1 M. Teresa Vigolo - Paola Barbierato, Il lessico - ISTC
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1 M. Teresa Vigolo - Paola Barbierato, Il lessico - ISTC
1 M. Teresa Vigolo - Paola Barbierato, Il lessico dialettale tra pluralità e mutabilità dei valori semantici, in Lessicografia dialettale. Ricordando Paolo Zolli. Atti del Convegno di Studi, Venezia, 9-11 dicembre 2004, a cura di F. Bruni e C. Marcato, Editrice Antenore, Roma-Padova MMVI, 623-640 1. L’argomento che riguarda la pluralità e la mutabilità del lessico è assai vasto e percorre, dal punto di vista generale tutta la storia della linguistica. Il nostro obiettivo non è quello di occuparci delle discussioni che si sono incentrate intorno al problema, quanto quello di restringere il campo di indagine e di presentare alcune esemplificazioni relative alla nostra esperienza di lavoro in corso, incentrata sull'analisi di testi dialettali antichi. Circoscriviamo dunque la nostra trattazione principalmente all’ambito della terminologia del lessico dialettale del cadorino antico e dei suoi continuatori nel cadorino odierno, esaminando in particolare il settore dei nomi collettivi. Discuteremo dell'origine etimologica di alcune voci (con l’intenzione di fare un omaggio a Paolo Zolli che con M. Cortelazzo è autore del DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana), della loro polisemia e della loro variazione categoriale. Ci occupiamo infatti di quei nomi che nascono come collettivi e passano poi ad indicare, isolando il tratto quantità, aggettivi o avverbi; alcuni di questi mantengono un legame col significato lessicale, altri cambiando funzione linguistica, perdono il legame con il lessico e una volta entrati nella morfologia si comportano come parti della grammatica e come tali sono riconosciuti e utilizzati dai parlanti. Solo l’analisi etimologica è in grado di recuperare antiche solidarietà che si sono perse nel corso della diacronia e ristabilire le diverse tappe che hanno ridisignato il cambiamento delle funzioni linguistiche provocando separazioni e divergenze. Per es. il friulano conserva il doppio significato di tròp, da una parte ‘branco, stormo, gregge’ e dall’altra ‘molto’, le voci hanno la stessa origine etimologica (< francone thorp) e diversi continuatori nei dialetti e nelle lingue romanze (REW 8938, FEW XVII, 395-400); nel caso dell’avverbio poi, il friulano ha riformato su tròp un secondo avverbiale di misura e di quantità putròp (letteralmente più-troppo). Putrop è usato come agg. e come pron.: putróp (m.), putrópe (f.), putrós (m.pl.), putrópis (f.pl.) ‘parecchio, parecchia, parecchi, parecchie’ e in senso assoluto: mi dûl putròp: ‘mi duole molto, moltissimo’(NPirona 829). Per altri usi di trop in friulano, anche come agg. e pron. interrogativo vd. il § 2. Ancora in riferimento al friulano, Marchetti in Lineamenti di Grammatica friulana (p. 210) scrive: “Il comunissimo lat. multum non ha continuatori in friulano: si usa in suo luogo la locuzione une vôre (letteralmente un’opera) es: une vôre biel ‘molto bello’; une vôre di frét (molto freddo) e così une vôre di înt letteral. ‘molto di gente’. Ma vóre mantiene anche il valore lessicale di ‘opera, lavoro’: Al è a vore in feriere ‘è ad opera in ferriera’, une biele, une brute vore ‘una bella, una brutta opera’ e vore è ancora ‘bracciante di campagna’ (NPirona 1293), come in veneto òpara. Certamente il tratto che accomuna il nome con l’avverbio passa attraverso la quantificazione del lavoro, cioè une vore è anche unità di misura del lavoro, da cui la locuz. avverbiale ‘molto’. Analoga deriva categoriale si è avuta per la voce mont ‘monte’ (NPirona 612) quando il termine assume il significato di ‘monte di merci’: il mont dal formènt, de blave, de galete, quindi diventa avverbio di quantità nella locuzione in mont con valore di ‘in media’: la ue, in mont, ‘o le ài vindude a cinquante. Lo stesso termine è diventato avverbio e aggettivo di quantità e viene anche anche graficamente riportato con l’art. indef. concresciuto: unmònt: o desideri unmònt, di vé notìzie ‘desidero molto avere notizie’. Unmònt di ùe, di pomis, di fasui ecc. E ancora unmontis (f.pl.) di fèminis ‘molte donne’, unmònc’ (m.pl.) ‘e crodin ‘molti credono’ e con significato superlativo: unmontonón: unmontonone di înt ‘moltissima gente’ (Npirona 1246), con accordo, in alcuni casi, del quantificatore con il genere del partitivo. 