Tema del percorso: L`operaio in fabbrica

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Tema del percorso: L`operaio in fabbrica
L'OPERAIO IN FABBRICA
I brani selezionati presentano cinque tipologie di operai impegnati nel lavoro in
fabbrica: l'operaio che aspira a entrare nella grande fabbrica (in Ottiero Ottieri,
Donnarumma all'assalto 1959), l'operaio alienato dai processi della produzione
industriale (in Paolo Volponi, Memoriale 1962), l'operaio politicizzato (Nanni
Balestrini, Vogliamo tutto 1971), l'operaio soddisfatto del lavoro (Primo Levi, La
chiave a stella 1978), l'operaio che assiste alla fine della fabbrica (Ermanno Rea, La
dismissione 2002).
Attraverso tali opere, che raccontano un segmento di Italia dagli anni della
ricostruzione (1945-1955) agli anni del boom economico (1955-1967), dalle lotte
sindacali dell'autunno caldo (1969) a quella del periodo post-industriale (i decenni
Novanta e Duemila), si racconta la parabola del personaggio-operaio.
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Il romanzo di Ottiero Ottieri narra le vicissitudini di un aspirante operaio, Antonio
Donnarumma (e di altri suoi colleghi) che cerca di farsi assumere in una fabbrica
meccanica, costruita a Pozzuoli, nel 1955, dall'industria Olivetti. Lo stabilimento è
strutturata secondo i più moderni principi sociologici, è un gioiello di architettura e chi
ci lavora è ben cosciente di essere un privilegiato. Ciò spiega il concetto di "assalto":
l'assalto portato dai disoccupati alla fabbrica. Donnarumma prova di tutto per farsi
assumere, dai colloqui di ruotine alle minacce, senza tuttavia riuscirci. Il suo assalto è
vanificato dalla sua incomprensibile ostinazione: non vuole piegarsi ai test
psicotecnici, i nuovi criteri su cui sarà valutato, e continua a considerare il lavoro in
fabbrica un impegno per cui non occorre altro che un buon uso delle mani. Il libro si
inserisce in forma originale nel grande capitolo della "questione meridionale",
arrivando ad analizzare lo stato di miseria delle plebi del Mezzogiorno.
O. Ottieri, Donnarumma all’assalto (1959)
Donnarumma Antonio, l’ultimo finalmente, parecchio dopo mezzogiorno, non era mai
venuto. Scrivevo ancora gli appunti sul precedente e Donnarumma era già con lo
stomaco contro il tavolo. Aveva il petto quadrato in un maglione, i capelli grigi a
spazzola, gli occhi duri; non guardava niente, né l’interlocutore, né la stanza. Ha solo
deciso:
«Debbo lavorare, debbo faticare, dottore.»
«Lei, Donnarumma, ha fatto la domanda? Scusi, quando ha fatto la domanda?»
«Che domanda?»
«Come, che domanda... Che domanda, perché si meraviglia che le chiedo questo, o
perché non sa che esiste la domanda, la domanda scritta di lavoro?...» Forse il
giuoco di parole lo ammolliva.
«Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare
nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere.»
«Ma prima lei ci spedisca per posta la domanda. Noi la esaminiamo e le
rispondiamo. Che dobbiamo rispondere se lei non ci ha scritto niente?»
«E che vi devo scrivere?»
«La domanda.»
Più irragionevole e duro, gli occhi gli si accecavano.
«Io vengo qui e invece di farmi faticare mi chiedete questa domanda.»
«Lei è il primo» dicevo sottovoce «è il primo di migliaia di persone che chiede lavoro
senza aver fatto prima la domanda. La mandi per posta, poi vedremo...»
«Eh, che vedremo?»
«Vedremo che ci sta scritto sulla domanda.»
«Ci sta scritto che devo faticare» ha ribattuto sul duro, con la faccia atona e regolare
sotto la fronte bassa, come un martello.
«Solo lei deve faticare in tutta la città e in tutta Santa Maria? Lo sa che quarantamila
persone vogliono faticare qua dentro?» Per la prima volta lo psicologo si è staccato
dalla sedia. Ho riflettuto un momento, ho battuto il pugno sul tavolo.
Egli è rimasto grigio, del colore di una pietra e con l’apparenza del sordo; gli occhi
bui, rossi. Torvo e severo, ha sollevato il braccio:
«Dottore, voi il pungo sul tavolo non lo battete.»
