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1 “Cornelia. Africani filia e/o Mater Gracchorum” prof. Paula Botteri (Università di Trieste) Conferenza del 28 marzo 2014 L’autorità di Aristotele aveva identificato la donna “materia”, in contrapposizione all’uomo, spirito e forma, e in quanto materia la donna era esclusa dal logos, cioè dal dominio della ragione. Non solo Aristotele, ma tutto il mondo occidentale ha affidato alla donna un ruolo subalterno. E’ comprensibile come una storia delle donne sia stata a lungo inesistente, negata, dimenticata, perfino sconveniente. Sconveniente anche: ecco cosa scriveva Plinio delle donne: la donna è il solo tra gli esseri viventi ad avere le mestruazioni………al sopraggiungere di una donna che ha le mestruazioni il vino nuovo diventa acido; al suo contatto le messi diventano sterili; muoiono gli innesti; bruciano i germogli nei giardini, cadono i frutti degli alberi presso cui la donna si è fermata; al solo suo sguardo, la lucentezza degli specchi si appanna; si smussa la punta delle lame, si oscura lo splendore dell’avorio, muoiono le api negli alveari….etc. N.H., 7, 13, 63, sq. Non serve alcun commento a queste parole. In effetti, per secoli, la maggior parte delle donne, votate al silenzio della riproduzione materna e alla cura domestica, nell’ombra intima e privata della casa, non ha avuto storia. Solo in anni relativamente recenti, dopo tanti sensibili mutamenti storico-­‐sociali, grazie all’antropologia e agli studi di genere, gender studies, il mondo femminile è stato esplorato e continua a esserlo, grazie alla dinamica di una storiografia che orienta la ricerca sul ruolo della donna in rapporto al suo contesto sociale. E’ nata così la cultura di genere, ora divenuta tanto di moda anche in Italia (vogliamo ricordare che ancora l’11 marzo scorso la Camera ha respinto la proposta per la parità di genere nella nuova legge elettorale? E vogliamo ricordare, tristemente, a mio avviso, che si discute ancora di “quote rosa”, come se il genere fosse un colore, oppure un ghetto?). Comunque sia, la cultura di genere affonda le radici nel dibattito sul matriarcato, un problema che ha dominato l’antropologia culturale in 2 Europa dalla metà dell’800, quando Johann Jakob Bachoffen1 scrisse un libro famoso sul diritto materno. E, sebbene B. fosse interessato in particolare al matriarcato preistorico, l’argomento indirizzò la ricerca sulla ginecocrazia e di conseguenza, sul rapporto tra donna e potere, influenzando il modo di scrivere la storia, che divenne storia plurale, quindi anche storia di donne. Donne di oggi e di ieri: nel nostro caso Cornelia, donna romana del II secolo a.C., entrata nella leggenda come modello ideale di mater/matrona. Una madre in lutto, di più, una madre tragica soprattutto a causa dei due figli che le erano stati strappati prematuramente con la violenza, senza neppure la consolazione di una sepoltura, perché la città ne aveva rifiutato i corpi, gettandoli nella corrente del Tevere, simbolicamente purificatore2. Così, infatti, Roma puniva coloro che avevano sovvertito la concordia della respublica. E la tradizione più ostile suggerisce che i figli di Cornelia, Tiberio e Caio Gracco, entrambi tribuni della plebe, con le loro riforme agrarie e istituzionali, avessero meritato tale sorte, aspirando al regno, accusa infamante per tutto l’universo romano. Perché ho scelto Cornelia? E’ semplice, perché le fonti parlano di Cornelia. E’ un caso abbastanza particolare, perché di solito c’è poco spazio a Roma per la visibilità pubblica delle donne, tranne qualche agiografia leggendaria, Lucrezia, Virginia e qualche altro nome, anche se in realtà, a partire all’incirca dal III secolo, le donne avevano cominciato ad emanciparsi. Dobbiamo cercare nelle norme del diritto il successo di questo fenomeno, ossia nel mutato regime giuridico del matrimonio, da quando la donna sposata non era più sottoposta alla potestà del marito, ma rimaneva legata alla famiglia del padre. Succedeva così che, morto il padre, la donna ne ereditasse la fortuna, eventualmente insieme ai suoi fratelli. In seguito, rimasta vedova, grazie ad una norma emanata dal pretore, la donna poteva 1
Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer
religiösen und rechtlichen Natur, Basilea, 1861 (Una ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico,
secondo la sua natura religiosa e giuridica). 2
Liv., Per., 58 3 legittimamente ereditare anche i beni del marito. Il luxus, tra la fine del III secolo e l’inizio del II, diventa a Roma un problema politico e ideologico. Non a caso furono emanati una serie di provvedimenti per controllare il lusso femminile. La prima legge, voluta da Catone il Censore, fu la Oppia sumptuaria nel 215. Vent’anni dopo (195), due tribuni ne proposero l’abrogazione e, malgrado il tentativo catoniano di bloccare il provvedimento, una clamorosa rivolta delle matrone ne decretò il successo (Valeria Fundania de lege Oppia sumptuaria abroganda). Ora, se pensate alla storia di Roma della fine del III inizio II secolo a.C., è facile immaginare la percentuale di sopravvivenza femminile di giovani mogli e figlie, soprattutto dopo la guerra punica che aveva decimato la popolazione maschile. Questo discorso è per segnalare che a Roma esistevano molte donne delle classi alte della società, titolari di grossi patrimoni, molte delle quali anche libere dalla presenza maschile. Di queste donne, relativamente libere o quanto meno liberate, solo alcune hanno avuto l’onore della cronaca, vedi ad esempio Cornelia e sua madre, anche se una rigida tradizione, e una mentalità condizionata dal maschile e dal mos maiorum, le ha indissolubilmente vincolate ai loro uomini. Vi ricordate l’Aratria, citata dalla prof. Termini, la donna che pavimentò il decumano di Aquileia? Ecco una testimonianza di donna ricca, anche se meno celebre di Aemilia Tertia o di sua figlia! Polibio, che dagli Scipioni era di casa e conosceva molto bene Aemilia, la sorella di L. Emilio Paolo e moglie dell’Africano, descrive gli ornamenti sfarzosi che la matrona esibiva come status symbol durante le processioni matronali: essa sfilava nella sua carrozza con grande sfarzo di gioielli, seguita da ancelle e servi, carichi di oggetti preziosi per i sacrifici (Pol., 31, 26, 4). Buona parte di questo cospicuo patrimonio passò in eredità alla figlia, che lo aggiunse ai beni del padre e del defunto marito. Cornelia visse accanto agli uomini più significativi del secolo: P. Cornelio Scipione, il padre, insigne discendente dell’alta aristocrazia romana, i Cornelii, che nel 202 aveva sconfitto Annibale in Africa, meritando così l’appellativo di Africano; Tiberio Sempronio Gracco, il 4 marito, di nobile famiglia plebea, valoroso generale, due volte console 177, 163, ed anche censore (169); patronus di importanti clientele nella Spagna Tarragonese, dove fondò anche una città, Gracchurris; Scipione Emiliano Africano Minore, primo cugino e genero, in quanto marito della figlia Sempronia, vincitore della terza e ultima guerra punica; L. Emilio Paolo, fratello di sua madre, dunque zio, trionfatore della Macedonia, anch’egli più volte console e censore; Tiberio e C. Gracco, i celebri tribuni della plebe, suoi figli. Questi i nomi più famosi della sua illustre parentela, tutti magistrati nelle più alte cariche dello stato. E non solo, ma a questi uomini Roma fu in buona parte debitrice della sua espansione. Nel II secolo, da città stato Roma era ormai passata al ruolo di potenza mondiale, e questo cambiamento determinò un’inevitabile trasformazione della precedente struttura interna del sistema politico, sociale ed economico. (Vediamo sulla carta la geografia delle