2 Una parte dei nomi collettivi che occorrono anche nei dialettisono desunti dalla cultura materiale, che ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione di concetti quali ‘gruppo, branco, moltitudine, insieme di…’, a partire dalla condizione stessa della vita degli animali organizzati in greggi, mandrie, sciami, stormi, nidiate ecc…). In alcuni dialetti riscontriamo che sono diventati espressioni di quantità, attraverso l’uso di partitivi anche delle formazioni metonimiche, proprie del mondo animale, coma alàda, derivato di ‘ala’ che nel cadorino (Diz. Lozzo 45) ha il significato di ‘stormo’, o bòzol ‘alveare’, usato in agordino col significato di ‘parecchio’: en bòzol de ómegn ‘parecchi uomini’ (De Pian 76), en bòzol de fémene ‘un crocchio di donne’ (Rossi 170). Sia in italiano che nei dialetti il concetto di quantità può legarsi ad immagini provenienti dal regno vegetale: fratta è ‘terreno disboscato’ ma nei dialetti veneti e ladini assume altri significati prima di passare a quantificatore, A Lozzo di C. frata è ‘ramaglia secca caduta dagli alberi durante l’inverno’ (Diz. Lozzo 185), in agordino frata è sia ‘terreno disboscato su cui sono ancora visibili i resti di piante tagliate’, sia ‘gran quantità di persone, animali e cose’, es.: l’è lugà na frata de tosàt a kantà Sanmartin ‘è arrivata una frotta di ragazzi a cantare San Martino’ (Rossi 359); sfrata nella locuzione: na sfrata de, significa ‘una gran quantità’, ge n’èra na sfrata de frage ‘c’era una gran quantità di fragole’ (Rossi 975), allo stesso modo lópa è in agord. e nelle prealpi venete ‘erba secca non falciata che rimane sul prato’(Tomasi 43), a Rocca Pietore na lópa de fen vale ‘molto fieno’ (Rossi 606). Altri avverbi di quantità sono formati a partire dall’esperienza relativa ai caratteri fisici del territorio o sono commisurati alla percezione dei fenomeni naturali come lo zoldano à boa ‘in gran quantità’ che sta in rapporto con bóa ‘frana, franamento del terreno, scoscendimento’, es. da farđìma i gelatiér i luga a bóa ‘in autunno i gelatieri arrivano in massa’, in ampezz. à boa ‘a bizzeffe, a iosa, copiosamente’, a boatón ‘a bizzeffe’ (Croatto 16), lo stesso concetto è espresso in friulano dal termine un slac ‘in gran quantità’ (Madriz-Roseano 214), che ha il suo referente in slac ‘frana’, smottamento’ (NPirona 1049) e ancora a svuaç ‘a profusione, in grande abbondanza’(MadrizRoseano 214), connesso a svuàz ‘guazzo’ (NPirona 1159). 2. Prendiamo ora in esame l’evoluzione semantica di alcuni termini aventi valore di collettivo (o che vengono assumendo tale funzione), riferiti inizialmente ad uno specifico ambito e passati in seguito ad un uso più estensivo che ha quindi generato una mutazione o compresenza di più significati. In tale prospettiva ci sono sembrate particolarmente interessanti alcune voci, presenti nei dialetti alpini e prealpini che in origine designavano il “gregge” inteso come “gruppo (più o meno numeroso) di pecore”, ma che sono in seguito passate a indicare, con un processo sempre più generalizzante ed estensivo, il “branco” o “insieme di animali” in genere e quindi “gruppo” o “moltitudine” di persone e/o cose, specificato di volta in volta da partitivi. Abbiamo inoltre osservato come talvolta tali termini abbiano acquisito funzione di veri e propri quantificatori (“una gran quantità di…”, “molto di…”) fino a sviluppare in alcuni casi un valore aggettivale e/o avverbiale, ciò che ha comportato in qualche occasione una perdita dell’originario valore lessicale a favore dell’acquisizione di funzioni prettamente grammaticali. Tra i nomi designanti gruppi di animali, specialmente nel senso di “gregge”, possiamo citare anzitutto čapo / sčapo, dal lat. mediev. clapus “gregge” che secondo il Sella (p. 156) è attestato per la prima volta a Schio nel 1393. L’appellativo compare però nei Laudi cadorini (con le varianti chiap(p)o, ciapo; anche con sonorizzazione della velare iniziale: giappo, ghiappo) già a partire dal 1288 nel significato di “gregge di pecore o capre”, generalmente in numero superiore a dieci, come risulta evidente anche dalle attestazioni: «fedaria1 sive clapo» [FEST1288, art. 18]; (a.1444) Il lavoro è stato discusso congiuntamente, ma per quanto riguarda la versione scritta, è da assegnare a MTV il § 1 e a P. Barbierato il § 2. 1 Si noti come il t. fedaria (da feta + suff. –aria), designi qui propriamente un “gregge di fede”, ossia di pecore da latte, come nel cad. fedèra e comel. fdèra. In seguito fedèra acquisterà anche il significato di “recinto per le pecore”, cfr. aur. 3 «clapus, sive grege» [STE1444, art.54]; (sec.XV) “clapus pecudum a X superius» [CALXV, art.17]; (a.1510) «clapus pecudum» [VIG1510, art.22]; (a.1559) «Chiappo di pecore, e di Capre» [GRE1559]. In documenti di area veronese, risalenti al 1214, sclapus (con s- intensiva) designa invece un gruppo di pecore superiore a sei: «sclapum ovium intelligatur esse a sex superius» (Sella 515). In altri casi il termine appare esteso non più solo ad animali minuti ma a bestiame in genere, come in un doc. valsug. del 1296: «clapum bestiarum» (Prati, EV 41), cfr. inoltre (a.1761) «cadaun Ghiappo d’Armente» [LOZ1761, n.77]. Dal significato originario di “gruppo di pecore”, “gregge” (< lat. cap(ŭ)lum “laccio”, REW 1666, cfr. anche capulare “accalappiare, legare”, iuvencos, Col.), la voce passa al senso di “gruppo di animali in genere”, “quantità di bestiame” fino ad acquisire, ormai