Destino e rappresentazione. Il linguaggio tragico nella

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Destino e rappresentazione. Il linguaggio tragico nella
Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVI (2010), pp. 55-82
Destino e rappresentazione. Il linguaggio tragico nella
Fenomenologia dello spirito di Hegel
Eleonora Caramelli
Recent studies have shown that language is a constitutive moment
of Hegel’s thought. Following this line of thinking, we wish to
illustrate how language is tied by its duplicity to the constellation
of tragedy and in particular to the notion of destiny in Hegel’s
work of 1807. The paper seeks to interpret the linguistic shape
of destiny and the divine that is involved in the transition from
tragedy to comedy, in order to read in it a certain prefiguration
and one possible meaning of the transition from Vorstellung to
Darstellung, i.e. the destiny of representation.
Keywords: representation/Vorstellung, language, tragedy.
1. Il problema del linguaggio nella Fenomenologia dello spirito
Se si lascia da parte la questione della proposizione speculativa1, la
cui trattazione esula del tutto dai limiti del presente intervento, il problema del linguaggio2 fa la sua esplicita comparsa nel primo capitolo della
1 Per un approfondimento della questione si rimanda a W. Marx, Absolute Reflexion
und Sprache, Vittorio Klostermann, Stuttgart 1967, a J.P. Surber, Hegel’s Speculative Sentence, in «Hegel-Studien», Bd. 10, 1975, pp. 211-230 e a G. Wohlfahrt, Der speculative
Satz, de Gruyter, Berlin-New York 1981. Sulla medesima questione, in lingua italiana, si
rimanda a G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, Aracne, Roma 2005, pp. 62-72.
2 Per quanto concerne la letteratura sul linguaggio in Hegel si rimanda in primo
luogo alla studio esaustivo, che prende in considerazione tutto l’arco delle riflessioni
che Hegel dedica al linguaggio, da Jena a Berlino, di Th. Bodammer, Hegels Deutung
der Sprache, Meiner, Hamburg 1969; sempre in prospettiva generale anche D. Cook,
Language in the philosophy of Hegel, Mouton, L’Aia 1973. A partire dal linguaggio nella
Fenomenologia, per mettere capo ad una interpretazione del cruciale ruolo e senso
del linguaggio nella filosofia hegeliana, si veda J. Simon, Das Problem der Sprache bei
Hegel, Kohlhammer, Stuttgart 1967 e Id., Sprachphilosophosche Aspekte der neueren
Philosophigeschichte, in Aspekte und Probleme der Sprachphilosophie, hrsg. von J. Simon,
Alberg, Freiburgh/München 1974, pp. 31-48. Si veda poi anche il contributo di K.
http://www.fupress.com/adf
ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online)
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Eleonora Caramelli
Fenomenologia dello spirito di Hegel, all’altezza della certezza sensibile.
Il sapere che è il primo oggetto del cammino fenomenologico è un sapere
immediato, cioè il sapere dell’immediato: è il sapere dell’oggetto come
essente. Trattandosi di un sapere prediscorsivo, tuttavia, il linguaggio non
può non interferire con quella certezza, per alterarla e solo così verificarla: la certezza sensibile è la figura che viene smascherata e si tradisce
proprio perché parla.
Per definire in prima battuta i limiti del dominio del linguaggio nella
Fenomenologia vale dunque la pena indugiare brevemente su questo
smascheramento. Dell’oggetto, infatti, la coscienza dice solo che è. Più
precisamente, quell’oggetto che è la coscienza lo appella come un ‘questo’, di cui essa stessa è il correlativo in quanto ‘questi’: un Dieses. A ben
riflettere, però, nella certezza sensibile c’è già qualcosa di più di quel che
essa dice di sapere: dicendo che ‘questo è’ ha già messo in gioco molto
più di quel che sta nella sua certezza. I due ‘questi’, infatti, non sono
immediatamente, ma già di per sé mediati, perché l’io ha la certezza di
una cosa tramite quella cosa, e la cosa è nella certezza tramite l’io.
Bisogna dunque prendere in considerazione l’oggetto, e vedere se, di fatto,
nella certezza sensibile esso sia proprio al modo di quell’essenza per cui viene
spacciato da quella stessa certezza; bisogna considerare cioè se questo concetto
dell’oggetto, che ne farebbe l’essenza, corrisponda al modo in cui la presenza
di esso si dà nella certezza sensibile3.
Nel serratissimo confronto in cui il sapere della certezza sensibile
viene a questo punto interrogato socraticamente, la certezza si tradisce
rispondendo alla domanda ‘che cos’è il questo?’. Dato che il deittico è
Löwith, Hegel und die Sprache, «Neue Rundschau», 76, 1965, pp. 278-298; nonché uno
tra i più recenti contributi dedicati al tema, Hegel and Language, a cura di J.-P. Surber,
State University of New York Press, Albany 2006. Per una supervisione bibliografica
più esaustiva si rimanda a A. Ferrarin, Hegel e il linguaggio. Per una bibliografia sul
tema, «Teoria», 7, 1987, pp. 139-159; e – per una panoramica più recente – al primo
capitolo di M. Campogiani, Hegel e il linguaggio, La città del sole, Napoli 2001.
3 L’edizione critica di riferimento delle opere di Hegel è quella dei Gesammelte
Werke, a cura della Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften e della Deutsche
Forschungsgemeinschaft, Meiner, Hamburg 1968- (d’ora in poi GW). Per la Fenomenologia si veda dunque il t. IX, Phänomenologie des Geistes, a cura di W. Bonsiepen e
R. Heede, Meiner, Hamburg 1980, p. 64; per il riferimento in lingua italiana si veda la
Fenomenologia dello spirito, trad. it. e cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 71
(d’ora in poi FS). Le altre opere hegeliane sono citate con le seguenti abbreviazioni: ESF =
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, in tre tomi a cura di V. Verra e A. Bosi,
UTET, Torino 1981-; SL = Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, revisione di C. Cesa
(1968), Laterza, Roma-Bari 2008. Ästh. = Ästhetik, a cura di F. Bassenge, Aufbau, Berlin
1955; Est. = Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro (1963), Einaudi, Torino 1997.
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l’elemento che definisce le coordinate spaziali e temporali di qualcosa in
relazione al parlante, il ‘questo’ si declina come qui e ora. Alla domanda
‘che cos’è ora’ la certezza sensibile risponderà, se è notte, che è notte,
ma, quando si è fatto giorno, ‘ora è notte’ non è più vero, e anzi quel che
è vero è che ‘adesso non è notte’, o che ‘adesso non è giorno’; l’adesso,
rispetto a questo o quel momento lì, è una misura negativa, ed è in generale
un universale che in questa negatività si mantiene: «anche il sensibile lo
enunciamo [sprechen aus] come un universale»4.
Parlando, non ci esprimiamo affatto secondo quanto intendiamo in questa
certezza sensibile. È il linguaggio, però, come vediamo, a essere più veritiero: in
esso siamo noi stessi a confutare immediatamente il nostro intendere, e poiché
l’universale è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio non esprime che
questo vero, non c’è assolutamente mai la possibilità di dire un essere sensibile
per come lo abbiamo in mente5.
Essendo una conoscenza prediscorsiva, la Meynung è inesprimibile:
non esiste un’espressione che possa esserle adeguata. Solo quando essa
viene espressa, e perciò stesso alterata, lo statuto del contenuto di coscienza
della certezza sensibile diventa un sapere dell’oggetto: l’oggetto, da massa
opaca, scatola chiusa che era, totalmente altro rispetto alla coscienza, si
affaccia alla sua presenza nella propria universalità, analoga all’universalità
dell’io. Il punto è che il linguaggio parla in termini universali – tematica
questa che verrà trattata da Hegel anche nell’Enciclopedia. Possiamo brevemente richiamarci ad alcune affermazioni tratte da quel luogo al fine di
delineare per contrasto il diverso movimento problematico di cui incede
la Fenomenologia e sul quale qui ci concentreremo noi. Nel compendio
enciclopedico il linguaggio è oggetto di trattazione nella parte dedicata
alla psicologia dello spirito teoretico, entro lo spirito soggettivo. L’universalità della parola, del nome in particolare, è legata qui all’universalità
del pensiero, perché nominare qualcosa è già pensarlo, facendo a meno
dell’intuizione sensibile: «è nel nome che pensiamo»6. L’universalità propria della parola, che richiama ed evoca il pensare, sta in ciò per cui la
parola costituisce di per sé un’emancipazione dal sensibile; a un secondo
livello dell’analisi, inoltre, essa promuove, nel generale movimento unidirezionale che procede dalla rappresentazione al concetto, l’emancipazione
dall’elemento rappresentativo7. Nel primo senso la parola si emancipa dal
GW IX, p. 65; FS, p. 72
Ibid.
6 GW XX, §462, p. 460; ESF, p. 329.
7 Per una esposizione più puntuale dell’intero passaggio si rimanda al capitolo
relativo di Bodammer, Hegels Deutung der Sprache, cit. Per una problematizzazione
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sensibile in quanto parola parlata, cioè segno acustico dallo statuto peculiare. La parola parlata è infatti quell’esistenza che, andando a dissolversi
nel proprio vibrare sempre più flebile, funziona come segno anche sotto
il rispetto per cui segno non è: il flatus vocis, come il segno, funziona
scomparendo. Nel secondo senso, però, per quanto la sensibilità dilegui
nella perdurante universalità del significato, il nome rimane pur sempre
una rappresentazione: «il nome è la Cosa [Sache], quale essa è presente
[wie sie vorhanden ist], e ha vigore, nel regno della rappresentazione»8.