conquiste: controllo dell’Italia settentrionale; annessione della Spagna; conquiste di Grecia, Macedonia e Asia Minore). Della parentela di Cornelia, anche i figli sono troppo noti perché ve ne parli. E’ sufficiente ricordare il loro impegno politico per risolvere i problemi più urgenti di quella che potremmo chiamare “l’eredità di Annibale”, parafrasando il titolo di un libro famoso, un lascito di gravi problemi agrari (le colture e la ridistribuzione delle terre); di problemi istituzionali (elezioni, giustizia-­‐tribunali) e di quelli sociali (arruolamenti e colonie). L’esistenza di Tiberio e del fratello (133, tribunato e morte di Tiberio Gracco; C. Gr. 123/122 tribunati e morte), ci riguardano solo nella misura in cui si avverte l’intervento della loro madre, legata a tutto quell’establishment che li avversò fino alla morte. Sacrificio inutile: il programma dei tribuni, che a ben giudicare fu lungimirante, fallì completamente nel giro di pochi anni per l’ostinata reazione della classe dirigente, e la loro azione non portò alcun cambiamento radicale di regime, sola condizione questa per giustificare una rivoluzione. Non fecero la rivoluzione, ma Tiberio e Caio Gracco morirono entrambi massacrati, vittime pretestuose: il 5 primo, perché chiedeva un successivo tribunato; l’altro, perché aveva portato la colonizzazione in Africa, contro il divieto del senato. Una cosa è certa: non si era ancora mai visto a Roma una simile efferata violenza e, precedente ancor più grave, l’aggressione mortale contro due magistrati nell’esercizio delle loro cariche. Cornelia vide Tiberio e Caio massacrati e privati della sepoltura. Ed anche chi negherà siano stati virtuosi (boni, in senso politico, sono gli optimates), potrebbe ammettere siano stati grandi (Sen., ad Marc., 16, 3). Parole di Seneca nel discorso consolatorio rivolto a Marcia, che cita Cornelia, quale esempio di coraggiosa rassegnazione per la morte dei figli. Orgogliosamente tragica, secondo la versione di Seneca e di Plutarco, la reazione di Cornelia alla morte dei figli; meno ieratica, invece, l’espressione di Cornelia quando per lettera si rivolge al più giovane di essi. Donna di grande cultura era ammirata da Cicerone e da Quintiliano che lodavano anche lo stile delle sue lettere: noi le conosciamo solo per via indiretta. Infatti, parecchi manoscritti raccolti di seguito alle biografie di Cornelio Nepote (110-­‐24 a.C.), testimoniano delle lettere, anzi frammenti di due lettere, attribuite a Cornelia. E’ quasi certo, infatti, che queste non siano state scritte da Cornelia, ma da qualcuno che volesse mostrare l’estraneità di Cornelia alla politica demagogica di C. Gracco, il figlio minore, quello che aveva forse colpito più a fondo gli interessi e l’orgoglio della nobilitas (trasformazione delle giurie dei tribunali e colonie africane, sul suolo maledetto di Cartagine). Avrebbe detto Cornelia, rivolta al figlio: quando tutto ciò cesserà? Quando la nostra famiglia smetterà di commettere follie? Quando si potrà finirla? Quando faremo cessare gli affanni, quelli che subiamo e quelli che provochiamo? Quando ci si vergognerà di portare disordine e turbamenti nello stato? Poco probabile che queste siano parole di Cornelia e, comunque, l’ultima frase e l’accenno alla follia dell’intera gens Cornelia meglio s’attagliano ai caratteri del pamphlet politico, un libello, ad esempio, scritto per colpire i tribuni dei populares, che in quegli anni di fine II secolo agitavano violentemente la piazza agli ordini di Glaucia e Saturnino. Della stessa matrice 6 tendenziosa potrebbe essere la notizia, pur raccolta con cautela da Plutarco (C. Gr. 13,2), che Cornelia avesse partecipato materialmente alla realizzazione dei progetti sediziosi del figlio, inviandogli a Roma dei rinforzi, clientes forse, in veste di mietitori, nell’imminenza della