svincolata dal primitivo valore legato all’ambito pastorale, il senso di “quantità” in genere, eventualmente specificata da un determinativo. Tale uso appare attestato già in documenti padovani di poco posteriori al Mille, in cui clapus viene a designare un’unità di misura del terreno, cfr. a. 1118 «clapi quattuor de vinea» (CDPad. II, 99, 81) dove il riferimento è ad una estensione di terreno, in questo caso piantata a vigne, mentre in un atto di compravendita del 1139 clapus è una parte della vaneza: «pro petia una de terra aratoria, que est vanetie XXIIII et clapum unum iuris nostri» (CDPad. II, 362, 276)2. Questo significato di clapus trova un parallelismo nel dialetto cremonese dove la v. ciàpa, alla base di molte forme toponimiche, ha il significato di “campo coltivabile”, con valore equivalente a piana (ATC 3, 46-7). Come “unità di misura”, ma applicato in questo caso ai tessuti, il termine è documentato a Venezia nel 1339: «sex clapi de cortinis», «clapi de samito vermeio», detto di “tagli di stoffa” (Sella 156). I dialetti veneti odierni conservano da un lato il significato proprio di “gregge”, “branco”, cfr. aur. čapo “branco; n čapo de féde” (Zand. De Lugan 49), cib. ciàpo “branco; gregge” (Da Col 99), primier. s-ciàp de féde (Tissot 238), vic. s-ciapo e ciapo “gregge di pecore” (La Sapienza 393) e di qui quello di “gruppo di animali” in genere, cfr. a Selva di Cadore ciàp “mandria, branco di mucche” (Nicolai 104), a Castel Tesino s’ciapo de béchi “un branco di camosci” (Biasetto 449), ma anche “stormo”, vic. s-ciapo “stormo di uccelli in volo”, cfr. agord. en čap de osèi e sčapàda “stormo di uccelli” (Rossi 948), a Selva di Cadore en ciàp de guziéi “uno stormo di uccelli” (Nicolai 104), ven. centr. sčiapo, rover. sčap, sčapaa “branco; stormo”, a Castel Tesino s’ciapo de moscarati “uno sciame d’insetti”; cfr. inoltre romagn. ciàp “stormo di uccelli” (Ercolani 118), friul. s’ciàp “stormo, d’uccelli in volo”(NPirona 966). In un’ulteriore estensione semantica il termine è applicato ad un insieme di cose o persone, e viene in genere definito da un partitivo, cfr. agord. en sčap de paròle “un breve discorso” (Rossi 948), a Selva di Cadore en ciàp de mu(l)i “una frotta di ragazzi”, en ciàp de dóvegn “una brigata di giovani”(Nicolai 104)3, primier. s-ciàp de piazaròi fedèra (Zand. De Lugan 76), a Selva di Cadore fedèra “stalla / recinto per pecore” (Nicolai 163), ampezz. fedèra “casolare con stalla contornato da un prato in mezzo al bosco in alta montagna; serve per raccogliere il gregge di pecore (fédes), per mungerle, confezionare e conservare i prodotti del latte” (Croatto 64), agord. fedaruóla “pascolo o luogo di sosta per le pecore” (Rossi 322). Numerosi sono i derivati toponimici, cfr. le forme ampezzane Alpe de Fedèra (Battisti, DTA, III, 3, 72), Crepe de Federa (ibid., 103), Fodàra Vedla (Pellegrini, ATVT XII, 15), Fedèra: 1) malga con grande costruzione uso recinto nell’alto corso del rivo omonimo, sotto l’Alpe di Federa 2) pascolo sopra il bosco di Spesses (Battisti, DTA III, 3, 109), Fedarora (ibid., 110), Ciandefedarora, ossia “campo della fedaròla, del piccolo recinto per fede” (ibid., 89); nell’Agordino: Fedèra, Federuói, Fradola, Fedèr, El pian da fedèr, Fedaròle (Rossi 322). 2 In questi casi (come anche negli esempi seguenti, di area veneziana) può però concorrere la forma omografa capulum, derivata dal vb. capulare “tagliare”, “prender legna da fuoco dai boschi”, attestato in docc. padovani già a partire dall’a. 840 (CDPad. I, 10, 21; III, 681, 22). Il capulum designava propriamente sia il “diritto di far legna nei boschi” (vd. anche Sella 122 “pasculare, capulare, incidere in cesa”, documentato a Venezia nel 1180), sia la “ramaglia” raccolta. 3 Numerosi anche i derivati: a Selva di Cadore na ciapàda de tosàc’ “una frotta di bambini”, na ciapàda de bisi “una manciata, brancata di piselli”, na bèla ciapàda “un buon ricavato” (Nicolai 104-105), a Lozzo di Cadore sčapada “stormo di uccelli; (fig.) frotta di ragazzi” (Diz. Lozzo 535), a Revine Lago (TV) na sčapada de fiói “un bel numero di figli” (Tomasi 178), primier. s-ciapét “gruppetto”, s-ciapòt (e s-ciapotàda) “intruglio spiacevole sia all’occhio che al palato”, s-ciapotàr “pasticciare, lavorare male”, s-ciapotón “chi lavora male” (Tissot 238), poles. čapón “grossa manciata (di paglia, fieno, canapa)” (Beggio 67). 