L’elemento rappresentativo che affetta il nome è il suo essere, in quanto
significato, una unità di riferimento astratta e isolata dalle altre. L’ordine
della rappresentazione, in tal senso, risente delle «forme nelle quali l’intelligenza è intuitiva»9, la dimensione dello spazio e del tempo in cui le
cose sono le une accanto alle altre – dove c’è una cosa non può essercene
un’altra – e le cose avvengono le une dopo le altre – ogni momento ‘t’
esclude gli altri; il Nebeneinander e il Nacheinander sono le dimensioni
che legano le rappresentazioni tra di loro, cioè propriamente l’impensato
del pensare rappresentativo medesimo. La verità dei nomi sarà allora
nell’insieme del linguaggio, cioè nella loro connessione. Quel che rimane
da levare è allora il collegamento tra il nome e il proprio significato, cosa
che avviene in virtù del Gedächtnis, quando la memoria è solo memoria;
nell’auswendig Lernen, «lo spazio universale dei nomi in quanto tali, cioè
delle parole prive di senso»10, il singolo nome è scardinato nel momento
stesso in cui il suo concatenamento con gli altri non dipende più dal suo
significato. Paradossalmente, l’operazione meccanica che tiene saldo il
fluire delle parole è al contempo la quintessenza del pensiero, ed il pensiero è ciò che tiene uniti i nomi. Il passaggio intrinseco dalla memoria
meccanica al pensare è il momento in cui si estingue il rimando ogni volta
singolo ad un significato determinato. In questo secondo senso, allora, è
quasi malgré lui che lo spazio delle parole prive di senso, suoni e nient’altro
che suoni, promuove il pensare: il sensibile al suo secondo grado, come
se bruciasse di autocombustione, è diventato etereo. Il collegamento tra
i nomi ha assunto adesso la forma del pensiero, è il pensiero, che non ha
più un significato nella misura in cui è il significato. Con la separazione
tra nome e significato viene superato l’ultimo residuo rappresentativo
dell’impostazione della questione nel quadro sistematico e la sua differenziazione dalla
Fenomenologia, si rimanda al primo capitolo di G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema
dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Il Mulino, Bologna 2010. Sul
rapporto tra impostazione sistematica e impostazione fenomenologica si veda anche
Cook, Language in the philosophy of Hegel, cit., pp. 175-182.
8 GW XX, §462, p. 459; ESF, p. 328.
9 Ivi, §448, p. 444; ESF, p. 300.
10 Ivi, §463, p. 461; ESF, p. 331.
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che ancora recava in sé qualcosa di affine alla figuratività dell’immagine
e all’ordine del sensibile.
Tornando al primo capitolo della Fenomenologia e al ruolo che vi
gioca il linguaggio, è vero che anche qui il punto è che il linguaggio parla
universale, ma si tratta di capire in che senso esso sia «più veritiero» della
Meynung professata dalla certezza sensibile: dobbiamo chiederci se questa
coscienza parli davvero e possa mai dire veramente ‘Io’. Questo soggetto
ridotto ai minimi termini, impermeabile ad ogni esperienza, non è ancora
un Io, e, di fatto, ‘Io’ non lo dice mai riferendosi a se stesso. Il suo ‘questo
è’ è una sorta di balbettio, perché solo ‘questo’ può dire e ripetere: la
certezza sensibile non sembra accedere al vero e proprio linguaggio11. Il
punto è a nostro avviso che il linguaggio definisce un campo di esperienza.
Non casualmente, Hegel conclude dicendo che «la dialettica della certezza
sensibile non è altro che la semplice storia [Geschichte] del movimento o
dell’esperienza che essa fa, e la certezza sensibile è solamente tale storia»12.
Lo statuto della certezza sensibile, per come essa si meynt, è niente, e
così la prima dialettica legata al linguaggio – ciò per cui la coscienza non
può dire quel che meynt – è quella che apre questa Geschichte in quanto
accadimento: solo a partire da qui l’universale e l’individuale entrano
in gioco, e, dacché entrano in gioco, lo fanno nella dimensione dell’accadere e dell’esperienza. La linguisticità è qui non tanto o non soltanto
l’universale rescisso dall’individuale sensibile, quanto la dimensione in
cui si dà l’accesso della coscienza all’esperienza, nell’accadere della quale
l’essenza si manifesta. Se il linguaggio non consente di dire «il ‘questo’
sensibile che si ha in mente», è perché ‘questo’ non è neanche propriamente esperibile. Allo stesso titolo, sembra che fin da questo punto si
possa arguire che, non essendo immediatamente esperibile neanche
l’universale, la parola sia il medium in cui esso prende corpo. È in questa
direzione che sembra volgere il ruolo del linguaggio nella parte dedicata
all’estraniazione dello spirito nel capitolo sesto. Entro la dialettica tra la
sostanza e la coscienza, nei termini della quale la coscienza nobile dovrà
sacrificarsi alla sostanza, il linguaggio, dice Hegel, «si presenta [tritt auf]
nel suo significato peculiare»13. In un primo senso ciò avviene perché qui
viene messo a valore l’aspetto immediatamente dileguante della parola.
Il sacrificio autentico della coscienza è quello in cui essa si esteriorizza
pur rimanendo presso di sé, e tale sacrificio è veicolato dal linguaggio,
l’elemento in cui l’Io viene preservato, per due motivi tra loro legati. In
11 Cfr. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., p. 22, in cui il linguaggio
è ciò che «die dialektische Bewegung der “Phänomenologie” in Gang bringt» (ibid.).
12 GW IX, p. 68; FS, p. 76.
13 Ivi, p. 276; FS, p. 337.
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primo luogo, nel momento in cui viene enunciato, l’Io particolare come
questo io determinato scompare e ciò che si manifesta è la sua universalità, che dell’Io è la vera natura e dunque ciò in cui l’Io permane. Ma,
in secondo luogo, la forza di questa permanenza affonda nell’elemento
sensibile in cui il linguaggio si esprime: la voce come suono. Nel momento
in cui è enunciato, infatti, l’Io viene vernommen, viene cioè percepito
in un modo che è al contempo spirituale. Quando la voce smette di
risuonare, l’esistenza ottenuta dall’io nell’elemento del suono verhallt,
dilegua, ed è proprio questa la peculiarità dell’esistenza dell’Io: l’Io esiste
mentre dilegua e il modo in cui l’Io esiste è questo dileguare. Il significato
peculiare del linguaggio è dunque legato allo statuto del suo momento
sensibile. Questo è tuttavia solo un aspetto di ciò per cui il linguaggio
compare qui nel suo significato peculiare. Per trovare l’altro aspetto più
recondito è necessario fare attenzione alle precise parole scelte da Hegel
in questa occorrenza: la singolarità per sé essente «tritt in die Existenz»14
nel linguaggio, che è però «das Daseyn des reinen Selbst als Selbst»15.
Il linguaggio è dunque una volta Existenz, un’altra volta è Daseyn, così
che si può pensare sia proprio questa duplicità a costituire qui il suo
significato peculiare. Per capire la differenza di significato che sussiste
tra i due termini sia lecito mutuare strumentalmente dal senso che essi
verranno ad assumere nella Scienza della logica. Il Daseyn è un termine
che ricorre nella logica dell’essere, mentre l’Existenz compare nella logica
dell’essenza e a questo livello ne è il correlato: l’Existenz è infatti una
determinazione della riflessione. L’Existenz è l’esistenza trasparente, in
cui il fondamento come essenza viene tutto in luce facendosi apparenza
(il Grund che al contempo si fa Abgrund).
L’esistenza [Existenz] non è qui da prendersi quasi un predicato o quasi
una determinazione dell’essenza, in modo da poter dire con una proposizione:
l’essenza esiste, ossia ha esistenza; – ma l’essenza è passata nell’esistenza; questa
è la sua assoluta estrinsecazione, al di là della quale l’essenza non è rimasta16.
Il Daseyn, per contro, è «bestimmtes Seyn»17, l’unità semplice di essere
e nulla che conserva però entro sé (il Daseyn è Insichseyn), proprio perché
ne è l’unità solo semplice, un nucleo di essere non ancora dissodato. È in
tal senso che il Daseyn è al contempo Etwas, l’unità positiva essente, ed è
dunque come un involucro, come una pelle che avvolge un cuore di essere.
L’immediatezza dell’essere di cui conserva, in via mediata, il carattere, sta
GW IX, p. 276; FS, p. 337.
Ibid.
16 GW XI, p. 326; SL, p. 541.
17 Ivi, p. 59; SL, p. 100.
14 15 Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
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proprio in ciò per cui quel qualcosa è un qualcosa, ed in tal senso è una
sorta di unità monadica: differentemente dalle categorie dell’essenza, che
sono relazione, le categorie dell’essere non sono che in relazione. Se il
linguaggio è per un verso solo il Daseyn di quel che in esso si esprime, ciò
significa che c’è una misura in cui il linguaggio non esprime l’exprimendum,
e questa misura corrisponde a quella per cui il linguaggio è linguaggio come
il qualcosa è qualcosa: questa è la misura in cui il linguaggio è in maniera
positiva, ha una trama e una tessitura, una sua peculiare figura. A differenza
dell’ascesi enciclopedica, in cui il carattere dileguante della parola parlata,
catalizzatore del movimento del pensare e dell’intelaiatura concettuale18,
finirà per eclissare nella sua trasparenza la coloritura propria della parola
in quanto tale, nella Fenomenologia il margine rappresentativo-figurativo
del linguaggio gioca un ruolo e incarna l’un volto della sua duplicità costitutiva. Non sarà un caso se, proprio nel luogo del sesto capitolo in cui
il linguaggio emerge nel suo significato peculiare, cioè la sua duplicità,
Hegel dice che «lo spirito ottiene qui realtà effettiva»19. E non sarà ugualmente un caso se, ritornando alla conclusione della sezione sulla certezza
sensibile da cui eravamo partiti, il potere del linguaggio di invertire l’indicibile Meynung viene definito come la sua «natura divina»20. Proprio quel
margine rappresentativo-figurativo, e quella duplicità, assolveranno un
ruolo fondamentale nella sezione sulla religione: il linguaggio, del divino,
è propriamente la figura. L’irrompere del linguaggio definisce dunque un
campo d’esperienza, che si dipana tra quei suoi due versanti che attengono
l’uno all’ordine della rappresentazione e l’altro all’ordine del concetto.
Non da ultimo, poiché nel linguaggio si manifesta l’essenza medesima, si
può concludere che tra quei due versanti, che sono il momento estetico e
quello speculativo, vive e oscilla anche la vita dello spirito.
2. Il linguaggio e la figura dello spirito
Potremmo dire che la religione, quale è presentata da Hegel nel
capitolo sette, è la storia di come il divino è venuto in luce. Proprio
18 Sul rapporto tra rappresentazione e concetto si vedano, su prospettive tra loro
molto diverse, A. Nuzzo, ‘Begriff’ und ‘Vorstellung’, «Hegel-Studien», Bd. 25, 1990 e,
di particolare rilievo per quanto concerne il rapporto tra religione e rappresentazione,
P. Ricoeur, Le statut de la Vorstellung dans la philosophie hégélienne de la religion, in
Qu’est-ce que Dieu?, a cura di Y. Bonnefoy, Publications des facultés universitaires SaintLouis, Bruxelles 1985, pp. 185-206. Sempre con particolare attenzione alla religione, ma
a partire dal problema del linguaggio, si veda anche M. Clark, Meaning and language in
Hegel’s philosophy, «Revue philosophique de Louvain», 58, 1960, pp. 557-578.