«Io batto il pugno sul tavolo soltanto perché voi non volete capire, non volete,
prendere quello che non pretende nessuno, e perché?...»
«Voi il pugno sul tavolo non lo battete. Se no lo batto anch'io.» Rialzava il braccio e
continuava: «E io lo batto sul tavolo! ma sulla vostra testa e su quella del direttore.»
Ancora nessuna domanda di Donnarumma; frugo la posta ogni mattina in cerca di un
suo scritto, inutilmente.
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Il romanzo di Paolo Volponi narra la storia di un operaio, Albino Saluggia, tornato
dalla guerra e assunto in un'azienda meccanica del Piemonte (sotto cui si riconosce
l'industria Olivetti di Ivrea). Il suo rapporto con la fabbrica è conflittuale. Saluggia è un
ex contadino, è abituato a vivere secondo i ritmi stagionali della natura, per cui non
riesce ad adattarsi alla catena di montaggio e all'organizzazione aziendale. Nei
confronti della fabbrica nutre un sentimento di odio e di amore: è vero che la fabbrica
gli dà il sostentamento per vivere dignitosamente, ma in essa si nasconde anche la
causa della sua incapacità di vivere, la causa della sua malattia e delle sue
ossessioni, delle sue manie di persecuzioni. Saluggia si sente inadatto, si ammala
fisicamente, comincia a entrare in conflitto con l'ambiente e a dare segni di follia. In
altre parole, è un alienato. Questo disagio fisico e morale conduce Saluggia a
diventare vittima inconsapevole della civiltà industriale fino al punto da essere
espulso. Da esame di coscienza di una condizione di industrializzazione, il libro
diventa una denuncia dei mali insiti nelle forme correnti del capitalismo.
P. Volponi, Memoriale (1962)
I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in
Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi
rigettasse. I miei mali sono cominciati alla fine del 1945, poco prima di Natale, negli
ultimi giorni di dicembre, i primi nevosi di quell’anno. Aspettavo la neve e Natale per
sentirmi con più agio finalmente a casa mia. In quei giorni arrivò una lettera di mia
cugina di Francia, che si era trasferita da Avignone a Parigi. Arrivò anche altra posta;
una lettera dell’Associazione Reduci che mi diceva a che punto era la pratica per il
riconoscimento della pensione e un’altra, dell’Ufficio di Collocamento, che m’invitava
a presentarmi in città per vedere se potevo essere incluso negli elenchi dei reduci da
avviare al lavoro nell’industria.
Poco dopo ero davanti alla grande fabbrica dove, trascorsi altri cinque giorni, mi sarei
dovuto presentare. La mia curiosità fu ripagata dal più profondo mistero. La fabbrica,
grandissima e bassa, ronzava indifferente, ferma come il lago di Candia in certe sere
in cui è il solo, in mezzo a tutto il paesaggio, ad avere luce. Nemmeno in Germania
avevo visto una fabbrica così grande; così tutta grande subito dalla strada, senza
recinti e cancellate dove la gente potesse lavorare avanti e indietro, tra il chiuso e
l’aperto. Io pensavo che una fabbrica avesse bisogno di movimento e quindi di cortili
e di spazi, un poco come le officine dei meccanici, dove gli operai in tuta trafficano
sempre tra il banco, le macchine e la strada. Le porte di queste officine reggono
chiavi, martelli, tubi, e servono a provare le vernici e i fuochi. La fabbrica era invece
immobile come una chiesa o un tribunale, e si sentiva da fuori che dentro, proprio
come in una chiesa, in un dentro alto e vuoto, si svolgevano le funzioni di centinaia di
lavori. Dopo un momento il lavoro sembrava tutto uguale; la fabbrica era tutta uguale
e da qualsiasi parte mandava lo steso rumore, più che un rumore, un affanno, un
ansimare forte. La fabbrica era così grande e pulita, così misteriosa che uno non
poteva nemmeno pensare se era bella o brutta.
Amavo a poco a poco la fabbrica, sempre di più ma mano che m’interessava meno la
gente che vi lavorava. Mi sembrava che tutti gli operai avessero poco a che fare con
la fabbrica, che fossero o degli abusivi o dei nemici, che non si rendessero conto
della sua sovrumana bellezza e che proprio per questo, lavorando con più fracasso
del necessario, parlando e ridendo, la offendessero deliberatamente. Mi sembrava
che si divertissero a guastarla e a sporcarla, a voltarle le spalle ogni momento. La
fabbrica mi appariva sempre più bella e mi sembrava che si rivolgesse direttamente a
me, come se fossi l’unico o uno dei pochi in grado e ben disposto a capirla.