votazione di una lex frumentaria. Tuttavia, false che fossero le lettere di Cornelia, nulla toglie al suo alto profilo intellettuale. Del resto, assidua frequentatrice di letterati e filosofi greci e romani era stata educata all’umanesimo filoellenico, che connotava il “circolo” degli Scipioni, a capo del quale era stato suo padre, il più celebre dei Cornelii. Insigni personaggi come il retore Diofane di Mitilene, i filosofi stoici Blossio di Cuma e Panezio, lo storico Polibio, per citarne alcuni, erano frequentatori abituali delle ville dei Cornelii. Cornelia porta solo il gentilizio senza cognomen, che altro non è se non il nome del padre, come imponeva l’uso dell’onomastica repubblicana per le donne, quasi a esprimere negazione di identità, 3 in modo tale da ricordare che la donna in primo luogo appartiene ad una famiglia, è filia. Qui, non una figlia qualsiasi, come abbiamo ben visto. A parità di gloria, come rampolla di rango, Cornelia è anche madre dei Gracchi, di tanti Gracchi. Un’apoteosi per il mondo romano degli exempla: una discendenza, filia appunto, poi mater. Del marito, Tiberio Sempronio Gracco, la storiografia mette in evidenza, oltre alle alte cariche dello stato, la grande differenza di età degli sposi. E come sposo entra anch’egli nella leggenda per un atto immenso d’amore: essendo stati catturati due serpenti dentro casa, l’aruspice interrogato disse che, uccidendo il serpente di sesso femminile, sarebbe morta Cornelia. Al contrario, la morte del maschio avrebbe causato il decesso di Tiberio. L’uomo non ebbe alcuna esitazione e fece uccidere il maschio, perché dichiarò: Cornelia è giovane e può ancora avere dei figli. La fonte è Plinio, che commenta: Questo voleva dire Tiberio Gracco, risparmiare la moglie e pensare al bene dello stato (Cic. Div., 1, 18, 36; 2, 62; Plin. N.H., 7, 36, 122; de vir. Ill., 57, 4). Insomma, lasciarla 3
Talvolta, per evitare palesi omonimie, le donne venivano distinte in ordine di nascita con nomi personali, come Tertia, Maior, Prima, Secunda, etc. 7 in vita per dare cittadini alla patria. E anche questo presagio, come del resto le altre esaltanti immagini della prolificità di Cornelia, pare inserirsi in un esaltante disegno matrilineare. La stessa tradizione ci consegna un curioso segreto intimo di Cornelia. Plinio, citando un po’ a casaccio esempi di particolarità fisiche di uomini e donne di tempi e luoghi diversi, all’excursus tra il vero e l’inverosimile sul flusso mensile delle donne (passo già menzionato), fa seguire qualche nota disordinata sul concepimento e poi sulla dentizione dei bambini. E alcuni, ricorda, nascono già con i denti, come Manio Curio, che ebbe perciò il cognomen di Dentato. Fra le donne, questa particolarità è di cattivo augurio, e cita il caso di una Valeria, la quale, essendo nata con i denti avrebbe portato terribili sventure alla città natale. Allontanata dal suo luogo d’origine, fu confinata a Pomezia e la città andò in rovina, come avevano profetizzato gli aruspici (7, 15, 69-­‐70). In questa casistica di fenomeni è annoverata Cornelia con queste parole: concreto genitali gigni infausto omine Cornelia Gracchorum mater indicio est, presagio di sciagure dunque, perché la disciplina interpreta come infausto augurio per le donne, nascere, come accade ad alcune, con le parti genitali chiuse. Alla morte del marito, Cornelia, che doveva avere all’incirca 30 anni, fu chiesta in sposa dal re Tolomeo VIII Evergete, incrementando la sua fama con il prestigio di un’alleanza straniera, in quanto richiesta da un Tolomeo d’Egitto, ancorché soprannominato Fiscone (f.8). Cornelia rifiuta, scegliendo la solitudine del talamo, coerente con la leggenda di univira. Del resto, malgrado l’età non ancora avanzata, essa aveva già dato alla patria un gran numero di figli. A quanto è dato sapere, Cornelia ebbe 12 