relazione mastrofini sull`america latina

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relazione mastrofini sull`america latina
America Latina
Sintesi ........................................................................................................ 2
1. Parlare di sud a partire dal nord .............................................................. 3
2. Aspetti specifici ...................................................................................... 6
2.1 Washington ha perso l'America latina? .................................................. 6
2.2 Quell'America latina che accetta il confronto .......................................12
2.3 Uruguay Inaugurates Mujica: Life after Vázquez ...................................17
2.4 Petrolio e ancora petrolio… ..................................................................23
3. La Chiesa nel contesto ed oltre ..............................................................24
3.1. La teologia ..........................................................................................24
3.2 Le sfide ................................................................................................25
Capitolo 3 – America ..................................................................................29
1. Unità (fittizia) del continente? ............................................................29
2. Nord America ......................................................................................29
2.1 Credibilità minata ..........................................................................30
2.2 Diocesi da ristrutturare ..................................................................31
2.3 Ombre ma anche luci .....................................................................32
3. Sudamerica in ebollizione ...................................................................33
3.1 Problemi da affrontare ...................................................................34
3.2 Martiri latinoamericani del Novecento ...........................................35
3.3 Risposte dalla teologia ...................................................................37
3.4 La teologia «india» ..........................................................................37
3.5 Tra impegno e attese carismatiche .................................................39
Sintesi
Compito difficile, arduo, al limite dell’impossibile, quello di enucleare le tendenze
del contesto latinoamericano in poche decine di minuti. Per questo oltre al mio
intervento a voce ho preparato questa pagina di sintesi ed ho raccolto una
documentazione di appoggio a quanto dirò a voce per eventuali successivi
approfondimenti che ognuno di voi potrà fare.
Il punto di partenza: il Nordamerica. Non sembri strano o inusuale. La Chiesa
dice che il continente è uno (Ecclesia in America), ed assistiamo in questi anni ad
una ispanizzazione del Nordamerica. Che vuol dire sul piano sociale, politico,
ecclesiale? Che valutazione dare del fenomeno?
Primo scenario. Sul piano politico e sociale la presenza di Washington influenza
prepotentemente gli scenari latinoamericani. E sul piano economico e
finanziario sono al lavoro interessi e poteri forti. Quali sono allora le tendenze
in atto nei diversi paesi? Rivendicano una specificità e cercano di realizzare
politiche differenziate dai piani di Washington, soprattutto per quanto riguarda i
temi delle risorse energetiche. Sono veramente delle politiche differenziate?
Oppure anche qui si tratta di propaganda per farsi votare, mettendo in realtà le
chiavi dei paesi nelle mani del potente vicino nordamericano? E poi, la politica del
presidente Obama è davvero diversa da quella dei suoi predecessori verso il cortile
di casa?
Secondo scenario. Cosa fa paura? Il neo (neo?)-socialismo di Chavez esportato o
esportabile in Honduras (motivo del golpe), il Paraguay.
Infine: la Chiesa. Esistono conflitti aperti tra Chiesa e Stato (Bolivia, Venezuela),
convivenza pacifica (Colombia, Brasile). Alcune peculiarità: la Chiesa è il
baricentro del cattolicesimo mondiale per numero di fedeli. Affronta delle sfide:
sul piano teologico per rispondere alle realtà ed urgenze nuove. Ha come inziaitiva
nuova (nuova?) la Missione continentale.
Problemi aperti: rapporti con la Santa Sede, nomine dei vescovi, rapporti con i
movimenti scoiali.
Sul piano pastorale e gestionale molto c’è da fare affinché si comprenda che la
vera risposta è nell’innescare un processo di cambiamento gestionale.
Riferimento per l’analisi:
http://www.amerindiaenlared.org/estructura/download/270/
1. Parlare di sud a partire dal nord
Philadelphia. Benjamin Franklin parla spagnolo
Avvenire 30 maggio 2010
«Se non sappiamo quanti bambini ci sono, come potremo definire il numero delle
classi scolastiche di cui abbiamo bisogno?». A Filadelfia, come altrove negli Usa,
questo slogan campeggia per strada, alle fermate della metropolitana, lungo le
pensiline degli autobus. È uno dei leitmotiv del censimento 2010, avviato in
queste settimane per fotografare gli Stati Uniti oggi. Eppure al di là delle
invenzioni pubblicitarie per convincere la popolazione a rispondere ai dati del
censimento, appare un’America in profonda trasformazione, almeno nelle città.
