E finalmente il cow-boy errante si accasò

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E finalmente il cow-boy errante si accasò
E finalmente il cow-boy errante si accasò
di Donatella Basili
Sono cresciuta a film e fumetti western e negli ultimi trent’anni
mai avevo avuto la soddisfazione di vedere ciò che il film di Kevin
Costner Open range ci mostra: il cow-boy errante, rude uomo
delle praterie, avvezzo a sfidare e ad aver ragione di uomini, intemperie e animali predatori non scappa come una lepre di fronte
all’unica donna per la quale il suo duro cuore ha preso a battere.
L’evento ha un che di storico: l’uomo che tutte le donne desiderano, ossia colui che non le pianta in asso perché ha paura dei
sentimenti o della responsabilità, o perché “ha bisogno del suo
spazio”, veste finalmente i panni dell’eroe che ammazza i cattivi
e non quello del marito barboso e inetto o del fidanzato vigliacco.
Oddio, in questo idilliaco quadretto c’è la notina stonata della
battuta “Ma come può funzionare (il matrimonio) se non fai quello che dico?” ma sparisce di fronte alla fragorosa novità di un
mandriano che fa la scelta di accasarsi e per giunta con una
donna non più giovane. Grazie Kevin per questo tardivo riconoscimento: anche le donne oneste e di mezza età, dunque, meritano di essere amate dall’eroe.
Abituata com’ero a decenni di eterni fidanzati alla Superman,
bambini cresciuti e sentimentalmente irresponsabili alla James
Bond, fuorilegge alla Zorro che rinunciano all’amore per il bene
della California e cavalieri solitari che, ripulita la città dai cattivi
oppure ottenuta vendetta, se ne vanno verso nuove imprese senza guardare in faccia nessuno, sono rimasta veramente scioccata:
che si tratti di un’ondata di reflusso perbenista pro-matrimonio,
visto che ultimamente tale istituzione soffre di non pochi mali?
Un film pro-famiglia, quindi, da annoverare tra quelli che gli USA stanno sfornando da qualche tempo, politically
correct. Non voglio analizzare il messaggio dal punto di vista politico. La sua diversità sta nel fatto che il personaggio
principale (e che per questo viene assunto come modello dallo spettatore e attira su di sé le sue eventuali identificazioni)
pur avendo tutte le caratteristiche del cavaliere solitario, dall’autostima inossidabile, assolutamente autosufficiente ed
autarchico, sceglie di diventare un uomo normale: un uomo che ha bisogno della compagnia d’una donna. Tale scelta ha
deluso molti recensori; uno di questi, misogino o più probabilmente gay, dichiara:
“Costner mette su un paesaggio idilliaco e quasi omoerotico... quasi vorremmo che si rendesse conto che egli trova
tutto ciò che gli serve in questi uomini (i suoi compagni) e non ha bisogno della Sue di Annette Bening per completarlo.
Ma, ahimè, è un Western e dev’esserci un «vero amore sessuale».”
Altri si lamentano:
“La storia si conclude con uno zuccheroso e romanticissimo happy end in stile anni Cinquanta che celebra l’amore
tra Charley e la bella Sue e che sinceramente ci poteva essere risparmiato” (Franco Montini)
o peggio:
“Una storia d’amore improbabile e melensa, i cowboys che devono percorrere la via dell’espiazione e combattere i
propri demoni prima di confrontarsi con il nemico e una sparatoria da manuale, si susseguono facendo lentamente
evaporare anche la lontana speranza del western di serie B [...] Costner avrebbe potuto ripercorrere la strada de Gli
spietati o di Dust dove Clint Eastwood e Milco Mancevski scelgono di raccontare duelli che avvengono sotto l’effetto
dell’alcol, della rabbia e della vendetta, piuttosto che per sani sentimenti. Costner invece continua fino in fondo a
confezionare luoghi comuni...” (Rossella Macchia)
e ancora:
“All’inizio erano i selvaggi pellerossa: Tom Mix e John Wayne proteggevano coraggiosi coloni timorati di Dio nel loro
viaggio [...] poi sono arrivati gli anni Settanta e il mito della frontiera ha cominciato a scricchiolare [..] e non è stato più
possibile tornare indietro: la prateria non era più il teatro di gesta eroiche dell’uomo bianco ma, più spesso, il porto
franco di gente sordida e disperata, l’ultima speranza di anime perdute, il rifugio di violenti e psicopatici. In tempi recenti
il grande Eastwood ha osato ripercorrere i polverosi sentieri del West con due pellicole straordinarie, Il cavaliere
pallido e Gli spietati, capitoli definitivi, crepuscolari, intrisi di nostalgica tristezza. E di botto, fuori tempo massimo,
come se niente fosse successo, Kevin Costner riesuma la salma crivellata di proiettili del western anni Cinquanta. [...]