figli, di cui solo tre rimasti in vita: i tribuni e Sempronia, consorte di Scipione Emiliano Africano Minore. Roma naturalmente incoraggiava la politica dell’incremento demografico, politica lungimirante in funzione del continuo fabbisogno di soldati. Nel 131, ad esempio, il censore Q. Cecilio Metello Macedonico, aveva pronunziato un’orazione in senato de prole augenda a favore dell’aumento demografico. Più tardi Augusto, citando il precedente di 8 Metello, aveva promosso una vivace campagna per incrementare le nascite, promulgando una serie di leggi contro il celibato (nel 18 a.C. de maritandis ordinibus; Papia Poppea, 9 d.C.) non certo solo per moralizzare i costumi. Del resto, l’incitamento etico alla prole è da sempre un tema caro alle politiche di regime. Vedremo anche con quale onore Augusto esaltasse la maternità di donne famose e di dee. Non dimentichiamo, tuttavia, che la donna romana, a differenza della donna greca, era considerata uno strumento fondamentale per la trasmissione della cultura dei futuri cives romani. La fonte antica più monumentale della biografia di Cornelia, non è un eufemismo!, è un’epigrafe. Eccola. CORNELIA AFRICANI F GRACCHORUM (CIL 6, 31610). Se ho ben capito da quanto l’altro venerdì ha detto la professoressa Termini, voi dovreste essere piuttosto informati sull’epigrafia e sulla sua importanza, sulle iscrizioni di ieri, come su quelle di oggi. Di conseguenza sapete anche che la categoria maggiormente rappresentata di tutta questa “civiltà dell’epigrafe”, come qualcuno chiama la civiltà romana, è quella sepolcrale, che ci ha restituito molte dediche a personaggi femminili, di solito donne appartenenti ai ceti privilegiati della società. Preziose queste iscrizioni, soprattutto quando accanto al nome conservano anche un testo. In questo caso, le parole offrono un’icona della donna, immobilizzata sulla pietra come modello perfetto di moglie, definita da qualità canoniche, che si richiamano all’etica morale: è casta e fedele solo al marito, perciò è univira; è madre, pudica, nel senso della riservatezza, pia, devota al culto e al mos maiorum, lanifica, non occorre tradurre, lavora la lana, tesse e fila, dentro casa, domìseda (domus, sedeo, che custodisce la casa CIL 6, 11602). Ciò che colpisce è la persistenza di tale modello paradigmatico della matrona romana, che sembra conservare non una memoria, ma uno stereotipo della memoria, un’ipostasi, rappresentata sostanzialmente dall’appartenenza gentilizia, che connota la sua estrazione sociale, dal matrimonio e dalla maternità. Ne esistono esempi celebri, che qui non 9 cito: rimando per tutte al bel libro di Francesca Cenerini, La donna Romana (Bologna, 2002). CORNELIA AFRICANI F GRACCHORUM (CIL 6, 31610) si legge a chiare lettere, è il caso di dirlo! su un blocco, di marmo pentelico (largo 1, 12 m, alto 80 cm e profondo 1,35 m), che reca in alto la firma dell’autore, Tisicratis, scultore di origine greca, probabilmente attivo nel Lazio, durante il secondo secolo a.C. 4. La base è stata ritrovata a Roma verso la fine dell’800 (1878), all’interno del portico d’Ottavia, precisamente dove era indicato da Plinio il Vecchio (N.H. 34, 31), e l’esame delle lettere dell’iscrizione ci porta con sicurezza all’età augustea. Plinio scrive nel I secolo d.C. e poteva certamente vedere quanto descriveva. Osserva: Ci rimangono ancora le accuse di Catone che, durante la sua censura (184) tuonava contro l’uso di innalzare statue alle donne romane nelle province (un’eco delle leggi promosse da Catone contro il lusso delle donne); tuttavia non poté impedire che se ne innalzassero anche a Roma, per esempio a Cornelia, madre dei Gracchi e figlia dell’Africano Maggiore (questo è un probabile errore della fonte di Plinio, poiché Catone morì nel 149, e dovremmo escludere che in tale data la donna fosse celebrata come madre