l`identità del discepolo

Transcript

l`identità del discepolo
ARCIDIOCESI DI LUCCA
CONVEGNO DIOCESANO OPERATORI
19, 20, 23 SETTEMBRE 2005
1
L’IDENTITÀ DEL DISCEPOLO
Mons. Domenico Sigalini, Vescovo di Palestrina
relazione tenuta nella cattedrale di san Martino, domenica 18 settembre 2005
PREMESSA
Spesso ci si domanda che cosa significa oggi essere cristiani, che cosa bisogna fare, quali
atteggiamenti assumere di fronte a se stessi, di fronte alla vita, ai propri doveri. Sembra quasi che
uno debba fare immani sforzi solitari di immaginazione per costruirsi da solo un percorso.
L’immagine più frequente è di uno che tiene gli occhi attenti su una strada. Sa da dove è partito,
non sa perché, forse vi si è trovato dentro, forse sta facendo una scommessa con se stesso, forse non
riesce a liberarsi da alcune abitudini che gli danno sicurezza, non alza mai lo sguardo, non gli
interessa la meta, sta attento alla strada, è tutto concentrato su di sé. E’ impegnato in un grande
sforzo ascetico quasi che essere cristiani sia una scommessa fatta con se stesso.
ESSERE CRISTIANO È PRIMA DI TUTTO ESSERE DISCEPOLO DI GESÙ
Il cristiano invece è soprattutto un discepolo, non è né un eroe, né uno scommettitore, non è
autocentrato, né autoreferenziale, ma uno che ha orientato tutta la sua vita a seguire Gesù. E non ha
deciso lui di seguire Gesù, ne è stato chiamato alla sequela. Chi è chiamato ha alcune caratteristiche
inconfondibili:
1. E’ contemplatore di un volto, ne rimane incantato
Lasciarci prendere da Dio, immergerci in Lui, non lasciarci sommergere dalle preoccupazioni,
non perché siamo in fuga, ma perché le stiamo trapassando e vediamo Lui al fondo e all’inizio di
ogni cosa. Sapersi amati alla follia da Dio e godere di questo amore che pure brucia, ma dà pace
piena. Sono solo alcune idee balbettate che ci possono aiutare a capire che cosa è contemplazione.
E’ lo sguardo alto sulla nostra vita, è il Tabor e il Calvario, la gloria incontenibile e il dolore
abbandonato nelle braccia del Padre. E’ esperienza di Dio, non ragionamenti e schemi che Gli
possiamo mettere addosso per rifugiarci sempre nella nostra tana o nei nostri loculi.
Gesù questo vive e questo insegna ai suoi discepoli. Inizia la sua vita pubblica passando per il
deserto: il luogo della contemplazione in solitudine, dello sguardo nudo sulla propria vita fino a
trovarne la sorgente e spegnerlo in Dio. Spesso passa la notte in preghiera, si sottrae, si immerge
nella intimità con il Padre. Prima di ogni decisione definitiva per la sua esistenza si apre alla
contemplazione. Deve scegliere gli apostoli, deve offrire sè come pane e vino, deve lanciare il
programma definitivo della felicità nelle beatitudini, deve affrontare il tradimento? Prima
contempla, ritorna alla intimità trinitaria e all’incandescenza della prima decisione in essa con
coraggio presa: Eccomi, manda me.
Per Gesù contemplare è andare oltre, è vedere l’altro lato della vita che spesso resta nascosto
alla nostra superficialità o all’affanno per le cose. Gesù “si sgola” per farlo capire agli apostoli.
“Pietro t’ho portato sul Tabor, là hai visto che squarcio di felicità ci attende, è da una vita che ti sto
dicendo che è la risurrezione il punto più alto della creazione e tu ti attardi ancora a scandalizzarti
della croce. Perché non guardi più avanti, perché non allunghi lo sguardo oltre? E’ la nostra
difficoltà antropologica: non essere capaci di guardare oltre.
Soprattutto è trovare un centro e decidere che il centro è Dio. Per noi è Gesù. La lezione più
bella di Gesù sulla contemplazione forse ci viene proprio dalla casa in cui andava spesso a costruire
2
relazioni umane con Marta, Maria e Lazzaro, determinanti per il suo cammino di uomo verso la
decisione ultima. Ci dice Marta, che è sotto accusa perché superficialona:
“Ma credete proprio che io fossi così sciocca da pensare di più a un piatto di capretto arrosto
che a Gesù? Quando ritornava da quel covo di vipere che era Gerusalemme, la mia gioia saliva alle
stelle e che facevo? Tutto quello che fa ogni mamma: ti vedo calato di peso, che hai? Mangia. Hai
dormito stanotte? E in questi giorni ti hanno ascoltato? Hai trovato un posto tranquillo per
riprendere forze? Ma questa tosse è un po’ che ce l’hai? Non mi piace proprio.
E io che dovevo fare? Dimenticavo me stessa, la mia stessa anima per occuparmi di Lui. Sì,
forse ero troppo ingombrante, occupavo io tutta la scena, quasi non lo lasciavo parlare. Temevo che
un giorno o l’altro non sarebbe più tornato da Gerusalemme. Si era fatti troppi nemici.
Mia sorella Maria è sempre stata una sognatrice. Lei lo aspettava, ma non sapeva neanche
prendergli il mantello e scuoterne la polvere. Le si riempivano subito gli occhi di lui, non diceva né
faceva niente, le bastava stare a guardarlo e lasciarlo parlare. Ne era innamorata pazza. Un giorno
ha sperperato un capitale di profumo costosissimo per ungergli i piedi: non si accontentava di
lavarglieli. Non si curava di ciò che diceva la gente. Anche lei come me aveva paura che prima o
poi non sarebbe più tornato. E l’ha proprio indovinata perché poco dopo non avremmo potuto
nemmeno accostarne il cadavere, quel giorno nefasto di Parasceve.
A me faceva rabbia questa sua calma, per lei i mestieri di casa si fanno da soli. Lei rimane
incantata, ma se non ci fossi io! Mi ha cambiato quando mi ha detto: Marta, Marta per troppe cose ti
affanni. Sposta il centro della tua vita in me.
Abbiamo pianto tanto assieme quando ci hanno riferito come ce lo hanno ammazzato a
Gerusalemme. Era il centro della nostra vita. Io mi affannavo ancora per la casa, ma per chi? Maria
restava muta, ma per chi?
I padri della Chiesa hanno voluto vedere in queste due donne l’azione e la contemplazione,
forse con un po’ di semplificazione delle due figure. Sicuramente c’è un insegnamento
inequivocabile: tanto l’azione che la contemplazione devono avere al centro Lui. Ognuno di noi
deve porre al centro della sua vita il Signore Gesù. Nessuno deve occupare la scena. È solo Lui che
la riempie tutta. Noi con le nostre caratteristiche umane, le nostre doti, i nostri modi di essere gli
faremo un posto, quello centrale, ma con qualità diverse. L’importante è che Lui sia il centro e che
permettiamo allo Spirito di delineare in noi in maniera originale per ciascuno i tratti della sua
umanità, di conformarci a Lui in termini assolutamente originali (cfr. progetto formativo
dell’Azione Cattolica), a seconda della nostra storia, la nostra docilità. Lo Spirito vince le nostre
resistenze, orienta i nostri progetti a Lui.
Nella Chiesa occorre sia azione che contemplazione. Si può stare ad agire riempiendo noi la
scena o si può stare a contemplare per trattenere. Si deve invece sempre agire e contemplare per
amore. Una azione che non ha al centro Gesù ha il fiato corto, una contemplazione che si ripiega su
se stessa diventa subito sterile anche per chi la vive. La parte migliore da scegliere è Lui e questo ce
lo dobbiamo sempre rinnovare nella coscienza, nei segni, nei gesti, nel programma, nei pensieri,
nelle preoccupazioni. Questa è la contemplazione che ha vissuto Gesù nei confronti del Padre e
questa è la contemplazione che deve caratterizzare la vita di ogni discepolo, è spostare il centro
della sua vita in chi lo chiama. Decide di lasciare tutto con gioia per seguire chi lo chiama per
vivere in intimità con Dio. I discepoli non sono del mondo, ma hanno intimità con Dio: è l’intimità
della preghiera, del dialogo, della lotta con Dio, dello stare cuore a cuore con Lui.
2. Ma questi discepoli sono nel mondo: la testimonianza.
Lo scritto A Diogneto descrive la condizione dei cristiani nel mondo, con una immagine che
sembra adattarsi particolarmente bene alla condizione del vero discepolo: "I cristiani non si
differenziano dagli altri uomini né per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città
proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano... Abitano
nelle città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle usanze locali per
3
quanto concerne l'abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere
mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita... Abitano nella propria patria, ma
come stranieri... Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera... Sono nella carne,
ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono
alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi..." .
I cristiani sono dunque cittadini di due città: quella del cielo, che li rende testimoni di valori
diversi da quelli professati nel mondo, e al tempo stesso cittadini della città degli uomini, con i quali
condividono cultura, condizioni concrete, responsabilità, attese e speranze.
Innanzitutto i discepoli vivono nel mondo la loro originaria appartenenza a Dio. Vivere nel
mondo significa non appartarsi, non separarsi dalle ordinarie condizioni degli uomini e delle donne
del proprio tempo, per esseri fedeli al Signore: restare dentro un'esperienza familiare, professionale,
sociale comune a quella di ogni contemporaneo, condividendola nel suo svolgersi, nelle sue
responsabilità, nel suo evolversi storico.
Il non separarsi dal mondo è un implicito riconoscimento della bontà del mondo, della vita
umana, della storia comune... Il mondo infatti, uscito buono dalle mani di Dio, non cessa di portare
l'impronta del gesto di amore che l'ha creato e che ha suscitato la compiacenza di Dio: "Dio vide
che era cosa buona" (Cfr. Gen 1). Il peccato che ha offuscato la bellezza e l'armonia del disegno
originario non ne ha cancellato l'impronta divina e non ha smesso di rendere prezioso il mondo agli
occhi di Dio, se Dio ha potuto inviare il Figlio e sacrificarlo per restituire il mondo e le cose alla
bontà delle origini.
Il sacrificio del Figlio di Dio per riscattare il mondo lo rende più prezioso, più meritevole di
essere guardato con interesse e vissuto con simpatia. E non solo il sacrificio estremo indica il valore
divino del mondo, ma anche il rapporto che il Signore Gesù ha instaurato con esso, salvandolo
senza restargli lontano, ma immergendosi nella storia, nella cultura, nell'umanità...
Dunque il laico cristiano ama il mondo condividendo dall'interno la comune vicenda di ogni
uomo; imitando, del mistero del Signore, soprattutto il suo immergersi nella vita ordinaria e
semplice della gente del suo tempo.
L'amore al mondo, - alle persone, alle cose, alle situazioni, alla realtà - è ciò che rende visibile
il Cristo agli altri; è ciò che testimonia che anche Dio ama il mondo, la storia umana, la vita di ogni
uomo.
Il discepolo è tuttavia cittadino anche di un'altra città, nella quale è titolo di cittadinanza
avere come riferimento ultimo un orizzonte che supera quello terreno; nella quale sono legge il
dono di sé, il servizio, la mitezza, l'impegno per la giustizia... il primato della persona; nella quale è
sovrano un Signore crocifisso; alla quale si appartiene solo a condizione di accettare la sapienza
della croce come criterio di interpretazione della vita.
E' chiaro che le due logiche entrino facilmente a conflitto; queste "due città" convivono nella
coscienza del laico cristiano, così come devono convivere nella sua esperienza quotidiana. Ogni
doppia appartenenza implica tensione, soprattutto quando i due riferimenti non sono in continuità,
non sono tra loro omogenei. Vengono allora i momenti in cui le due identità sono in opposizione, in
forme diverse:
* nella forma esplicita del conflitto, quando, in nome della propria appartenenza alla "città
celeste" deve opporsi, contrastare, negare modelli di comportamento e stili di vita
inaccettabili, accogliendo insieme la sfida di vivere il conflitto in coerenza con la mitezza
del Vangelo; il contrasto, con uno stile di amore e di servizio al bene;
* nella forma dell'incomprensione, che chiede la disponibilità a una testimonianza solitaria,
pagando anche con l'isolamento la propria appartenenza ad un mondo diverso da quello
terreno;
* tuttavia l'esperienza che in maniera emblematica può rappresentare la tensione tra le due
identità/appartenenze è quella dell'oscurità, del non capire in che modo si possa essere
contemporaneamente fedeli all'una e all'altra città; e dover comunque decidersi, prendere
posizione.
4
Il discepolo rischia la sua fedeltà ai valori del Vangelo entro un contesto di precarietà, di
incertezza, di complessità, qual è quello della sua esistenza quotidiana; gioca la sua fedeltà alla città
celeste entro la città terrena. L'incontro tra l'assoluto dei valori e la relatività dell'esperienza storica
avviene dentro uno spazio di libertà che richiede coraggio, inventiva, creatività. I valori del Vangelo
non stanno, in modo perfetto e completo, nella loro assolutezza, dentro le scelte familiari,
professionali, economiche, politiche... attraverso le quali ciascuno di noi realizza la sua vita
quotidiana.
Rischio della fede è la responsabilità di posizioni e scelte storiche; rischio è, ancor prima,
leggere con vera intelligenza cristiana il proprio tempo. Questo compito profetico del discepolo è
particolarmente difficile se le due città si sono troppo allontanate, e non tanto nell'oggettività delle
rispettive scelte, quanto nella percezione che noi abbiamo di esse.
Se è così difficile leggere il nostro tempo, per noi cristiani e per le nostre comunità, è perché
si è accresciuta dentro di noi la distanza tra le due appartenenze che connotano la nostra vita. E
forse questa lontananza è così cresciuta dentro di noi perché noi ci siamo sentiti troppo poco
cittadini della città degli uomini, forse perché abbiamo preteso di allentare la tensione della nostra
doppia appartenenza, chiudendoci dentro la patria celeste, dimenticando che quella, nella sua
assolutezza, appartiene solo al futuro; un futuro che va preparato attraverso un presente che non
neghi anche il nostro essere cordialmente, intensamente partecipi della vicenda umana che è anche
la nostra, di credenti.
A questo percorso di ricerca interiore, tutta umana, a partire dai fatti di ogni giorno, vorrei
dare il nome di ricerca di Dio. La ricerca di Dio del discepolo non può svolgersi nè fuori nè a
prescindere, ma dentro questo cammino verso una umanità intensa e piena.
Soffermarsi a riflettere a fondo sulla vita, divenire sempre più consapevoli di essa, impegnati
a comprenderla, a narrarla, a spiegarla... è un modo per non prescindere da essa nella nostra
esperienza di fede.
E' al fondo della propria coscienza creaturale che il cristiano, che ogni uomo, in modo spesso
quasi indecifrabile, scopre dentro di sé l'inquietudine di Dio.
Allora chi è il discepolo?
3. Laici, ragazzi, giovani e adulti, che credono in modo nuovo, da testimoni.
I discepoli di Cristo, oggi, come allora devono dare una svolta missionaria alla loro vita e
sono persone che non vanno collocate dentro una logica strumentale ai bisogni di una parrocchia o
di una associazione, ma persone che sono provocate a verificare di continuo la qualità della propria
esperienza di fede. E’ importante l’efficienza nell’assolvimento delle eventuali funzioni che
vengono richieste, ma occorre prima che si facciano carico della propria stessa fatica di credere e
della rigenerazione della propria fede: ciascuno per primo infatti ha bisogno di una cura nuova per
la sua fede, di mettersi davanti al mistero del Signore e al Vangelo in modo nuovo, ritrovando il
sapore della fede e delle parole con cui la si esprime. E di conseguenza farsi carico della non–fede
di tanti amici: dell’esplicito rifiuto della fede, ma anche della fatica di credere, delle domande che
molti rivolgono alla fede e alla vita.
In questa prospettiva allora la missione non è qualcosa di più o di diverso da fare; non sono in
primo luogo nuove iniziative o nuove strategie, ma un modo nuovo di credere:
1) una fede che si comunica è qualitativamente diversa da quella destinata a rimanere nel
chiuso della vita, quella che serve a mettere il cuore in pace, a risolvere i dubbi personali
2) una fede che si comunica non sopporta compiacimenti narcisistici, ma ha al proprio
interno, come tratto costitutivo, l’attenzione all’altro; riscopre di non poter vivere senza
una compagnia
5
3) una fede che si comunica deve vigilare sul proprio carattere gratuito: “avete ricevuto
gratuitamente, date gratuitamente…” Dobbiamo condividere per gratuità, vigilando sul
rischio che la missione si trasformi in quell’esperienza mondana di portare gli altri dalla
propria parte, di convincerli per rendere più forte il proprio punto di vista…; non è
aumentando il numero degli iscritti o delle persone interessate alla nostra proposta che
aumenta la verità di quello in cui crediamo. Siamo disposti a rimanere soli per essere
fedeli, solo che siamo soli spesso perché siamo chiusi, ci guardiamo addosso, seppelliamo
la fede come il talento della parabola
4) una fede che si comunica si pensa sempre in relazione: all’altro, oltre che a Dio. Dunque
una fede che fa i conti con le domande; con i bisogni, con i dubbi… dei fratelli. Per farsi
comunicabile, conosce la fatica della ricerca di pensieri, di categorie culturali, di parole…
adatti a creare la relazione; per rendersi comunicabile, si mette in relazione con le
domande; e nel rispondere alle domande, si ridefinisce. La fede cresce con chi la
interroga; cresce con chi la condivide; si fa più ricca con chi la pensa; si fa via via più
capace di dire il cuore di Dio a un’umanità che si lascia illuminare dal Vangelo.