19 GW IX, p. 276; FS, p. 337.
20 Ivi, p. 70; FS, p. 79.
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Eleonora Caramelli
perché si rende visibile, la religione è altresì il modo in cui la cultura
concepisce la propria relazione con il divino ed in ciò prende coscienza
di sé. Nella misura in cui lo spirito è qui, differentemente dalle figure
precedenti, autocoscienza, l’opposizione reale di cui era soggetto la coscienza in quanto tale viene riassunta nella conoscenza che lo spirito ha
di sé, nell’elemento della rappresentazione, cioè nella sua stessa figura:
divenendo oggetto a sé, l’opposizione reale si riproduce nell’opposizione ideale tra quel che lo spirito è e la sua figura. Solo alla fine di un
lunghissimo processo, che è la storia della religione medesima, la sua
figura finirà per essere perfettamente trasparente a sé, il che significa
che la manifestazione, che allo spirito è altresì essenziale, almeno fino a
un certo segno ne sarà anche la maschera.
Nella religione, lo spirito in quanto si rappresenta a se stesso è certamente
coscienza, e la realtà effettiva che è racchiusa nella religione è la figura e la veste
della rappresentazione dello spirito stesso. In questa rappresentazione, però, non
viene fatta giustizia alla realtà effettiva, che avrebbe il diritto di non ridursi a una
veste, e di essere invece libera esistenza autonoma; […] Per esprimere appunto
tale spirito, anche la sua figura non dovrebbe essere altro da esso, e lo spirito
dovrebbe manifestarsi – ossia dovrebbe essere effettivamente – [erschienen oder
wirklich seyn] così com’è nella sua essenza21.
In tal senso la via rappresentativa della conoscenza del divino, la
via religiosa che è la via artistica, si contrappone alla via concettuale in
quanto via della perfetta trasparenza. È per questo che la rappresentazione del divino è altresì, del divino, il simbolo, la figura concreta in cui
esso ha il proprio Daseyn ma che al contempo rimanda al divino nella
sua verità. Lo spazio in cui la rappresentazione, pur tendendo ad esso,
vi si contrappone, è ciò in cui si consuma l’ingiustizia necessaria sia nei
confronti del reale, che non dovrebbe essere una veste, sia nei confronti
dello spirito, che è più e meno che figura, e che tuttavia deve consegnarsi
ad essa «per manifestarsi così com’è nella sua essenza». Non bisogna
tuttavia dimenticare che, nello stesso momento in cui non coincide pienamente con la sua manifestazione, lo spirito acquisisce verità solo nel
movimento di quella manifestazione medesima: la religione è la «realtà
effettiva esistente [die daseyende Wirklichkeit] di tutto lo spirito», che «è
solamente in quanto movimento di questi suoi lati, che opera differenze e
che ritorna entro di sé»22. Dacché siamo nella religione, dunque, in cui lo
spirito è autocoscienza, esso conosce sé come totalità, e come una totalità
che è individuale universale: «lo spirito discende dalla sua universalità
21 22 GW IX, p. 365; FS, p. 447.
Ivi, p. 366; FS, p. 447.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
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alla singolarità, attraverso la determinazione»23. Questa determinazione
non è nient’altro che la sua figura.
Nella sezione introduttiva del capitolo sette la lunga storia della
religione viene suddivisa in tre grandi momenti: la religione naturale, la
religione artistica e la religione rivelata. Se nella prima il divino acquisisce
la figura di un oggetto immediato, nella seconda il soggetto si eleva alla
forma del Sé, il quale si riconosce in un oggetto in grado di produrre
quella forma medesima. Soltanto nella religione rivelata lo spirito giunge
alla propria figura vera, cioè la figura in cui esso si dà come è in sé e per
sé, per quanto il margine di carattere figurale sia ancora ciò che separa
lo spirito da se stesso: questo margine è precisamente il portato rappresentativo. Solo nella forma del concetto lo spirito si conosce secondo lo
spirito: il concetto ne è «l’essenza non figurata [ungestaltetes Wesen]»24,
l’unica che non lo tradisce più.
Nella prima forma della religione naturale lo spirito è in prima
istanza soltanto concetto, «la notte dell’essenza» gravida del «mistero
creatore della sua stessa nascita»25: è la destinazione fatale della sua stessa rivelazione. Ma la prima forma in cui lo spirito sa se stesso è quella
dell’oggettività immediata, affine all’oggetto della certezza sensibile, di
cui non si può dire niente e che rimane sostanzialmente inconoscibile.
Ugualmente, la prima figura dello spirito è una figura senza figura (die
Gestalt der Gestaltlosigkeit), è «l’essenza luminosa dell’oriente, che contiene e riempie tutto, e che si mantiene nella sua sostanzialità priva di
forma»26. Qui la luce27 si propaga e palpita senza posa, illumina le cose
senza alterarle e vi si sofferma senza alterare sé: essa non patisce ancora
in sé il momento della differenziazione, la vera e propria soggettività.
Ibid.; FS p. 447
Ivi, p. 369; FS, p. 452.
25 Ivi, p. 370; FS, 454
26 Ibid.
27 Gli interpreti collegano generalmente il culto dell’essenza luminosa di cui qui
tratta Hegel alla religione persiana di Zoroastro; il riferimento alla luce, altresì, sembra
richiamare, il che non sarebbe privo di significato, anche la religione di Israele. Se la
prova ex post può avere in tale contesto una qualche cogenza, è proprio tramite il riferimento al luminoso che, nelle più tarde lezioni di filosofia della religione, Hegel pensa
il divino di Israele: «la luce è la tua veste, che tu indossi» recita rivolgendosi al Signore
il salmo 104 da Hegel richiamato (cfr. Id., Lezioni di filosofia della religione II, trad. it.
e c. di R. Garaventa e S. Achella, Guida, Napoli 2009, pp. 60 sgg.). Tra gli interpreti,
propendono decisamente per questa ipotesi W. Jaeschke (cfr. Id., Die Vernunft in der
Religion, Frommann-holzboog, Stuttgart, pp. 212-214) e H.S. Harris (cfr. Id., Hegel’s
Phenomenology of Religion, in Thought and Faith in the Philosophy of Hegel, a cura di
J. Walker, Kluwer, Dordrecht 1991, pp. 88-95); in lingua italiana l’ipotesi è presa in
considerazione anche da M. Pagano, Hegel. La religione e l’ermeneutica del concetto,
Esi, Napoli 1992 (pp. 120-121).
23 24 64
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Quel che interessa è la significativa conclusione che suggella il momento
aurorale in cui lo spirito viene in luce come luce. In primo luogo questa
vita cangiante, «che si limita a sorgere senza tramontare entro se stessa»28,
deve determinarsi come un essere-per-sé: è in tal senso che questo secondo
versante non potrà coincidere immediatamente con il suo essere-in-sé;
affinché la sostanza volga verso una prima forma di soggettività è dunque
necessaria una certa scissione e, a partire da qui, l’essere oggettivo in cui
si estrinseca lo spirito avrà un significato simbolico e la forma del Sé. In
secondo luogo lo spirito passa a sapere se stesso nella forma del Sé, e può
sapersi solo in virtù di questa opposizione che gli è nata in seno. Per il
terzo e più importante punto citiamo direttamente Hegel:
La luce pura rifrange la propria semplicità moltiplicandola in un’infinità
di forme e si offre in sacrificio all’essere-per-sé, in maniera tale che, nella sua
sostanza, il singolo venga ad assumere sussistenza29.
Se con questo passaggio Hegel preannuncia già l’essere-per-sé che
emerge nella religione artistica, possiamo dire che il percorso stesso della
figurazione dello spirito, al termine del quale esso si saprà nella forma
del Sé, è concepito in quanto sacrificio.
Dopo la religione dei fiori, prendendo le mosse dalla religione degli
animali, nasce la figura dell’artefice, il quale prefigura l’arte vera e propria.
Con l’artefice la figura del divino si fa opera, τέχνη, artificio: una figura
che è anche fictura. La figuralitas che progressivamente si esprime nella
fattura dell’opera sembra qui riassumere in nuce le plurime valenze del
concetto prima classico e poi propriamente cristiano di figura30. A partire
da qui l’opera costituisce il perno di una triangolazione tra l’umano e il
divino in cui si gioca un riconoscimento bilaterale: la misura in cui l’artista/produttore si riconosce nella propria opera coincide con la misura
in cui essa è figurazione adeguata del divino, quella in cui il divino può
riconoscere sé. Il problema, però, è che ogni opera, nella sua fatticità,
costituisce perciò stesso un’alienazione della soggettività che ad essa ha
GW IX, p. 371; FS, p. 455.
Ivi, p. 372; FS, p. 455.
30 Si veda per questo il classico saggio di E. Auebarch, Figura, in Id., Studi su
Dante (1964), trad. it. di M.L. De Piri Bonino, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 176-240.
Non è possibile sviluppare qui la possibile utilità del concetto cristiano di figura per la
comprensione dello statuto e del ruolo della Gestalt religiosa nella Fenomenologia, ma
valga la pena notare che non solo la Gestalt è tendenzialmente figura nel senso che a
tale termine attribuiva la classicità latina, materia disegnata, compenetrazione di forma
e contenuto, nonché fictura come copia sensibile necessariamente fallace, ma anche nel
terzo senso storico-religioso, dove la figura è ciò che suscita e prefigura l’incarnazione,
trovando in essa il proprio compimento.
28 29 Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
65
dato vita: come veniva detto nella sezione sulla frenologia «l’individualità
che si affida agli elementi oggettivi, diventando opera, si espone ad essere
alterata»31. Nel rapporto che l’agente intrattiene con la propria opera si
dà quindi un momento negativo che l’opera in quanto cosa positiva non è
in grado di incarnare in sé e restituire. Il punto allora è che, come risulta
dalla sezione dedicata a autonomia e non autonomia della coscienza, «il
rapporto negativo verso l’oggetto» deve diventare «forma dell’oggetto
stesso»32. Nel momento in cui il rapporto negativo verso l’oggetto si fa
forma dell’oggetto medesimo questo restituirà il momento negativo del
fare coscienziale così come il momento negativo del divino, diventandone
figura adeguata.
Il primo lavoratore spirituale, però, è un Werkmeister che lavora in
maniera istintiva. L’artefice prende in prestito e approfitta delle forme
geometriche naturali per conferire loro una intelligibilità rarefatta e
astratta, ma una forma del genere «non è in se stessa il proprio significato, non è il Sé spirituale»33. Anche quando piega e forza il naturale allo
spirituale, mescolando le forme vegetali a quelle umane, l’aspetto esterno
dell’opera, più che esprimere lo spirito, ne è una sorta di scorza, non ne
è che l’involucro, die Hülle: l’aspetto artificiale, künstlich, è ancora embrionale e perciò non ancora compiutamente künstlerisch. Dipendendo
ancora dell’elemento naturale esterno, il negativo dello spirito è presente
nella sua figura solo come mancanza duplice: è il rapporto negativo tra
l’in-sé lavorato e il per-sé del lavoratore spirituale, che nell’opera non
può riconoscersi, e il rapporto negativo tra la forma dell’opera e il suo
significato, che al momento la trascende.