4 “gruppo di monelli” (Tissot 238), friul. (Mels) sk’àpule “mucchio (bica) di covoni” (TAF II, 448), it. ant. (XVI sec.) chiappo “gruppo di persone” (DEI II, 893). Di qui naturalmente l’espressione èse fòra del čap “essere fuori dal mazzo” (Rossi 948), a proposito della quale si possono richiamare anche gli esempi pavani: (sec. XV-XVI) «un castron / fuora d’un chiappo» (Milani 1997, 183; Sonetti ferraresi II, 4, 13-4); (a. 1608) «l’ocche in chiappo e le gru deschiapè» (Milani 1996, 208; Rovegiò 196). Ma la voce entra anche in espressioni avverbiali, sempre in riferimento al numero o alla quantità, cfr. ad es. ven. a sčapi “in gruppo, a stormo, a branchi”, a Selva di Cadore ghe n’è ‘n bèl ciàp “ce n’è un bel po’”, primier. a s-ciapàda “in gran numero”, a Cibiana an ciàpo de viàdhe “un gran numero di viaggi, molte volte” (Da Col 99). Analogo significato di “gregge” aveva in origine anche il lat. mediev. troppus. La voce, che ha conosciuto un’eccezionale diffusione, è un germanismo (< francone thorp ‘villaggio’, cfr. REW 8938; FEW XVII, 395-400) e compare nella “Lex Alamannorum” (ca a. 700) dove troppus ha il senso di “branco, gregge”: «in truppo de jumentis», «cum troppo jumentorum», «in cætero troppo», vd. anche Du Cange VIII, 194. In tale significato, riferito specificamente a “gregge di ovini”, il termine è attestato anche in documenti istriani del sec. XIV: «gres (= grex) sive tropus» (Pola) e nel 1528: «tropo...ovium» (Umago), vd. Sella 596, mentre negli Statuti di Cavallermaggiore (CN) si incontra anche il diminutivo tropellus: «quilibet tropellus ovium vel caprarium ultramontanorum» (Serra 1965, 152). Nei Laudi cadorini tropus è invece documentato sia nel senso di “gregge di pecore o capre”, come nel Laudo di Candide del 1324-1346: «nullus dictae regulae debeat dare alicui de suo tropo extra nisi una capram ad molgendum» [CAN1324-1346, art. 71], sia nel significato più generico di “branco”, cfr. nel Laudo di Candide del 1326: «tropus bestiarum» [CAN1326, art.44]. Di qui, come per clapus, il valore estensivo di “gruppo di animali”, “insieme di persone”, cfr. piem. trup “stuolo di persone o di animali”, calabr. centro-sett. tr(u)oppu “branco di animali”, “mandria”, “gruppo di persone”, ant. fr. trope, troupe “branco” (sec. XIII) e attrouper, da cui anche, con evoluzione del termine in senso militare, l’it. (sec. XVI) tropa, troppa, truppa “soldatesca”, “schiera di soldati a cavallo”, cfr. (Segneri, Guerr. Atil. in Rezasco 1215) «Sendo alla retroguardia rimasto il Re di Padova con buona parte della sua milizia, solennemente la carica sosteneva, uccidendo e abbattendo qualunque troppo si faceva avanti fuor della tropa incalciando», spagn. tropa “insieme di animali o di persone”. Il termine appare inoltre diffuso nell’ant. prov. trop “troupeau (surtout de brebis, de porcs); volée d’oiseaux” (XIV-XV sec.), oltre che nel derivato tropel “troupe d’enfants; troupe de soldats”, trobel “groupe de personnes”, ant. fr. tropel “troupe d’animaux domestiques de la même espèce, qui sont élevés et nourris dans un même lieu”, “réunion d’un certain nombre de personnes qui marchent ou agissent de concert, foule”, troupèl “assemblage de plusieurs personnes ou de plusieurs choses” (FEW XVII, 396), da cui l’it. ant. truppello (XIII-XIV sec.) “drappello”, franc. mod. troupeau4, prov. tropel, spagn. tropel “movimento accelerato di varie persone o cose; insieme di cose disordinate”, sardo droppe u. La voce conserva l’originario significato di “gregge” in molte parlate italiane, soprattutto di area piemontese e friulana, cfr. AIS VI c. 1072 “Il branco di pecore”: P. 109 (Albogno, NO) na trópa t pèvar, P. 115 (Antronapiana, NO), in trupo, trupòt, ina trupa, P. 170 (Pietraporzio, CN) en tròp da féos, P. 152 (Ruata, TO) ün trupèl da mutùn ecc.; P. 318 (Forni Av., UD) un trup di pìuras, P 326 (Claut, UD) una trupa di féde, P. 337 (Aviano, UD) un tròp di féde, ecc.; cfr. inoltre nel lombardo alpino P. 209 (Isolaccia, SO) un trupìn di béšča, P. 115 (Antron.) in trupo t pèur, P. 109 (Premia) na tròpa t pèvar; cfr. ancora P.187 (Zoagli, GE) na štrœpa de pégue, P. 193 (Borgomaro, IM) na stròpa de pégue, etc, P. 29 (Santa Maria, Val Monasterina, Grigioni) un trœp béša. Da cui anche sic. u truppu (AIS VI, c. 1072, P: 818 Novara di Sicilia), trippotu “branco di buoi”, DEI V, 3916-7, 3922. Da notare che il franc. mod. troupeau, con un parallelo semantico analogo a quello di “gregge”, in senso religioso designa anche una “riunione di fedeli sotto la direzione di un pastore spirituale”. 4 5 In altri dialetti il termine è presente come collettivo generico riferito al mondo animale, ora nel senso di “mandria” (P. 143, Ala di Stura, TO: un trup ad vačas; P.152, Ruata, TO: n trupel d vača), ora in quello di “sciame” (P. 142, Bruzolo, TO: un trup di avìie) o “stormo”, cfr. n astrup da sturnèi... (P. 172 Villafalletto, CN), un tròp di struñéi “uno stormo di stornelli” a Ronchis e Forni Avoltri (UD), Borgomaro (IM), ecc., vd. AIS III c. 500 Cp., P. 357, 318, 172, 193. Nel friul. tròp, oltre al già ricordato senso di “gregge” (anche fig., con valore religioso: Signor, lu vuestri trop...rezis si ben), “branco” (un trop di dindis), “stormo” (un trop di franzei), ha anche il senso di “gruppo” in genere (un trop di fruz, un trop di înt), vd. NPirona 1220 e cfr. anche trupe “truppa; frotta” (con implicita l’idea di fila), tropùt “piccolo branco” e intropâsi “attrupparsi, riunirsi in gruppo” (NPirona 469). A partire dal