5) una fede che si comunica è una fede che cambia la vita. O la vita diventa diversa o la fede
non dice niente. Questo ci può mettere in contrasto con il classico buonismo che ci
accomuna tutti e che non ci permette di essere cristiani fino in fondo, di inscrivere nelle
relazioni quotidiane un riferimento ai valori cristiani e ai simboli che li esprimono.
6) una fede che si comunica ha il coraggio di proporre una vita nuova bella, felice, che si
sperimenta in prima persona. Per questo occorre guardare dentro le proprie sicurezze di
una vita da cristiani, smontarne le certezze non guadagnate nella sincerità di una adesione
vera, ridirle per chiunque ci sta attorno con il suo linguaggio e rendergliele sperimentabili
in relazioni di comunione e solidarietà esistenziale.
7) una fede che si comunica ha il coraggio di programmare l’addestramento alla solitudine.
Ognuno realizza la sua testimonianza in un contesto in cui spesso le persone non hanno
una visione cristiana della vita; rispetto a tali persone ci si può sentire in alcuni momenti
vicini, in altri lontani ed anche molto soli. Questa solitudine, però, può permettere di
guardare più profondamente dentro di sè e di vedere che c’è un tesoro nella vita di
ciascuno che non è disponibile nè agli attacchi nè ai conflitti, ma è appunto dentro e
costituisce il segreto dell'esistenza, un tesoro che è presente nella profondità nella nostra
vita e che è il mistero della comunione con il Signore.
Per diventare discepoli così non c’è bisogno solo di scuole, ma di una esperienza continuativa di
riflessione e di partecipazione, hanno da sperimentare la disciplina di un confronto comunitario,
devono essere attivati a guardare alla realtà dall’angolatura di ideali ispiratori, dalla esperienza
di comunione semplice tra amici, in una associazione o in un movimento.
4. Essere testimoni oggi significa osare il primo annuncio in una capacità nuova di relazioni.
Mai come oggi sentiamo di essere a un momento di svolta nel nostro lavoro pastorale:
costruiamo parrocchie ben fatte, a norma, con tutte le provvidenze necessarie? O pensiamo anche
qualcosa d’altro? Che cosa d’altro è possibile mettere in campo?
L’idea che se io riesco a organizzare bene la parrocchia con il Consiglio pastorale, il consiglio
degli affare economici, una bella Azione Cattolica, un bel gruppo di catechisti, gli animatori del
mondo giovanile con tutti i possibili gruppi per tutte le età, un bell’oratorio, una bella Chiesa per le
celebrazioni, con una bella corale, una caritas vivace, le pontificie opere missionarie, qualche buon
diacono, delle belle processioni… allora sì che si può parlare di rinascita del cattolicesimo e di
parrocchia all’altezza dei tempi in cui viviamo
E’ il sogno autobiografico che mi faccio io tutte le volte che visito le mie parrocchie.
6
Qui manca la chiesa… se avessi una bella chiesa allora sì
Qui non c’è niente per i giovani… se avessi un bel centro giovanile, allora sì
Qui i poveri sono proprio di nessuno… se ci fosse un gruppo caritas un po’ sveglio allora sì
Qui si fa bene il catechismo per i sacramenti, poi non vedi più nessuno… se ci fossero gruppi
per i giovani, allora sì
Qui i genitori sono lasciati soli, non hanno più nessun incontro per loro… se ci fosse un
gruppo famiglie, allora sì
Potrei continuare, ma mi fermo anche perché voi sono sicuro fareste un’altra considerazione
che io non mi posso permettere troppo, del tipo: se qui ci fosse un prete un po’ più cattolico o
almeno credente, allora sì.
Credo che affrontare il tema così non ci porta da nessuna parte: aumenta la nostra depressione
e ci fa sentire impotenti
Infatti posso avere tutte le liturgie più belle, gli oratori più attrezzati, gli animatori più
preparati, le corali che vincono premi a tutte le rassegne, ma mi può capitare, e capita, che la gente
non passi più da qui. Che ciò che viviamo, o come noi lo viviamo, non interessi proprio nessuno,
che la gente, che dalla mattina alle 6 alla sera alle 19 sta fuori per lavoro, abbia molto altro cui
pensare che non alle nostre riunioni, che la cultura in cui sono immersi i nostri ragazzi sia per la
scuola sia per la mentalità dei mass media non permetta loro nemmeno di immaginare che noi
abbiamo da mettere a disposizione ciò che a loro è necessario. Capita cioè che la Chiesa non dice
più niente a nessuno, se non come agenzia del sacro, supermercato delle benedizioni,
concentrazione di servizi religiosi da usare quando serve e non troppe volte. Il parrocchiano medio è
passato da praticante a occasionale, da appartenente a turista del religioso, da pellegrino a randagio.
La scelta da fare è quella di un annuncio della fede che sa scuotere l’indifferenza o, meglio,
che sa andare al cuore delle domande, che sa provocare, che offre il nocciolo del nostro essere
credenti. Un discepolo che incontra gli altri, non può non comunicare il centro del suo essere
contemplativo. Non sta facendo un mestiere, ma sta offrendo a tutti il segreto della sua vita.
Il primo annuncio è quella proposta, centrata sul contenuto fondamentale della fede, che la
comunità cristiana fa per mettere le persone in condizione di decidersi per Cristo, per aiutare a
cogliere Gesù come salvezza globale della vita, come senso e speranza definitiva, come il Dio della
pienezza e dell’eternità. Il primo annuncio non si preoccupa di sistematizzare, di tutta la coerenza
dei comportamenti, delle regole di vita, ma di far scattare nella persona la fiducia radicale in Gesù
morto e risorto e di far aderire alla sua Parola. E’ solo un primo atto, che ne esige altri, che chiama
in causa un catecumenato, una iniziazione, una catechesi e un mistagogia. Spesso purtroppo
pensiamo che tutto questo sia primo annuncio e perciò da fare contemporaneamente e che quindi gli
spazi al di fuori della vita e della struttura della parrocchia non siano assolutamente adatti a tutto
questo percorso. Il primo annuncio non è un percorso di vita cristiana, ma è un percorso di
avvicinamento alla vita di fede e di ascolto-accoglienza del suo centro. Quindi non sono necessarie
sale di catechismo, né aule per la celebrazione, non è legato ai sacramenti, non ha bisogno che sia
fatto nella comunità, anche se ha bisogno che sia essa a prendere l’iniziativa. Nello stesso tempo,
però, è talmente liquida la situazione che molta gente non trova disdicevole entrare in una chiesa
dove vi è stato invitato tramite vere relazioni personali per accogliere il primo annuncio, come lo
dimostrano le chiese aperte di notte o altre esperienze fatte in parrocchie povere di luoghi, ma
ricche di capacità propositiva.
Elementi necessari per passare al primo annuncio
• E’ importante avere una comunità sensibile al primo annuncio; dove per sensibilità non si
intende solo tolleranza a farsi scomodare o partecipazione a fare da cassa di risonanza o da
“radio scarpa”, ma capacità di ripensare la propria fede, facendosi domande. In genere
nelle nostre parrocchie il nucleo di fedeli che amano la parrocchia è gente piuttosto adulta
cresciuta in un ambiente non da primo annuncio, ma da trasmissione per tradizione, gente
che, senza nessuna sua colpa, ha ricevuto le risposte senza farsi le domande, trova naturale
rifarsi al catechismo o alla dottrina o alla tradizione. Oggi deve essere aiutata a mettersi in
7
•
•
•
discussione, a farsi le domande che si fanno tutti per poter ridire la fede senza le parole
dell’imparato a memoria, senza le formule o i soli proverbi che hanno tanta saggezza, ma
non sempre aiutano a comunicare convinzioni, prima che comportamenti.
Un altro fattore decisivo è un gruppo di animatori, cioè di evangelizzatori di strada, di
gente cioè che è capace di scrivere nelle relazioni umane la sua fede con semplicità, in un
dialogo franco, ma umile e delicato. Sono nuove figure di laici di cui la chiesa deve farsi
carico, né catechisti, né predicatori, ma convinti ascoltatori della vita, lettori delle sue
domande, appassionati della Parola, innamorati del centro della fede e disponibili al
dialogo.
Il punto focale è di far nascere domande e queste possono nascere dovunque dove c’è
gente disposta a mettersi in relazione.
Il primo annuncio non è dire: Gesù ti ama, o Gesù è morto e risorto per te, o qualche altra
formula magica, ma aiutare una persona a dare un nome alle domande inespresse che si fa
nella vita, senza essere capace di collegarle al mistero della vita stessa. E’ l’esistenza che
va interrogata continuamente, perché in essa Dio parla ed è presente. Alle domande segue
l’annuncio, che può essere fatto con linguaggi diversificati: poesia, canto, mimo, parola,
gesto… Non deve essere necessariamente un fatto veloce, programmato, preoccupato di
portare a casa, ma deve mettere le persone a loro agio con le loro domande e con i loro
molteplici dubbi. La fede è sempre dono di Dio, non un gioco di domanda e risposta e Dio
ha i suoi tempi, i tempi della vita. Importante è però che in questa vita ci sia qualcuno che
annuncia e che non lasci le domande inevase.
Dalle molteplici esperienze che da tempo popolano le nostre comunità emergono sempre almeno
questi passaggi:
•
una bella relazione personale. E’ fatta di dialogo, gioco, simpatia, accoglienza, disponibilità,
condivisione della situazione, farsi carico della sofferenza o condividere la gioia…Spesso la
gente è sola e abbandonata a se stessa e ha bisogno di comunicare su cose serie.
•
una provocazione a farsi domande a partire dalle esperienze più comuni della vita e della cultura
in cui si vive. Sono utili per far nascere domande anche i successi letterari, filmografici,
artistici…. perché non sono appena frutto di pubblicità, ma interpretano anche domande delle
persone.
•
Una proposta ad andare in un luogo a sentire la risposta o le risposte. Non sempre e non
necessariamente il primo annuncio si risolve nel luogo del primo approccio. In genere esige che
la persona rielabori l’incontro che ha avuto e che lo ha interessato e decida di buttarsi in questa
nuova ricerca. Qui la comunità, il gruppo, il clima tra i cristiani giocano molto.
•
Una decisone di approfondire. E’ importante non lasciare sola la gente cui è stato fatto il primo
annuncio e che lo ha fatto risuonare come bella notizia nella sua vita. Occorre proporgli sempre
tutte le possibilità concrete di poter approfondire, continuare, essere accolti, trovare riferimenti
8
RELAZIONI DEI 4 AMBITI
Dopo l’incontro del 18 settembre in cattedrale in cui l’arcivescovo ha consegnato alla diocesi
l’itinerario pastorale e mons. Sigalini ha tenuto la relazione, il Convegno degli operatori pastorali è
proseguito il giorno successivo lavorando in 4 ambienti diversi che approfondivano le diverse
dimensioni del discepolato: la dimensione vocazionale (su cui si sono incontrati i catechisti dei
ragazzi e della iniziazione cristiana, gli animatori dei gruppi di adolescenti e di giovani, i catechisti
che preparano le coppie di fidanzati al matrimonio, gli animatori dei gruppi di famiglie, i catechisti
che preparano i genitori al battesimo dei bambini), la dimensione orante (ha coinvolto gli
animatori dei gruppi biblici, i gruppi liturgici, gli animatori dei gruppi di preghiera, i direttori dei
cori parrocchiali); la dimensione testimoniale (ha visto riunite le caritas parrocchiali, le conferenze
san Vincenzo, i diaconi, i ministri della comunione); la dimensione dialogica (che ha coinvolto gli
animatori dei gruppi missionari, dei migrantes, gli insegnanti di religione, gli operatori nell'ambito
dell'ecumenismo e della cultura). Di seguito sono presentate le introduzioni ai lavori degli ambiti
RIMANERE PRESSO DI LUI
Introduzione al lavoro nell’ambito della dimensione vocazionale
tenuta da don Emanuele Andreuccetti
Ieri sera abbiamo pregato e riflettuto insieme, come diocesi unita, sul significato e lo stile
dell’essere discepoli. Il Vescovo Sigalini ci ha indicato le linee generali che è bene percorrere alla
sequela del Cristo che ci chiama a seguirlo.
A seguito di questo intervento e sulla base dell’itinerario pastorale diocesano, oggi
cercheremo di vedere, come catechisti e animatori, che cosa vuol dire vivere il nostro servizio come
discepoli all’interno della comunità cristiana.
Desidero partire dal vangelo proclamato all’incontro di preghiera di ieri in cattedrale (Gv 1,
35-51). Ci lasceremo quindi condurre dalla Parola del Signore per incamminarci dentro lo stile del
discepolato. Il punto da cui partire è la persona di Gesù Cristo e il suo agire.
1. L’agire di Gesù.
Il nostro sguardo si sofferma dapprima sul Signore che è in mezzo a noi e ci parla.
• Egli è colui che passa (Gv 1, 36). E’ un viandante. La sua vita si può riassumere come un
cammino dentro le strade e l’esperienze dell’umanità. E’ colui che non ha dove posare il
capo, che non è possibile, quindi, identificare in un unico luogo o in un'unica esperienza.
Gesù è il volto del Dio nomadico del deserto che conduce il suo popolo verso la liberazione.
Per questo non è possibile richiudere la persona di Gesù dentro uno schema o una
rappresentazione. Lui, nel momento in cui diciamo è qui, è già oltre per invitarci a seguirlo.
Il che vuol dire che la nostra fede non è una fede statica, ma in divenire, non è acquistata
una volta per tutte ma è soggetta a dei passaggi, delle traversate, dei momenti di crisi.
9
Andare dietro a Gesù significa, allora, compiere un cammino, un itinerario di sequela che
dura tutta una vita.
•
Egli ci mostra il suo volto (Gv 1, 38). La fede cristiana non è prima di tutto frutto di una
nostra scelta in base alle sensazioni del momento o ai vari bisogni personali. L’esperienza
del cristianesimo inizia da un volto che decide di manifestarsi. E’ un volto che dice anche
che la nostra non è una filosofia o un’idea. Il volto di Gesù, che si manifesta a me, dice,
prima di tutto, che la mia fede è una relazione con un TU, ben preciso. E’ sua l’iniziativa di
voltarsi e di mostrare il volto di Dio. Tutta la vita di Gesù è un mostrare il volto di un Padre
misericordioso e ricco di amore. La vita del discepolo non è fatta solo di madonne e di santi,
ma dell’esperienza viva e salvifica del Cristo Risorto. Egli ha un nome e un agire ben precisi
che si esprimono tutt’ora grazie all’azione dello Spirito Santo.
•
Egli ci interpella (Gv 1, 38). Il volto del Cristo non è un volto passivo ma provocante. La
presenza del volto del Signore di fronte a me interroga la mia vita. Una vita che si pone in
cammino perché è alla ricerca di un senso di un significato. La domanda del Signore giunge,
allora, per suscitare una riflessione su ciò che realmente cerco nella vita, qual è il motivo
reale per cui vado dietro a lui. Interrogare deriva dal latino inter-rogare e significa
“trasportare da un luogo all’altro”. La sua domanda aiuta i discepoli a passare da una fede
nata per sentito dire a una fede che nasce come risposta alla Parola di Dio e come desiderio
di relazione con il maestro.
•
Egli ci invita a fare esperienza di lui (Gv 1, 39). “venite e vedete”. Due verbi che indicano
la necessità del cammino e della contemplazione. Venite: Egli è colui che cammina davanti
a noi (si girò) per cui bisogna andare a lui come risposta alla sua chiamata. Occorre
muoverci, spostarci da dove siamo, dal luogo simbolico in cui rimaniamo per andare verso il
TU che ci interpella e ci chiama (ex-stasi) e vedere dove lui decide di rimanere (il
discernimento sapienziale).
Due verbi di uguale dignità che si compenetrano a vicenda. In questo senso la
contemplazione è un itinerario che conduce non a rimanere con la testa fra le nuvole o
rivolta all’insù come i discepoli dopo l’ascensione del Signore, ma a vivere la
contemplazione del Risorto dentro i volti della storia e della vita quotidiana. Infatti
contemplare, per molto tempo considerato solo un atteggiamento riservato a pochi eletti,
significa innanzitutto vivere e riconoscere il volto del Maestro dentro la propria storia,
dentro le tappe della vita, dentro i periodi di crisi e di ferita, dentro il peccato e le cadute di
tutti i giorni. Cioè, accorgerci che quello che viviamo, le esperienze che facciamo, gli
incontri e i momenti quotidiani, sono il luogo della presenza di Dio, sono l’occasione per
accogliere Dio che li abita e li trasforma.
«E’ inevitabile che la fede affondi nell’esperienza e che questa esperienza riattivi
nell’uomo la sua essenza, la radice del suo essere, che è l’amore, e lo orienti alla sua
origine, cioè a Dio che glielo ha dato. (…) L’autentica esperienza religiosa significa
praticamente l’esperienza di Dio che si coinvolge con la sua creatura, che si fa sentire,
che gli si rivela, e questo incontro è registrato dall’uomo non come un’informazione, un
dato fra tanti, ma come qualcosa che comincia a cambiarlo»1.