È così è anche bella la fabbrica, con i suoi vetri e metalli, con le grandi arcate azzurre
e tutte le macchine in fila, quando è deserta e sembra che tutti gli uomini che
lavorano a quei posti puliti, vicini ai banchi e alle manopole, debbano naturalmente
essere sinceri e coraggiosi. Debbo dire che lavorare a quell’ora [nei turni di notte],
entrare nella fabbrica misteriosa, lucente pur senza rompere il buio come un pezzo di
stella caduto, girare nel sonno di tutti quelli che nel giorno erano stati in quei posti,
toccarne gli attrezzi o spostarne le sedie, proprio con l’impressione di camminare nel
loro sonno, a casa loro, nelle loro teste, come un mago e vivere nel silenzio, in un
silenzio assurdo in quella matrice di rumore, e vedere ferme quelle macchine e tutti i
nastri trasportatori, era bello e affascinante. Con lo stesso stupore entravo nella
chiesa del collegio di notte dopo il riposo, portando vasi di fiori e di erbe per
preparare il sepolcro del Giovedì santo.
La fabbrica nega qualsiasi soddisfazione e quindi è come se dentro di essa il tempo
non passasse, il tempo fratello degli uomini; oppure è come se passasse tutto
insieme. La fabbrica è chiusa, di ferro: dentro passa il tempo dalle sette alla
diciannove; ma tutto è fermo come tutto è di ferro. La fabbrica costruita per la
velocità, per battere il tempo, è invece sempre ferma perché il tempo degli uomini
batte qualsiasi artificiale velocità. La fabbrica in quel posto è costruita e in quello
stesso posto resterà.
Se avessi fatto il contadino e fossi rimasto a Candia, pensavo, non mi sarei
ammalato. Avrei potuto comperare altra terra, prendere un trattore e mettere su una
stalla. Avrei potuto vivere per conto mio e decidere ogni giorno il mio lavoro libero per
i campi. Le stesse segnano le stagioni e si sa quando seminare, rivoltare la terra,
mietere e tagliare i fieni. Le piogge gonfiano i semi e aprono i solchetti al sole che
viene dopo. Avrei potuto cambiar strada dietro una lepre o risalire i fossi del confine.
Scuotere gli alberi da frutta o sedermi e dare una voce a quelli degli altri campi. Fare
un lavoro mio, completamente; risparmiare, scegliere le scorte, la legna, i mangimi.
Lasciare le cose per l’inverno; usare poco i soldi. Invece ho accettato il lavoro della
fabbrica. Mi è stato imposto dai progetti degli altri, che mi hanno scelto come la loro
vittima. Lavorare a ore, un minuto dietro l’altro, una mano dietro l’altra, una schiena
dietro l’altra, nelle grandi officine. Dipendere da altri, senza nemmeno conoscerli ed
essere confuso tra tutti gli altri. Tutti i conforti della fabbrica diventano alla fine, come
per me, dei motivi di pena. E soprattutto subire l’ingiustizia.
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Il romanzo di Nanni Balestrini racconta di un giovane operaio meridionale, emigrato
nel Nord Italia negli anni sessanta, che dopo varie vicissitudini in alcune fabbriche
trova finalmente impiego nella Fiat di Torino, la più grande azienda meccanica
italiana, simbolo del capitalismo moderno. Qui diventa testimone di un clima d'odio
da parte della base operaia nei confronti dei proprietari e aderisce in prima persona
alle lotte sindacali, sfociate nella protesta dell'autunno 1969, l'autunno caldo, quando
le tensioni si trasformano in una contrapposizione violenta che prefigura la stagione
del terrorismo.
N. Balestrini, Vogliamo tutto (1971)
Vedevo adesso alla Fiat gli studenti che davanti al cancello davano volantini. Che
volevano parlare con gli operai. Il fatto mi sembrava un po’ strano. Mi dicevo, ma
come. Questi che hanno il tempo di scopare e divertirsi. Vengono davanti alla
fabbrica che è la cosa più schifosa che c’è.