All’opera mancano ancora la figura e l’esistenza determinata in cui il Sé
esiste in quanto Sé; a mancarle è ancora questo: l’intrinseca capacità di enunciare [aussprechen] il proprio racchiudere un significato interiore; le manca il
linguaggio, l’elemento in cui è presente il senso stesso che la riempie34.
31 GW IX, 179; FS, p. 218. È da rilevarsi, tuttavia, che solo dopo il periodo jenese,
a partire dall’Enciclopedia di Norimberga del 1808, quando il movente storico-filosofico
degli anni precedenti viene soppiantato da quello sistematico che preannuncia già le
tre versioni del compendio enciclopedico, la finitudine diventerà il limite costituivo e
insopprimibile dell’opera, una sorta di sua malattia originaria (cfr., ivi, §§203-206 in
particolare); dal che, negli anni ’20 e ’30, a risultare problematica sarà la stessa collocazione sistematica dell’arte: per quanto venga concepita come la prima forma in cui lo
spirito assoluto è oggetto a se stesso, dato il limite originario che è la sua finitudine, essa
non dovrebbe poter esprimere che lo spirito finito. Cfr., su questo, P. D’Angelo, Hegel
e l’estetica, in Hegel: guida storica e critica, a cura di P. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1992,
pp. 120-151, in particolare pp. 142-145.
32 GW IX, p. 115; FS p. 135.
33 Ivi, p. 373; FS, p. 457.
34 GW IX, p. 375; FS, p. 459.
66
Eleonora Caramelli
Finché non parla, infatti, il senso dell’opera è in balia della natura,
e il suo Sé è solo esteriore. Anche quando tutto il senso dell’opera sta
nel custodire il Sé nel proprio interno, come nel caso della pietra nera
con cui Hegel sembra alludere alla pietra nera de La Mecca, o meglio
all’omphalos di Delphi35, l’involucro, il cui unico senso è quello di «dar
segno d’avere un interno», di quell’interno è al contempo la prigione,
il segno la cui fatticità non ha senso alcuno, «il guscio inessenziale»36.
Il margine simbolico si assottiglia solo quando l’opera, plasmata nell’elemento del linguaggio, enuncia da sé il proprio significato, e con ciò il
proprio interno; nei termini dell’Estetica, sarebbe questa l’opera d’arte
ideale. Se il linguaggio, inoltre, è al contempo l’elemento in cui è presente
il senso stesso che la riempie, dobbiamo intendere che solo nel linguaggio
il rapporto negativo che sta fuori dall’opera ne diventa il contenuto, ragion
per cui «l’opera non costituisce per sé il tutto effettivamente animato,
bensì è un tutto soltanto insieme al suo divenire»37.
Procedendo ancora nel percorso della religione, solo lo spirito artista
è colui che sa sé nella propria opera. I tre momenti in cui è suddivisa la
religione artistica – l’opera d’arte astratta, l’opera d’arte vivente e l’opera
d’arte spirituale – riproducono parzialmente la problematica triangolazione che fa perno sull’opera a partire dalla statuaria, la prima opera d’arte
astratta in cui lo spirito si spoglia delle sue vestigia naturali e diventa una
singolarità illuminata dalla coscienza. «L’inquietudine propria dell’infinita singolarizzazione»38, tuttavia, non è per questo eliminata, bensì
rimane esterna all’opera, poiché la statua è pur sempre una cosa finita.
Nuovamente, il momento negativo è dislocato nell’autocoscienza e nel
rapporto che essa intrattiene con la propria opera: è l’ineguaglianza tra
l’autocoscienza dell’artista e l’opera da lui prodotta; essa non gli restituisce la sua immagine quando vuole rispecchiarvisi e suscita per giunta il
tributo gioioso e dunque equivoco dei molti, i quali non sanno il travaglio
del suo parto, che rimane cosa morta e non gli accresce la vita. Dopo aver
provato a mettere se stesso al posto della statua nell’opera d’arte vivente,
la corporeità bella in cui l’uomo fa festa all’uomo ma in cui tuttavia lo
spirito è fuori di sé, l’elemento superiore in cui l’opera deve esistere è
nuovamente il linguaggio, l’unico elemento in cui l’opera diventa figura,
per due ordini di ragioni che Hegel enuclea nella rassegna della religione
artistica. La prima è che il linguaggio è l’esistenza in cui la singolarità è
già universalità e in cui il permanere è sempre un dissolversi, così che solo
L’argomento è sostenuto da Wohlfahrt, Der speculative Satz, cit., pp. 109-110.
GW IX, p. 375; FS, p. 459.
37 Ivi, pp. 379-380; FS, p. 465.
38 Ivi, p. 379; FS, p. 464.
35 36 Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
67
in esso l’artista può riconoscere il momento negativo del proprio fare,
trovando quella comunione che la statua nega al suo autore. La seconda
è che solo il linguaggio è l’elemento in cui l’interno è uguale all’esterno,
essendo quest’ultimo nient’altro che enunciazione del primo: il linguaggio
è «l’elemento perfetto in cui l’interiorità è esteriore quanto l’esteriorità
è interiore»39. La figura del divino sarà a questo punto espressa nel linguaggio dell’opera d’arte spirituale, nei cui tre momenti – epica, tragedia,
commedia – si dipana il divenire dell’opera nell’opera d’arte medesima,
così che il fare artistico possa infine coincidere con l’autore di quel fare.
Gli spiriti dei popoli che divengono coscienti della figura della propria essenza in un animale particolare vengono ora a confluire in un unico spirito, così
gli spiriti belli particolari, propri di ogni popolo, si unificano in un pantheon, il
cui elemento e la cui dimora è costituita dal linguaggio40.
Solo il divino che esiste nel linguaggio è un divino divenuto universale. Il fare artistico si eleva dall’opera singola e cosale alla rappresentazione del divino nella sua totalità: è il mondo tutto intero che nell’epica
si dispiega.
L’esistenza di questa rappresentazione, il linguaggio, è il primo linguaggio,
l’epos come tale, che include il contenuto universale, inteso almeno come completezza del mondo, ancorché non come universalità del pensiero41.
Il cantore epico canta le sue storie per dissolversi in esse, la sua particolarità e la sua personalità non emergono mai nel racconto a filtrarne
giudizi e prospettive. A mediare tra la particolarità del narratore e il divino
di cui racconta il mondo c’è l’eroe, l’individualità universale, così che in
questo epos «si presenta [stellt sich dar] in generale alla coscienza […]
il rapportarsi del divino all’umano»42. Se prima l’artista, nella figura del
divino, provava ad oggettivare il proprio fare, adesso è il fare medesimo in
quanto rapporto tra umano e divino a diventare oggetto della rappresentazione. L’agire dell’individualità eroica, infatti, è il risultato dell’interazione
tra il contributo umano e il contributo divino. Il problema dell’epica
è però proprio la rappresentazione dell’azione nella sua intersezione
puntuale tra il lato dell’individuale e il lato della potenza sostanziale che
anima l’atto. Se l’azione fosse il frutto esclusivo dell’individualità agente, le
deità si rivelerebbero entità superflue, ma se fosse animata esclusivamente
dalle potenze divine si rivelerebbe tremendamente inutile il doloroso
Ivi, p. 388; FS, p. 475
Ibid.
41 Ivi, p. 389; FS, p. 476
42 Ivi, p. 390; FS, p. 477
39 40 68
Eleonora Caramelli
travaglio dell’uomo che sa di dover agire. La narrazione epica scivola
inconsapevole sul filo di questo rasoio, attribuendo in maniera casuale la
matrice dell’agire ora all’ordine dell’umano ora all’ordine del divino, cui
l’individualità sembra solo cucita addosso. In questo modo si riproduce
nuovamente un margine di negatività reale che rimane estraneo alla configurazione dell’opera e al suo principio narrativo; tale margine, tuttavia,
si insidia inconsapevolmente nella narrazione o come incoerenza interna
o attraverso l’ombra dell’ineluttabile crepuscolo cui tutti i personaggi, in
tutte le loro vicende, sono votati senza poter sapere perché.
Il Sé universale fluttua sospeso al di sopra di loro e di tutto questo mondo
della rappresentazione, alla quale appartiene la totalità del contenuto; esso è come
il vuoto privo di concetto della necessità; un accadere nei confronti del quale
il comportamento degli dèi è improntato alla mancanza del Sé e all’afflizione43.
Bisogna vedere come questo margine di negatività compenetri e informi di sé la rappresentazione tragica in quanto linguaggio più elevato:
«il contenuto, che prima era lasciato a se stesso, deve ottenere in sé la
certezza e la salda determinazione del negativo»44.
In ultima battuta, prima di procedere all’analisi del linguaggio tragico, dobbiamo però richiamare quanto Hegel afferma nella conclusione
dell’introduzione alla sezione ‘B) La religione artistica’. Il culmine del
percorso in cui l’opera si rende indipendente, parla da sé e si fa figura di
tutti i momenti dello spirito, «è la notte in cui la sostanza fu tradita e si
fece soggetto»45. Se si tratta di un tradimento è perché sotto le spoglie
della fedeltà, dell’adeguazione più commisurata, si cela ciò per cui l’opera,
lungi dal veicolare l’unificazione e il riconoscimento tra lo spirito e la sua
figura, tra l’individuo e la sua opera, l’individuo e la sostanza, finirà per
essere il medium che produce la separazione di tutti i fronti: si ricorderà
allora che la separazione è, per un verso, proprio il portato effettivo e
veritiero della Vorstellung in quanto tale.
3. La rappresentazione tragica e il destino nella rappresentazione
Se il rapporto tra umano e divino, nell’epica, è mediato dalla figura
dell’eroe nell’orizzonte dispiegato del mondo, ma il momento negativo
partecipa al punto sublime dell’azione solo come contraccolpo non voluto, il fulcro della tragedia in quanto dramma è l’azione per come essa è in
verità, in tutta la sua complessità. La tragedia «riunisce più strettamente
Ivi, p. 391; FS, p. 479.
Ivi, p. 392; FS, p. 479.
45 Ivi, p. 377; FS, p. 462.
43 44 Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
69
i momenti dispersi del mondo dell’essenza e del mondo dell’azione»46.