Per questo la nostra vita non è più sola, non è più vuota, ma tutto parla del suo volto, tutto
racconta e mostra la sua presenza. Dice l’Itinerario Pastorale di quest’anno al n. 16: «Il
discepolo impara a guardare, leggere e interpretare la vita con gli occhi di Dio, alla luce
delle Scritture. Occorre che lo sguardo del cuore sia abitato dalla parola di Dio e sia in
sintonia con l’evangelo»
Infine la proposta è fatta al plurale. La chiamata, seppur personale, si manifesta e si realizza
all’interno della comunità. Gesù si rivolge al suo corpo, che è la chiesa e gli dice: “Venite e
1
M.I. RUPNIK in T. SPIDLIK, M.I. RUPNIC, Teologia pastorale. A partire dalla bellezza. Lipa, Roma 2005, p. 331
1
vedete”. Si può camminare e contemplare il volto di Cristo solo se siamo suo corpo e non
membra divise dai propri interessi e dai propri bisogni. Si può rispondere a lui solo come
comunità, al plurale e non al singolare.
2. La risposta del discepolo
Dall’agire del Risorto, e in funzione di questo, nasce la risposta del discepolo che:
• va dietro a Gesù perché si fida della parola di chi ha fissato lo sguardo su di Lui (Gv 1,
37). La nostra fede si fonda sulla trasmissione della Chiesa. Siamo giunti a credere perché
qualcun altro ci ha raccontato di Gesù, della sua parola e della bellezza dell’esperienza di
fede. Quindi il nostro credere si inserisce dentro il solco della Tradizione di coloro che
hanno posato lo sguardo su di lui e ci hanno indicato con la loro parola il cammino per
seguire il Maestro. La nostra culla è quindi la parola della Chiesa e la traditio fidei che dagli
apostoli giunge fino a noi. Non esistono battitori liberi nella comunità cristiana. Ogni
strategia, ogni idea deve necessariamente essere vagliata dalla tradizione dei Padri. Questo
atteggiamento è importante perché nel dialogo con ciò che ci ha preceduto ogni nostra
azione, ogni scelta si inserisce dentro una storia ben precisa e si arricchisce del contributo
della memoria.
•
ascolta la parola del Maestro (Gv 1, 38). Insieme alla Tradizione della Chiesa, la fede
abbisogna della Parola del Signore per rispondere alla Sua chiamata. L’esperienza della
Parola è fondamentale per il discepolo. Senza l’ascolto della Parola non è possibile fare
esperienza personale del Maestro. E’ dall’ascolto della sua parola che può nascere la risposta
di fede del discepolo. Dice l’Itinerario Pastorale al n. 17: «Tutta l’avventura del discepolo
inizia dall’accoglienza della Parola: nell’ascolto cresce la comunione, si alimenta la fede, si
comprendono la storia e le sue attese, si alimenta la testimonianza di vita evangelica». Da
qui l’esigenza di domandarci quanto è presente la parola di Dio nel nostro modo di fare
catechesi e nella nostra vita spirituale. Spesso gli itinerari che facciamo sia a livello
personale che come proposta catechistica sono una serie di insegnamenti morali o
prettamente contenutistici. Mettersi in ascolto della Parola di Dio significa invece porre al
centro della nostra storia e della nostra azione pastorale la persona di Gesù Cristo che ci
parla attraverso il vangelo e la vita. Quanto ci mettiamo in ascolto di tutto ciò?
•
risponde con la fede e quindi chiedendo “dove abita” il Maestro (Gv 1, 38). Dentro la
Tradizione, grazie all’ascolto della Parola di Dio, inizia il cammino di ricerca del discepolo
per discernere la presenza del Risorto dentro la propria vita. La risposta che si esprime
attraverso gli atteggiamenti e le scelte di tutti i giorni è la richiesta di dove dimora, dove
rimane il Signore. La parola del discepolo è sempre quindi una risposta alla Parola del
Maestro e non ai propri bisogni e interessi. Se non ci fosse il Signore che chiama non ci
sarebbe neppure il discepolo che risponde. Per questo la vita del discepolo dipende da quella
di Cristo. Ogni giorno siamo chiamati a discernere dove abita il Signore, siamo chiamati a
vegliare qual è la vera meta del nostro cammino. Dice l’Itinerario Pastorale al n. 22: «La
vigilanza è quell’atteggiamento di chi tiene gli occhi ben aperti per non essere distolto dalla
sua meta. Il discepolo vigilante vive nella certezza di fede della vittoria della vita sulla morte
e, da questo punto di osservazione, comprende il mondo. Questo lo rende somigliante al
profeta, lo libera dalla chiusura in atteggiamenti individualistici e lo apre alle dimensioni
della speranza, buona notizia per il mondo intero».
Spesso, invece, la nostra risposta è: cerchiamo nuove strade di evangelizzazione, nuove
strategie per aiutare i poveri, nuove modalità di catechesi, ecc… = cioè cerchiamo noi stessi
perché ascoltiamo noi stessi, le nostre esigenze i nostri bisogni! E’ come quando diciamo
mettiamo al centro i giovani o gli adulti o qualche strategia pastorale per accattiversi le
simpatie del mondo circostante! Chi mettiamo al centro? Non certamente il Signore, ma le
nostre esigenze e ciò che “noi” riteniamo più urgente! L’atteggiamento del discepolo invece
è quello di porsi la domanda: dove abita Gesù Cristo nel tempo presente? Come posso
1
relazionarmi a lui attraverso il volto degli altri e della storia? Mi sembra che cambi
qualcosa!
•
rimane col Maestro (Gv 1, 39). Dal dialogo col Maestro nasce il desiderio di rimanere con
lui. Cioè di esprimere la relazione con la sua persona. La fede del discepolato è una continua
relazione col maestro. Egli non può sussistere senza il suo Signore. Ma dove dimora il
Signore? Dice il vangelo di Giovanni: «Il Verbo era presso Dio». Il Figlio è rivolto verso il
Padre. Il Figlio è di fronte al Padre. Quindi il fine della ricerca del discepolo è un ricercare
dove è il Figlio nella vita quotidiana e scoprire che Egli è nella relazione continua col Padre.
Si ristabilisce, così, lo stare di fronte al Padre del “principio” della creazione dell’uomo.
Tutta la vita di Gesù e quindi del discepolo è orientata, nel Figlio, per lo Spirito Santo verso
l’incontro con il Padre. Il centro, in fine della vita non è Gesù, ma in lui, è il Padre. Il
cammino dietro a Gesù si compie nel nostro porci nella relazione filiale con in Padre come
era “al principio”. Pensiamo allora a tutta la nostra pastorale catechistica e
evangelizzatrice… Dove è rivolta? Qual è il suo fine?
3. Il servizio di catechista nella logica del discepolo
Dagli atteggiamenti del discepolo nasce un nuovo modo di fare catechesi all’interno della pastorale.
Per questo l’uomo che desidera fare esperienza di questo cammino di formazione è invitato a
diventare discepolo di questo maestro, cioè imparare a relazionarsi con lui perché: “Se uno mi
serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore” (Gv 12, 26).
Solo in Cristo morto e risorto il cristiano trova se stesso e la sua relazione col fratello. L’ha intuito
molto bene Paolo quando arriva a dire “Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo,
ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale
mi ha amato e ha dato sé stesso per me”. (Gal 2,20) Per questo il ministero del catechista discepolo
si esprime attraverso questi atteggiamenti:
•
va e annuncia il Maestro (Gv 1, 41). Come conseguenza (precisare!) e in virtù dei primi
quattro atteggiamenti scaturiti dalla relazione col Maestro, il discepolo si trasforma in luogo
di relazione con i fratelli. Dalla relazione con il Signore nasce la necessità di relazionarsi
con coloro che camminano accanto a noi e ciò diventa annuncio della bellezza di stare, di
rimanere col Maestro per sperimentare la vita vera.
Nasce allora la comunità. La comunità che è comunione delle differenze (Andrea, Pietro,
Filippo…) dove si realizza, solo dopo l’ascolto della Parola, l’esperienza di comunione
intima con il Maestro e con i fratelli. In questa scuola di comunione i discepoli imparano
che cosa significa convivialità delle differenze, imparano l’arte della relazione con il
diverso.
« La Chiesa è casa, edificio, dimora ospitale che va costruita mediante l’educazione a
una spiritualità di comunione. Questo significa far spazio costantemente al fratello,
portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). Ma ciò è possibile solo se, consapevoli di
essere peccatori perdonati, guardiamo a tutta la comunità come alla comunione di
coloro che il Signore santifica ogni giorno. L’altro non sarà più un nemico, né un
peccatore da cui separarmi, bensì «uno che mi appartiene».
Soltanto se sarà davvero «casa di comunione», resa salda dal Signore e dalla Parola della
sua grazia, che ha il potere di edificare (cf. At 20,32), la Chiesa potrà diventare anche
«scuola di comunione»2.
L’annuncio in questo senso non è più un andare fuori e convertire la gente. L’annuncio
diventa lo stile e il modo di vivere da discepoli all’interno della comunità. E’ la comunità
stessa che diventa con la sua vita lievito e annuncio per il mondo intero. Questo ci libera
dall’ansia di trovare strade di conversione e di evangelizzazione per raggiungere chi sa chi!
2
CEI, Comunicareil vangelo in un mondo che cambia, n. 65
1
•
3
conduce al Maestro (Gv 1, 42). Tutta questa serie di atteggiamenti prende forma nel
servizio che il discepolo è chiamato a compiere all’interno della propria realtà comunitaria.
Un servizio che si esprime attraverso il condurre non a se stessi o alla comunità ma a Cristo
stesso. Vivere allora come catechisti discepoli significa accompagnare i destinatari a fare
esperienza del Signore. Cioè, significa:
- Accettare la condizione di nomadismo. A immagine del maestro il catechista non è
colui che possiede la verità o che a tutti i costi deve dare delle risposte ma è un
compagno di viaggio che si pone accanto all’uomo di oggi per ricercare insieme a lui
la presenza del Maestro nella vita e nella storia quotidiana. In questa prospettiva non
ha paura delle traversate e dei punti di rottura o di ferita che si presentano durante il
cammino ma cerca di accoglierli nella logica del grande passaggio dell’esperienza
pasquale. In questo orizzonte il catechista accompagnerà gli altri ad accogliere le
proprie traversate e i passaggi della vita come momenti di grazia e occasioni per una
continua maturazione e crescita anche nella fede.
Anche il modo di fare catechesi e formazione cambia: da una catechesi fatta di momenti
sporadici scollegati tra loro, fatta di corsi e ricorsi in preparazione ai sacramenti, fatta di
riunioni con i genitori nell’imminenza dei sacramenti dei figli; a una catechesi che
diventa un itinerario continuo e costante di accompagnamento della vita dei discepoli,
una vita che ha le sue tappe e i suoi punti di svolta, a una catechesi che è attenta alla
storia e alle vicende dei suoi partecipanti e propria per questo le accoglie in sé per darli
un senso e un significato alla luce della fede.
- Fare e far fare l’esperienza del volto. Il catechista sarà maestro di spiritualità:
“luogo” itinerante di esperienza di un Dio che ha deciso di nascondersi e di mostrarsi
non dietro a una filosofia o una riflessione razionale ma dietro un volto ben preciso:
quello di Gesù di Nazerth. La catechesi in questa logica non è più una semplice
trasmissione di contenuti o una scuola dove s’impara la dottrina, ma diventa un
laboratorio dove insieme ci si allena a riconoscere il Signore Dice il teologo Rupnik:
«Quando il dogma è racchiuso solo nella definizione, nella precisazione
concettuale, dove c’è il rischio che le spiegazione e le interpretazioni
equivalgano ai misteri stessi della fede, allora la fede, più che un atteggiamento
relazionale, agapico, significa imparare una dottrina, pensarla, volerla mettere in
pratica. Questo è stato un rischio assai forte nella modernità, con tutto il rovescio
del tappeto di moralismo che una tale impostazione portava con sé. Nella
pastorale e nella catechesi spesso si è messo un forte accento sulla dottrina, nella
liturgia si sono trascurati i gesti e si è concettualizzato e razionalizzato il rito.
Nella vita spirituale si sono sottolineate soprattutto le leggi morali e la volontà.
Le parole sono divenute sempre più strumento di affermazione intellettuale e
pertanto oggetto di dispute, fino a giungere ad un loro esaurimento»3.
Il Risorto, allora, si manifesta non solo in cose da imparare o da conoscere ma
attraverso un volto e una storia ben precisi che sono il volto e la storia che stiamo
abitando in questo tempo. La proposta catechistica si trasformerà in scuola dove si
impara a relazionarci con il Signore, dove il rapporto è tra il noi della Chiesa e il Tu
di Dio.
- Interrogare e insegnare a porsi delle domande. Dice il filosofo Emilio Baccarini:
«Nell’ottica della reciprocità, l’autentico maestro non è colui che fornisce
risposte, contenuti di sapere, ma colui che è in grado di suscitare domande. Il
vero maestro è maestro di domande. Intorno a questa affermazione si potrebbe
riarticolare l’intero progetto didattico, teso a raggiungere non un “sapere statico”
bensì “nomade”. (…) Il maestro non è soltanto l’esperto che semplicemente
trasmette dei contenuti, piuttosto egli fornisce risposte a mo’ di domanda nella
M.I. RUPNIK in T. SPIDLIK, M.I. RUPNIC, Teologia…, p. 341
1
convinzione che la ricerca non ha fine. La pedagogia della domanda è quindi
orientata a costruire un pensiero interrogativo, contrapposto a quello
semplicemente assertorio»4.
-
L’interrogare allora, in catechesi, diventa abilitare i destinatari a non avere sempre la
risposta pronta dal catechista “sotuttoio” ma a intraprendere insieme la strada
difficoltosa del lasciarsi provocare dalle domande della vita e da quelle della
presenza degli altri.
Accompagnare a fare esperienza del Signore risorto fino ai confini del mondo.
Tra i numerosi luoghi in cui è possibile fare esperienza del Signore risorto sottolineo:
il giorno del Signore e il sacramento dell‘Eucarestia (celebrazione); il sacramento dei
fratelli e delle sorelle, cioè, la comunità (comunione); il sacramento della
condivisione e del dialogo con gli altri (carità); il sacramento del mondo
(testimonianza e annuncio)… In questo contesto la catechesi diventa un
accompagnamento a fare esperienza di Cristo dentro la vita quotidiana. Dice il
biblista Bruno Chenu:
«Essere discepolo, significa trovarsi impegnato in una conversazione con Gesù,
riprendere il filo a piombo delle Scritture, condividere la tavola, non poter
riservare solo a sé la buona notizia intravista, riunire la comunità attorno alla
parola e all’eucaristia, uscire fuori per allargare la cerchia degli “apprendisti” del
vangelo»5.
In quest’ottica la catechesi non si limita ad essere conservazione della specie dei
discepoli ma si trasforma in un accompagnamento che fa uscire i discepoli e li
abilita a dimorare nel mondo per esserne sale e lievito. Dice l’architetto Carlo
Truppi nel suo dialogo con James Hillman:
«La stanza all’inizio ci protegge, ci accoglie, ci preserva. I mali sono fuori,
tenuti a distanza. La stanza ci fa sentire al sicuro, ci rende immuni. Ci trattiene
nell’illusione di essere immuni. E poi, la stessa stanza diventa un contenitore che
reprime. Troppe esigenze compresse in poco spazio. La stanza non può
contenerle. Allora esplodono. Sono costrette ad uscire. Vanno verso la strada.
Perché fuori non ci sono solo i mali, ma anche il mondo, l’ambiente, l’intorno.
Così il mondo diventa “la valle del fare anima”. Un espressione che mi ha
ricordato Oltre il confine, il tentativo di andare da qualche parte, “oltre”, dopo
una ferita. In quel libro, nei tentativi di quel viandante, il mondo mi è sembrato
veramente la valle del fare anima»6.
Quella di Truppi sembra una esegesi di ciò che è avvenuto per la comunità dei
discepoli nel giorno di Pentecoste (Atti 2, 1-13). Le porte della stanza in cui erano
riuniti i discepoli sono chiuse per timore dell’esterno, del mondo che sempre più
minaccia la sicurezza della chiesa. Ad un certo punto entra lo Spirito e le porte si
spalancano perché la chiesa impari a parlare le lingue degli uomini e in queste
annunciare la bella notizia della resurrezione del Signore. Anche oggi la chiesa
rischia di chiudersi al mondo. Si trincera dietro le proprie sicurezze e certezze, alle
volte rifugiandosi nel passato o nelle pratiche devozionali. Lo Spirito, invece, ci
spinge fuori, sulla strada che diventa locanda dove si fa anima, dove, nel dialogo e
nella condivisione, si impara a costruire l’”oltre” del Regno dei Cieli. Oggi, più che
mai, la Chiesa è chiamata a diventare lievito che, inserito dentro la pasta, la fermenta
e la orienta verso l’anima delle cose, la trascendenza, il regno dei Cieli. Solo in
4
E. BACCARINI, La persona e i suoi volti, Anicia, Roma 2003, pp. 176 e 177
5
6
B. CHENU, I discepoli di Emmaus, Queriniana, Brescia 2005, p. 117
C. TRUPPI in J. HILMANN, L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano 2004, p. 20
1
questo modo la catechesi diventa locanda, laboratorio in cui si trasforma questo
mondo facendolo passare da “valle di lacrime” a una “valle dove si fa anima”.
LA DIMENSIONE ORANTE DEL DISCEPOLO
Introduzione al lavoro nell’ambito della dimensione orante
tenuta da don Flavio Belluomini
INTRODUZIONE
In questo nostro incontro vogliamo aver chiaro prima di tutto l’obiettivo della serata: “dopo
l’incontro in cattedrale con l’Arcivescovo come Chiesa orante, vogliamo ripensare la nostra vita di
cristiani in prospettiva del discepolato (il mio rapporto con Cristo, la mia sequela di Cristo),
individuando elementi utili alla nostra vita di fede e di Chiesa e nella stessa prospettiva ripensare
il servizio che svolgiamo nella comunità.”