Costner fa piazza pulita di cinquant’anni di evoluzione d’un genere cinematografico [...] I buoni: se giovani maturano,
se maturi si accasano, se vecchi rincoglioniscono dignitosamente. I cattivi: muoiono ammazzati” (Giovanni Romani
della redazione del portale SuperEva)
Che il film sia un po’ un dejà vu è vero, ma è difficile essere originali in un genere spremuto da circa novant’anni. La
patina “anni Cinquanta” deriva probabilmente dal fatto che l’autore del racconto da cui è tratto il film è un romanziere
di genere western, Lauran Paine, di classe 1916, che ha ispirato molti film a partire dal dopoguerra. Un autore siffatto
avrà indubbiamente una mentalità “anziana” (“anziano”, però, non è sinonimo di “da buttare via”) ma avrà anche
un’esperienza di vita più vicina al periodo storico in cui si svolge la narrazione. Non dimentichiamo che il genere
western rappresenta la storia degli Stati Uniti e che il Far West è scomparso intorno agli anni Venti del Novecento;
Lauran Paine ha quindi ben potuto conoscere persone che hanno vissuto veramente in quell’epoca. Noi italiani, invece,
siamo abituati a considerare il West come uno scenario dove far agire le nostre tipologie di personaggi e dove proiettare
i nostri desideri di libertà. I western nostrani anni Settanta ci hanno fatto dimenticare che oltre ai banditi e alle prostitute
abitavano il West persone dedite ad occupazioni pacifiche e donne che non erano solite vendere il proprio corpo al
primo venuto.
Charley Waite è un reduce probabilmente confederato (l’ho dedotto dalle azioni di sabotaggio che faceva in guerra)
e molti sudisti, dopo la guerra, si sono trovati sbandati e senza casa. Niente di strano, dunque, che si sia aggregato ad
altri ed abbia scelto di fare il mandriano nomade per vivere. Esistono inoltre foto d’epoca che ritraggono cowboys,
mascherati col fazzoletto bianco forato alla bell’e meglio com’è mostrato nel film, mentre tagliano il filo spinato eretto
a protezione delle terre degli agricoltori, a testimonianza che nel periodo successivo alla colonizzazione infuriarono tante
piccole guerre tra coloro che volevano fare diverso uso del territorio strappato agli indiani: allevatori contro agricoltori,
proprietari di ranch contro allevatori nomadi.
È credibile che Charley Waite, cowboy quarantenne, dopo una vita di azioni belliche e cura delle vacche sotto le
intemperie e costantemente in compagnia maschile (una domanda per il primo critico che ho citato: cosa c’è di idilliaco
nei temporali che ti inzuppano fino al midollo e nel giocare a carte col ragazzetto che bara e puzza perché non si lava?)
s’innamori di una donna sua coetanea che gli mostra cosa significa vivere comodi, accuditi e puliti? A me sembra
proprio di sì; d’altra parte è la scelta che da millenni miliardi di persone fanno. Evidentemente Charley non è gay e
dunque è naturale che sia attratto da una donna. Ma una donna “anziana”! Charley non è un divo del cinema che può
permettersi le top model (Costner lo è, lui no; distinguiamo attore e personaggio): è un mandriano “sporco e peloso”, a
detta del suo amico Boss, abituato a stare con le bestie, non a fare il damerino nei salotti. Le donne belle forse non le
ha mai viste o le ha dimenticate. Così Sue gli è sembrata la donna più bella del mondo... che gioia: è proprio vero il detto
“anche una gallina orba può trovare il suo verme”. Perché è questo che dovrebbe succedere a tutti nella vita: trovare
ciò che si cerca, specialmente un compagno di cammino.
Perché la storia d’amore viene giudicata melensa? Perché non c’è sesso né seduzione? Perché Costner non si
avventa come un predatore su una fanciulla deliziata dalla sua passionale veemenza oppure perché la Bening non gli fa
la danza dei sette veli prima di farlo suo?
Nell’Ottocento c’era una forte distinzione tra donne perbene e prostitute e gli uomini si comportavano ben diversamente con le une e con le altre: le prime erano tutelate dalla famiglia, le altre erano di tutti. Sue, sorella del medico della
città, è una signora con una posizione sociale. Charley non può, quindi, non comportarsi rispettosamente ed il rispetto
prescrive di mantenere le distanze finché l’unione non venga ufficializzata. Anzi, sembra persino strano che non chieda
al fratello di Sue il permesso di sposarla, com’era uso in una società partiarcale come quella ottocentesca. Se c’è
qualcosa che può sembrare strano nella storia, è proprio l’avanzamento sociale di Charley, giustificato, peraltro, dalla
sua azione eroica a beneficio della comunità e dal fatto che Sue è ormai una donna di scarso valore, una “zitella”.
Sue però si comporta da eroina correndo incontro ai cattivi nel tentativo di impedire il duello e questo la rende
ulteriormente “degna di lui”. È questo gesto coraggioso che è improbabile? Allora tutto il duello è improbabile... anzi,
l’intero genere western è improbabile... o è improbabile il fatto che i buoni vincano sui cattivi? Il giudizio di credibilità
dipende sia dall’accuratezza storica, sia dalla visione del mondo dello spettatore.
