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Barbara Hanningan direttore e soprano
Orchestra della Toscana
Il concerto di questa sera si apre con una delle più belle e brillanti pagine orchestrali del repertorio,
ovvero la ouverture dell’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini (1792-1868). Artista precoce – il
suo primo successo fu un’opera buffa composta appena diciottenne, La cambiale di matrimonio,
rappresentata nel 1810 al Teatro San Moisè di Venezia – Rossini seppe conquistare i teatri di tutta
Europa con opere comiche ed opere serie che raccontano il mondo con razionalistica precisione e
caustico distacco, caratterizzate da un linguaggio nuovo che segnò una svolta nell’evoluzione
dell’opera. La grande carica della musica di Rossini risiede nel ritmo, un ritmo musicale cui si
adatta quello del testo; in Rossini la parola è sopraffatta dal ritmo musicale, si frantuma in fonemi
spesso privi di senso, si trasforma in pretesto sonoro che stritola il personaggio in un meccanismo
inesorabile, negando di fatto qualsiasi possibilità di comunicazione: per Rossini l’individuo è come
una marionetta le cui azioni sono mosse da altri, che invano si illude di essere padrone delle proprie
azioni. Le “sinfonie” iniziali delle opere rossiniane rappresentano un microcosmo affascinante in
cui questa visione del mondo si materializza grazie alla tavolozza orchestrale. L’Italiana in Algeri
risale al 1813 e permise a Rossini di conquistare un pubblico internazionale; la sua ouverture è un
perfetto esempio del tipo di struttura che Rossini impiega nelle sue opere buffe di questo periodo:
introduzione lenta seguita da un tempo veloce quasi in forma-sonata, dove tutti gli elementi
musicali cedono il passo ad un ritmo travolgente che – segnato da un continuo crescendo – conduce
all’esplosione sonora conclusiva.
L’aria da concerto si sviluppa come genere musicale ben definito nel periodo che va dalla seconda
metà del ‘600 secolo alla prima metà del ‘700. Il grande genio di Wolfgang Amadeus Mozart
(1756-1791) si cimenta naturalmente anche in questo genere con un consistente numero di
composizioni per voce ed orchestra, in gran parte per soprano e quasi tutte su testo in italiano. Le
arie da concerto mozartiane potevano avere finalità diverse: talvolta erano scritte per essere
introdotte in lavori suoi o di altri compositori, spesso erano funzionali alle caratteristiche vocali di
interpreti di grido, altre volte rappresentavano una specie di microcosmo operistico che si articolava
nella struttura recitativo-aria brillante: un “abito su misura” (così erano definite in gergo) per il
solista cui era data facoltà di sfoggiare tutto il suo virtuosismo. In realtà in Mozart l’abilità tecnica
si unisce sempre alla profondità dell’espressione, e le arie in programma ne sono un esempio. Se le
arie "Chi sa, chi sa qual sia" K 582 e "Vado, ma dove? oh Dei", K 583 nascono proprio secondo
questa concezione, l’aria "Misera, dove son - Ah! non sono io che parlo" K 369 (scritta nel 1781 su
testo tratto dall'"Ezio" di Metastasio) rappresenta un esempio di aria scritta per essere eseguita
autonomamente in forma di concerto, nelle famose “accademie”, concerti che presentavano
programmi di una mole per noi inconsueta, dove venivano accostati brani vocali e strumentali anche
molto diversi fra loro. È significativo che Mozart presentasse questa aria in un concerto organizzato
da lui stesso il 23 dicembre 1783 a Vienna: il suo primo trionfo viennese, segnato da un successo
travolgente e da un cospicuo incasso: “Il teatro non avrebbe potuto essere più gremito – scrive al
padre - ma ciò che mi fece più piacere fu la presenza di S. M. l’Imperatore. E com’era contento, e
come mi applaudiva forte!”. La Sinfonia Concertante in Mi bemolle maggiore per violino, viola e
orchestra K 364 risale al 1779, in un periodo cruciale per la vita di Mozart. È un capolavoro che
nasce a Salisburgo, città natale dove è appena rientrato dopo una tournée a Parigi segnata
tragicamente dalla morte della madre. Torna dunque – sfiduciato e demotivato – alle dipendenze del
Principe Arcivescovo Hyeronimus Colloredo, e solo la composizione gli consente di superare le
difficoltà di un ambiente per lui senza prospettive. In una lettera al padre del 1778 durante il
soggiorno parigino Mozart scrive: “L’unica cosa che mi ripugna a Salisburgo, le parlo in tutta