significato di “gruppo” in genere, attraverso il senso complementare di “gran quantità”, “gran numero” (di animali, persone o cose), viene sviluppandosi dall’originario collettivo un uso aggettivale e/o avverbiale, dapprima nel senso di “tanto numeroso”, “molto”, fino ad arrivare (come nell’it. e franc. mod.) al concetto di “soverchio”, “numero o quantità eccessiva” e quindi all’attuale uso dell’agg. e avv. troppo5, franc. trop. È interessante osservare come, a differenza dell’italiano moderno, tròp conservi il significato di “molto” in alcuni dialetti italiani nord-orientali6, cfr. ampezz. tròpo agg. e avv. “molto, tanto” (pl. tròpe), tròpo mèo “molto meglio” (Croatto 213), agord. i pi tròp “la maggior parte” (Rossi 1194), a S. Vigilio di Marebbe l è tróp “è molto” (AIS IV, 841, P. 305), friul. tròs amîs mi an dite “molti amici mi hanno detto”, îsal ben trop che tu no lo viòdis? “è molto che tu non lo vedi? (NPirona 1219-20). Tale uso per cui troppo non denota eccesso ma grado superlativo, era però proprio anche dell’it. e del franc. e prov. ant., cfr. ad es. trop(p)o “molto”, con esempi in Raimbaldo de Vaqueiras (ca 1190; Contrasto), in Dante, Gerardo Patecchio (sec. XIII), Uguccione da Lodi (sec. XIII)7 in cui però troppo alterna fra “molto” ed “eccessivamente”; cfr. inoltre ant. franc. trop “beaucoup; très” (a. 1687), trop bien “très bien”, ant. prov. nin trop malin “pas très malin”, trop mielhs (XIII sec.) “très bien”, con numerosi esempi in FEW XVII, 395 e Du Cange VIII, 194. Degno di nota il fatto che in friulano trop, mentre da un lato, come si è visto, mantiene il significato di “molto”, dall’altro sviluppa anche un valore di agg. e avv. interrogativo riferito alla quantità: in tròs sêso? “in quanti siete?”, tròs dîs ti màncino? “quanti giorni ti mancano?”, trop strac sestu? “quanto stanco sei?” (NPirona 1219-1220). Analogamente, anche il senso della forma avv. composta purtroppo, appare assai diverso dall’it. al friul.: mentre infatti nella lingua nazionale la loc. avv. esprime rammarico (come a Nizza purtrou “malheuresement”, FEW XVII, 399), in friul., accanto all’avv. (italianizzato) purtròp “purtroppo”, l’agg. e avv. putròp (= plui tróp, a Gemona e altrove) ha il senso di “assai” e, come pron. e agg., conosce anche le forme putróp, putrópe “parecchio, parecchia”, pl. putrós, putrópis: putròpis ciàcaris “molte chiacchiere”, mi dûl putròp “mi duole molto, moltissimo” (NPirona 829), con un significato quindi intensivo, una sorta di superlativo assoluto (= “più di molto”). Da rilevare infine che in Carnia l’agg. trop presenta anche il superlativo tropìscim “moltissimo”: tropìscim timp “moltissimo tempo” (NPirona 1220). Anche nel caso di tasa siamo di fronte ad un originario collettivo che sembra essere passato dal primitivo valore di “gregge”, “branco di animali” a quello di “mucchio” in genere, “catasta”, detto per lo più in riferimento a legna o tronchi d’albero, ma anche, in senso estensivo, per indicare un “mucchio”, una “quantità” in genere, spesso determinata da un partitivo. Sulla vicinanza concettuale fra troppo “moltissimo” e troppo “soverchio” vd. M. Ulleland, Assai, molto e troppo (tentativo di un’analisi semantica) in “Studia Neophilologica” 38, 1966, pp.271-281. 6 Cfr. inoltre a Frontone (Pesaro-Urbino) lu i vòl tròppo bene “lui l’ama molto” (AIS I, c. 65 P. 547), a Capestrano (AQ) isse l ama tròpp (P. 637), a Escalaplano (NU) issu dda stima tróppu (P. 967). 7 Molti altri esempi in OVI (vd.); ma cfr. anche M. Ulleland, Assai, molto e troppo (tentativo di un’analisi semantica) in “Studia Neophilologica” 38, 1966, pp.271-281. 5 6 Il significato primitivo pare circoscritto, anche stavolta, al cadorino arcaico dove tasa (con le varianti tassa, taxa, tayssa, ecc.) ha il senso specifico di “gregge”, cfr. le attestazioni: (a.1326) “de qualibet tasa bestiarum” [CAN1326, art.21]; (a.1326) “quicumque dugarius, grearius, agnarius, caprarius qui conduserit aliquam tasam ad pasculandum” [CAN1326, art. 32]; (a.1380 ?) “quelibet tassa pecudum, et caprarum” [AUR1380, art.84]; (a.1630) “li pastori che anderanno colle Tasse delle piegore, et caore…” [CAN1630, art.106]; (a.1405) “quelibet taxa pecudum et caprarum reperta pasculando super montibus de Londo pignorentur et condepnentur” [NIC1405, art.18]; (a.1406) “pastor cum tasse caprarum” (Richebuono 1980, 209, 181); (a.1432) “pro tayssa tam ovium, quam caprarum” [ZOV1432, art.39]; (a.1444) “tayxas fedae” [STE1444], ecc. Tale significato specifico di tasa come “gregge”, “grosso numero di pecore” - che secondo Andrich, 30 n. 4 si aggirerebbe attorno a un minimo di 30 capi (maggiore quindi del clapus) - non sembra continuare in alcun dialetto moderno, mentre era attestata nel med. fr. (a. 1528) nell’espress. tas de moutons “troupeau” (FEW XVII 316). La voce sopravvive invece nel bellun. e nei dialetti cadorini odierni dove designa pure un collettivo ma riferito non più all’allevamento