L’amore tra Sue e Charley non è spettacolare, ma è realistico. La vera disgrazia, per il Charley Waite di Costner, è
quella di assomigliare un po’ troppo al Will Penny di Charlton Heston (titolo italiano Costretto ad uccidere, film del
1965) che è forse uno dei primi cavalieri solitari, modelli per gli aspiranti machos misogini. Ma mentre Will Penny è
veramente un bovaro che non conosce il sapone e non ha ricevuto neanche un’educazione normale (emblematico il
fatto che la donna gli insegni delle filastrocche per bambini, che lui non ha mai neppure sentito), Charley Waite ha l’aria
di essere un borghese fuorviato, a dirla alla Thomas Mann. L’entrata nella casetta di Sue sembra infatti un ritorno a
casa e non la scoperta di un nuovo mondo. I personaggi ibridi, così come le persone ibride, ossia quelli che presentano
marcate caratteristiche di tipologie diverse, di solito spiazzano e irritano, inducendo al rifiuto, gli osservatori disattenti e
superficiali, abituati a giudicare per categorie, troppo frettolosi o incapaci di soffermarsi ad analizzare. Will Penny non
era all’altezza della donna che aveva incontrato; Charley Waite sì. Epiloghi diversi per due storie simili ma con protagonisti diversi. L’happy end con sposalizio è un cliché anni Cinquanta? È vero; l’abbandono finale con carrellata sul
cavaliere che sparisce all’orizzonte è un cliché anni Settanta. Personalmente io preferisco il primo.
Quand’ero ragazzina il genere western era il mio preferito perché più degli altri presentava esempi di donne d’azione
in un contesto di libertà e di rispetto. Le donne in paziente attesa, intente a spignattare o ricamare sedute alla finestra
non erano per me modelli ma spauracchi, né lo erano quelle la cui unica occupazione era farsi belle per suscitare
l’interesse maschile. Le donne dei film western erano vere donne coraggiose e decise, e io avrei voluto diventare come
loro. Questo perché il genere rispecchiava la realtà storica: le donne del West hanno dovuto davvero comportarsi come
gli uomini per poter sopravvivere, dimostrando di essere in grado di farlo. Non c’è da stupirsi se il Wyoming ha
riconosciuto il diritto di voto alle donne nel 1869, mentre in Italia abbiamo dovuto aspettare il 1945; guarda caso, sempre
in seguito a delle guerre: era dal 1848 che in America c’erano movimenti di emancipazione ma c’è voluta la Guerra di
Secessione per inculcare l’idea che negri e donne sono
esseri umani come i maschi bianchi.
Il western anni Cinquanta presentava inoltre uomini protagonisti aitanti, sì, ma soprattutto gentiluomini rispettosi e
difensori delle donne, anche se a volte un po’ troppo
paternalisti e consapevoli della loro superiorità. L’ombra
di questi eroi ha il colore della possessività, come mostra
Robert Mitchum ne La magnifica preda (1954), il cui personaggio si comporta da uomo delle caverne caricandosi
sulle spalle Marilyn come fosse una giovenca. In genere
però gli eroi anni Cinquanta erano rassicuranti e leali ed il
rapporto uomo-donna era all’insegna della schiettezza e
della sincerità, perché gli eventuali equivoci venivano sempre spiegati e le ambiguità facevano parte di un gioco
amoroso di cui entrambi erano semi-consapevoli. Dalla
seconda metà degli anni Sessanta scaturisce una serie interminabile di cavalieri alla Lone Wolf che sistemano le
cose e abbandonano regolarmente le donne innamorate,
quasi ad educarci ad accettare (ed esserne perfino lusingate!) di essere sfiorate dall’eroe fuggente, perché divino
come lo Spirito Santo Paràclito. Un bello specchio per il
maschio narcisista e libertino o aspirante tale. Sulla spinta
dell’amore libero di tipo hippie, il West diventa lo sfondo
per vicende che celebrano gli incontri fuggevoli; spariscono le donne normali e rimangono di scena esclusivamente
Zorro
cocottes, prostitute e puttanelle, attratte indifferentemente dal buono e dal cattivo, come avviene in C’era una
volta il West.
Dopo l’eclissi quasi totale degli anni Ottanta ecco riapparire il western con personaggi femminili borderline: “bad
girls” sempre pronte a premere il grilletto e a calarsi le braghe, il tutto conforme all’interesse del cinema dell’ultimo
decennio per lo psicopatico ed il “deviante”, divenuti simbolo della vitalità in contrapposizione alla stagnazione della vita
strutturata, o diavoli da esorcizzare attribuendo loro più umanità di quanta possiedano?
Open range è un film “sorpassato” perché non rispecchia la moderna mentalità libertino-salutista che ci spinge a
considerare l’altro sesso come una specie di attrezzo ginnico che serve per mantenersi in forma ma suggerisce (orrore
orrore!) di rispettarsi a vicenda e sposarsi. Io però l’avrei fatto finire in questo modo: Charley invita Sue ad andare con
lui a riprendere la mandria; Sue indossa un paio di jeans, monta a cavallo e lo segue. Così ognuno partecipa della vita
dell’altro. Così si è compagni. E la vita è più bella.