Due cose emergono dall’obiettivo:
• L’utilità per la nostra vita che sempre ha bisogno di alimentarsi nell’ascolto della Parola
del Signore e nell’incontro e confronto comunitario/fraterno, come ora facciamo.
• L’utilità è poi per poter portare un contributo alla parte del popolo di Dio presente nella
nostra Zona pastorale a partire dal 23 p.v.
Proprio perché ci vogliamo confrontare con la Parola del Signore e farlo comunitariamente
cerchiamo di approfondire la dimensione che ci è stata data, in ascolto della Parola e nel confronto
sulla base della Parola stessa.
LA DIMENSIONE ORANTE
La dimensione orante della vita del discepolo può sembrare a qualcuno una realtà che
riguarda un rapporto privato con Dio (dico le mie preghiere, sono più o meno devoto) e poi gli
incaricati di qualche ministero in parrocchia o nella Zona pastorale (gruppo liturgico, coro, gruppo
biblico). Sicuramente riguarda tutto ciò, ma la dimensione orante è una realtà che riguarda tutta la
Chiesa e, direi, caratterizza la vita del discepolo di Gesù.
«Contemplare Cristo significa saperlo riconoscere ovunque Egli si manifesti; significa
guardare, leggere e interpretare la vita con gli occhi di Dio». Itinerario, nn. 22-23, pp. 10-11.
Con la lettera agli Ebrei allora potremo riassumere il cammino fatto su richiesta
dell’Arcivescovo in questi anni: «Fissate bene lo sguardo su Gesù». Cfr. Eb 3,1-6.
Nello scorso anno abbiamo cercato di assumere lo stile contemplativo che ci fa guardare a
Gesù e ci fa guardare il mondo e la vita con e come Gesù.
Quest’anno il nostro impegno si pone sul nostro riscoprirci discepoli contemplanti il volto di
Gesù per la vita e la pece del mondo.
Allora, per la dimensione orante (cercando di capire cosa significa) e per il nostro servizio in
Parrocchia e Zona cerchiamo di rimotivare il nostro essere discepoli che contemplano Cristo e
assumono il suo stile di vita.
Noi, discepoli di Gesù vogliamo assumere lo stile orante di Gesù. Per questo ascoltiamo dalla
parola di Dio come Gesù pregava.
Gesù orante (Gv 17)
1
La preghiera che Gesù pronuncia è intimante legata alle sue istruzioni «Così parlò» nelle
quali ha stabilito il fondamento della comunità (Gv 13,33-35), le ha indicato il cammino (Gv 14, 114) e ha parlato dell’odio del mondo e dell’aiuto che verrà (Gv 15, 18- 16, 15).
Gesù porta tutto e tutti nel Padre nella sua preghiera. Vediamo come in Gesù ciò che conta è
il rapporto col Padre dal quale ha ricevuto una missione e nel quale ha una fiducia totale. Cfr. Gv
16,32. È proprio questo rapporto di Gesù col Padre che a noi interessa stasera per poter prendere in
considerazione la dimensione orante.
Ci poniamo davanti a Gesù che «alzati gli occhi al cielo» disse: «Padre».
Gv 17, 1-5
Consideriamo la prima richiesta di Gesù orante: la GLORIFICAZIONE. Gesù chiede al
Padre di essere glorificato: non è una gloria per sé né una rivincita, ( sulla disponibilità di Gesù al
progetto del Padre si può vedere Gv 12, 20-36).
La glorificazione richiesta non è una realtà che toglie la Croce (Gv 12, 27 il tema del chicco
di grano vv. 27-28) né un fatto che seguente la Croce (Gv 19,19. 37).
La glorificazione del Figlio consiste nel glorificare il Padre con la sua opera: «Padre è giunta
l’ora, glorifica il Figlio tuo perchè il Figlio glorifichi te». Gv 17,1. Consiste nell’accettare l’ora e
l’innalzamento per portare alla pienezza la sua opera.
La GLORIA di cui Gesù parla è la manifestazione dell’amore del Padre a coloro che il Padre
ha dato al Figlio (il mondo vede nella Croce l’amore che Dio ha «per gli uomini che mi hai dato dal
mondo» e questa è la glorificazione del Figlio, che morendo sulla croce fa morire la morte e
morendo a causa del peccato sconfigge il peccato e il principe di questo mondo. Gesù è il Figlio di
Dio fino in fondo e questo fa sì che Gesù glorifichi il Padre mostrando il suo amore per l’uomo e
nello stesso tempo questa è la gloria del Figlio che accettando di essere come il chicco di grano che
muore distrugge la morte e porta frutto.
Ci rendiamo conto allora che Gesù in questa preghiera esprime la sua figliolanza (Gesù si
rivolge al Padre chiamandolo “Padre” mentre lui è alla terza persona (è il Figlio); nello stesso tempo
prende coscienza della sua figliolanza. Cfr. Gv 17, 2 «Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere
umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato».
I aspetto: questa preghiera fonda la dimensione filiale di Gesù e quindi del discepolo:
l’orante è colui che entra con Gesù nella figliolanza del Padre compiendo la sua volontà.
Il discepolo orante prende coscienza della sua dimensione di figlio con Gesù e si rende
disponibile per la glorificazione del Padre con Gesù. La dimensione orante è la caratteristica del
discepolo di Cristo che nella preghiera si lascia condurre nella preghiera di Cristo stesso.
Gv 17, 6-23
La preghiera di intercessione per i discepoli presenti e futuri. Questi “suoi” Gesù li
caratterizza come dati dal Padre e che hanno aderito a Lui. Gv 6b «hanno custodito la Tua Parola».
La dichiarazione iniziale del v.6 «ho manifestato il tuo nome» fa eco a «ti ho glorificato sulla terra»
v.4.
Questi “suoi” hanno accolto il mistero del Figlio (Dio-uomo che muore sulla croce e così
rivela l’amore di Dio all’uomo) e si sono posti come figli e per questo il mondo li odia; il “mondo”
non accetta la figliolanza e croce di Gesù.
Gv 17,18: Gesù dice che i discepoli sono un prolungamento della propria missione da parte
del Padre e la loro UNITÁ rivela al mondo l’amore del Padre.
L’unità della comunità credente è insieme comunione con Dio e fedeltà all’amore reciproco.
L’unità tra Padre è Figlio è partecipata ai discepoli da Gesù ed è la fonte dell’unità dei credenti.
In Gv. 17, 6 Gesù prega per la comunità dei suoi e di quelli che verranno, è una preghiera
che precede l’agire della comunità da parte del Gesù orante che, accettando l’ora, consegna ai suoi
1
la sua gloria. La preghiera di Gesù è perché i suoi abbiano la vita eterna e perché «come tu, Padre,
sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai
mandato».
Gesù vuole che i suoi diventino come Lui, figli del Padre, e entrino cioè in questo rapporto di
figliolanza che il mondo non riesce ad accettare.
Nel testo del cap. 17 del vangelo di Giovanni a differenza delle lettere di Gv. non c’è nessuna
minaccia attuale alla comunità riguardo la divisione. Ciò che costituisce l’esistenza cristiana,
secondo Gv è l’unità del Padre e del Figlio, cui i credenti partecipano e che esprimono (grazie alla
gloria donata v. 22) nella reciproca dedizione.
II aspetto: la preghiera del cristiano con Gesù figlio del Padre chiede e esige l’unità dei
“suoi” con Lui e tra loro.
Questo è ripreso da Gv 17, 24-26
L’ultima volontà di Gesù «quelli che mi hai dato voglio che siano dove sono io». In questo “voglio”
si ha la piena coincidenza della volontà del Padre e del Figlio.
In Gv17, 26, divenendo uno col Figlio i credenti sono anch’essi figli.
Da questi piccoli spunti abbiamo visto come l‘orante trovi la radice della sua dimensione in
Gesù (Figlio) e come con Gesù ci poniamo davanti a Dio chiamandolo Padre e lasciando che la
preghiera ci trasformi in uomini e donne che glorificano il Padre divenendo così tutta la nostra vita
un’offerta con Cristo. Poi come il desiderio di Gesù è che siano uno come il Padre e il Figlio.
La mia preghiera personale deve riscoprire questi tratti della preghiera di Gesù e quindi la
mia vita deve sentire l’urgenza della glorificazione del Padre continuando l’opera che Gesù ha
realizzato e ora è affidata alla Chiesa.
La preghiera è preghiera della Chiesa che continua la preghiera di Cristo.
LA CELEBRAZIONE FONTE E CULMINE DELLA NOSTRA VITA ORANTE
La celebrazione dell’eucaristia fons et culmen totius vitae ecclesiae
Leggiamo Sacrosanctum Concilium n. 10: “la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione Infatti le
fatiche apostoliche sono ordinate a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si
riuniscano in assemblea, lodino Dio nella chiesa, partecipino al sacrificio e mangino la cena del
Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei "sacramenti pasquali", a vivere "in
perfetta unione", domanda che "esprimano nella vita quanto hanno ricevuto con la fede". La
rinnovazione poi dell'alleanza del Signore con gli uomini nell'eucaristia conduce e accende i fedeli
nella pressante carità di Cristo. Dalla liturgia dunque, particolarmente dall'eucaristia, deriva in noi,
come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini
e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività
della chiesa”.
Attraverso le parole e i segni che il Signore lasciò nell’ultima cena la Chiesa seguendo le
parole del Cristo «fate questo in memoria di me» si pone nell’ottica del memoriale ebraico che non
è fare il ricordo del passato, ma vivere oggi un evento avvenuto una volta per tutte, venendovi
ricondotti tramite i segni e le parole lasciate come profezia di quell’evento.
Quell’evento è proprio la possibilità di partecipare alla glorificazione del Padre e del Figlio,
ricevendo la gloria per essere partecipi della vita di Dio, divenendo OGGI figli del Padre nel suo
Figlio per opera dello Spirito Santo a noi offerto tramite la glorificazione del Figlio di Dio innalzato
sulla Croce: «ed io la gloria che tu mi hai data l’ho data a loro».
Seguiamo la celebrazione eucaristica.La preghiera a chi è indirizzata? (Leggere delle collette)
al Padre. Ma come possiamo noi pregare il Padre? «Per Cristo nostro Signore»; noi non abbiamo
nessuna possibilità di rivolgerci al Padre se non in Cristo (altrimenti siamo del mondo). Gv 17,25.
Noi invece siamo i santificati, coloro che partecipano della gloria e con Gesù ci rivolgiamo al
Padre.
1
Consideriamo la preghiera eucaristica e vediamo come emerge il rapporto tra il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo. Dall’azione di Dio scaturisce la possibilità di essere figli oggi. Nella
preghiera eucaristica il cristiano che partecipa alla celebrazione ha la possibilità nel tempo di entrare
nella eterna preghiera di Gesù al Padre.
C’è un noi che ci ricorda «Coloro che mi hai dato»; il noi assicura che la preghiera è fatta da
Cristo.
L’itinerario dice. «saremo donne e uomini eucaristici se condivideremo» (p. 10 n. 22).
La domenica, giorno primordiale dies Domini e per questo è il giorno della celebrazione
eucaristica (Itinerario pastorale p.7 n. 4)
È il giorno dell’incontro con Cristo Risorto il giorno che nell’incontro con il Signore vuole
impostare la mia vita sulla Sua (Conformazione a Cristo per essere con Lui oranti).
È ancora lo spirito della preghiera di Gesù che deve caratterizzare le nostre domeniche. Ci
rivolgiamo al Padre accettando di lasciarci trasformare a immagine di Gesù. Nella celebrazione
domenicale siamo chiamati a vivere e aiutare a vivere questo.
La celebrazione domenicale comunitaria è l’occasione per vivere la figliolanza; dalla
celebrazione domenicale nasce la nostra settimana.
L’ascolto della Parola nasce dalla celebrazione liturgica: ascolto settimanale della Parola.
I gesti liturgici da riscoprire. Salvare il NOI.
Una liturgia è bella nella misura in cui lascia che appaiano i gesti di Cristo: la liturgia vuole
esprimere i gesti del Signore.
È dunque necessario uscire dalla dimensione privata e intimistica (consumistica) della Messa.
La mia messa preferita, l’orario che mi torna. Noi ci immergiamo nella preghiera di Cristo che
glorifica il Padre e lo facciamo come comunità che continua l’opera di glorificazione di Cristo.
La celebrazione deve diventare il luogo per incontrare noi il Padre in Cristo accettando la sua
volontà: accettare una “destrutturazione”.
Per questo è importante celebrare con la mia comunità (Parrocchia, Zona)
L’ascolto della parola proclamata (questa caratterizza la domenica)
Scendiamo nel concreto: Pensiamo ad esempio a ieri XXV domenica T.O. con Mt 20, 1-16
come pericope evangelica. La tematica dominate della domenica è la giustizia di Dio che supera
quella degli uomini e il suo amore è gratuito: la comunità è chiamata a pensare alla gratuità
dell’amore di Dio «che supera la giustizia di scribi e farisei» e quindi al desiderio di Dio che gli
uomini entrino nel suo Regno. Siamo invitati a ripensare al suo modo di amare, a quanto è urgente
per noi l’annuncio gratuito per il Regno. Questo individuare il tema di fondo non è solo il compito
del parroco che fa l’omelia, è tutta la comunità nelle sue varie membra che deve riscoprire il valore
della domenica e della sua cauterizzazione. La celebrazione domenicale deve essere caratterizzata
non da fattori esterni (giornata pro migrantes, opera sociale S. Croce, preghiera per le vocazioni) la
domenica ha una sua caratteristica data dal fatto che è domenica, dal tempo liturgico e dalla liturgia
della parola, massimamente dalla pericope evangelica.
In questa domenica I canti devono esprimere questa urgenza del Regno e la sua gratuità
(servizio del coro); i riti di introduzione: all’atto penitenziale ricordare che siamo gli inviatati nella
vigna, oppure il rito di aspersione ricordando che il nostro primo invio nella vigna è stato col
battesimo. Proclamazione della Parola fatto con bravi lettori, il salmo cantato. (omelia ben preparata
e fedele a ciò che abbiamo detto prima). Preghiera dei fedeli : bandire la preghiere preconfezionate,
lasciare invece esprimere la comunità sulla base della Parola. Presentazione dei doni (il frutto del
lavoro dell’uomo perché diventi il corpo e il sangue del Signore e per le membra di Cristo)
Preghiera eucaristica: ora viviamo la gratuità dell’amore di Dio che ci ha chiamati nella vigna, con
Cristo per Cristo e in Cristo diventiamo offerta al Padre (in piedi per esprimere la dimensione
orante). Riti ci comunione (grazie all’essere stati chiamati e aver aderito all’invito al Padrone della
vigna ora con Cristo possiamo dire “Padre”. Pensiamo alla frazione del pane: il gesto non è qual
cosa di accessorio o accidentale rispetto alla persona, in quel gesto c’è la consegna della vita da
parte di Gesù che ci offre così la sua gloria. Valorizzare quel gesto e il canto “Agnello di Dio”. Il
canto alla comunione deve aiutare a entrare nella preghiera di Gesù in uno stile contemplativo.
1
Invio finale chiamata- invio a chiamare.
DUE COSE: una preparazione e un imput per la settimana (fons et culmen).
Durante la settimana sarebbe bene aiutare le persone della comunità a ritornare sulle
tematiche della celebrazione per non dimenticarla subito in vista della successiva:
A livello personale: si può rileggere il vangelo con un foglietto che aiuta a comprenderne il
valore e che può provocare a un atteggiamento (il Regno e la gratuità).
A livello comunitario: si può prevedere un incontro comunitario (parrocchiale o zonale) sulla
base della celebrazione fatta (non solo sulla pericope evangelica e liturgia della Parola ma sulla
celebrazione tutta). Si parte dalla esperienza fatta della celebrazione domenicale dove siano stati
resi participi delle glorificazione del Padre e del Figlio. La Parola proclamata de progressivamente
leggere la nostra vita e quella del fratelli. Crescita e verifica. (Qui devono convergere le proposte
dei Gruppi biblici e liturgici)
Raccordo con la liturgia delle domenica che verrà perché la vita cristiano sia “da domenica a
domenica”.
Il catechismo può essere preso in considerazione in questa linea?
Il coro si prepara alla domenica (la solennità è data dalla partecipazione). Il catechismo fatto
sotto forma di canto.
Nelle parrocchie grandi favorire la dimensione comunitaria e quelle piccole unirsi per questo
scopo.
Alcune domante vengono spontanee:
È possibile una vita di fede senza la dimensione orante?
È possibile una dimensione orante senza la partecipazione all’eucarestia?
È possibile una eucaristia senza riscoprire i gesti liturgici e l’ascolto della Parola del Signore?
È possibile tutto questo senza una liturgia vissuta senza la comunità credente e celebrante?
V. Itinerario pastorale (2005-2006) p. 9-10, nn. 7-8.
In questo mio intervento ho cercato, in ascolto della Parola del Signore, di individuare la
qualità del discepolo orante che si pone in ascolto della parola di Gesù e con Gesù si lascia condurre
nella sua preghiera al Padre. Il discepolo allora è un orante in Cristo e con Cristo si pone nella
contemplazione dell’amore del Padre. La liturgia (e Parola di Dio, dato che non esiste liturgia senza
proclamazione della Parola e la Parola nella celebrazione trova il suo apice) è l’alimento necessario
per la nostra vita di discepoli di Cristo che con Lui vivono la dimensione orante verso il loro Padre
celeste.