Io prendevo questo fascione col paraurti, sopra di me c’era la carrozzeria della 500
che arrivava, dall’altra parte arrivava il motore, io piazzavo questo fascione col
paraurti, che peserà un dieci chili tutt’e due. Lo prendevo da un altro posto che lo
preparava un altro, lo mettevo sopra il motore, ci mettevo i bulloni sopra. Avvitavo
con sta chiave automatica a aria, veloce, trrr, trrr due bulloni, e tutto andava via
mentre un altro arrivava. Venti secondi ci dovevo mettere. Doveva fare il ritmo. I primi
giorni non ci riuscivo e mi aiutava il fuorilinea. Per tre giorni mi aiutò. Alla linea Fiat
non è questione di imparare ma di aiutarti la muscolatura. Di abituarla allo sforzo con
quei movimenti, con quel ritmo. Dovere mettere un coso di quelli ogni venti secondo
significava che avevi dei movimenti più veloci del battito del cuore. Cioè un dito,
l’occhio, qualsiasi parte eri costretto a muoverla in decimi di secondo. Fin che non ti
ci abitui per tre o quattro giorni a quel ritmo, non ce la fai.
Come mi cominciai a abituare da solo questo qua che mi aiutava mi lasciò. Mi
accorgevo che qua dentro avevano interesse a aumentarci le operazioni. Molti fra gli
operai nuovi arrivati, chi faceva mezza giornata, chi una giornata, chi tre giorni, chi
una settimana di lavoro, poi se ne andavano via. Specialmente molti di quelli giovani
se ne andavano immediatamente, dopo aver visto di che razza di lavoro di merda si
trattava. E a me mi imposero di fare un’altra operazione in più. Allora io cominciai a
incazzarmi e mi feci anche un po’ male al dito.
Arrivai io e cominciai a bluffare. Controllai bene e mi toccai il dito per sapere quando
dovevo urlare. Quando mi toccarono il dito cominciai a bestemmiare in dialetto, in
napoletano. Quello che mi visitava era un torinese e gli faceva un certo effetto.
Perché se bestemmiavo in italiano sembrava che recitavo, mentre bestemmiando in
napoletano questo qua non sapeva se recitavo o no. Così mi feci dodici giorni di
mutua pagata e ero contento. Perché ero riuscito a fregare il lavoro e la sua
organizzazione a vantaggio dei miei propri interessi. Al ritorno dai dodici giorni di
mutua, fatti comunque alla faccia della Fiat perché non c’avevo un cazzo, torno
dentro. Mi misero a avvitare marmitte, e decisi di fare il culo al nuovo fuorilinea che
avevo. Facevo finta d’incagliarmi con la pistola, facevo finta che s’incastrava vicino al
bullone. Fai presto, chiamavo il fuorilinea, vieni a vedere che non riesco.
Cioè, io avevo fatto tutti i lavori nella mia vita. L’operaio edile, nelle carovane di
facchini, il lavapiatti in un ristorante, avevo fatto il bracciante e lo studente, che è
anche quello un lavoro. Avevo lavorato all’Alemagna, alla Magneti Marelli, all’Ideal
Standard. E adesso ero stato alla Fiat, a questa Fiat che era un mito, per tutti i soldi
che si diceva che lì si guadagnavano. E io veramente avevo capito una cosa. Che
col lavoro uno può soltanto vivere. Ma viveva male, da operaio, da sfruttato. Cioè
qualsiasi cosa vuoi fare, se ti vuoi fare un’automobile o un vestito, tu devi lavorare di
più, devi fare lo straordinario. Non puoi prenderti un caffè, andare al cinema. In un
sistema, in un mondo dove lo scopo è solo di fare lavoro e di produrre merci.
Qualsiasi cosa vuoi avere con questo sistema ci devi sempre rimettere. Ma proprio
rimetterci fisicamente devi. Questo l’avevo capito. Per cui l’unica cosa per ottenere
tutto, per soddisfare i bisogni e i desideri senza distruggerti, era distruggere questo
sistema del lavoro dei padroni così come funzionava. E soprattutto distruggerlo qui
alla Fiat, in questa fabbrica enorme, con tanti di questi operai. Che questo è il punto
debole del capitale, perché quando si ferma la Fiat questi se ne devono andare per
forza in crisi tutti quanti, salta tutto.