bensì alle attività boschive, cfr. bellun. tassa “catasta di legna” ma anche “grossa quantità di qualcosa”, comel. tasa “mucchio”, aur. tassa “mucchio di legna” (Tagliavini 1988, 176 e NC 224), agord. tasa “pila, catasta”; na tasa de brége (Rossi 1152); tasà “accatastare; tasà el fén comprimere il fieno per fare la pila” (Rossi 1152), a Lozzo tasa (pl. tase) “catasta, mucchio”; na tasa de léñe de fagèra “una catasta di legna da faggio”; èi na tasa de ròba da lavà “ho un mucchio di roba da lavare” (Diz. Lozzo 639), feltr. rust. tasa “catasta (di legna)” (Migliorini-Pellegrini 113). In tale significato il termine ha conosciuto un’ampia fortuna, con una proliferazione anche di forme alterate, usate per designare un “mucchio” o una “catasta” più o meno grande, cfr. aur. tasón “grossa catasta” (Zand. De Lugan 271), a Selva di Cadore tassón –gn “catasta di tronchi d’albero (taie)” (Nicolai 436), agord. tasón m. “catasta di tronchi d’albero o di assi” (Rossi 1152), ma anche tasìna f. “ramaglia su cui si caricavano fascine di legna da trainare a mano; ramaglie e fascine poste nella parte bassa posteriore della slitta o della bigòza in modo da frenare la corsa strisciando per terra nei terreni in forte pendio” (Rossi 1152). Questo senso specifico di tasa e tasón come “catasta di legna” appare assai diffuso anche in vari dialetti alpini, cfr. a Revine Lago (TV) tasa “catasta, pila, ammasso” (Tomasi 207), cembr. tasón dele bóre “catasta di tronchi d’albero che si forma alla base dello sdrucciolo” (Aneggi 163), primier. tasón “catasta di tronchi (bore – tàie) già pronti per essere trasportati dal bosco alla segheria” e il top. Tasón, loc. sul monte Bedolè (Tissot 286), friul. tàsse “catasta specialmente di legna da ardere tagliata, ma anche d’altro” (NPirona 1176), “mucchio (di qualcosa)”, “mucchio di covoni” (Pellegrini-Marcato, TAF II, 448 e 678-9), “pagliaio”, cfr. tase di pàe o tase (a Ronchis, UD, AIS VII c. 1476 Cp., P. 357), tasa di štrank a Forni Avoltri (P. 318), cfr. inoltre i vb. intassâ e tassâ “accatastare, ma sempre con un certo ordine” (NPirona 643-4) e la tasa o mida per “pagliaio” a Rovigno (AIS VII c. 1476 Cp., P. 397). Il termine non è sconosciuto neppure all’it. ant. (a. 1751-4) dove tassa designava un “mucchio d’alghe e d’altre piante marine in riva al mare o nei bassifondi” (DEI V, 3727; Prati, EV 187), con significato analogo al franc. mediev. tassa (a.1248) «Dum quendam frumenti consertum aggerem, quem vulgariter tassum appellamus» che nel Du Cange (VIII, 38) è glossato come “cumulus seu strues aristarum, vel foeni, gallice tas”, da cui anche tassare “in struem ordinare messem, vel aristas, aut foenum aggerere, Gallis tasser, entasser, mettre en un tas”. Di qui anche l’it. taso “gromma, tartaro, posatura (delle botti)”, attestato a Città di Castello nel 1538 come “fecciam vel tassum” (Sella 233), vd. anche DEI V, 3726-7 dove sono ricordati anche il romagn. tes, tasè “intasare” e il bologn. täss “tartaro” e tasär là “buttare, gettar là con disprezzo”. È interessante osservare come, anche in questo caso, come già in tropus, il tipo lessicale tasa trovi un’esatta corrispondenza nel fr. tas “mucchio”, “cumulo” la cui semantica è molto spesso determinata dallo specificatore del collettivo, cfr. ad es. des tas de fleurs “una gran quantità di fiori”, tas de briquet “assise de briques ou de pierres dont sont composées les murs”, ecc., ma anche 7 tas “partie de la grange où l’on entasse les gerbes”, “fenil”, nonché l’espress. loc. sur le tas “sul posto, in loco”. Di qui le espressioni mettre en tas “former de gros tas de fourrage” e, in genere, “ammucchiare”, tasser “pigiare”, “comprimere”, entasser “gettare su un mucchio”, entassé agg. “spesso, folto, pieno, colmo”, ecc. Dal senso di “cumulo”, “mucchio” il termine tas si estende in fr. (dal 1155) ad indicare anche un “insieme confuso di persone”, “moltitudine di gente riunita insieme”, per lo più con valore spregiativo, cfr. ad es. tas d’idiots! “branco d’idioti!”, “razza di idioti!”, da cui anche frapper (taper, tirer) dans le tas “colpire alla cieca, nel mucchio”. La voce entra inoltre in una serie di locuzioni avverbiali relative alla quantità, cfr. ad es. en tas “in mucchio”, un tas de “beaucoup de” (dal XV sec.), un gros tas “beaucoup”, des tas “beaucoup”, à tas “en grand nombre”, “en quantité”, de tas et de tas “una quantità enorme” (FEW XVII 316-7). Quest’uso avverbiale di tas come “molto; tanto, talmente” si ritrova anche nel friul. ant., cfr. jo v’ami tas, ben c’o nol credis; mi plasè tas; è un piez che jò us cognòs tas “che vi conosco bene”; mi par che di zussaz tas-tas a nuelin Culor che... “che odorano moltissimo di balordaggine”; tas prest...tas intrigat; tas plen di presunzion; tas vulintiir; o zornade tas famose “famosissima”; (sec. XVII, ant. ud.) Inamorât plui tâs (NPirona 1175). Quanto all’etimo, la forma è di origine discussa: si ipotizza un a.francone *tas “Haufe” (= mucchio), con molti continuatori anche nei dialetti francesi, vd. FEW XVII 316-321 dove però il von Wartburg si chiede dubitativamente se le attestazioni di tassa / tassón in alcuni dialetti settentrionali, specie nord-orientali, non risalgano piuttosto ad altre lingue germaniche, come il got. or. o il long., ma vd. anche REW 8591 e cfr. oland. tas “mucchio”. Un altro collettivo, relativo all’ambito della pastorizia, che ha conosciuto uno slittamento semantico è mandra. Nei dialetti agordini, il termine significa, sia “branco di bestie”, per lo più di grandi dimensioni, sia “chiuso per il bestiame” e inoltre è anche “spiazzo nel bosco” e “prato segativo recintato”. Il significato di “recinto o parco dove si tengono gli animali” accomuna i dialetti alpini ad economia pastorale con il sardo ant. dove mandra aveva il senso di “pascolo, spazio di terreno prativo, chiuso per la difesa degli animali e assegnato al pascolo comune delle ‘ville’” (DES II, 64-65) e così anche in numerosi dialetti meridionali. Dal collettivo che ha come referente il bestiame, il termine passa a designare un “insieme di persone o cose” e di qui, nel gergo dei menadàs agordini arriva ad indicare un “insieme disordinato e fitto di taie [taglie di legname] nell’acqua del torrente” (Rossi 629). Dall’associazione del termine all’idea accessoria di disordine, testimoniata da espressioni come fé mandra, fèi mandra, fai mandra che nelle parlate dell’Alto Cordevole si riferiscono al “riunirsi degli animali, specie la sera quando si addensano per entrare nel recinto o mandra” (Pallabazzer 1989, 355), deriva il senso fig. spregiativo di “gruppo disordinato di persone” o di mandra e mandrón che a Lozzo, con un’ulteriore estensione semantica in tale senso, equivalgono a “luogo in disordine” (Diz. Lozzo 320-1), analogamente al cembr. mandrón “disordine” (Aneggi 97). Da segnalare poi il valore (di certo scherzoso) che possiamo ritrovare nell’accr. mandrón che nel primier., accanto al senso proprio di “grande recinto nella malga per tenervi la mandria durante la notte”, acquista anche il senso di “cimitero”: ndar a fenìr te ‘l mandrón “morire e venire sepolti entro il recinto del cimitero” (Tissot 148). Come esempio di sostantivi riferiti alla cultura materiale in genere e che hanno acquisito un valore collettivo, possiamo citare il termine massa che conosce un’evoluzione e una diffusione analoga a quella di troppo. Infatti anche la v. massa, legata in origine all’ambito alimentare, finisce per sviluppare, attraverso il concetto di “mucchio”, “insieme generico”, un valore avverbiale e aggettivale per molti versi analogo a quello di troppo. Il punto di partenza è dato naturalmente dal sost. lat. massa (REW 5396) “pasta, impasto” connesso col greco maza “frittella d'orzo” e il vb. massein “impastare”, vd. DEI V, 2383, DELI 943-4, significato che appare conservato in alcuni dialetti centro-meridionali, cfr. ad es. abruzz. massë “il 8 monte della pasta da cui si traggono i pezzi per fare il pane”, march. la massa dal pan (AIS II c. 236, P.538 Montemarciano, AN), a massa de o pà (P. 558 Treia, Macerata), la massa (P. 577 La Rocca, Montefortino, AP; P. 578 Ascoli Piceno), al massòlu (P. 548 Montecarotto, AN) e mmassà lu pa, ammassà, smenà la massa “impastare” (AIS II, c. 237, P. 569 Grottammare, AP; P. 578 Ascoli Piceno; P. 577 La Rocca, Montefortino, AP ); cfr. inoltre la mèss (AIS II c. 236, P. 608 Bellante, TE), a massa (P. 643 Palombara, Roma), la mass (P. 648 Fara San Martino, CH), la massa (P. 682 Sonnino, Roma), ió massóne (P. 645 Tagliacozzo, AQ), a mass (P. 709 Vico del Gargano, FG), la mass (P. 718 Ruvo di Puglia, BA)8. Dal significato primario di “pasta” la voce conosce uno sviluppo semantico per cui passa a designare (già in lat.) ogni specie di oggetto che forma una massa, una quantità e quindi anche un “insieme di campi”, cfr. nel lat. del IV sec. massa “tenuta” (Ammiano), lat. mediev. massa “podere”, “terreno”9 (Sella, 354) e masa che negli Statuti di Malesco10 ha il senso di “mucchio” e che secondo il Salvioni doveva essere nome tecnico di misura. Il significato estensivo di “gran quantità”, “mucchio di cose”, solitamente accompagnato da un partitivo, è continuato, oltre che in italiano, in molti dialetti, cfr. ad es. a Lozzo masa s.f. (pl. mase) “mucchio, gran quantità; na masa de fién un enorme mucchio di fieno” (Diz. Lozzo 328), ad Auronzo na masa de patate “una gran quantità di patate” (Zand. De Lugan 139), a Cibiana na massa de baiòche “un mucchio di quattrini” (Da Col 180), friul. une masse di afârs (NPirona 579), ecc. Talora la voce può anche acquisire, in alcuni ambiti d’uso, un nuovo valore specifico, cfr. ad es. emil. la masa dal lodàm (AIS VI c. 1178, P. 289), la masa d aldàm (P. 490), la maša de štàbii (P. 476-479), ma anche semplicemente la masa “letamaio” (P. 413, 424, 436, 444, 443). Analogamente, con l’ellissi del determinato, massa può