1
IL DISCEPOLO TESTIMONE DELLA CARITA’ A SERVIZIO
DELLA COMUNITA’ PER LA PACE E LA VITA DEL MONDO
Introduzione ai lavori nell’ambito della dimensione testimoniale
tenuta da d.Bruno Frediani
1. IL DISCEPOLO
- capace di accogliere l’amore di Gesù e, nell’amore, la sua parola e i suoi insegnamenti:
- “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché portiate molto frutto”
(Gv. 15-16).
- si lascia “servire” da Lui:
- “Se non ti lascerai lavare, non avrai parte con me…”; “Non solo i piedi, ma anche le mani e il
capo” (Gv. 18, 8-10).
- la missione del discepolo è strettamente legata all’amore verso Gesù:
- “ Simone di Giovanni, mi ami tu? … pasci le mie pecorelle”.
- l’amore verso Gesù si estende all’amore verso la Chiesa:
- “Donna, ecco il tuo figlio… Figlio, ecco la tua madre, e da quel momento il discepolo la
prese nella sua casa” (Gv. 19, 25-26).
- un amore senza misura: il dono totale di sé: la croce:
- “Chi vuol essere mio discepolo prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”
- un amore che arriva a tutti e non esclude nessuno: gli ultimi e i nemici:
- “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avete? Anche i pagani fanno così. E se fate del
bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avete? Anche i pagani e i pubblicani fanno
del bene a coloro da cui sperano di riceverne”.
- un amore così è possibile solo restando strettamente uniti a Gesù:
- “Senza di me non potete far nulla”, “Come il tralcio e la vite… produce molto frutto”
- un legame ed un servizio che libera e responsabilizza:
- “Non vi ho chiamato schiavi, ma amici…”.
- le beatitudini sono la nuove legge del discepolo: povertà, mitezza, nonviolenza, compassione,
passione per la giustizia e per la pace…
2. LA COMUNITÀ
- Ecclesiologia conciliare: la comunità è soggetto dell’azione pastorale:
- dell’evangelizzazione e della catechesi;
- della celebrazione dei misteri della salvezza;
- del dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale;
- della testimonianza della carità, della promozione della giustizia, della vita e della pace.
- Icona e modello della carità è la Trinità: amore donato e accolto da ognuno dei suoi membri,
che genera vita (creazione) di nuovi soggetti che, a immagine del Creatore, amano e
accolgono l’amore, che salva (redenzione), nel senso che ristabilisce il circolo dell’amore
interrotto dall’egoismo e dal peccato.
- amore non solo individuale, ma comunitario: amare insieme, come comunità;
- amore come reciprocità: accolto e donato
- amore che genera vita (creazione) e la ridona nella sua pienezza quando si è persa
(redenzione);
- Chiesa: comunità di discepoli unita in se stessa nell’amore e, come tale, a servizio dell’uomo,
della storia e del mondo… per la vita e la pace del mondo. Una comunità tutta ministeriale, a
2
-
-
servizio.
Il discepolo partecipa di questa ministerialità attraverso il Battesimo: sacerdote, re e profeta.
E’ parte dell’identità della comunità cristiana la carità, che non è solo dettata dall’esistenza dei
Poveri: non si fa la carità perché esistono i poveri, ma si è carità perché creati a immagine di
Dio (Trinità), redenti dal suo amore mediante il sacrificio del suo Figlio (la croce).
L’amore verso gli ultimi e verso i nemici costituisce il criterio di giudizio della carità del
discepolo e della comunità.
La testimonianza della carità è essa stessa evangelizzazione (vedi i sommari nei primi capitoli
del libro degli Atti degli Apostoli).
3. IL DISCEPOLO A SERVIZIO:
- della comunità, corpo di Cristo
- dei poveri e dei sofferenti, volto di Cristo “Avevo fame,
sete… Ogni volta che l’avrete fatto ad uno di questi fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me”.
Il discepolo cerca il povero per incontrarvi il suo Maestro e Signore, così come lo cerca e lo
incontra nei sacramenti e nella Parola.
I poveri e gli ultimi, inoltre, sono le conseguenze ultime del peccato, individuale e sociale
(“strutture di peccato” ); partendo da loro il discepolo e la comunità intraprendono un cammino
di cambiamento e di conversione personale e strutturale.
Non solo la Chiesa serve i poveri, ma i poveri servono la Chiesa: un servizio da accogliere
(reciprocità)
- La comunità cristiana soggetto della testimonianza della carità. Ruolo dell’operatore della
caritas
- animare, formare ed educare la comunità ad essere testimone della carità;
- servire i poveri e i sofferenti a nome della comunità (diaconi, ministri della comunione, Conf
di S.Vincenzo, opere sociali). Non consentire le deleghe deresponsabilizzanti.
- Annuncio, liturgia e testimonianza della carità: tre pilastri della comunità cristiana.
- pari dignità
- in ogni parrocchia o unità pastorale un’opera che esprima, senza esaurirlo, l’impegno di
tutta la comunità.
- apprendere un criterio di valutazione delle circostanze, della politica, della cultura e
dell’economia che parta dagli ultimi (“Con gli ultimi e gli emarginati potremo imparare tutti
un genere diverso di vita”, CEI “La Chiesa Italiana e le prospettive del Paese” 1981);
- superamento dell’elemosina, beneficenza, filantropia… per la vita, la giustizia e la pace nel
mondo.
- promuovere stili di vita individuali, familiari e comunitari: sobrietà, ascolto, accoglienza,
valorizzazione delle differenze, vigilanza sull’uso dei beni personali e della comunità,
nonviolenza;
- promuovere alternative: commercio equo e solidale, banca etica, bilanci di giustizia,…
- promuovere volontariato, servizio civile, famiglie aperte all’accoglienza di fratelli in
difficoltà: minori, anziani, disabili, malati di mente;
- vigilare sulle leggi (es immigrati, finanziaria…), sui bilanci degli enti locali, della ASL;
- esigere i diritti: non solo carità, ma, prima di tutto giustizia,
- studiare i bisogni e i fenomeni di povertà e informarne tutta la comunità (centri d’ascolto e
osservatorio delle povertà e delle risorse)
- collegare e coordinare le iniziative ecclesiali e collegarle con le altre realtà della Chiesa;
- in una visione mondiale: la vita, la giustizia e la pace nel mondo.
2
LA DIMENSIONE DIALOGICA DEL DISCEPOLO
Introduzione ai lavori nell’ambito della dimensione dialogica
tenuta da d.Piero ciardella
PREMESSA
Il gruppo di lavoro che sono stato chiamato ad indirizzare, riguarda la relazione del
discepolo con ambiti diversi: religioni non cristiane, altre confessioni religiose, culture. Queste
dimensioni rappresentano ambiti di impegno cristiano che la riflessione teologica degli ultimi anni
ha messo a tema e che meriterebbero una trattazione particolareggiata, cosa che non è possibile
sia per il limitato tempo a disposizione, che per le mie limitate competenze.
Dunque, ho cercato di evidenziare un elemento comune che fosse in grado di unificare questi
ambiti di impegno. A ben vedere essi fotografano, in tutta la sua complessità, l’oggi in cui siamo
chiamati a dare testimonianza, secondo quanto si legge nella Prima lettera di Pietro, 3,15: “adorate
il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto”.
Il tempo in cui noi viviamo è un tempo da accogliere come opportunità piuttosto che come
limite. Si legge nella Lettera a Tito (2,11-12): «È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza
per tutti gli uomini, che ci insegna… a vivere… in questo mondo». Il cristiano è chiamato, in altre
parole, ad “incarnarsi” nella storia e ad amare in essa tutto ciò che è umano, condividendo, come
ha chiaramente insegnato il Concilio, "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini
d'oggi" (GS 1).
E’ troppo facile in tempi di mutamento come il nostro, cadere nel pericolo di abbandonare la
storia costruendosi mondi alternativi, immaginari, ideali, oppure di rimanere chiusi e
nascondendosi in un nostalgico tempo che non c’è più. Questo non è possibile al cristiano che
vuole essere fedele all’incarnazione con quello che essa comporta. Si legge a proposito negli
Orientamenti della CEI Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n 14:
"In Cristo, Dio si è comunicato e si comunica mediante una profonda condivisione
dell’esperienza umana. Egli non ha rifuggito l’opacità della storia, ma l’ha assunta per
redimerla. Lui che da sempre era presso Dio, per rivelare Dio si è posto accanto
all’uomo….. La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio
dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini".
Non ci illudiamo, non è esistito, né esisterà in futuro un tempo ideale; quello in cui viviamo non è
né meglio né peggio di altri, è "il tempo che ci è dato", l'orizzonte del nostro impegno e della
nostra testimonianza.
Testimonianza è un termine centrale nel vocabolario cristiano, e consiste, in termine sintetici,
nella comunicazione/condivisione dell’amore di Dio che si è manifestato a noi nell’incarnazione
del Verbo7. Questa testimonianza deve comporre insieme fermezza e dolcezza, decisione e rispetto,
in altre parole la testimonianza cristiana deve combinare ANNUNCIO (fedeltà al Vangelo) e
DIALOGO (Rispetto del destinatario).
Questo credo sia un punto di non ritorno non solo della riflessione teologica, ma dello stesso
magistero post conciliare.
Prendiamo brevemente in considerazione questi due dimensioni della testimonianza cristiana.
7
“Evangelizzare è far incontrare gli uomini con l'amore di Dio e di Cristo, che viene a cercarli: per questo è
indispensabile la testimonianza vissuta; è necessario «fare la verità nella carità” (Ef 4,15). CEI, Con il dono della carità
dentro la storia, n. 5.
2
LA MISSIONE
La missione non è cosa certo nuova nella Chiesa. La novità sta nel fatto che, come era nei
primi secoli, essa è divenuta elemento centrale della vita della Chiesa.
Si legge negli orientamenti della CEI 32.
Comunicare il Vangelo è il compito fondamentale della Chiesa …. Il Vangelo è il più
grande dono di cui dispongano i cristiani. Perciò essi devono condividerlo con tutti gli
uomini e le donne che sono alla ricerca di ragioni per vivere, di una pienezza della vita8.
La missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo
costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. Proprio la dedizione a questo compito
ci chiede di essere disposti anche a operare cambiamenti, qualora siano necessari, nella
pastorale e nelle forme di evangelizzazione
Quando il documento dice che la missione è il compito fondamentale della Chiesa, non
intende dire che esso è una preoccupazione tra le altre, sebbene importante, ma che nella missione
sta la identità più propria della Chiesa, la quale è stata voluta da Cristo proprio per continuare la
missione che lui stesso ha inaugurato con la sua incarnazione.
Questa consapevolezza emerge con chiarezza dal Concilio, ma appare ancora per certi versi
ancora nuova, perché nel cammino ecclesiale post conciliare, sebbene la missione della Chiesa sia
stata più volte messa a tema, in realtà l’impegno e il maggior sforzo è stato messo in una grande
riforma della Chiesa “ad intra”: liturgia, catechesi, strutture di partecipazione, ecc.. a discapito di
una seria considerazione del tema della missione. Oggi si avverte con urgenza l’esigenza di
ricentrare l’attenzione della Chiesa sulla missione, nella consapevolezza che il mondo è in continuo
cambiamento. Essa sente, come mai era accaduto in passato, di essere “realmente e intimamente
solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS 1), ma al contempo di essere per il mondo “il
sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere
umano” (LG 1).
Nella Ad Gentes 2:
La Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria, in quanto è
dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di
Dio Padre, deriva la propria origine.
Evangelii Nuntiandi 14:
“Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più
profonda. Essa esiste per evangelizzare”
La Chiesa è la sua missione, pertanto non si possono separare, anche se possono
metodologicamente essere distinti, il momento descrittivo: cosa è la Chiesa, e il modo in cui essa
esercita la sua missione. Per rispondere alla domanda cosa sono, cosa devo essere per rispondere al
progetto di Dio, la Chiesa deve aprirsi al mondo, deve vivere la sua missione.
Per questo il testo citato precedentemente dice che la missione è ciò alla luce della quale la
Chiesa deve operare dei cambiamenti.
La Chiesa non è data, nella sua identità, una volta per tutte, ma deve prendere sempre nuova e
più profonda coscienza di sé, tenendo in tensione continua “l’ascolto della Parola di Dio contenuta
nelle sacre scritture e nella Tradizione dalla quale nasce e matura la fede” (Comunicare il
Vangelo…, 3), e “l’ascolto della cultura del nostro mondo, per discernere i semi del Verbo già
presenti in essa, anche al di là dei confini visibili della Chiesa” (Ib. 34)9.
Dunque la Chiesa, per rimanere fedele alla sua più propria vocazione deve compiere una
“conversione pastorale” in ordine al suo impegno missionario:
8
Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris missio, 20: AAS 83 (1991) 267-268.
Il documento della CEI, in linea con quanto in parte aveva già affermato il Concilio (GS 44), prosegue: “Ascoltare le
attese più intime dei nostri contemporanei, prenderne sul serio desideri e ricerche, cercare di capire che cosa fa ardere i
loro cuori e cosa invece suscita in loro paura e diffidenza, è importante per poterci fare servi della loro gioia e della loro
speranza”.
9
2
“Oggi in Italia l'evangelizzazione richiede una conversione pastorale. La Chiesa, ha affermato il
papa a Palermo, «sta prendendo più chiara coscienza che il nostro non è il tempo della semplice
conservazione dell'esistente, ma della missione».44 Non ci si può limitare alle celebrazioni rituali
e devozionali e all'ordinaria amministrazione: bisogna passare a una pastorale di missione
permanente” (CEI, Con il dono della carità dentro la storia, 23).
IL DIALOGO
Come si esplicita questa missione della Chiesa?
Una premessa: se è vero ciò che dicevamo, ovvero che è attraverso la missione che la Chiesa
si ritrova e cresce nella sua identità, è altrettanto vero che la Chiesa, a seconda della propria
autocoscienza, di epoca in epoca vive un diverso modo di essere missionaria. Ad esempio, fino a
quando la Chiesa ha avuto la consapevolezza di rappresentare e risolvere in sé la realtà del Regno,
ha ritenuto che la salvezza implicasse una appartenenza visibile (vedi l’adagio: extra ecclesia nulla
salus). In questo contesto le missioni sono state vissute nella prospettiva della plantatio ecclesiae,
cioè nella ansia di impiantare in ogni parte e a tutti i costi la Chiesa con le sue strutture… La
consapevolezza della Chiesa è mutata, e questo mutamento non ultimo è stato causato dall’apertura
osmotica della Chiesa nei confronti del mondo (dalla missione, in altre parole), e la conseguenza di
questo cambiamento è la riscoperta della missione non più in questi termini, ma piuttosto nella
modalità del dialogo. Dunque tra coscienza ecclesiale e pratica della missione si costituisce un
circolo virtuoso. La Chiesa vive la missione secondo una precisa autocoscienza e quest’ultima è, a
sua volta, approfondita dalla stessa missione.
Una delle novità della coscienza ecclesiale di questo periodo post conciliare è che la missione
può e per certi versi deve essere realizzata attraverso il dialogo. Comporre insieme
annuncio/missione e dialogo genera ancora un certo imbarazzo, ci pare una cosa nuova o,
addirittura, sconveniente. Questo perché erroneamente si pensa al dialogo come ad una forma
debole di relazione, in cui gli interlocutori devono mettersi tra parentesi, rinunciare a ciò che hanno
di più caro, e mettersi d’accordo su un minimo accettabile da entrambi gli interlocutori… inteso
così il dialogo sarebbe la porta d’accesso, nelle relazioni, del relativismo. Ma se bene inteso il
dialogo non è questo. La Chiesa, quando accetta di entrare e, più spesso, di promuovere il dialogo,
non deve rinunciare a niente di ciò a cui crede, non può né deve contrattare quella verità che essa
non possiede, ma da cui e posseduta, che è Gesù Cristo unico salvatore. Attraverso il dialogo,
quando questo avviene in sincerità, la Chiesa mette in gioco se stessa e il contenuto della verità di
cui essa è testimone, e accoglie come dono la verità dell’altro che, con altrettanta sincerità e
rispetto, testimonia. E’ l’incontro di due verità che, dando e ricevendo l’una dall’altra, imparano la
difficile arte del rispetto e della convivenza pacifica.
Il tema del dialogo ha avuto una vasta letteratura in questi quarant’anni dal vaticano ad oggi.
La data di inizio della riflessione sul dialogo la possiamo individuare nella enciclica di Paolo VI
“Eccelsiam suam” (da ora ES). Questo importante documento fu promulgato dal Pontefice nel
1964, all’indomani della sua elezione, e durante la difficile discussione del documento conciliare
Gaudium et spes. Sappiamo che questo documento è stato uno dei più sofferti e dibattuti, soprattutto
perché era diventato terreno di scontro tra progressisti e reazionari. Paolo VI con questo gesto
solenne volle certamente indirizzare i lavori conciliari verso il riconoscimento della necessità della
Chiesa di aprirsi al mondo e di istaurare con esso un fecondo dialogo.
L’ES si presenta come testimonianza dell’esigenza della Chiesa di rinnovare l’identità della
propria missione nel mondo. Infatti, l’enciclica si propone esplicitamente di chiarire “per quali vie
la Chiesa cattolica deve, oggi, adempiere la sua missione”. “Noi pensiamo – di ce il papa - che sia
doveroso oggi per la Chiesa approfondire la coscienza ch’ella deve avere di sé, del tesoro di verità
di cui è erede e custode e della missione ch’essa deve esercitare nel mondo” (n. 19). A questo fine
l’enciclica si articola in tre parti:
2
•
•
La coscienza ecclesiale della missione (nn. 19-42),
l’esigenza del rinnovamento del modello della missione ecclesiale (nn. 43-59)
• il dialogo come dimensione intrinseca della missione della Chiesa nel mondo di oggi (60120). In questa terza parte l’enciclica procede per moto circolare. Chiedendosi con chi la
Chiesa deve dialogare, individua un primo cerchio: con tutto ciò che è umano, un secondo:
con i credenti in Dio (altre religioni), terzo: con le confessioni cristiane.