Sono stati più di due mesi di lotta, una lotta proprio brutalmente spontanea. Non c’era
giorno che non si fermava un reparto, un’officina. Ogni settimana più o meno si
bloccava tutta la Fiat. Erano proprio giornate di lotta continua. Infatti la testata dei
volantini che si facevano era Lotta Continua, e realmente alla Fiat, a Torino, in quei
mesi c’era una lotta continua. Non è giusto fare questa vita di merda, dicevano gli
operai nell’assemblea, nei capannelli alle porte. Tutta la roba, tutta la ricchezza che
produciamo è nostra. Ora basta. Non ne possiamo più di essere della roba, della
merce venduta anche noi. Vogliamo tutto. Tutta la ricchezza, tutto il potere, e niente
lavoro. Le cose bisogna prendersele con la forza, sempre. E ce l’avevano su con lo
Stato che li fotteva sempre, e volevano attaccarlo, perché era quello il loro vero
nemico, quello da distruggere. Perché sapevano che loro le case le potevano avere, i
loro bisogni potevano essere soddisfatti, solo se quello Stato loro lo spazzavano via
finalmente per sempre, quella repubblica fondata sul lavoro forzato.
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Il romanzo di Primo Levi ha per protagonista un operaio montatore di gru e un
dirigente industriale. I due si incontrano spesso nella mensa di una grande fabbrica.
L'operaio, Tino Faussone, è un individuo soddisfatto del suo lavoro e delle sue
abilità. Ogni giorno monta e smonta gru grazie a uno strumento indispensabile, la
chiave a stella appunto, che usa come strumento simbolico per aprire i segreti del
mondo. Nel raccontare la propria vita al dirigente industriale, Tino Faussone si
presenta come un cavaliere della modernità, il prototipo dell'uomo-artigiano, capace
di usare le mani al servizio del bene comune.
P. Levi, La chiave a stella (1978)
Conoscevo Faussone da due o tre sere soltanto. Ci eravamo trovati per caso a
mensa, alla mensa per gli stranieri di una fabbrica molto lontana a cui ero stato
condotto dal mio mestiere di chimico delle vernici. Eravamo noi due i soli italiani; lui
era lì da tre mesi, ma in quelle terre era già stato altre volte, e se la cavava benino
con la lingua, in aggiunta alle quattro o cinque che già parlava, scorrettamente ma
correntemente. È sui trentacinque anni, alto, secco, quasi calvo, abbronzato, sempre
ben rasato. Ha una faccia seria, poco mobile e poco espressiva. Non è un gran
raccontatore: è anzi piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se
temesse di apparire esagerato, ma spesso si lascia trascinare, ed allora esagera
senza rendersene conto. Ha un vocabolario ridotto, e si esprime spesso attraverso
luoghi comuni che forse gli sembrano arguti e nuovi; se chi ascolta non sorride, lui li
ripete, come se avesse da fare con un tonto.
Tutti i ragazzi si sognano di andare nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo
sono sognato anch’io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no
rimangono come una malattia che uno se la porta appresso tutta la vita. C’erano due
maniere: aspettare di diventare ricco e poi fare il turista, oppure fare il montatore. Io
ho fatto il montatore. Allora, le stavo dicendo che ero laggiù per montare una gru da
molo, uno di quei bestioni a braccia retrattile, e un carro-ponte fantastico, 40 metri di
luce e un motore di sollevamento di 140 cavalli; cristo che macchina, domani sera
bisogna che mi ricordi di farle vedere le foto. Quando ho finito di metterla su, e
abbiamo fatto il collaudo, e sembrava che camminasse in cielo, lisca come l’olio, mi
sentivo come se mi avessero fatto commendatore, e ho pagato da bere a tutti.
Un giorno ero proprio in cima alla torre con la chiave a stella per verificare il seraggio
dei bulloni, e mi vedo arrivare lassù il committente, che tirava un po' l'ala perchè
trenta metri è come una casa di otto piani. Aveva un pennellino, un pezzo di carta e
un’aria furba, e si è messo a raccogliere la polvere dalla placca di testa della colonna
che io avevo finito di montare un mese prima. Io lo stavo a guardare con diffidenza, e
dicevo fra di me “questo è venuto a cercare rogna”. Invece no: dopo un po’ mi ha
chiamato, e mi ha fatto vedere che col pennello aveva spazzato nella carta un pochi
di polvere grigia.
“Sa cos’è?” mi ha chiesto.
“Polvere”, ho risposto io.
“Sì, ma la polvere della strade e delle case non arriva fin qui. Questa è polvere che
viene dalle stelle”.