sincerità, è il fatto che non si possano avere rapporti accettabili con la gente, che l’orchestra non
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goda di maggiore considerazione e che il vescovo non abbia fiducia nelle persone intelligenti, che
hanno viaggiato. Perché, glielo garantisco, se non si viaggia – e questo vale per gli artisti e gli
uomini di scienza – si resta dei poveri incapaci; e le assicuro che se l’arcivescovo non mi
permetterà di fare un viaggio ogni due anni, mi sarà impossibile accettare l’impiego.(…) a
Salisburgo porrò l’unica condizione di non dover più suonare il violino come in passato. Non farò
più il violinista; è al pianoforte che voglio dirigere…”. Mozart dunque è intenzionato a dedicarsi al
nuovo e straordinario strumento che è il pianoforte; in realtà egli è stato anche un grandissimo
violinista – divenne primo violino di corte a Salisburgo all’età di tredici anni – e lo stesso padre
Leopold considerava Wolfgang un eccellente virtuoso (“Tu stesso non ti rendi conto di quanto
suoni bene il violino”). La Sinfonia Concertante ne è una dimostrazione: scritta nella solenne
tonalità di mi bemolle (quella del Flauto magico) l’opera dimostra la piena assimilazione delle
innovazioni del linguaggio sinfonico dell’orchestra di Mannheim con la quale Mozart era entrato in
contatto, sviluppando tutte le possibilità offerte dai due strumenti solisti, e al contempo schiude
quell’universo espressivo che sarà del Mozart più maturo, che qui si manifesta con la sublime
profondità del movimento centrale (Andantino).
György Ligeti (1923-2006) è stato un protagonista assoluto della musica degli ultimi decenni. Nato
in Transilvania da una famiglia di ebrei ungheresi di lingua tedesca, in una regione di confine tra
Ungheria e Romania, Ligeti fece propria la lezione di Béla Bartók, almeno per quanto riguarda
l’importanza della musica popolare. È in questa direzione che il giovane Ligeti muove i suoi primi
passi, nell’ambito della ricerca folklorica, raccogliendo una gran quantità di canti popolari rumeni:
come Bartók aveva indicato, la musica popolare, il suo linguaggio fresco e puro, i valori di cui essa
era portatrice potevano rappresentare una via d’uscita alla crisi dei linguaggi e delle idee del nuovo
secolo. È sulla scorta di tali esperienze che Ligeti compone nel 1951 il suo Concert Românesc per
orchestra, articolato in quattro movimenti in cui affiora la memoria – ma soprattutto lo spirito – di
tanti canti e danze popolari. Nell’ultimo movimento, in particolare, alcuni passaggi “dissonanti”
furono la causa della una censura subita da Ligeti da parte delle autorità politiche che, in pieno
stalinismo, esercitavano la loro influenza critica in modo devastante e che concepivano il
“linguaggio popolare” esclusivamente come una rassicurante alternanza di accordi maggiori e
minori. La reazione di Ligeti alla pressione politica esercitata su di lui fu di esplorare con impegno
sempre maggiore una dimensione sonora dominata dal cromatismo e dalla dissonanza. Raggiunta
Vienna nel 1956 dopo una vera e propria fuga oltre la “cortina di ferro”, Ligeti entrò subito in
contatto con compositori di primo piano dell’esperienza contemporanea, diventando in poco tempo
uno dei protagonisti della vita musicale del nostro tempo, con composizioni come Apparitions,
Atmosphères, Volumina, Lux Aeterna, Lontano, partiture che attraverso uno spazio occupato da
fasce sonore che si sviluppano come articolatissime ramificazioni (la cosiddetta “micropolifonia”)
mettono in gioco concetti chiave dell’esistenza, l’inizio e la fine, il permanere, il modificarsi, lo
scomparire: “è una musica che suscita l’impressione di fluire senza inizio e senza fine. Vi si ascolta
una frazione di qualcosa che è iniziato da sempre e che continuerà a vibrare all’infinito”. Il senso
del tempo e di uno spazio pullulato da un microcosmo di umanità degradata è presente nelle tre arie
che chiudono il programma di stasera, “Mysteries of the Macabre”, tratte dal “Grande Macabre”,
opera commissionata a Ligeti dal Teatro dell’Opera di Stoccolma e rappresentata la prima volta nel
1978: l’infima condizione morale dei protagonisti è espressa da una gestualità “espressionistica” e
una vocalità che esplora in modo del tutto nuovo e affascinante ogni possibilità espressiva e sonora.
Daniele Salvini
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