Nel suo contenuto narrativo «la sostanza del divino si viene disgiungendo [tritt auseinander] nelle sue figure secondo la natura del concetto»47.
Quel che è da sottolineare, però, è che l’accento non deve cadere solo sul
contenuto narrativo, ma anche sullo statuto stesso del linguaggio tragico;
esso è da collocarsi nell’interezza del percorso in cui l’opera è ciò in cui
il divino prende coscienza di sé nel momento in cui lo fa anche l’umano,
percorso nel quale la tragedia è «il linguaggio più elevato»48. Se persino
il movimento delle figure del divino «è altrettanto conforme al concetto
stesso», ciò significa che lo statuto stesso della tragedia in quanto opera
è quel che media tra l’essenza che in essa si dà figura e il fare artistico
ormai equivalente all’agire in generale. Adesso, finalmente, nell’opera è
presente «il senso stesso che la riempie», così che l’opera, riproducendo
le scissioni della sostanza secondo la natura del concetto, contribuisce a
compiere quel senso proprio rappresentandolo.
In primo luogo dobbiamo chiarire in che modo la tragedia riassume
in sé tutti i momenti precedentemente dispersi.
Là dove l’eroe epico è oggetto di un racconto in cui finisce per essere
in balia delle vicende che gli occorrono come le foglie in balia del vento,
dal che deriva la desolata tristezza che gli presagisce una fine precoce,
l’eroe tragico è consapevole di se stesso, del proprio diritto e del proprio
fine; soprattutto, è egli stesso a parlare in prima persona e ad enunciarsi,
così che già per questo è lo speculare dello spirito artista che ad esso dà
vita: è artista egli stesso. Se l’eroe tragico, come l’eroe epico, non dispone di una vera e propria interiorità è solo perché la enuncia, e parlando
esterna così la propria essenza interiore. Su questa linea vengono qui
riprese per altro verso le riflessioni sulla tragedia della sezione dedicata
allo spirito vero, in cui la dialettica dell’etico incorpora quasi letteralmente
le vicende de I sette a Tebe, Edipo re e Antigone. Se lì la coscienza etica
«è essenzialmente carattere»49, ciò per cui l’individuo concepisce sé a
partire dall’appartenenza immediata all’una delle due leggi etiche, il che
faceva la sua catastrofica unilateralità50 e il suo minus di individualità, la
Ivi, p. 392; FS, p. 479.
Ibid.
48 Ibid.
49 Ivi, p. 252; FS, p. 308.
50 Sull’unilateralità del pathos tragico, incarnato in particolar modo da Antigone, si
veda P. Vinci, L’Antigone di Hegel, in Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Donzelli, Roma 2001, pp. 31-46, in cui si rileva come il limite di Antigone sia quello di non
riuscire a passare dalla negazione dell’altro al suo riconoscimento, ciò per cui ella non
sa assumere su di sé la differenza in cui è incappata e che nondimeno le è propria, così
che il suo essere pathos incarna i limiti del Sé greco in generale. Sulla figura di Antigone
46 47 70
Eleonora Caramelli
caratterialità, in quanto consapevolezza autonoma e enunciantesi, cioè
in quanto pathos, è vista ora come un plus di universalità. In tal senso,
inoltre, l’eroe tragico ha anche le fattezze di una persona reale, ed in ciò
riassume su di sé il momento dell’arte vivente: egli è infatti l’attore, l’uomo
effettivo che indossa la maschera e parla davvero; l’eroe tragico è una
figura plastica51, una sorta di ideale vivente e parlante, «la figura generata
dal concetto [die aus dem Begriff erzeugte Gestalt]»52, in cui l’interno è
uguale all’esterno, in cui la particolarità è già universalità.
La tragedia in quanto opera d’arte riunisce in sé anche gli altri momenti in virtù di cui un’opera è figura, i momenti che abbiamo messo
via via in luce nel paragrafo precedente: ciò per cui il rapporto negativo
diventa il suo contenuto, ciò per cui essa ha in sé il senso che la riempie
ed è infine l’opera insieme al suo divenire. Ricomponendo in sé tutti
questi momenti, lo statuto di quest’opera è anche la completezza: la
tragedia rappresenta tutto sotto tutti gli aspetti e i rispetti. In tal senso,
se prendiamo ad esempio la diade che si dà tra il coro e la coscienza
agente, il rapporto con il divino viene rappresentato sia nel suo versante
astratto sia nel suo versante reale. Il coro, infatti, si rivolge a e immagina
il divino in una sua figurazione inadeguata e posticcia, mentre l’azione e
l’interazione reale con esso viene portata a compimento dall’eroe.
Il versante dell’universale astratto sul quale l’eroe si staglia e spicca,
il coro, sa di un sapere rappresentativo il cui contenuto è «privo del
Sé e abbandonato alla disgregazione [auseinandergelassen]»53. Il coro
è il rappresentante del volgo, il gemeines Volk il cui essere gemeinsam
è la risultante di un aggregato più che l’espressione di una universalità
fondata e mediata. Questo volgo è dunque come il positivo morto che
rigetta il negativo e che, per ciò stesso, non sa penetrare né tantomeno
tenere insieme le plurime manifestazioni della «variopinta pienezza della
nell’opera del 1807 si veda anche G. Severino, Antigone nella Fenomenologia di Hegel,
in «Giornale critico della filosofia italiana», 1971, pp. 83-100. Una prospettiva singolare
sulla riflessione che Hegel dedica ad Antigone è quella di H-C. Lucas, Zwischen Antigone
und Christiane. Die Rolle der Schwester in Hegels Biographie und Philosophie, «HegelJahrbuch», 1984/1985, pp. 409-442, mentre sull’interpretazione hegeliana dell’Antigone
cfr. anche M. Nussbaum, La fragilità del bene (1986), trad. it. di M. Scattola, Il Mulino,
Bologna 1996, pp. 157 sgg; sull’incorporamento della vicenda tragica nell’andamento
fenomenologico d’obbligo anche il rimando a G. Steiner, Le Antigoni (1984), trad. it. di
N. Marini, Garzanti, Milano 1990, pp. 35-42 in particolare.
51 Nell’Estetica Hegel dirà infatti che «le figure tragiche di Sofocle sono dotate di
vitalità, e possono essere comparate, nella loro plastica conchiusone, alle immagini della
scultura» (Ästh., p. 254; Est., p. 268).
52 GW IX, p. 392; FS, p. 480.
53 Ibid.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
71
vita divina»54. Cantando le lodi delle divinità come se ognuna fosse sola
e separata dalle altre, il coro, anziché ricomporre nel discorso la potenza manifestatrice del divino, lascia che quelle immagini scoloriscano e
«vadano disperdendosi [laufen auseinander]»55, allontanandosi sempre
di più le une dalle altre.
Il rapporto negativo reale è preparato e messo in scena a partire dalle
molteplici scissioni che la tragedia rappresenta. Si tratta qui della scissione
della sostanza secondo il contenuto – il diritto umano e il diritto divino – e
della scissione secondo la forma – il sapere e il non sapere. È su queste
scissioni che era imperniata la dialettica tragica della sostanza e dell’individualità etica nella sezione ‘A) Lo spirito vero’ del capitolo sesto. Dacché
la sostanza etica si suddivideva in due masse, afferenti l’una all’ordine
dell’umano, l’altra all’ordine del divino – l’ordine del noto e l’ordine della
Verborgenheit -, la sostanza diventava «un’entità duplice [das Zwiefache]»56,
in cui il lato manifesto e visibile rendeva invisibile il lato sottostante ma ad
esso inscindibilmente legato: ogni lato conteneva dunque tutta l’eticità, ma,
di volta in volta, sempre con una parte interiore, un lato interno, come i
due volti di un medesimo corpo, l’uno rivolto all’esterno, l’altro all’interno.
Essendo gli individui etici il Gegenschein della sostanza, ogni individuo
rifletteva soltanto una faccia, e soltanto una faccia vedeva; nessun individuo
sapeva la loro inscindibile unità, ed è questo il margine di non sapere che
permea e struttura ogni coscienza etica in quanto tale. Sebbene il divino
fosse per essenza il reale in quanto nascosto e ignorato, anche coloro che
riflettono il lato luminoso di quel che è di pubblico dominio ignorano una
parte per struttura, e in questo modo ogni coscienza etica era insieme di
sapere e non sapere. Nella trattazione collocata nel capitolo settimo Hegel
ci dice che il linguaggio tragico rappresenta anche la scissione del sapere,
poiché al sapere e al non sapere conferisce un rispettivo volto e una fisionomia: «l’una individualità riceve la figura del dio che rivela; l’altra quella
dell’Erinni che si mantiene nascosta»57. In realtà tra i due termini se ne dà
un terzo, la terza divinità che è Zeus, «la necessità del rapporto reciproco
tra i due lati»58, ma su questo torneremo più avanti. Ora, così esposte tutte
le dicotomie in gioco, la tragedia mette in scena quel che all’epica non
riusciva di raccontare, cioè l’azione nella sua verità e secondo il concetto.
L’azione tragica dischiude le antitesi, sia quella della sostanza in quanto
immediata, sia quella della coscienza tra sapere e non sapere.
Ibid.
Ibid.
56 Ivi, p. 241; FS, p. 291.
57 Ivi, p. 394; FS, p. 484.
58 Ibid.
54 55 72
Eleonora Caramelli
Il diritto dell’eticità […] sperimenta che il suo sapere è unilaterale, che la
sua legge è legge solamente del suo carattere, e sperimenta anche di aver afferrato
solamente una delle potenze della sostanza. L’azione stessa è questa inversione
del saputo nel suo contrario, nell’essere, è il ribaltarsi del diritto del carattere e
del sapere nel diritto di ciò che è opposto59.