Io credevo che mi pigliasse in giro, ma poi siamo scesi, e lui mi ha fatto vedere con la
lente che erano tutti pallini rotondi, e mi ha mostrato che la calamita li tirava,
insomma erano di ferro. E mi ha spiegato che erano stelle cadenti che avevano finito
di cadere: se uno va in un po' in alto in un posto che sia pulito e isolato, ne trova
sempre, basta che non ci sia pendenza e che la pioggia non la lavi via. Lei non ci
crede, e neanche io sul momento non ci ho creduto; ma col mio mestiere capita
sovente di trovarsi in alto in dei posti come quelli, e poi ho visto che la polvere c'è
sempre, e più anni passano, più ce n'è, di modo che funzione come un orologio.
Anzi, come una di quelle clessidre che servono per fare le uova sode; e io di quella
polvere ne ho raccolta un po’ in tutte le parti del mondo, e la tengo a casa delle mie
zie, perché io una casa non ce l’ho. Se un giorno ci troviamo a Torino, gliela faccio
vedere.
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Il romanzo di Ermanno Rea narra la storia della dismissione dell'Ilva di Bagnoli, una
fabbrica vicino a Napoli, i cui impianti alla fine degli anni novanta sono stati
abbandonati, smontati e venduti in Cina. Uno degli operai, Vincenzo Bonocore, dopo
avervi lavorato per anni, decide di collaborare alle operazioni di smontaggio non
perché abbia a cuore che la fabbrica sparisca, ma per un senso di pietà e di
commiserazione nei confronti di un oggetto che ha incarnato i sogni e le speranze di
un popolo ai margini della modernità. Il libro rappresenta bene la morte della
fabbrica, nel senso tradizione del termine, e sancisce anche la fine della cosiddetta
letteratura industriale e l'inizio di una nuova fase, denominato letteratura postindustriale.
E. Rea, La dismissione (2002)
Fu elaborato un piano di esplosioni per spezzare le gambe, in rapida successione, ai
maggiori dinosauri che continuavano a ergersi con sfida verso il cielo: la grande torre
piezometrica, il camino della quinta batteria, la torre di spegnimento, il camino della
prima e della seconda batteria, la torre di miscelazione dei fossili (3540 tonnellate di
cemento e mattoni per un'altezza di quarantacinque metri), e via a seguire.
Finalmente fu resa nota la sentenza definitiva: la prima a esplodere sarebbe stata la
torre piezometrica, che richiedeva un impiego ridotto di esplosivo, tra i quaranta e i
cinquanta chilogrammi, suddiviso in centoquaranta cariche disposte in circolo alla
base della struttura. Soltanto nei giorni successivi, dopo aver controllato il buon esito
della prova, si sarebbe proceduto con cariche di maggiore potenza: fino ad arrivare a
qui centotrenta chilogrammi di nitroglicerina e cotone collodio necessari ad abbattere
la torre di miscellazione dei fossili, la tappa più difficile dell'intera operazione.
L'esplosione fu fissata alle 15,30 del 25 febbraio. Avrebbero assistito all'evento
autorità, giornalisti, politici e anche alcuni vulcanologi che, a quanto mi era stato
riferito, avevano collocato nelle case più prossime in linea d'aria alla torre
piezometrica dei sismografi per misurare l'onda d'urto.
Quel giorno saltai il pasto. Non faceva bel tempo: il cielo aveva il mio stesso umore,
era grigio, gonfio, pesante, velato da una specie di calda caligine nonostante
l'inverno. Ricordo che vi fu un momento in cui mi dissi che forse potevo anche
andarmene senza aspettare che la cerimonia si compisse fino alla sua conclusione;
che dal momento che quella esecuzione non aveva nulla di eroico, tanto valeva
risparmiarsela. Senonché un oscuro presentimento mi ingiunse di restare, la
percezione che stava per accadere qualcosa di imprevedibile, un evento che forse
poteva strappare quel funerale alla sua angosciosa banalità.
Mancano sessanta secondi. Arriva il secondo colpo di sirena: breve, tagliente.
Sussultiamo tutti, salvo ricomporci subito nel nostro stato di attesa. Meno venti...
meno dieci... meno cinque... quattro, tre, due, uno...
La torre vacilla per un attimo come un ubriaco. Sembra davvero un essere umano
con quel goffo cappello in testa. Poi crolla: un tonfo sordo che è soltanto il
prolungamento del boato prodotto dalla dinamite. Fu più o meno a questo punto che
sulla folla, dabbasso, cominciarono a piovere le note (quasi rabbiose, quasi dolenti,
quasi disperate) dell'Internazionale cantate da un solitario misterioso sassofono.