dei Gracchi). Essa è rappresentata seduta, con il particolare notevole dei sandali senza correggia. Vorrei richiamare la vostra attenzione su questo dettaglio, perché non è insignificante. Sembra abbastanza strano infatti che la matrona portasse i sandali senza lacci, ed è ancora più strano che la cosa sia stata annotata con tale cura. Dovremmo dedurre che si trattava davvero di un fatto singolare. Ritorneremo dopo sull’argomento. Il testo di Plinio continua e leggiamo che un tempo (la statua) era collocata nel portico pubblico di Metello. Ora si trova negli edifici di Ottavia, 34, 31. Questo passo, che proviene da un paragrafo del XXXIV libro, in cui Plinio trattava della statuaria antica, va confrontata con qualche frase di Plutarco. Nella biografia dedicata a 4
F. Coarelli, La statue de Cornelie, mère des Gracques, et la crise politique à Rome au temps de Saturninus, Strasbourg, 1978, pp. 13-­‐28. 10 C. Gracco, Plutarco riferisce della popolarità di Cornelia, alla quale il popolo, grato per aver convinto il figliolo a ritirare la legge de abactis (che stabiliva l’ammissibilità a ricoprire cariche pubbliche ad un magistrato che fosse stato deposto dal popolo stesso) aveva dedicato una statua di bronzo xalkh=n ei)ko/na recante l’iscrizione Kornhli/an mhte/ra Gra/gxwn (C. Gr., 4, 4). Evidentemente Plutarco disponeva di una fonte diversa, probabilmente più antica, quando, in tempi non sospetti, l’onore era nel ricordo dei tribuni. Ciò che ora importa è quanto rimane. Al tempo di Plinio la statua si trovava nel portico fatto costruire da Ottavia (verso il 33 a.C.?) sorella di Augusto, mentre prima era collocata nel portico dei Metelli, una delle più potenti famiglie di Roma, tradizionalmente ostile alla politica dei Gracchi. Si calcola che la porticus Metelli, sia stata eretta tra il 146 e il 131. In quale momento Cornelia venne esposta in pubblico, e quando e perché la trasportarono altrove, non sappiamo. Potremmo fare delle ipotesi ed anche suggerire una data per la morte di Cornelia, anche se la storia della lotta politica e delle sommosse civili, negli anni dalla scomparsa dei Gracchi a C. Mario, e ancora oltre, appartiene ad uno dei periodi più oscuri e confusi della tarda repubblica romana. Risulta che Sempronia, la figlia di Cornelia, ormai vedova dell’Africano Minore, fu chiamata per riconoscere un certo L. Equitius, che proclamava essere figlio di suo fratello Tiberio ed aspirava nel 100 a.C. al tribunato del 99. Questo episodio, dunque, potrebbe situarsi abbastanza verisimilmente nel 100. Cornelia doveva esser morta allora, perché altrimenti, noi supponiamo, avrebbero chiesto a lei il riconoscimento ufficiale del nipote. Non è da escludere però che se Cornelia fosse stata ancor viva a quell’epoca, forse, sarebbe stata troppo vecchia per affrontare un viaggio dal Miseno a Roma. Cornelia, infatti, dopo la tragedia dei figli, si era ritirata lontana dalla capitale, in una sua villa nella baia di Napoli, a Capo Miseno, esclusivo luogo di villeggiatura dell’aristocrazia romana. L’ambito salotto della sua domus, che doveva essere pregevole, dato il raffinato 11 gusto della proprietaria e l’ingente ricchezza di cui disponeva (Ho già ricordato che aveva ereditato dal padre, l’Africano, dalla zia e dal marito, Tiberio Sempronio Gracco); il salotto, dunque, era frequentato da personaggi famosi, da una corte cosmopolita di amici ed intellettuali, che l’aristocratica dama intratteneva brillantemente, anche se, pare, negli ultimi anni fosse ormai divenuta preda di una certa malinconia. Forse si era un po’ persa, causa il destino, che si era accanito contro di lei. Vedova e ormai madre di una sola figlia Sempronia, la moglie infelice dell’Emiliano, l’Africano Minore. Voci maligne avevano messo in circolazione la voce che Cornelia fosse stata complice, insieme alla figlia, della