Sul significato dell’azione etica come azione tragica Hegel si era
concentrato nella sezione ‘b) L’azione etica, il sapere umano e il sapere
divino, la colpa e il destino’ della parte dedicata allo spirito vero cui
abbiamo sopra accennato. Nella misura in cui la sostanza etica come
Zwiefache era gravida di lati interni e ineffettivi, l’azione era ciò che mediava e verificava la sostanza insieme alla coscienza: stringendosi «in lega
con la verità, contro la coscienza», l’azione «esibisce a quest’ultima che
cosa sia la verità»60. L’azione rovescia l’interno e ne fa un esterno, rende
effettivo ciò che non lo era del tutto, rende visibile ciò che prima era
invisibile. L’individuo etico, pur agendo in ossequio a una sola delle due
leggi, quella a lui visibile, realizza infatti la sostanza nella sua interezza: i
due lati non erano che l’uno il volto dell’altro. In secondo luogo, agendo
e realizzando la scissione della sostanza, egli vede quell’unità che prima
non sapeva: l’atto che realizza la verità dell’etico realizza al contempo la
verità della coscienza, che era scissa quanto lo era la sostanza. Quel che
Hegel sottolinea di questo rapporto nel capitolo settimo è il significato
dell’azione in rapporto allo statuto della tragedia in quanto «linguaggio
più elevato»61. Se l’azione è ciò che rovescia l’ineffettivo in effettivo,
l’interno in esterno, l’invisibile in visibile, quel che il linguaggio tragico
sembra rappresentare, unico finora a poterlo fare, è proprio il modo in cui
si manifesta la sostanza medesima. Il ribaltamento operato dall’azione non
è forse anche il modo in cui la divinità si manifesta? Il risultato dell’azione
tragica, ciò per cui essa rivolta la sostanza nella sua immediatezza e porta
tutto allo scoperto, è anche il modo in cui si manifesta il divino, cui il
linguaggio è essenziale. È proprio nel linguaggio e tramite il linguaggio
che il divino si manifesta. Ciò che viene messo in scena nel momento in
cui si succede è il farsi della vita divina.
Questo destino porta a compimento lo spopolarsi del cielo, quella commistione tramite cui il fare dell’essenza appare un fare incoerente, accidentale,
indegno di sé; infatti, aderendo solo superficialmente all’essenza, l’individualità
Ivi, p. 384; FS, p. 484.
Ivi, p. 255; FS, p. 312.
61 Sulla coappartenenza di azione e linguaggio cfr. anche Wohlfahrt, Der speculative
Satz, cit., p. 161 e sgg. Sulla struttura dell’agire per come in generale viene trattata nella
Fenomenologia, e non solo, si veda F. Menegoni, Soggetto e struttura dell’agire in Hegel,
Verifiche, Trento 1993.
59 60 Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
73
è inessenziale. La cacciata di simili rappresentazioni prive di essenza, che veniva sollecitata da alcuni filosofi dell’antichità, incomincia in generale già dalla
tragedia, perché in essa la suddivisione della sostanza è dominata dal concetto,
per cui l’individualità è essenziale, e le determinazioni sono i caratteri assoluti62.
L’opera, nell’elemento del linguaggio tragico, esprime e compie
in sé il modo in cui accade la manifestazione del divino, diventando
una sorta di linguaggio al secondo grado: è questa la ragione per cui
nell’opera è presente il senso stesso che la riempie, ed è l’opera insieme
al suo divenire. Più precisamente, se queste due funzioni, insieme alla
completezza che abbiamo visto prima – ciò per cui la tragedia esprime
anche la diade tra la rappresentazione del non sapere del coro e l’ideale
vivente e parlante dell’eroe – sono le caratteristiche della figura, il linguaggio tragico è la figura del divino. Questa è la valenza che costituisce
il fulcro dell’esperienza dello spettacolo tragico che si dipana dinanzi
allo spettatore, e non tanto la paura e la compassione, reazioni che Hegel
relega all’insipienza del coro, nel cui discorso «esile e tranquillizzante»
si cristallizza la paura per il destino delle figurazioni del divino, che il
concetto «riduce in frantumi»63. L’importante è dunque che, di fronte
allo spettatore, il cui punto di vista Hegel ha cura di chiamare in causa
a più riprese, si dispiega lo spettacolo della figura del divino; l’elemento
del linguaggio tragico riassume in sé tutto ciò che, nelle figurazioni e nei
linguaggi precedenti, all’opera rimaneva esterno: il soggetto reale ha di
fronte a sé una figura compiuta. Ma come fa quest’opera divenuta selbständig, poiché non c’è niente che non rifletta entro sé, a tenere insieme
tutti questi piani? Quale specchio può riflettere in tutte le direzioni? Il
punto è che tale riflessione è per l’appunto solo uno spettacolo, è solo un
artificio, e c’è anche qualcosa, come subito andremo a vedere, che essa
non riflette, qualcosa che il linguaggio tragico non dice.
Per capire cosa sia questo punto cieco, che coincide con il punto
di vista della rappresentazione, dobbiamo concentrarci sul ruolo che il
destino gioca nella tragedia. Abbiamo detto che la duplice scissione in
tutte le sue forme, tra sapere e non sapere, tra la divinità manifesta e le
Erinni che attendono in agguato, tra legge umana e legge divina64 viene
GW IX, p. 396; FS, p. 485.
Ivi, p. 393; FS, p. 480.
64 Nella contrapposizione tra le leggi, che sono come due livelli di esistenza di cui
la coscienza non sa l’intima unità, «dal punto di vista dell’agire, alla luce del giorno,
v’è soltanto un lato, quello della decisione in generale; ma quest’ultima, in sé, è quel
negativo che contrappone all’agire – che è il sapere – un’alterità che gli è estranea» (GW
IX, p. 255; FS, p. 255) – è questo il caso di Edipo, il quale non sa quello che fa. Tuttavia
«la coscienza etica è più completa, e la sua colpa è più pura, quando essa conosca già
62 63 74
Eleonora Caramelli
realizzata e insieme tolta dall’azione, che porta tutto allo scoperto: «il
movimento del fare dimostra la loro unità nel reciproco declinare di quelle
due potenze e dei caratteri consapevoli di sé»65. Alla fine del capitolo
sesto, chiudendo sull’esito della dialettica dell’etico condotta secondo
il filo dello sviluppo tragico, era l’edificio etico tutto a dovere andare a
fondo; per quanto i due lati, in virtù dell’agire, giacessero infine l’uno
accanto all’altro, essi non potevano più reggere: ogni lato ha infatti pari
diritto e pari torto. Quel che viene sottolineato nel capitolo settimo è
una ragione ancor più radicale di questo necessario crollo. Il linguaggio
tragico, infatti, non dispone di una figura, di un’istanza superiore di cui
le due potenze possano essere declinazione. «La riconciliazione dell’antitesi con se stessa è la Lete del mondo infero nella morte, oppure la Lete
del mondo superno»66. Entrambe le alternative consistono nell’oblio in
cui le individualità della sostanza dileguano, perché né l’una né l’altra,
per quanto siano entrambe venute in luce, assolvono l’essenza nella sua
pienezza. Tanto il mondo che attiene all’ordine del divino quanto quello che attiene all’ordine civile dell’umano si rivelano partizioni morte,
così come morte si mostrano le divinità che si sono guadagnate pari
rispettabilità in virtù del decorso tragico. La pari onorabilità – e Hegel
allude qui evidentemente alla conclusione delle Eumenidi – non è che
«l’indifferente mancanza di effettività attribuiti del pari ad Apollo e alle
Erinni»67. Il destino, altresì «onnipotente e giusto»68, è il «destino terribile
che inghiotte tutto nell’abisso della propria semplicità»69, non è che una
coltre nera che su tutto si stende senza nulla salvare. In un altro luogo,
nella dialettica del piacere, Hegel aggiungeva che il destino è «necessità
vuota ed estranea, realtà effettiva morta»70. A questo punto dobbiamo
ricordare che in realtà le figurazioni tragiche del divino, oltre ad Apollo
prima la legge a cui si viene a contrapporre; quando le scambi per violenza e per torto,
come un’accidentalità etica, e commetta il delitto scientemente, come fa Antigone» (ivi
p. 255; FS p. 255). Mediante l’atto, poi, «il compimento dello spirito visibile si tramuta
nel contrario», e la coscienza «sperimenta che il suo supremo diritto è il torto supremo,
e che la sua vittoria costituisce, piuttosto, il suo proprio declino» (ivi, p. 258; FS p. 315).
Sulla contrapposizione delle leggi e sulla dinamica tragica in generale si vedano, in lingua
italiana, C. Ferrini, Legge umana e legge divina nella sezione VI A della Fenomenologia
dello spirito, «Giornale di metafisica», 3, 1981, pp. 393-405, e G. Pinna, Pathos ed esistenza. La teoria della tragedia tra romanticismo e idealismo, «Giornale critico della filosofia
italiana», 1992, pp. 405-421.
65 GW IX, p. 396; FS, p. 485.
66 Ibid.
67 Ibid.
68 Ivi, p. 256; FS, p. 313.
69 Ivi, p. 251; FS, p. 307.
70 Ivi, p. 200; FS, p. 246.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
75
e alle Erinni, erano tre, la terza essendo Zeus in quanto mediazione tra le
altre due e loro istanza superiore. In chiusa di paragrafo, però, scopriamo
che il ritorno delle due potenze in conflitto nella semplicità di Zeus non
è che un ritorno «nell’unità immota del destino»71. Il destino, allora,
non è figura di alcunché, ed è il limite intrinseco del linguaggio tragico
in quanto figura del divino, il punto che in esso non può riflettersi e in
esso non può dirsi, il che deriva dallo statuto della tragedia in quanto
rappresentazione. Solo il concetto, infatti, tiene insieme le scissioni della
rappresentazione, mentre il destino, in quanto cortina che su tutto cala
e tutto unifica in questo buio e in questo oblio, è l’unità delle parti come
unità estranea. Questa estraneità è precisamente il margine di negatività,
l’ultimo, che la rappresentazione veicola come contraccolpo ma che non
riesce a esprimere, l’ultima riserva di negativo da cui l’opera dipende ma
che non può abbracciare. Questo margine ultimo, che la rappresentazione non può rappresentare, è il margine di separatezza che costituisce
il portato rappresentativo medesimo72. Questa riserva di negativo è la
potenza senza volto del destino, in cui le figure che entrano in scena «non
si riconoscono, trovandovi pertanto il proprio declino»73. Se il destino non
ha volto, però, è perché un volto non ce lo può avere; essendo l’unificazione di tutti i momenti cui il linguaggio tragico ha singolarmente dato
voce, solo dal punto di vista del concetto questi momenti possono essere
tenuti insieme, ed il concetto non ha più figura. Il destino è il limite che il
linguaggio tragico della rappresentazione porta in sé, un limite che gli è
dunque interno ed esterno: il concetto è il destino della rappresentazione
e, se nell’ultima tappa dell’opera d’arte spirituale la commedia supera la
tragedia, la commedia è il destino della tragedia.
4. La Zweizüngigkeit del linguaggio tragico
Per definire ulteriormente lo statuto del linguaggio tragico, un filo
che abbiamo menzionato ma per ora lasciato in sospeso è il rapporto che
Ivi, p. 386; FS, p. 485.
