il sostegno era uno stress non giustificato dalla paga
che avrei percepito. Avrei potuto aprire la PI a quel punto,
perché questo prima o poi dovrò fare, ma non avendo tempo di
documentarmi e fare un bilancio costi-benefici, non me la
sentivo.
Comunque, questo è un esempio di lavoro che in alcuni (forse
molti) casi il terzo settore riserva a noi psicologi.
E ora che ci penso, i piccoli soprusi operati dal terzo
settore nei nostri confronti sono tanti, anche se forse non
sempre deliberati. L’anno scorso ho partecipato ad un corso di
formazione molto interessante sulla comunicazione e le sue
difficoltà: ebbene, una parte del corso era tenuto da un
ragioniere pnl-laro che ogni tanto nominava una sorta di guru
che era stato il suo maestro. L’altra parte del corso, invece,
da una collega psicologa molto brava –per fortuna!-. Il
ragioniere, per parte sua, stufatosi di lavorare tutto il
santo giorno con numeri e contabilità si era votato allo
studio e all’applicazione delle tecniche orientali, e ora
lavora nella formazione. Complimenti! Quindi anche io, da un
giorno all’altro, se mi stanco, posso prendere il suo vecchio
posto?
Cercarsi una nicchia ove operare come psicologa è difficile se
non si hanno conoscenze nel settore, nel senso di persone già
inserite a cui vai a genio. Tuttavia, non è impossibile se si
opera capillarmente, biglietti da visita alla mano in ogni
situazione: il punto è che questa ricerca è un lavoro a tempo
pieno e (vedi sopra), chi ha tempo? Queste sono operazioni che
portano via tempo, e ci sono un sacco di cose da controllare e
verificare per potersi avviare lavorativamente parlando:
un’occhiata ai concorsi, alla spedizione di curriculum, agli
obblighi contabili e previdenziali nel caso di apertura della
PI, alle norme di tutela della privacy (complicatissime), a
cosa succede nei piani alti della nostra professione, a come i
media e la gente ci considerano …
A proposito di concorsi, alle volte mi sento presa in giro.
Gli unici concorsi per psicologi sono borse di studio annuali
o semestrali, la cui assegnazione è spesso già decisa in
precedenza. Talvolta si richiede la PI o requisiti di
esperienza che la maggior parte delle persone a pochi anni
dalla laurea difficilmente ha acquisito. I casi in cui si
richiede la PI sono i più fortunati, perché comunque una
persona può gestirsi altri impegni se il monte ore settimanale
non è elevato, mentre se il contratto è tempo determinato non
è possibile essere dipendenti presso altre realtà lavorative,
e a quanto mi sembra, i contratti a progetto sono stati
equiparati al lavoro dipendente (mi si corregga per favore, se
non è vero). A quanto ammontano in genere queste borse di
studio? Et voilà, sui 10.000 € lordi, circa 800 € il mese:
non ci si vive! Meglio fare l’educatrice a questo punto.
Ciò che però mi fa arrabbiare più di ogni altra cosa è quando
i colleghi più anziani non si adoperano per aiutarci, nemmeno
quando non gli costa nulla. Una mia amica, che fa la scuola di
specializzazione ed è tirocinante in una AUSL, si è vista
mettere in discussione la continuità del suo tirocinio per un
tiro del suo tutor. In pratica, una mattina arrivò per la
prima volta in ritardo all’inizio di un colloquio (a cui
doveva solo assistere, beninteso!), e il tutor le disse che
per quanto gli riguardava se ne poteva anche stare a casa da
allora in poi. Suvvia, scherziamo??!! Ci stava la critica, il
richiamo, un avvertimento a quanto una cosa del genere non sia
produttiva in un contesto lavorativo futuro, ma non
espressioni del genere. E dire che è uno psicologo …
Ho voluto, con questo mio contributo, dare un’idea di come sia
dura per un giovane laureato (ma non solo in psicologia, a
questo punto), portare a casa uno stipendio decente per
vivere, con l’esigenza di continuare in qualche modo a
formarsi, a fare esperienza, a non dimenticarsi il percorso
intrapreso all’università. Non vorrei concentrarmi solo sui
problemi della nostra professione, tuttavia ci sono stati (e
forse ritorneranno in futuro) momenti in cui me le sono
ingegnate tutte per sentirmi produttiva, sicura. Ho pure
pensato di reiscrivermi all’università, cambiando percorso
professionale.
Non facciamoci venire la depressione, orsù, i nostri nonni e
genitori hanno faticato molto di più per crescerci e darci
tutto ciò che ora stiamo sfruttando, cioè un bel titolo di
studio appeso in salotto.
Monica Del Bue