morte misteriosa dell’Emiliano. Malgrado tante fonti ci parlino di Cornelia, e le fonti ne parlano, come avviene per le celebrità, malgrado ciò dicevo, non una la cita autonomamente. E’ sempre la figlia dell’Africano o la madre dei Gracchi. Eppure fu certamente una donna di grandissime qualità. Lei stessa si doleva di esser conosciuta in funzione della sua parentela! Sono nota come figlia dell’Africano Maggiore o la suocera dell’Africano Minore! Preferirei, almeno, essere famosa come madre dei miei figli (Plut., Tib. Gr., 8, 7). L’iscrizione scolpita sotto i piedi della sua statua, onore forse per la prima volta decretato ad una donna, testimonia ulteriormente i suoi ruoli rigidamente codificati dalla società romana, dove il ruolo di madre ha preso il sopravvento5, corroborato dall’aneddotica e divenuto paradigma attraverso i secoli. Chi non ricorda la famosa storiella della matrona che esibisce i figlioli di fronte all’amica che vanta le sue gioie? Tanto è celebre questo episodio edificante nella nostra cultura da essere diventato luogo comune di orgoglio materno, un’icona letteraria e artistica, come, ad esempio, si vede nella tela di Angelica Kauffman (1785). In tempi molto più vicini a noi l’icona di questa madre romana è comparsa persino sui quaderni di scuola. E 5
E’ anche vero però che, a differenza della donna greca, alla donna romana è sempre stato riconosciuto un ruolo importante nella paideia (paidei/a). Colgo l’occasione per ricordare i bellissimi libri che E. Cantarella ha pubblicato sulla donna greca e romana. Oltre L’ambiguo malanno, Milano, 2010, Economica Feltrinelli; Dammi mille baci, Milano, 2009. 12 non voglio insistere, ma in Italia la mamma è la mamma, ancora oggi! Del resto qualcuno ha perfino coniato un neologismo, intraducibile altrove, mammismo! Abbiamo ricordato come Plinio alluda ad una particolarità fisiologica di Cornelia. Sembra piuttosto bizzarro questo dettaglio, attribuito ad una donna celebrata per la sua incessante attività procreativa. E a questo punto potremmo anche fare un ragionamento sul tratto iconografico del sandalo della statua di bronzo di Cornelia, così come Plinio ha voluto annotare con singolare puntiglio: il sandalo della donna era privo di legacci, la calzatura rimaneva slacciata, senza nodi. Cornelia una donna trasandata? E quand’anche, nessuno mai avrebbe pensato di immortalarla evidenziandone questo aspetto. Sarebbe allora possibile trovare qualche relazione tra questi particolari così intriganti? Che i genitali chiusi di Cornelia indicassero un presagio funesto lo ha dimostrato la storia e perciò non è da escludere che la tradizione, le credenze popolari e la leggenda avessero attribuito questo inconveniente a Cornelia, a posteriori, come una sorta di contrappasso di fronte a tanta generosa prolifica natura. Ma il sandalo privo di corregge? Escluso che i Romani avessero immortalato la loro matrona per eccellenza, con sandali egizi!, potremmo invece pensare ad un’allusione volontaria del committente e mettere in relazione questi elementi, all’apparenza così peregrini come la calzatura slacciata di Cornelia e l’anomalia del suo difetto genitale, ammesso che già circolasse questo particolare così intimo. Comunque sia, nella tradizione romana sono evidenti l’importanza e la funzione dei nodi, i nodi che legano nella realtà e nella metafora, sovente congiunti al mistero della nascita di esseri mortali e figure divine, capaci di interagire anche come dispositivi simbolici. Il nodo è comunque un ganglio vitale che lega, che deve essere sciolto o che si taglia, come quello leggendario di Gordio, e anche come quello, più banale, del cordone ombelicale, della nascita, del parto. La dea romana del parto, Giunone Lucina, che portava alla luce i neonati, non tollerava nodi alle vesti, perché i nodi non permettevano alla 13 partoriente