In tal senso, come sottolinea Garelli (Lo spirito in figura, cit., p. 205), «la carenza
spirituale della tragedia è quell’ulteriore integrazione con la vita reale che va al di là delle
passioni di paura e compassione suscitate nello spettatore, e che prelude di fatto alla stessa
autonegazione del portato rappresentativo proprio dell’arte». Sebbene il divino si sia
manifestato come attività spirituale grazie alla decisiva mediazione del linguaggio, con la
tragedia l’arte giunge al proprio limite nella capacità, nei confronti del divino, di dargli
figura: «l’integrazione che sembrava garantita dall’arte ha finito quasi per rinnegare se
stessa» (ivi, p. 216). Il processo di razionalizzazione della coscienza innescatosi conduce
a che lo spirito si produca nella soggettività consapevole di sé che il mondo etico non
consentiva ancora.
73 GW IX, p. 397; FS, p. 486.
71 72 76
Eleonora Caramelli
la tragedia intrattiene con lo spettatore, nella generale dinamica per cui
l’opera funge da mediazione tra quel che rappresenta e l’umano che la
guarda. Dobbiamo pensare lo spettatore come un’autocoscienza effettiva
che, in quanto tale, è differenziata sia dalla sostanza sia dal destino e, nella
rappresentazione, viene smembrata e rappresentata da una parte nel coro,
che si ritrae con sgomento dinanzi al farsi della vita divina, dall’altra nella
coscienza agente. La stessa coscienza agente, però, è in verità a sua volta
scissa tra la maschera dell’eroe e l’attore, cioè il Sé effettivo che la indossa, rivelandosi così infine come «ipocrisia istrionica [eine Hypokrisie]»74:
l’attore fingit soltanto, e la tragedia è solo una messinscena, è solo una
fictura. Il margine di negativo che si insinua dall’esterno, ancora, è anche
il Sé effettivo che la finzione deve nascondere per potere funzionare. È
proprio il Sé effettivo, infatti, l’ elemento esteriore alla rappresentazione
che si nasconde sotto le spoglie del destino senza volto: esso non è stato
colto e dunque non viene figurato. «Il Sé compare qui solo come attribuzione dei caratteri, ma non come il termine medio del movimento»75. A
ben vedere, però, non ci sembra che il senso del passaggio sia da intendersi
solo in questo modo. Se l’autocoscienza effettiva è stata differenziata sia
dalla sostanza che dal destino ed è stata scomposta due volte, la prima tra
coro e coscienza agente, la seconda tra maschera e Sé effettivo, ciò non
significa forse proprio che l’autocoscienza è stata rappresentata? Che il
linguaggio tragico la abbia enunciata mediante questa scomposizione è
il portato inevitabile della figurazione quando questa si attua nei termini
del linguaggio, e quello della religione artistica, di cui il linguaggio tragico è la forma più elevata, è proprio Vorstellung; come abbiamo detto
in precedenza, il momento rappresentativo del linguaggio è quello che
divide i termini del movimento che esprime. Nel momento stesso in cui è
stata rappresentata l’autocoscienza effettiva, inoltre, è stata rappresentata
anche la sostanza. Se abbiamo trovato che il linguaggio tragico è davvero
il più elevato, e che il margine di negatività da esso veicolato non deriva
da qualcosa che ha mancato di rappresentare, ma è piuttosto conseguenza
del fatto che ha rappresentato ed espresso il tutto in tutti i suoi momenti
– «l’opera insieme al suo divenire» –, allora ciò significa che la sostanza
si trova qui tutta manifesta, e con ciò tutta smembrata. In tal senso il linguaggio tragico, in quanto Vorstellung più elevata, è anche l’elemento in
cui si compie il sacrificio simbolico della sostanza, offertasi senza riserve
e senza resto alla rappresentazione che, scomponendola, la fa a pezzi.
Nella rappresentazione tragica, inoltre, si dà anche la consapevolezza
implicita della duplicità con cui il divino si manifesta e si avvera. Nel
74 75 Ibid.
Ivi, p. 397; FS, p. 487.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
77
capitolo sesto, infatti, ciò per cui la coscienza «seguendo il sapere manifesto ne sperimenta l’inganno»76 è da ascriversi alla parziale e tuttavia
strutturale cecità della coscienza in quanto immediatamente etica; nel
capitolo settimo, invece, Hegel sottolinea che il sapere manifesto, das
offenbare Wissen, non è tale solo in quanto coincide con la parte visibile
della configurazione etica sostanziale, bensì lo diventa nel momento in
cui viene svelato dal dio: «proprio colui che era stato capace di risolvere
l’enigma della Sfinge come pure colui che s’era attenuto alla fedeltà filiale,
vengono mandati in rovina da quanto il dio loro rivela»77. È per questo
che la coscienza espia «la propria fiducia in un sapere la cui ambiguità,
costituendone la natura, doveva darsi anche per la coscienza, ed esserle
di monito»78. Ci sembra che l’immagine tragica del linguaggio con cui il
dio rivela qualcosa all’eroe – Hegel pensa qui a Edipo e a Oreste – rivelando se medesimo, non sia foggiata solo da una mancanza strutturale del
sapere coscienziale, ma rimandi alla modalità intrinseca con cui il divino
si manifesta e si dà figura. In tal senso, ancora una volta, il linguaggio
tragico riflette in sé, per quanto simbolicamente e rappresentativamente,
quella che altrimenti è una condizione della figuralità medesima ma ad
essa esterna, di nuovo il negativo che non è in grado di assorbire ma con
cui esso stesso coincide. Se Hegel può dire che «questa sacerdotessa, per
bocca della quale parla il bel dio, non è per nulla diversa dalle ambigue
sorelle del destino che, con le loro promesse, inducono al delitto, e che
nel linguaggio bifido [zweizüngig] di ciò che esse spacciano per sicuro
ingannano colui che si è fidato del sapere manifesto»79, mettendo così
sullo stesso piano la Pizia e le streghe di Macbeth, la Zweizüngigkeit della
manifestazione è da ricondursi a ciò per cui essa avviene nel linguaggio
e, quando le due cose vanno di pari passo, l’inganno è inevitabile, anzi
necessario. Colui che invece è più puro di Macbeth e più assennato di
Oreste saprà bene di dover prendere le distanze dalle rivelazioni degli
spiriti, sotto le cui spoglie potrebbero celarsi anche i dèmoni, senza con
ciò potersi risolvere a porre mano alla vendetta, ma Amleto è un eroe
moderno, ormai aduso al gioco delle ombre e del concetto80.
Ivi, p. 395; FS, p. 484.
Ivi, p. 394; FS, p. 482.
78 Ivi, pp. 395-396; FS, p. 484.
79 Ivi, p. 394; FS, p. 483.
80 Anche solo da quest’accenno alla figura di Amleto si capisce che, in questa
pagina di difficile interpretazione e in generale nel passaggio tra tragedia e commedia,
sullo sfondo si staglia il problema della poesia tragica e del superamento del tragico in
generale, strettamente legato a quel che Hegel definirà poi «il carattere di passato» dell’arte
e che condurrà alla dialettica storica dei generi poetici. Su questo versante d’obbligo il
riferimento a P. Szondi, La poetica di Hegel (1974), trad. it. di A. Marietti, introduzione
76 77 78
Eleonora Caramelli
La Zweizüngigkeit che accomuna la lingua della Pizia e quella delle
streghe non ha però forse ha che fare con la duplicità del linguaggio in
quanto tale, ciò per cui – è la sua componente Daseyn – il linguaggio è
linguaggio e non quello che rivela?
L’invasamento della sacerdotessa, la figura inumana delle streghe, la voce
dell’albero, dell’uccello, il sogno e così via, non sono i modi di manifestarsi della
verità, ma segni che ammoniscono dell’inganno, della non-assennatezza, della
singolarità e dell’accidentalità81.
Non si tratta dunque dei modi in cui si manifesta il vero, ma dei
modi in cui si manifesta lo spirito82, che si sacrifica, simbolicamente, alla
e nella rappresentazione: la figura che è anche fictura. In tal senso il punto
è che proprio in quanto figura essa è fictura, il che significa altresì che
la figuralitas non è qui una valenza estrinseca e contingente. Il margine
sensibile-figurativo, il margine rappresentativo, consuma il proprio ruolo
in quanto tale, essenziale e irreparabile, nella vicenda spirituale.
È per questo che il linguaggio tragico, che nella sua duplicità costituisce l’emblema dello statuto dell’opera mediatrice, tradisce, ma necessariamente, la sostanza; proprio nel momento in cui la rappresentazione
è più fedele, «proprio quando pretende di essere qualcosa di giusto»83
essa è la maschera del divino e insieme dell’autocoscienza. Non ultimo
dei motivi per cui la Vorstellung è la funzione che divide è che proprio
l’opera, la quale in tutta la sua presenzialità doveva fare da medium, è ciò
che per un verso, essendo l’ostensione del divino, ne fa una maschera e lo
separa dall’umano che la guarda. E non è questo l’ultimo dei significati
di cui il linguaggio tragico educe: la componente tragica del linguaggio
in quanto tale, che non casualmente veniva definito in un altro luogo
«die entfremdende Vermittlung»84 . Adesso che la sostanza è venuta
completamente in luce nella luce del linguaggio – ed è qui che si mostra
di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007. Sulla tragedia nella Fenomenologia dello spirito e
nell’evoluzione del pensiero hegeliano in generale si vedano i paragrafi relativi in C.
Gentili, G. Garelli, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 133-143. Sul rapporto tra la
considerazione del tragico nella Fenomenologia e l’evoluzione sistematica della questione
si veda anche R. Pietercil, De la “Phénomenologie de l’esprit” aux “Léçons d’Estéthique”.
Continuité et évolution de l’interprétation hégélienne de la tragédie, «Revue philosophique
de Louvain», 36, vol. 77, 1979, pp. 659-677.
81 GW IX, p. 396; FS, p. 484.
82 Cfr. anche D. Bremer, Hegel und Aischylos, «Hegel-Studien», Beiheft 27, 1986,
pp. 225-245, in cui la riflessione hegeliana su questo «amphibolisches Doppelwesen»
(ivi, p. 232) viene ricondotta all’influenza della Weltanschauung eschilea, incentrata
sull’intuizione della duplicità del divino in quanto tale.