Questa lezione, ancora attuale, è stata ripresa da molti documenti ecclesiali:
- dai documenti conciliari GS 92, NAE, DH, UR.
- Dai documenti dei tre segretariati che Paolo VI volle come attuatari del programma di
dialogo: segretariati per i non credenti, per l’unità dei cristiani e per i non cristiani,
trasformati più recentemente nei pontifici consigli per la cultura, per la promozione
dell’unità dei cristiani e per il dialogo interreligioso. Dialogo con i non credenti (1968)
Studio dell’ateismo e formazione al dialogo (1970), Guida al dialogo con le religioni non
cristiane (1967), il direttorio ecumenico (1967 e 1970), Riflessioni e suggerimenti circa il
dialogo ecumenico (1970), Dialogo e missione (1984) fino al documento del Consiglio
Pontificio per il dialogo interreligioso, Dialogo e annuncio (1991).
Questo elenco sta a dimostrare quanto il tema del dialogo, che a noi sembra una scoperta degli
ultimi tempi, sia stato centrale nella ridefinizione della relazione della Chiesa con i vari ambiti del
pluralismo, da parte dello stesso magistero.
Per brevità vorrei dire alcune cose che mi sembrano importanti da puntualizzare sul tema del
dialogo.
1. Perché il dialogo
a) Per noi cristiani il dialogo non è primariamente una forma di relazione “politica”, imposta
dalla necessità. Se guardiamo alla radice dell’evento cristiano scopriamo che il dialogo fa parte
integrante della nostra fede. Esso ha la sua radice e la sua motivazione più autentica nel Dio
trinitario, rivelatoci da Gesù. Il Dio in cui noi crediamo è "unico" sebbene in una relazione dialogica
che non annulla le differenze delle tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Non solo, il Dio
trinitario, che è in sé relazione, ha ammesso anche ogni uomo a partecipare a questo eterno dialogo
d’amore. Il “verbo/Parola” (in greco Logos) è venuto “tra” (in greco dia) noi (vedi il Prologo del
Vangelo di Giovanni), si è fatto cioè “dia-logos”, Parola con-divisa. In principio, dunque, c’è la
relazione, quel dialogo d’amore in cui ciascuno si dona senza smarrire la propria identità, e si
arricchisce nell'accoglienza del dono dell’altro.
b) Ma c’è un’altra ragione che ci fa preferire il dialogo con la cultura del nostro tempo come
forma di annuncio. La ragione sta nel fatto che attraverso il dialogo il cristiano, non solo testimonia
la sua fede e la verità che da senso alla sua vita, ma ne esce rafforzato dall'ascolto della verità
dell'altro. Questo aspetto, già affermato convintamene dal Concilio (GS 44), nonostante venga
ripetuto più volte in significativi documenti ecclesiali, stenta ad entrare nella coscienza comune del
cristiano. Riporto alcuni testi che chiariscono in modo inequivocabile quanto ho affermato, e che
invito a leggere per intero.
Si legge nei già citati Orientamenti della CEI, Comunicare il vangelo, al n. 60:
"Incontri di dialogo e di confronto – iniziative da assumere con discernimento – possono
essere un grande beneficio per i cristiani. Il dialogo infatti aiuta ad ascoltare e a capire
meglio il cuore dei loro contemporanei, e spesso, in tal modo, a capire meglio la vita e lo
stesso Vangelo. In secondo luogo, il dialogo permette la crescita di relazioni umane, di
scambi fecondi e arricchenti per tutti. Solo condividendo le angosce e le speranze, le
ricerche e le difficoltà di chi ci sta accanto, sarà possibile trasmettergli la speranza che
sgorga dalla nostra fede". E al n. 34: "[dobbiamo] metterci in ascolto della cultura del
2
nostro mondo, per discernere i semi del Verbo10 già presenti in essa, anche al di là dei
confini visibili della Chiesa. Ascoltare le attese più intime dei nostri contemporanei,
prenderne sul serio desideri e ricerche, cercare di capire che cosa fa ardere i loro cuori e cosa
invece suscita in loro paura e diffidenza, è importante per poterci fare servi della loro gioia e
della loro speranza. Non possiamo affatto escludere, inoltre, che i non credenti abbiano
qualcosa da insegnarci riguardo alla comprensione della vita e che dunque, per vie inattese,
il Signore possa in certi momenti farci sentire la sua voce attraverso di loro. Infine, in
“Dialogo e Annuncio”, documento pubblicato congiuntamente dal Pontificio Consiglio per il
Dialogo Interreligioso e dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (maggio
1991), si legge al n. 49: "la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli
cristiani la garanzia di aver assimilato pienamente tale verità. In ultima analisi, la verità non
è qualcosa che possediamo, ma una Persona da cui dobbiamo lasciarci possedere. Si tratta
quindi di un processo senza fine. Pur mantenendo intatta la loro identità, i cristiani devono
essere disposti a imparare e ricevere dagli altri e per loro tramite i valori positivi delle loro
tradizioni».
c) E’ la verità stessa, di cui vogliamo essere testimoni, ad esigere la comunicazione dialogica.
E in DH, 3: “La verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona
umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l'aiuto
dell'insegnamento o dell'educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo
scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno
scoperta o che ritengono di avere scoperta; inoltre, una volta conosciuta la verità, occorre
aderirvi fermamente con assenso personale”.
d) Il riconoscimento del fatto che la Chiesa non è “a parte” rispetto al mondo, ma ne condivide le
angosce e ansie, il dialogo è finalizzato alla ricerca di forme di cooperazione per la costruzione di
un mondo pacificato. La Chiesa ha il dovere di lottare assieme a molte altre persone per i
riconoscimento di diritti umani, della pace, della giustizia, della fame, e così via. Lo dice
apertamente il concilio:
“Ai nostri giorni, infatti, efficacia d'azione e necessità di dialogo esigono iniziative
collettive… è auspicabile che i cattolici si studino di cooperare, in maniera fattiva ed
efficace, sia con i fratelli separati, i quali pure fanno professione di carità evangelica, sia con
tutti gli uomini desiderosi della pace vera. Adempiranno così debitamente al loro dovere in
seno alla comunità internazionale” GS 90. a al 92 si legge: “Per quanto ci riguarda, il
desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la
opportuna prudenza, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani,
benché non ne riconoscano ancora l'autore, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la
perseguitano in diverse maniere. Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti
chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola e identica vocazione umana e
divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla
costruzione del mondo nella vera pace”.
2. Difficoltà del dialogo
Non c’è da nascondere una difficoltà oggi emergente di fronte a nuovi fenomeni di
intolleranza e di fanatismo religioso. Tale difficoltà sta nell’incontrare spesso uomini non
disponibili al dialogo. Si può dialogare con tutti, abbiamo imparato, ma non si può obbligare
nessuno a dialogare. Il dialogo implica la libertà e la disponibilità reciproca. Insuccessi quotidiani
potrebbero farci indietreggiare, oppure cedere alla logica della reciprocità: “ti concedo nella misura
in cui tu mi concedi…” Ma è proprio così che dobbiamo comportarci? Credo di no! Come cristiani
crediamo al dialogo e lo perseguiamo fino in fondo, a costo di rimetterci di persona. La più alta ed
10
La dottrina dei semi del verbo, presenti nel cuore di ogniSui semi del verbo si veda: Giustino, II Apologia, e i riflessi
di questa dottrina sul magistero: AG, nn. 3. 15 Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, nn. 28. 56
2
efficace forma di testimonianza - non lo dimentichiamo - ce l’ha insegnato Gesù, è dare la vita,
ovvero il martirio. Tertulliano scriveva: “Diventiamo più numerosi tutte le volte che siamo mietuti
da voi; è un seme il sangue dei cristiani” (Apologeticus, 50). Pensiamo a l’efficacia, solo
apparentemente perdente, della testimonianza cruenta non solo dei martiri dei primi secoli, ma dei
molti che continuano a dare la vita nelle missioni, in terre di persecuzione, …..
LA SPIRITUALITA’ DEL DIALOGO
Il card. Arinze, nel 1999, al termine di una Assemblea plenaria del pontificio consiglio per il
dialogo interreligioso, scrive una lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali dal titolo: “La
spiritualità del dialogo”, intendendo con questa sostenere gli sforzi dei cristiani impegnati in questo
dialogo. Pur non aggiungendo niente di nuovo, la lettera evidenzia il bisogno di una nuova
spiritualità che motivi e sostenga il discepolo a dare la sua testimonianza nello spirito di un
autentico dialogo.
I tratti di questa spiritualità noi li possiamo attingere da colui che non solo è il contenuto della
testimonianza, ma ne è anche il modello. Si legge nella lettera agli Filippesi, 2, 5-8:
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se
stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma
umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”.
Nell’inno paolino è descritto il mistero della kenosi in cui Cristo si spoglia della sua divinità e
si abbassa al piano degli uomini assumendone in tutto l’umanità, tranne che nel peccato, fino al
dono di sé sulla croce. Questa solidarietà totale di Cristo rappresenta uno scambio in cui, rinunciano
ad ogni prerogativa divina, si arricchisce dell’umanità. Quindi un abbassamento che solo
apparentemente sembra una perdita, ma che, al contrario, risulta essere un momento di
arricchimento. Tanto è vero che l’umanità del Figlio non rappresenta uno stato di passaggio, ma,
con l’ascensione, è assunta nel seno della Trinità.
Dunque la condivisione, l’abbassamento diventa anche per il cristiano il modo della missione,
un apparente perdersi che è un ritrovarsi in una dimensione più profonda.
I tratti di questa testimonianza kenotica possono essere sinteticamente:
• Conversione alla volontà del Padre. “Cristo si fece obbediente….” Più si è vicini a Dio e più si
diventa disponibili al dialogo, all’incontro, si riesce a cogliere la presenza di Dio nel volto di
ogni fratello. Occorre convertirsi dall’autosufficienza, come pure da quella presunzione di essere
maestri, di non aver niente da imparare, da quel fanatismo che ideologizza la propria visione di
dio….
• Accogliere l’altro nella sua diversità non come limite da ridurre all’identità, ma come dono
insostituibile, proprio per la sua diversità. Eliminare i pregiudizi, i luoghi comuni, rimanendo
stupiti dalla bellezza dell’altro11….
• Capacità di ascolto, che è autentico desiderio di conoscenza dell’altro, vera stima per la sua
ricerca…
• Condivisione delle gioie, delle fatiche che è un farsene carico. Interessarsi ai problemi del
mondo, soprattutto dei più poveri. Vedi Gaudium et spes 4312
11
“La sapienza divina pervade il creato da un confine all'altro; quindi, per tramite suo, il sommo Artefice ha disposto
tutte le sue opere in modo ordinato, verso l'unico fine della bellezza. Nella sua bontà pertanto a nessuna creatura, dalla
più alta alla più bassa, ha negato la bellezza che da Lui soltanto può venire, così che nessuno può allontanarsi dalla
verità senza portarne con sé una qualche immagine” Agostino, De vera religione, 39, 72.
12
“Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura,
pensano che per questo possono trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga
ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno. A loro volta non sono meno in errore coloro che pensano di
potersi immergere talmente nelle attività terrene, come se queste fossero del tutto estranee alla vita religiosa, la quale
2
• Capacità di perdono, di amore sincero: La vera testimonianza è la carità!
A conclusione rimando ad un testo della Novo millennio ineunte, chiaro e sintetico, che può
costituire un momento di riflessione per ogni discepolo che intende essere autentico annunciatore
del vangelo di salvezza.
Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte
54. Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono nella luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce. Noi abbiamo
il compito stupendo ed esigente di esserne il " riflesso ". È il mysterium lunae così caro alla contemplazione dei Padri, i
quali indicavano con tale immagine la dipendenza della Chiesa da Cristo, Sole di cui essa riflette la luce. Era un modo
per esprimere quanto Cristo stesso dice, presentandosi come " luce del mondo " (Gv 8,12) e chiedendo insieme ai suoi
discepoli di essere " la luce del mondo " (Mt 5,14).
È un compito, questo, che ci fa trepidare, se guardiamo alla debolezza che ci rende tanto spesso opachi e pieni di ombre.
Ma è compito possibile, se esponendoci alla luce di Cristo, sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi.
55. È in quest'ottica che si pone anche la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà
ancora impegnati, nella linea indicata dal Concilio Vaticano II. Negli anni che hanno preparato il Grande Giubileo la
Chiesa ha tentato, anche con incontri di notevole rilevanza simbolica, di delineare un rapporto di apertura e dialogo con
esponenti di altre religioni. Il dialogo deve continuare. Nella condizione di più spiccato pluralismo culturale e religioso,
quale si va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro
presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue tanti periodi
nella storia dell'umanità. Il nome dell'unico Dio deve diventare sempre di più, qual è, un nome di pace e un imperativo
di pace.
56. Ma il dialogo non può essere fondato sull'indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di svilupparlo
offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa
costituire offesa all'altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va a tutti proposto
con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della rivelazione del Dio-Amore che " ha tanto amato il
mondo da dare il suo Figlio unigenito " (Gv 3,16). Tutto questo, come è stato anche recentemente sottolineato dalla
Dichiarazione Dominus Iesus, non può essere oggetto di una sorta di trattativa dialogica, quasi fosse per noi una
semplice opinione: è invece per noi grazia che ci riempie di gioia, è notizia che abbiamo il dovere di annunciare.
La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all'attività missionaria verso i popoli, e resta compito prioritario della missio
ad gentes l'annuncio che è nel Cristo, " Via, Verità e Vita " (Gv 14,6), che gli uomini trovano la salvezza. Il dialogo
interreligioso "non può semplicemente sostituire l'annuncio, ma resta orientato verso l'annuncio". Il dovere missionario,
d'altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all'ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al
mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa
non finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cfr Gv 14,17), al quale appunto
compete di portarla alla " pienezza della verità " (cfr Gv 16,13).
Questo principio è alla base non solo dell'inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma anche del
dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che " soffia dove vuole "
(Gv 3,8), suscita nell'esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza,
che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è
stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i " segni dei
tempi?". Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i " veri segni della presenza o del disegno di Dio
", la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche " ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano". Questo
atteggiamento di apertura e insieme di attento discernimento il Concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre
religioni. Tocca a noi seguirne l'insegnamento e la traccia con grande fedeltà.
consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali. La dissociazione, che si costata in
molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo”.
2
SINTESI DEI GRUPPI DI LAVORO
Dopo le introduzioni dei moderatori, i lavori del convegno sono proseguiti nei gruppi dove i
partecipanti sono stati invitati a dare suggerimenti secondo le seguenti domande:
• Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel 'servizio' dove operi … perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
N.B. Si è preferito riprodurre i testi così come sono giunti alla segreteria senza fare sintesi che ne
avrebbero inevitabilmente ridotto la ricchezza. Naturalmente c’è disuguaglianza tra una e l’altra sia
per stile che per modalità scelta nell’esporre gli interventi. Da notare che non tutti i gruppi hanno
fornito le sintesi.
2
DIMENSIONE VOCAZIONALE
Ha coinvolto i catechisti dei ragazzi e della iniziazione cristiana, gli animatori dei gruppi di
adolescenti e di giovani, i catechisti che preparano le coppie di fidanzati al matrimonio, gli
animatori dei gruppi di famiglie, i catechisti che preparano i genitori al battesimo dei bambini
INIZIAZIONE CRISTIANA
Primo gruppo
•
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel “servizio” dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
In una realtà problematica e con riferimenti confusi e spesso contraddittori non basta una
catechesi così come è strutturata. Anche nella catechesi si continua a ruotare intorno al proprio asse
invece di ruotare intorno a Gesù che è centro e luce di ogni nostra azione. Lui è il maestro da
seguire e da far conoscere, solo se siamo attratti da lui potremmo trasmettere questa passione agli
altri, in particolare ai ragazzi. Il male è che spesso siamo chiamati alla missione di catechisti senza
la preoccupazione di sapere se effettivamente viviamo un’esperienza di relazione con Gesù,
semplicemente siamo chiamati per tappare dei buchi, perché la catechesi, la preparazione ai
sacramenti si deve fare. Da dove comincia e dove continua la nostra formazione laicale al servizio e
alla missione? Siamo soli, ci sentiamo inutili, inadeguati.
Occorre una “rivoluzione” della mentalità. Questa rivoluzione può provocarla solo Gesù,
la sua parola, che ci interpella, che ci apre alla relazione, che non esclude il mondo. Prima di
essere catechisti bisogna imparare ad essere discepoli.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
Tutti noi operatori delle comunità nei vari ambiti viviamo il nostro servizio nella paura di
fare entrare il mondo, preferendo rifugiarsi nella tradizione o in un riflusso devozionale.
Demonizzare il mondo senza cercare di interpretarlo alla luce dell’amore di Cristo ci rende
operatori sterili e poco credibili. Da Gesù s’impara a creare una rete di relazioni che non esclude
nessuno purchè sforzandoci di conformarci a lui, sappiamo abbassarci e rinunciare a qualcosa di sé.