di sgravarsi. Alle cerimonie per Giunone Lucina, dice Servio, il commentatore dell’Eneide, IV, V sec. d.C. (ad Aeneidem, 4, 518), non si poteva accedere se non dopo aver sciolto ogni nodo. Possibile una correlazione simbolica tra Cornelia, immagine della fecondità e dei parti, con i genitali “concreti”, serrati, e i sandali senza legature, senza nodi? Nessuna cultura manifesta più esplicitamente di quella di Roma arcaica l’importanza dei nodi nella sfera del matrimonio, della concezione e della nascita. La sposa romana portava una piccola cintura di lana sulla veste virginale. Lo sposo, a nozze avvenute, slegava questa cinta, sciogliendo il nodo che la tratteneva, passaggio simbolico dalla condizione di vergine a quella di maritata e, secondo le credenze popolari, auspicio di fertilità. Sciogliere i nodi, come era risaputo si dovevano sciogliere tutti i nodi della donna. Non dovevano portare nodi in alcune cerimonie religiose, né durante certe pratiche di magia, e non nel travaglio del parto: dalla fascia che reggeva i seni, alla cintura, ai nastri dei capelli, ai lacci dei sandali. Possibile allora mettere in relazione un sandalo slacciato, libero da nodi con la chiusura che avrebbe impedito il parto ad una donna, simbolo stesso della matrona prolifica, l’ipostasi di Cornelia, madre dei Gracchi 6? Secondo studi recenti, pare che la statua sia stata eretta appena dopo la morte di Cornelia, quindi proprio a ridosso degli anni 100. Seguendo Plinio, la scultura fu collocata dapprima nel portico dei Metelli, in seguito, rimossa, venne esposta nel complesso voluto da Ottavia, un’altra insigne madre in lutto per la perdita del figlio, e un figlio speciale, perché il ragazzo M. Claudio Marcello, morto nel 23, non solo amato da lei, ma allevato dal Principe per la successione. Insieme alle altre statue che ornavano il portico di Ottavia, un palcoscenico tutto al femminile, animato da immagini leggendarie di donne e divinità madri, Cornelia rappresentava degnamente la sua funzione ma, mentre l’espressione isolata mater Gracchorum evocava un preciso episodio politico della storia repubblicana, ben diverso 6
M. Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Torino, 1998
14 valore mediatico aveva l’aggiunta del patronimico Africani filia. La propaganda augustea, che teneva in sommo onore le madri famose che avevano dato più figli alla patria, onorava Cornelia ricordandone la discendenza: era figlia, prima di madre, e figlia di un grande romano, il vincitore di Annibale. La scrittura sulla base della statua è senza ombra di dubbio di età augustea e, quasi certamente, essa fu rifatta nel momento in cui spostarono l’immagine per deporla nel portico di Ottavia, dove Plinio poteva ancora vederla. La didascalia riferita da Plutarco invece, Kornhli/an mhte/ra Gra/gxwn (C. Gr., 4, 4), dipenderebbe da una fonte precedente, quando l’ignoto committente aveva voluto onorare proprio la madre dei tribuni della plebe ed indirettamente i tribuni. In conclusione, se volessimo operare una scelta fra Cornelia, Africani filia o mater Gracchorum, opterei per l’espressione che ritengo originale, cioè mater Gracchorum, modello tecnonimico e non patronimico. Ora, agli studi di genere scegliere eventualmente un ruolo diverso per Cornelia. Ma quale? BIBLIOGRAFIA A.J. Toynbee, Hannibal’s Legacy, 2 voll., Londra, 1965. F. Coarelli, La statue de Cornelie mère des Gracques et la crise politique à Rome au temps de Saturninus, H. Zehnacker (ed.) Le dernier siècle dela République romaine et l’époque augustéenne, pp. 13-­‐
28, Strasbourg, 1978. M. Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Torino, 1998. S. Dixon, Mother of the Gracchi, London, New York, 2007. F. Cenerini, La donna romana, (2002), Bologna, 2009. E. Cantarella, Dammi mille baci, Milano, 2009 Ead., L’ambiguo malanno, (1981), Milano, 2011.