83 GW IX, p. 398; FS, p. 487.
84 Ivi, p. 277; FS, p. 338.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
79
ciò per cui la sostanza si sacrifica simbolicamente nella luce della sua
manifestazione – abbiamo trovato la dimensione dell’estetico: la duplicità
del linguaggio sta qui nella sua dimensione simbolica, in cui rimane un
margine non detto di negatività, il limite per cui ogni figura è una finzione
e in parte un tradimento. Il margine di negativo che il linguaggio tragico
esprime senza poterlo rappresentare corrisponde al margine di negativo
che quel linguaggio è. La dimensione tragica dell’estetico sta proprio nella
duplicità del carattere figurale del linguaggio, in cui il negativo si è fatto
presenza: è il Daseyn in cui abita il senso, e in cui la coscienza spettatrice
fa – artisticamente, simbolicamente – l’esperienza del linguaggio in quanto
Vorstellung con la sua divina duplicità.
5. Tragedia, commedia e destino della rappresentazione
Una volta che la rappresentazione della sostanza sia stata tesa fino
allo spasimo, non dobbiamo dimenticare che l’opera è anche ciò in cui
l’individuo prende coscienza di sé e la sostanza diventa autocosciente.
Se la «commedia ha innanzitutto il lato per cui l’autocoscienza effettiva
si presenta come il destino degli dèi»85, il margine di negativo della rappresentazione tragica, ciò per cui essa ha il proprio destino in un altro,
si sostanzia nel fatto che la commedia è l’autocoscienza della tragedia.
Riassumendo in sé la distanza che sussisteva tra la coscienza spettatrice
e la rappresentazione che gli stava dinanzi, la commedia toglie il punto
di vista che stellt vor e con ciò anche il Sé rappresentato, così che ad
emergere è l’autocoscienza effettiva: l’attore in carne ed ossa che è la
medesima cosa di colui che lo guarda e in esso si identifica.
L’autocoscienza degli eroi deve venire fuori dalla sua maschera, facendosi
avanti e presentandosi per come essa si sa, come il destino tanto degli dèi del
coro quanto delle stesse potenze assolute86.
Adesso che si è riflessa entro di sé, l’immagine del divino è il Sé
medesimo, così che tutti i termini che prima abbiamo visto separati si
riuniscono. La forma dell’individualità, quando l’individualità coincide
con la stessa figuratività, è solo un attributo immaginario del divino, come
una qualità che pretende di essere qualcosa di per sé indipendentemente
da quel che la veicola, concepito in quanto essenza. È proprio indossando
la maschera, allora, che la commedia esprime l’ironia oggettiva di quella
qualità che pretende di essere qualcosa di autonomo. La peculiare messa
85 86 Ivi, p. 397; FS, p. 486.
Ibid.
80
Eleonora Caramelli
in scena comica è in tal senso una ironia al secondo grado, che in quanto
tale corrisponde al duplice passaggio che essa mette a segno. L’ironia
oggettiva sta in ciò per cui la rappresentazione che doveva manifestare la
sostanza ha rovesciato la sostanza medesima, che non è infine nient’altro
da quel che la rappresentazione ha portato in luce: la Vorstellung adeguata
che al contempo, ironicamente, è Verstellung. «L’ostentata esibizione [das
Aufspreitzen87] dell’essenzialità universale», però, «si tradisce e palesa
nel Sé»88. La rappresentazione, tesa fino allo spasimo e riflessa in sé, si
spacca e si tradisce da sola, il che costituisce il duplice tradimento che
corrisponde all’ironia al secondo grado.
L’essenza si mostra imprigionata in una realtà effettiva e lascia cadere la
maschera proprio quando pretende di essere qualcosa di giusto89.
Questo tradimento di un tradimento – l’attore comico fa finta di
fare finta90 – è il punto di vista dell’ironia che preannuncia quello della
Darstellung. Il Sé che spielt mit der Maske sta consapevolmente recitando,
così che, quando si toglie la maschera, rovescia per la seconda volta e ironicamente la maschera della rappresentazione medesima per presentarsi
nuovamente «nella sua nudità e nella sua dimensione abituale; dimensione
che esso mostra non differente da quella del Sé vero e proprio: tanto
dell’attore quanto dello spettatore»91. Uscendo da quella parvenza il Sé
si manifesta, col che la sostanza si avvia a diventare soggetto, e abbiamo
in tal senso una sorta di ritorno alla figura dell’assenza di figura, con la
differenza che la Gestaltlosigkeit della commedia è il risultato del dissolversi di tutte le figure precedenti. Questa figura dell’assenza di figura è un
dissolversi universale, analogo all’universale dissolversi del linguaggio. La
misura in cui la commedia smaschera la figurazione rappresentativa della
sostanza, inoltre, è anche la misura in cui smaschera le rappresentazioni
87 Da notarsi, circa questo vocabolo, come si evince dalla voce sul lessico dei fratelli
Grimm (Bd I, Sp. 743), che il verbo denotava in origine – il che sembra significativo in
relazione al rapporto di cui sopra tra la sostanza e la sua rappresentazione – l’azione con
cui, mediante l’aiuto di asticelle, si teneva aperto l’animale macellato (da cui poi l’asse:
‘spalancare’, ‘allargare’, ‘spiegare (le ali)’, ‘gonfiare (le penne)’ e da qui la valenza affine
a intumescere nel senso di superbire. Si vedano in merito anche le osservazioni di H.
Schneider, Hegels Theorie der Komik und die Auflösung der schönen Kunst, «Jahrbuch
für Hegelforschung», vol. I, 1995, pp. 81-110, in cui il punto è trattato in relazione al
problema del carattere di passato dell’arte.
88 GW IX, p. 397; FS, p. 487.
89 Ivi, p. 398; FS, p. 487.
90 Lo spunto interpretativo è liberamente tratto da M. Belhaj Kacem, Ironie et vérité,
Nous, Caen 2009, dove il principio è testato nell’analisi delle commedie di Marivaux.
91 GW IX, p. 398; FS, p. 487.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel
81
del pensiero; l’ironia comica è anche la verità della rappresentazione
tragica: «il pensare razionale sottrae l’essenza divina alla sua figurazione
accidentale»92.
Opponendosi alla saggezza aconcettuale del coro […] solleva tutto ciò
alle semplici idee del bello e del bene. Il movimento di questa astrazione è la
coscienza della dialettica che tali massime e tali leggi hanno in sé, e dunque la
coscienza del dileguare della [loro] validità assoluta93
In tal senso la commedia accoglie in sé il punto di vista dell’ironia
socratica. Dato però che essa è ironia al secondo grado, «una volta che,
secondo la loro essenzialità pensata, esse sono divenute i semplici pensieri
del bello e del bene, queste essenzialità sopportano di venire riempite
con qualsivoglia contenuto»94. Quando i pensieri puri si sono svuotati
e si offrono al pubblico ludibrio, l’ironia di Socrate diventa l’ironia al
quadrato del Socrate di Aristofane, il quale compie l’ironia socratica in
quanto sacrilegio. La commedia dice in tal senso il nulla della sostanza, il
luogo rimasto vuoto dacché l’essenza si è manifestata; essa dice al contempo il dileguare della rappresentazione nella misura in cui quel dileguare
riunisce l’interno e l’esterno, l’essenza manifesta e la sua manifestazione
medesima. È in questo senso che l’ironia al quadrato esprime il punto di
vista del concetto e prefigura la Darstellung, in cui il linguaggio muove
verso il suo altro versante, l’Existenz trasparente. Dicendo il dileguare
della sostanza viene espresso anche il dileguare del Sé in quanto singolo
sé, «che non è la vuotezza del dileguare, ma anzi in questa nullità mantiene
se stesso, è presso di sé, ed è l’unica realtà effettiva»95. Il dissolvimento
destinale del margine rappresentativo cui mette capo la commedia sembra
prefigurare il passaggio alla Darstellung, così che se in quel dissolvimento
la coscienza «si trova pienamente a casa propria»96 è perché, almeno in
parte, esso prefigura anche l’accesso allo speculativo97. Nel passaggio tra
tragedia e commedia, dunque, la coscienza esperisce esteticamente e ante
litteram il passaggio tra il piano rappresentativo e il piano concettuale
mentre nell’elemento del linguaggio, tra tragico e comico – l’uno il destino
dell’altro – esperisce l’intreccio tra l’estetico e lo speculativo.
Ivi, p. 398; FS, p. 488.
Ibid.
94 Ibid.
95 Ivi, p. 399; FS, p. 489.
96 Ibid.
97 Per una contestualizzazione del rapporto tra filosofia speculativa e tragedia, e il
ruolo che la riflessione su di essa gioca nel pensare di Hegel, si veda O. Pöggeler, Hegel.
L’idea di una fenomenologia dello spirito (1973), trad. it. di A. de Cieri, Guida, Napoli
1986, in particolare pp. 127-133.
92 93 82
Eleonora Caramelli
Quel che ci domandiamo in ultima battuta è però se tale intreccio,
per come qui si configura, non sia almeno in parte indissolubile, non da
ultimo per il fatto che avviene nel e tramite il linguaggio, che fluisce tra
l’una e l’altra sponda. Che il passaggio dall’uno all’altro piano sia esteticamente prefigurato ed esperito, inoltre, potrebbe alludere all’inesauribile
mobilità del piano rappresentativo, che al farsi dello spirito è risultato
essenziale, così come l’arte è risultata essenziale alla religione. Che il
destino nel linguaggio tragico sia anche destino di quel linguaggio non
significa altresì che è la rappresentazione stessa a fare, non solo e non
tanto da trampolino, quanto da ponte al passaggio concettuale? Del resto,
il versante rappresentativo del linguaggio era sì qualcosa che separa e che
entfremdet, ma era anche Vermittlung, così che è la rappresentazione in
quanto medium mobile a permetterci di – e a costringerci a – vedere il
passaggio tra tragedia e commedia come un blocco inscindibile. Se così
fosse, bisognerebbe leggere tale passaggio non solo come un superamento
destinale, ma come un percorso passibile di essere pensato anche à rebours;
solo a passaggio compiuto lo si può propriamente pensare98, e proprio
per questo esso sembra allora chiedere di continuare ad essere pensato,
affinché il tradimento ricordi di essere tradimento di un tradimento: non
già tradimento duplice e perciò doppiamente infedele.
98 Non da ultimo sembra opportuno rilevare che tutto il percorso dell’arte spirituale – culminante nel passaggio tra tragedia e commedia – non solo prefigura qualcosa
che verrà soltanto dopo, ma, essendo quello il percorso in cui vengono assolte tutte le
condizioni affinché lo spirito si dia figura, lo stesso sapere assoluto può venire pensato, ex post, a partire da quella chiave di volta. Per queste osservazioni, nel contesto di
una riflessione circa il sapere assoluto, si veda R. Dottori, Che cos’è il sapere assoluto?
Osservazioni conclusive sulla Fenomenologia dello spirito, «Il cannocchiale», 3, 2007,
pp. 244-282, in particolare pp. 250 e 270.