Per tutti deve passare il messaggio che Dio è amore, così per il catechista come per gli altri
operatori scatta il desiderio della ricerca, di un incontro con una persona che, anche se non ce ne
accorgiamo, è dentro la nostra storia personale e comunitaria.
Non più perciò gruppi istituzionalizzati e chiusi in se stessi, ma gruppi che convergono e
partono da un unico centro attraverso un’autentica relazione con Gesù alimentata dall’ascolto
della sua parola per un autentico rapporto con noi stessi con la comunità cristiana e col mondo.
•
Cosa suggerisci per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
La Zona può offrire una formazione unitaria avendo però prima individuato i limiti e le
possibilità, la situazione logistica, le differenze, i radicalismi che legano ogni comunità al proprio
campanile.
In presenza di questi limiti occorrerebbe costituire laboratori, aperti a tutti gli operatori
pastorali, nei quali ci si confronta sulle diverse esperienze, lette a partire dall’annuncio di una
Parola, di una persona che è venuta per unire e non per dividere.(primo annuncio)
Per le Zone più sensibilizzate o che abbiano già fatto alcune esperienze di incontri unitari
sarebbe opportuno centrare la formazione sull’Eucaristia perché diventi esperienza personale e
3
comunitaria, punto di partenza del discepolato e della missione di tutti gli operatori pastorali.
Sarebbero auspicabili anche incontri con specialisti per sviluppare il discernimento su temi che ci
interpellano, essendo anche cittadini del mondo.
Secondo gruppo
1. Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel “servizio” dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
•
Il fatto di essere qui è già segno che c’è in noi una volontà di esser discepoli.
•
Non cambierei niente all’interno della mia parrocchia, ma darei maggiore valore ed importanza
a far fare ai ragazzi e a noi stessi esperienza di Dio. Ma come? Attraverso cosa? Se i ragazzi
riuscissero veramente a fare esperienza di Dio non potrebbero abbandonarlo dopo la cresima:
non si può abbandonare l’amore di Dio dopo che lo si è conosciuto.
•
L’incontro con il Signore deve farci diventare guide degli altri e non pecore del mondo.
•
È importante entrare in relazione con il ragazzo, ma purtroppo l’alto numero dei bimbi nelle
classi e la breve ora di catechismo non permettono relazioni profonde e soprattutto al ragazzo di
fare delle domande. C’è bisogno di maggiore relazione con i bimbi per controbattere tutti i
messaggi negativi che li investono.
•
È molto importante anche la relazione con i genitori.
•
Quando facciamo catechesi è importante fare l’annuncio, come si può altrimenti contemplare il
volto di Gesù se non lo conosci? Cosa contempli?
•
Si può dire e fare tutto con i ragazzi ma se non hanno poi un riscontro nella famiglia di quello
che ascoltano si conclude poco.
•
I bimbi vivono molto anche la vergogna dell’essere cristiani, la paura di essere presi in giro.
•
Fare catechismo per avere risultati non va bene. Va fatto solo per il piacere di farlo. È
importante anche collaborare con altri catechisti e con altre classi. I bimbi sono segnati dalla
gioia, dalla generosità, dall’impegno dei catechisti. Ci vuole gioia nell’annunciare il messaggio
di Cristo.
•
Il servizio del catechista deve essere un piccolo tassello insieme a tanti altri che stimolano il
ragazzo. Il catechista deve collaborare con le famiglie e viceversa.
•
Si dovrebbe creare una relazione con le famiglie e cercare di capire perché questi genitori non
sono molto disponibili a far partecipare i propri figli all’attività parrocchiali. Dobbiamo
imparare forse di più ad accoglierli. Cerchiamo perciò di superare le nostre difficoltà e le nostre
chiusure.
2. Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
•
Ci vuole un obiettivo comune in tutto il consiglio pastorale. Tutti devono lavorare per la stessa
cosa, ognuno secondo il proprio gruppo di appartenenza: catechisti, caritas, donatori di
sangue… Tutti i gruppi devono saper tutto di tutti. Dobbiamo lavorare insieme. Ci vuole quindi
una maggiore apertura verso gli altri catechisti o gruppi, una collaborazione più aperta.
3
•
Nelle parrocchie più grandi alcuni incontri potrebbero essere tenuti da rappresentanti di altri
gruppi per dare una testimonianza di come vivono il proprio cristianesimo: una suora, una
persona del gruppo caritas… I ragazzi devono vedere delle testimonianze di come si vive il
cristianesimo.
3. Cosa suggerisci per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
•
Si opera troppo a settori e non c’è collegamento e collaborazione tra i vari settori. Forse un po’
di colpa l’ha anche il parroco in questo. Se i ragazzi vedessero una comunità vera avrebbero già
una significativa testimonianza. Per lavorare insieme ci vuole del collegamento che può essere
anche un semplice foglio informativo con tutti gli impegni dei vari gruppi.
•
Fare incontri per scambiarsi esperienze e per conoscersi.
Terzo gruppo
1. Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel “servizio” dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
•
pensare al discepolato non come cose da fare, ma come modalità di vivere la fede
•
centralità rapporto con le famiglie, insieme dare l’esempio
•
trovare un nuovo stile di vita che emerge dal discepolato
•
ridimensionare il fare, dare spazio alla contemplazione e l’ascesi, interrogarsi ogni giorno
•
ascolto giornaliero della Parola che cala nella vita e genera vita
•
consapevolezza di non essere mai arrivati, sapere che abbiamo sempre bisogno di Lui
•
saper mettersi da parte per aiutare gli altri a crescere.
•
fare gli accompagnatori e non gli insegnanti
2. Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
•
la comunità cresce nella misura in cui siamo discepoli, più apertura personale
•
fare incontri per tutti gli operatori sulla Parola che ci aiuta a scoprire i propri doni
•
per metterci a servizio ognuno per la sua parte in un unico corpo
•
essere sempre in ascolto, in dialogo, in confronto che spesso manca, non scandalizzarci dei
propri limiti
•
far spazio alla comunione delle differenze, non prevaricare
3. Cosa suggerisci per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
•
…che intanto ci sia.
•
che i sacerdoti e tutti credano nell’UNITA’. Trovare unitarietà di intenti
•
formazione su dimensioni anche antropologiche prima di iniziare le varie attività
3
•
formazioni metodologiche servono solo dopo l’incontro col Cristo, quindi più aiuti per la
crescita personale
•
importanti gli incontri zonali per aprirci e arricchirci delle esperienze altrui
GRUPPO ANIMATORI DEGLI ADOLESCENTI
•
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel “servizio” dove operi … perché sia vissuto
come esperienza di discepolato ?
-In alcune parrocchie c’è bisogno di cambiare il tipo di catechesi (è ancora di tipo scolastico)
-Occorre partire a cambiare da noi stessi
-Promuovere i seguenti atteggiamenti:
fraternità
familiarità
ascolto
accoglienza
catechesi come accompagnamento
-Innalzare l’età della cresima per accompagnare i ragazzi per un periodo più lungo
-Concordare il cammino di iniziazione cristiana sia all’interno della parrocchia che nella diocesi
-Cammino unitario all’interno della fascia adolescenziale
-Imparare a “diminuire” e rendersi conto che la catechesi è solo una parte.
-Non è sufficiente stare insieme, proporre attività ricreative. (Non è stata fatta però una proposta).
-Aiutare i ragazzi a porsi domande
-Catechesi più esperienziale, di incontro con altre realtà
•
2) Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia / unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato ?
-Riscoperta dell’”essere famiglia”, parrocchia meno strutturata.
-Mentalità meno schematica
-Dialogare fra i vari gruppi nella comunità, eliminare le divisioni dei vari gruppi e fare un’unica
assemblea
-Rivedere la nostra mentalità, imparare a muoverci, a trasformarci.
Cambiare mentalità e linguaggio (con termini più umani, più vicini a noi). Un primo passo nel
cambio di mentalità si ha passando da “operatori” a “discepoli”.
-La Diocesi dovrebbe dare un cammino unitario, dei percorsi più chiari, più definiti
-Maggior apertura verso gli altri nella comunità (non viene indicato come).
-Proposta di sospendere la catechesi e le altre attività per un anno per ripensarci alla luce della
Parola
3
-Smettere di pensare troppo all’organizzazione e andare all’essenziale
-Riscoprire i punti di unità tra i diversi gruppi
-Maturare una corresponsabilità fra i vari gruppi (siamo troppo isolati nelle nostre realtà)
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona ?
-Esiste la zona ?
-Maggiore unione fra le varie unità pastorali per uno scambio di esperienze, per fare un cammino
unitario. (Fare in modo che non ci siano parrocchie dove si “danno facilmente i sacramenti”).
-Abbiamo bisogno di “destrutturalizzarci” e “ricostruirci”.
Occorre rimettersi dietro a Gesù.
-Riproporre incontri periodici zonali per tutti i “discepoli”, incontri per confronto e scambio, per
mettere insieme i bisogni e per lavorare insieme. Già il conoscerci tutti sarebbe importante.
-Incontri zonali per tutti i “discepoli” sulla Parola, che è ciò che ci unisce.
-Formazione di base sui contenuti della fede
-Importanza della verifica delle esperienze che si fanno
-Privilegiare la zona sui vari impegni parrocchiali
GRUPPO ANIMATORI GIOVANI
Punti focali:
• L’esperienza del discepolato sia l’elemento unificatore per una pastorale unitaria.
Diversifichiamo i percorsi, i linguaggi ma unifichiamo l’atteggiamento spirituale che li
anima.
•
L’esperienza di discepolato per un animatore sia l’esperienza dello “stare accanto”, sia
l’atteggiamento “dell’incontro”, sia “essere lì” con i giovani, cuore a cuore.
•
Rendiamo più visibile e abbordabile il cammino del discepolo, non lo releghiamo a percorsi
di eccellenza di cammini spirituali, umanizziamo, non idealizziamo l’esperienza di fede
come perfezione: formiamoci ed educhiamo i giovani ( e le comunità) all’esperienza del
limite e della bellezza che deriva dall’essere alla sequela del Signore “zoppicanti” ma amati.
•
I cambiamenti repentini e continui ci impongono di dover comunicare il Signore e la sua
chiamata al “discepolo” immergendo la proposta nella vita, e là dove la vita dei giovani si
spende e a volte si sciupa. Facciamo nascere domande di senso là dove i giovani sono
vulnerabili: nella strada, sul muretto, nel lavoro, nel buio. L’esperienza del discepolo non è
elitaria, è per tutti.
•
L’esperienza della sequela del Signore è qualcosa di bello per la vita. Questo deve essere
l’obiettivo della nostra azione educativa. Formiamoci e viviamo anche noi educatori” una
vita spirituale più ricca, più curata, perchè gli entusiasmi, le passioni siano supportate dalla
speranza che “siamo servi inutili” perché la “vigna è la Sua”.
•
Il discepolo è Uomo di Vita e quindi il ‘servizio’ che noi operiamo deve inserirsi e deve
conoscere la vita dei nostri giovani.
3
•
L’adolescenza anticipata nel nascere ma non nella sua conclusione, ci chiede di cambiare
atteggiamenti educativi: la lezione di catechismo già a 13-14 anni non è più motivante: sia
l’esperienza il modello educativo e pedagogico.
•
L’esperienza del discepolato per un educatore di giovani è importante per comprendere il
passaggio da ‘catechista’ ad ‘educatore’. Non è un passaggio solamente formale, rispecchia
invece un cambiamento di ‘servizio’ e di disponibilità. L’educatore è tale a tempo pieno,
non solo quando è con i ‘suoi’ giovani nel gruppo ma in ogni momento. Non è la platea
diversa che ci fa diversi ( dai ragazzi del catechismo ai giovani) ma è come e dove ti poni
con loro. L’educatore sta accanto, non più di fronte a ‘trasmettere’, bensì accanto a ‘sentire’
l’aria che respirano, le tensioni che vivono, il mondo che vedono.
•
C’è necessità di una formazione comune per le nostre comunità intorno alla Parola, poi si
parte per la programmazione dei singoli servizi. Gli organismi zonali siano comunitari e non
divisi per ministerialità. Perché pensare a ritiri per i preti e poi altri per i laici? C’è bisogno
di sperimentare nella differenza un percorso comune per conoscersi (laici e sacerdoti) anche
nei nostri percorsi di discepolato.
Opinioni diverse :
• Il percorso formativo per il discepolo non nasce dall’evento e da una pastorale degli eventi,
il discepolo si spende nel quotidiano della propria esistenza e della parrocchia.
Gli eventi non radicano al territorio, non radicano all’impegno; gli eventi si esauriscono
come fuochi di paglia.
•
La sequela del Signore per molti “personaggi” del vangelo nasce dalla straordinarietà e dalla
personalizzazione della relazione ( es. la samaritana…) poi l’incontro rende straordinario il
quotidiano. Per i giovani “l’evento” è il fattore scatenante di emozioni, di relazioni, di
passioni…sta all’educatore alla fede fare dell’evento, lo strumento per “andare oltre”.
(a cura di Ufficio per l’evangelizzazione)
3
DIMENSIONE ORANTE
I gruppi di studio composti da animatori dei gruppi biblici, gruppi liturgici, animatori dei
gruppi di preghiera, i direttori dei cori parrocchiali alcuni atteggiamenti e alcune proposte da portare
poi nella discussione nelle zone pastorali.
1) Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
Dalla discussione nei gruppi è emerso che è necessario aiutare coloro che fanno un cammino
di fede a prendere coscienza che il discepolo è un ORANTE. Ciò significa che il discepolo è
chiamato a entrare profondamente nella preghiera del suo Maestro e quindi nell’esperienza di
figliolanza di Gesù nei confronti del Padre suo. Il discepolo che si pone con Gesù davanti a Dio
come figlio lo “glorifica” con Gesù stesso, rivelandolo al mondo proprio come Padre. La comunità
cristiana, cosciente di essere comunità orante in Cristo e come Cristo dovrà vivere questa sua
dimensione, non limitandosi a insegnare le preghiere al catechismo o a migliorare semplicemente lo
stile delle sue celebrazioni, ma dovrà prendere coscienza di questa sua realtà di popolo che vive
Cristo e, con Cristo nello Spirito, entra nel dialogo orante col Padre.
Questo essere ORANTI in Cristo ci fa essere partecipi della vita di Dio, inseriti nella
comunione trinitaria. Tutto ciò ci permetterà di essere autentici discepoli che con Gesù loro maestro
sono figli del Padre. Ogni nostra attività pastorale deve allora partire da questa presa di coscienza,
da questo dato di fatto, che mai può essere dato per scontato.
È allora necessario che il nostro modo di pregare sia sempre più modellato sulla preghiera di
Cristo e non dimentichi mai la sua essenziale mediazione. È necessario che la nostra preghiera parta
da un ascolto attento della Parola di Dio, soprattutto quella proclamata durante la celebrazione
liturgica; proprio nella celebrazione liturgica possiamo entrare nel dialogo di Gesù con Dio Padre.
2) Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
Per essere autentici discepoli di Gesù i gruppi hanno evidenziato come sia necessario
mettere al centro della nostra azione pastorale la celebrazione domenicale comunitaria. In essa,
tramite l’ascolto della Parola e i gesti liturgici, si fa esperienza di preghiera entrando nella
comunione di Gesù Cristo con il Padre che è nei cieli grazie all’azione dello Spirito.
Il primo impegno che è sembrato necessario assumere e proporre alle comunità è quello di
riscoprire la celebrazione domenicale come realtà fondante la nostra esperienza di fede. Per questo
il cammino della comunità cristiana deve sempre più proporsi come un itinerario “da domenica a
domenica” e questo deve coinvolgere tutta la vita della parrocchia.
Si è proposto che durante la settimana i cristiani che vivono in un determinato territorio si
ritrovino tutti insieme, superando i particolarismi dei vari gruppi parrocchiali (questo è richiesto
soprattutto agli operatori pastorali), per momenti fraterni confrontandosi su ciò che hanno
sperimentato nella celebrazione dell’eucaristia della domenica precedente (Parola proclamata, gesti
compiuti) e per prepararsi a quella della domenica seguente; questo incontro diventa occasione per
crescere insieme sulla base dell’esperienza di fede vissuta nella celebrazione e nello stesso tempo
diventa verifica per la vita della comunità.
3. Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
A livello zonale si auspicano momenti di formazione liturgica per comprendere i riti è il
legame tra Liturgia e Parola di Dio. Sono poi necessari, pur nelle diversità dei cammini zonali, dei
momenti di preghiera a livello zonale.
(a cura di F.B.)
3
DIMENSIONE TESTIMONIALE
A questo ambito hanno partecipato componenti delle Caritas parrocchiali, gli appartenenti alle
Conferenze San Vincenzo, diaconi e ministri della Comunione.
La suddivisione in gruppi è stata agevolata da cartoncini colorati; per questo motivo le sintesi
sono riportate con il nome dei colori dei gruppi. Molti interventi sono stati riportai in prima persona
e assumono così l’aspetto di testimonianza diretta della propria situazione
gruppo rosso
•
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
Puntare sull’essere piuttosto che sulla forma della Carità. Partire dalla conversione di noi
stessi, ponendo l’accento sull’intenzione che ci muove,sull’azione che deve animare la nostra scelta
di mettere i bisognosi al centro della propria azione.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
Superando i personalismi nei nostri gruppi,lavorando amichevolmente e nell’amore verso gli
altri, possiamo cercare di migliorare i nostri stili di vita per poterli rendere visibili per essere
stimolo al resto della comunità.