indicare il “mucchio di fieno”, cfr. ad es. la maša (AIS VII c. 1320 Cp., P. 490 Molino, FO), una massa (P. 515 Barberino di Mugello, FI), ma anche la massa ri granu “mucchio di grano” (P. 725 Trevico, AV), la massa del grano (P. 603 Acquapendente, Roma), la massa tonda “aiata” (AIS VII c. 1469, P. 526 Stia, AR), cembr. massa “catasta”. Nel senso di “insieme di animali” la voce è talora usata nel senso di “sciame”, cfr. la masi dals avìas “lo sciame delle api” (AIS VI c. 1155, P. 143 Ala di Stura), na masa di àe (P. 238 Borno, BS). Assai frequente è naturalmente l’uso di massa nel senso di “moltitudine di persone”, “folla”, attestato già nel lat. crist. del IV sec., cfr. friul. une màsse di înt (NPirona 579), tesino ‘na massa de jènte “una gran folla” (Biasetto 259), ampezz. una masa de śente “una moltitudine di persone” (Croatto 110), ecc. Il valore di “insieme di cose o persone” è presente anche nel fr. masse, vd. FEW VI, 441-454, con numerosissimi esempi, dove risulta assai chiaro lo sviluppo semantico che ha portato all’evoluzione di massa dal senso di “gran quantità” alla funzione aggettivale e avverbiale di “molto”, cfr. ant. prov. massa “beaucoup (de gente)”, prov. e fr. ant. grant masse “beaucoup, tres; tres bien, parfaitement”, ant. prov. massa “trop”, ant. fr. a masse “ensemble”, a masso / amaso / ammasso “en troupe”, cat. massa, corso măsĭ agg. “beaucoup”, ecc. Nei dialetti italiani lo stadio precedente all’affermazione come agg. e/o avv. è documentato da alcune espressioni in cui massa ha il senso di “gran quantità”, cfr. ad Acquapendente (Roma) lu ie vòle bène na massa (AIS I, 65, P. 603), a Saludecio (FO) patìš na masa, a sòfra na masa “soffro assai” (AIS IV c. 703, P. 499), a Meldola (FO) na maša at pès at pañ “tanti pezzi” (di pane) (AIS 8 È significativo che in alcune parlate dell’Italia centro-meridionale si verifichi una sorta di metonimia per cui con la v. massa viene designata anche la “madia”, la “cassa per fare il pane”, masarìe pl. indumenti; cfr. ad es. AIS II, c. 238 massa “madia” (P. 645 Tagliacozzo, AQ; P. 646 Trasacco, AQ; P. 701 San Donato, CS), màisa (P. 656 Scanno, AQ; P. 639 Crecchio CH). 9 Di qui naturalmente i vari derivati massaricia, massarius, massaria, ecc., vd. Prati, EV 99 e cfr. anche Massa, comunissimo elemento toponomastico, soprattutto in Toscana 10 L’elemento volgare negli Statuti latini di Brissago, Intragna e Malesco, a cura di C. Salvioni, “Bollettino storico della Svizzera italiana”, a. XIX, 1897, pp.133-170. 9 V c. 988, P. 478), a Cesenatico na masa t pès at päin (P. 479); cfr. inoltre romagn. una maša t fruta / na masa t frut “molti frutti” (AIS VII c. 1249, P. 459, 467, 476, 478, 479, 499) Ma nei dialetti italiani odierni, in particolare dell’area nord-orientale, massa ha finito con l’acquisire anche una funzione avverbiale, equivalente in genere all’it. “troppo”, cfr. anche friul. màsse (avv.) “troppo”: ond ài masse o di masse ne ho troppi. Anche come sostantivo m.: il masse e il masse pôc dissipin ogni mistîr. Si usa anche trop, che altrimenti vale molto” (NPirona 579). L'affermarsi del significato di “troppo”, che pare ora pressoché esclusivo e caratteristico del veneto (cfr. AIS V, c. 943 e 944 in cui il tipo masa ven.si contrappone chiaramente al tipo it. troppo) non deve però essere anteriore al Cinquecento dato che massa equivale ancora a “molto” nell’esempio folenghiano riportato dal Bondardo: blanca dat panem mihi terra pocum, / sed nigra massam “la terra bianca dà poco pane, quella nera, molto”. Questo significato avverbiale di massa nel senso di “molto” è conservato nel romagn. mas (avv.) “parecchio, molto, assai” (Ercolani 321), che conosce anche la forma masamônt composta di masa e mônt (avv.): a masamônt “alla rinfusa, a catafascio, sottosopra, disordinatamente” e il sost. masadina “mucchietto, anche nella loc. zughê a la masadina giocare (a carte) a banco fallito”. Anche in altre parlate ritroviamo però alcune locuzioni in cui l’avv. massa sembra conservare quello che potremmo definire lo stadio intermedio di intensivo, non ancora passato al senso di “soverchio”, cfr. ad es. cador. mas o meno “più o meno” (Men.Tamb. 1978, 143), tesino massa tanto “troppo” (Biasetto 259), analogo all’agord. masa tant (Rossi 647), al vicentino masa tanto. Ma masa entra anche in una serie di espressioni avverbiali che possono conferire all’enunciato varie sfumature di significato, cfr. ad es. tesino e cembr. de massa “in sovrappiù” (Biasetto 259; Tissot 99), ad Auronzo de masa “di troppo”, masa de mé “purtroppo per me”; va almanko tu, masa de mé ke me toča sta ka “va’ almeno tu, purtroppo per me che debbo star qui” (Zand. De Lugan 139), ampezz. són de masa póche siamo troppo pochi (Croatto 110), agord. pur masa, perfetto equivalente di “purtroppo”: come se ve pur massa al dì d’ancoi “come si vede purtroppo al giorno d’oggi” (Rossi 647). 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