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
Collaborare con i parroci per far si che le varie realtà operanti nell’area testimoniale presenti
nelle unità pastorali possono riunirsi per cercare comuni sinergie.
gruppo verde
1) Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
Per i Ministri della Comunione:la gioia intensa che scaturisce dalla consapevolezza di aver
portato Cristo ad una persona ammalata. Il rapporto che si instaura con i famigliari dell’infermo che
crea una piccola comunione di rispetto. Il senso di umiltà che pervade sapendo di essere stato lo
strumento di un’azione tanto importante e bella. Il fatto di rappresentare la Comunità che si prende
cura di una persona che in quel momento potrebbe sentirsi emarginata.
Per il Gruppo Caritas: L’affinare il senso dell’ascolto del prossimo e la gioia finale di aver
reso un servizio gradito al signore.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
Per la Caritas : partire dalla catechesi nella quale svolgono un ruolo preminente le famiglie,
nella formazione e nella sensibilizzazione verso il povero, perché Cristo si rivela soprattutto nel
volto del povero. Fare riunioni allargate con tutti gli altri operatori o gruppi parrocchiali. Portare a
3
conoscenza di coloro che sono fuori dai singoli gruppi,quali sono le loro attività e le loro iniziative
portate avanti.
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
Per le zone pastorali individuare anzitutto una unità di intendimento in quelli che sono gli
aspetti fondanti delle singole comunità,alla luce dell’insegnamento di Cristo. Scuola di formazione
permanente, con cadenza annuale, che serva a tutti i gruppi e operatori tenuta da esperti in materia
religiosa.
gruppo grigio
•
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
L’individualismo che spinge ad agire in maniera poco comunicativa. Ciò porta anche a una
compartimentazione senza confronto e collaborazione.
Si richiede una formazione spirituale più intensa da cui trovare le motivazioni profonde della Carità.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
La quasi assenza di giovani che non si sentono stimolati ad un impegno duraturo,suggerisce la
necessità di una pastorale a loro indirizzata.
Si auspica una maggiore attenzione alla persona più che ai bisogni, l’ascolto più che l’intervento.
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
Proposta per una formazione unitaria degli operatori pastorali, un incontro “forte” a livello
zonale da tenersi all’inizio dell’anno pastorale, magari trascorrendo una mezza giornata insieme. Un
modo per conoscerci e darci una scossa.
gruppo arancio
•
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
Invito personale a comprendere il significato di essere “discepolo del Signore”;
Vedere Gesù negli ultimi;
il servizio deve essere una “ testimonianza completa di amore.
Essere dono di sé per gli altri”.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
Mettere in comune le esperienze e crescere nella fede in Cristo. Interrogarsi dei bisogni delle
proprie realtà.
Momenti di comunione e di preghiera insieme
3
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
Fare lectio Divina- lasciarsi guidare dalla Parola di Dio.
Mettere in comune le proprie esperienza
Scelta di obiettivi comuni
Impegno di realizzare un’opera di carità zonale
•
gruppo blu
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
−
−
−
−
−
−
Eucaristia
Adorazione
Preghiera
L’amore di cristo entra in me, mi da la forza, la grazia per affrontare situazioni anche difficili.
Evangelizzare vuol dire anche far riferimento a gesti semplici( carezza,uno sguardo,un sorriso)
Occorre sinergie da parte di tutti per studiare e segnalare i bisogni (la contemplazione
dell’uomo,con il suo cuore,le sue paure)
− Riconoscersi dei salvati e conseguentemente tendere ad una crescita che ci possa indirizzare
verso gli ultimi e non verso i più facili.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
− Occorre riprendere consapevolezza della nostra ministerialità, della corresponsabilità che tutti
abbiamo nella Chiesa.
− Occorre trovare momenti di preghiera comunitaria,di adorazione.
− Creare relazioni di accoglienza all’interno della comunità, guardarci con occhi benevoli, saper
aspettare anche chi fatica o ha un passo più lento del nostro.
− La comunità in sé non esiste,c’è invece una Comunità che può diventare Comunione e questo si
realizza intorno all’ Eucaristia,in particolare la celebrazione domenicale.
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
− Si consiglia almeno 1 ritiro mensile di preghiera cui abbinare anche eventuali forme di
rinuncia(sostenuti anche da unità di intenti dei parroci)
− Formazione sulla Lectio Divina,come è stata indicata dall’Itinerario Pastorale
gruppo giallo
•
Cosa dovrebbe cambiare o cosa promuovere nel servizio dove operi perché sia vissuto come
esperienza di discepolato?
− Mi fa crescere la dimensione accanto al malato,che ci trasforma per diventare l’altro,siamo servi
chiamati ad operare nella Vigna del Signore
− Un esercizio d’amore
− Il discepolo è colui che segue e mette Gesù al primo posto
− Ognuno è una cosa personale - Gesù è al primo posto sempre
3
− Spesso si dimentica - per esempio non posso andare alla messa perché mi aspettano i bisognosi
accanto alla Chiesa.
− L’ascolto di Dio ci aiuta all’Ascolto dell’altro. Se ascolto Dio, ascolto anche gli altri
− In questo servizio c’è il rischio di diventare noi protagonisti al posto di Gesù Cristo.
− Io mi porgo sempre con pazienza, amore e rispetto verso i bisognosi
− Nel servizio con gli immigrati io devo amare l’altro e spesso loro sono esigenti ed è difficile
avere pazienza. Ma cerco di vederci Gesù e penso al comandamento d’amore verso gli altri
come noi stessi e bisogna vedere Gesù in queste persone.
− La mia dimensione che mi prefiggo è di una collaborazione fra queste realtà diverse per lavorare
meglio insieme.
− Come ministro della Comunione ai malati, mi manca la comunicazione alla Comunità
− Aspetto dell’accoglienza,mancando il bisogno di comunità facendosi carico di una persona in
tutte le sue sfaccettature.
− Spesso il volto dell’altro è un volto che non si fa contemplare(spesso è sofferente – ci fa sensoci spinge a voltarci dall’altra parte) ci vuole un vero cammino spirituale.
•
Cosa fare con gli altri operatori della tua comunità (parrocchia/unità pastorale) per farla
maturare nella prospettiva del discepolato?
− Nelle Parrocchie ognuno è chiuso nel suo gruppetto parrocchia non pronte all’apertura spesso
nelle persone più mature. Grossi problemi di inserimento nelle parrocchie.
− Un’altra esperienza diversa in un’altra parrocchia dove il parroco riesce ad essere ad essere
legante fra le persone e quindi i vari ruoli si intersecano fra di loro e si scambiano con unico
fine l’amore di Cristo.
− Il Padre Pastore è molto importante per far crescere la comunità
− Esempio concreto di Vicopelago, dove aprire una casa di accoglienza per donne e bambini
all’inizio le persone erano contrarie poi con l’aiuto del parroco tutti ora si rendono disponibili
per aiutare tutti.
− In un’altra parrocchia ci sono tante attività con la partecipazione di persone giovani e più mature
nei momenti di attività e nei momenti di preghiera.
− E’ importante conoscere altre parrocchie con loro attività per conoscere e imparare dove le cose
funzionano meglio anche utilizzando strumenti elettronici(computer) per diffondere notizie in
rete.
− Il nostro compito e far conoscere agli altri l’operato l’uno dell’altro per creare veramente
comunità
− A che punto è la catechesi è l’approfondimento della Parola di Dio nella Parrocchia? Nella mia
parrocchia si cura molto l’aspetto anche del messaggio evangelico. Noi abbiamo ospitato due
coniugi rumeni un anno circa e adesso si integrati bene anche con l’aiuto della comunità. Si
deve concimare bene per avere buoni frutti
− Nella mia parrocchia abbiamo realizzato un progetto di accoglienza di bambini russi chiedendo
aiuto a persone del paese per raccogliere soldi,far da mangiare ecc…. ma adesso si deve
lavorare sull’aspetto spirituale e sulla continuità. Se le persone sono sollecitate danno una
risposta immediata e spontanea.
− La preghiera rende le persone migliori perché è lo Spirito Santo che agisce e la comunità deve
andare avanti anche senza leader.
− Il parroco è quello che mette le radici poi ognuno deve continuare da sé con l’aiuto di Dio che il
parroco ha fatto conoscere.
− Un po’ tutti partono del parroco e dove il parroco è discepolo riesce a dare l’imput. Ma i nuovi
parroci si formano anche per la pastorale della Carità? In seminario forse non è molto curata
come dovrebbe.
4
− In una parrocchia di Viareggio si lamenta che ci sono grossi problemi: “Non riusciamo ad essere
comunità nonostante che il parroco ci stimoli in questo. C’è tutto per fare Centro di Accoglienza
ma tutti sono contrari”.
− Un’altra testimonianza: quando il parroco se ne è andato si è portato dietro tutta la comunità
giovanile
− La comunità parte dalla partecipazione all’Eucaristia
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali nella Zona?
− Una volta, 15 anni fa si è svolto una giornata dove abbiamo conosciuto le varie associazioni ed è
stata un’esperienza positiva che non si è più svolta,ognuno portava la sua esperienza e questo
era formativo.
− Incontri di preghiera e di formazione a livello zonale una volta al mese.
− L’anno scorso c’erano incontri nella nostra zona sub. I da parte di Don Brunini che erano molto
interessanti ma come prima esperienza ognuno andò nella sua parrocchia,andrebbe ripetuta.
− Proporrei anche la lettura del Vangelo e poi discutere tra di noi per scambiarsi i punti di vista
personali.
− Si deve aiutare le persone bisognose a responsabilizzarsi senza ricorrere sempre
all’assistenzialismo
− Importante la carità dell’anziano, dell’ ammalato o del carcerato,andare a fare visita senza
aspettare che ci vengano a bussare alla porta.
− 80% dei carcerati sono immigrati e non hanno niente. Se gli scade il permesso quando sono in
carcere nessuno fa niente. Nessuno va a trovarli e sono soli
(a cura di Caritas diocesana)
4
DIMENSIONE DIALOGICA
N.B. Le domande di questo ambito, data la particolarità degli operatori invitati a partecipare
(membri di gruppi di animazione missionaria, insegnanti di religione, operatori nel campo dei
migrantes, animatori di ecumenismo, animatori culturali) erano formulate in modo leggermente
diverso.
domande
• A partire dall'ambito dove lavori (missioni, dialogo culturale-interreligioso-ecumenico, scuola)
quali indicazioni daresti perché il cristianesimo possa essere compreso come esperienza di
discepolato?
•
Secondo quanto ti suggerisce l’esperienza nel tuo ambito di servizio, quali aspetti vanno
privilegiati perché le comunità parrocchiali diventino luogo dove la fede sia vissuta come
esperienza di discepolato?
•
Cosa suggeriresti per una formazione unitaria degli operatori pastorali a livello di Zona?
•
Quali suggerimenti daresti alla nostra diocesi perché cresca la cooperazione con le altre chiese
cattoliche, il rapporto con gli immigrati, il dialogo con le altre chiese, con le altre religioni, con
le culture?
Gli insegnanti di religione
perché i ragazzi facciamo esperienza di fede come discepolato suggeriscono:
• che nelle parrocchie sia più viva l’esperienza di gruppo
• che ci sia sinergia tra famiglia, scuola, parrocchia
più in generale sottolineano l’urgenza che la parrocchia
• sia luogo di accoglienza di tutti e di maggiore ascolto;
• aiuti il passaggio da una religiosità tradizionale alla gioia della fede.
• si assuma il peso del primo annuncio della fede
Primo Gruppo
Nel gruppo la discussione ha indicato che le dimensioni del discepolato importanti per
l'ambito del dialogo sono l'identità, senza la quale non ci può essere vero dialogo, e l'ascolto.
Ascolto della Parola di Dio, perchè il discepolo è colui che ascolta, ma ascolto anche dell'altro. Per
questo una delle proposte è quella di creare maggiori opportunità di incontro con la Parola di Dio.
A questo punto, però, è stata evidenziata anche la mancanza di persone idonee a guidare gli
incontri con la Parola di Dio.
Si è rilevata anche la mancanza di verifiche del cammino percorso e la mancata conoscenza
4
delle diverse esigenze delle persone che vivono nel nostro territorio. Per questo è stato proposto di
partire dalle esigenze e dalle problematiche delle persone, attraverso, per esempio, "focus" di
gruppo per conoscere meglio i problemi e le esigenze.
Un'altra dimensione importante da sviluppare è quella orante, bisogna creare più occasioni per
la preghiera comune, cercando di creare anche uno scambio fra le diverse esperienze di preghiera
che si svolgono sul territorio.
Secondo gruppo
La discussione è iniziata contestualmente alla presentazione, nel senso che soprattutto alcuni
hanno iniziato ad esporre l’attività svolta in parrocchia, in prevalenza in seno ai Gruppi Missionari,
esponendo le attività compiute, i pregi e le difficoltà nel rapportarsi con gli altri parrocchiani.
Il discorso a ruota libera è stato un modo, magari disordinato, per dare alcune risposte alle
domande che ci sono state poste. La discussione si è incentrata in particolare sui modi attraverso i
quali far rifluire l’attività dei gruppi missionari entro le parrocchie, attivando una sorta di
“trasmissione di esperienze” e di conoscenze (apertura di finestre sul mondo). Sviluppare insomma
una sensibilità missionaria non come “una” tra le molte attività della parrocchia, ma come una
caratteristica fondante dell’essere-parrocchia e dell’essere-comunità. Qualcuno ha parlato di
“doppio movimento” della attività missionaria, verso l’interno della chiesa (delle comunità) e verso
quelle realtà che si vogliono aiutare.
E’ venuta così fuori, quasi all’inizio, una risposta alla III domanda, nel senso che si è notata
una forte discrasia tra le varie attività, una carenza di coordinamento, una tendenza a “far da sé” dei
vari gruppi parrocchiali missionari (che tra l’altro non esistono in tutte le parrocchie). Ci dovrebbe
essere insomma un coordinamento più stretto tra i vari gruppi, con un ruolo dell’Ufficio diocesano
non solo di stimolo ma anche di “censimento” delle varie attività esercitate nelle singole parrocchie.
Sul terreno della missionarietà, infatti, l’iniziativa dei singoli gruppi e spesso delle singole persone
rappresenta una risorsa importante, si riesce così a entrare in contatto con le realtà più diversificate
e la possibilità di far rifluire un tesoro di esperienze nelle parrocchie e nella Diocesi ne esce
aumentata. Sarebbe comunque importante che coloro che operano su queste terreno si conoscessero,
partecipassero a momenti di formazione in comune. Iniziative in comune e conoscenza reciproca.
La risposta alla I e II domanda – anche in questo caso, fornita nel corso di una discussione un
po’ priva di un filo comune – ha sottolineato la necessità di ripartire da Gesù, di porre la sua vita e il
suo esempio al centro dei percorsi di preghiera e di liturgia all’interno delle parrocchie. Importante
è quindi seguire la “radicalità” del Vangelo, senza preoccuparci dei numeri e senza ridurre le
parrocchie alle sole attività richieste da molti, ma che le renderebbero solo delle agenzie
sacramentali. Alcuni, a riguardo, hanno citato l’intervento della domenica del vescovo Sigalini,
pronunziato in cattedrale. Si deve insomma puntare a una “evangelizzazione” delle comunità per
rafforzare la propria dimensione cristiana, chiarire “ciò che si è”, prima di testimoniarlo agli altri.
Preghiera, Vangelo e Eucaristia sono le tre cose da porre al primo posto.
Il “dialogo” deve insomma avvenire sia con gli “altri” (chi non crede, chi crede in altre
confessioni cristiane, chi in altre religioni) che con le nostre comunità, spesso imbarbarite e ancora
troppo incentrate su una prassi sacramentale (si è recepito il Concilio nelle sue forme nuove ma non
nella sua sostanza nuova) e tradizionale. Si deve essere più espliciti, parlare di più di Gesù. Su
questo, c’è però molta difficoltà. Verso la fede tradizionale, anche perché il popolo di Dio è stato
abituato in questo modo proprio dal clero e dalla gerarchia ecclesiastica. E perché le realtà
parrocchiali sono talmente diversificate, che il fedele posto di fronte a scelte radicali continua ad
aver la possibilità di giocare al ribasso iniziando il suo “turismo delle fede” tra un ambiente e
4
l’altro. E’ stato anche detto che le Unità Pastorali potrebbero essere una soluzione, ma si tratta di
una soluzione alla quale i cristiani forse non sono ancora preparati. Certo è che si dovrebbe iniziare
a “fare sistema” almeno tra gli operatori pastorali di una stessa zona.
Sul terreno specifico degli operatori missionari, si è sottolineato come debba sempre rimanere
l’attenzione alla formazione personale, spirituale, alla preghiera; la missionarietà non ha solo un
risvolto sociale, ci sono delle “specificità” del cristiano che si fa missionario e che evitano che la
sua attività diventi volontariato fine a se stesso. Le motivazioni sono umane, di giustizia sociale, ma
soprattutto evangeliche.
Infine, alla IV domanda non si è quasi risposto.
Sono emerse però diverse indicazioni sulla necessità di confrontarsi con la realtà dei
“migranti”, che necessità forse di una “specificità pastorale”. Sono una realtà importante, in alcuni
casi persone che hanno bisogno della esperienza religiosa, che la cercano, che talvolta la chiedono
dalle nostre parrocchie. In altri, sono gruppi di persone che hanno una fede diversa dalla nostra, e
verso i quali siamo ancora bloccati dalla “diversità”. Un primo passo dovrebbe essere quello della
“conoscenza” di questa realtà, della sua cultura, delle sue specificità, perché un dialogo senza
comprensione non è possibile. Necessità anche su questo punto di una formazione specifica.
(A cura di G.F, M.L., A.P.)
4