Filadelfia è un buon punto di osservazione, con i suoi 1,5 milioni di abitanti,
sesta città degli Stati Uniti, prima capitale, custode della storia degli Usa. Passati
i quartieri di Old Town, le vie centrali di grattacieli ed edifici in stile neoclassico,
come la sede della seconda banca d’America, la città fa vedere di sé un altro volto.
Verso Frankford, appena al di fuori della fascia centrale, colpisce la presenza di
tutto un diverso tipo di popolazione. La presenza ispanica a Filadelfia è in
crescita: le statistiche del governo parlano di un 11,3% nell’area urbana, a fronte
di un 4,8 nell’intera Pennsylvania. Una presenza che si vede per le strade e si
sente ascoltando spagnolo ed inglese che si mescolano tra di loro. Mentre in
alcuni quartieri è stata avviata un’opera di riqualificazione urbana, per esempio
tra 2nd street e George street, dando vita ad angoli di grande vivibilità,
immediatamente a ridosso delle grandi arterie le abitazioni scorrono una accanto
all’altra senza uno schema urbano preciso. In alcune zone della città, come
Frankford e Allegheny, mancano del tutto le strutture sportive come invece non
accade nei quartieri residenziali e centrali. L’immigrazione ispanica, un dato che
colpisce il visitatore ed è appunto confermato dalle statistiche, è sempre più
protesa verso il nord degli Stati Uniti. A West New York, una cittadina del New
Jersey a mezz’ora di autobus da New York City, per strada si sente parlare
esclusivamente in spagnolo. «Qui le messe vengono fatte in tre lingue: inglese,
spagnolo e italiano», conferma padre Carlo Fortunio, parroco italiano della Holy
Redeemer Church, che segue da vicino il percorso del cammino neocatecumenale.
E anche qui è lo spagnolo la lingua predominante. L’immigrazione è il fattore che
contribuisce di più alla crescita della popolazione degli Stati Uniti. E anche alla
crescita della Chiesa cattolica, passata a oltre 62 milioni di fedeli. Secondo le
ultime statistiche del censimento del 2000, che dovranno venire riviste e
aggiornate con quello del 2010, sarebbero poco più di 31 milioni gli immigrati
presenti negli Usa e tra questi, 9,1 milioni sarebbero i clandestini. Il fenomeno
preoccupa da diversi punti di vista. Problemi di non facile soluzione, evidenti
quando si percorrono le vie appena più periferiche ed emergono le contraddizioni
che i grattacieli tengono nascoste. «Siamo di fronte ad un cambiamento molto
radicale – conferma Walter Cohen, docente emerito alla Facoltà di Medicina della
Drexel University – ed è senz’altro esatto dire che molte zone di Filadelfia, come di
altre città americane, starebbero bene nel Terzo mondo quanto a precarietà delle
costruzioni, affastellamento senza un piano regolatore, sporcizia, povertà,
criminalità. Le politiche economiche e sociali degli ultimi decenni hanno fatto
crescere il divario; la middle-class, una volta vero motore dell’economia, si sta
impoverendo in maniera costante ed evidente». Il problema ha un risvolto sociale
che Jonette Christian individuava così già nel 1999: «In America latina le élite si
preoccupano del loro benessere e non di quello della popolazione generando stili
di vita e codici di condotta basati su un approccio individualista. Quando gli
immigrati vengono qui negli Usa, è inevitabile ripetere gli stessi modelli, portando
un’idea di società basata sulla corruzione, sul nepotismo, sull’interesse privato.
Ed alla lunga anche il modello americano viene intaccato».
Fabrizio Mastrofini
Secondo le statistiche ufficiali gli immigrati ispanici sarebbero l’11,3%. Ma la
campagna lanciata dall’amministrazione locale è eloquente: «Se non sappiamo
quanti bambini ci sono, come potremo definire il numero delle
PADRE FORTUNIO: «LA SOCIETÀ SI TRASFORMA, LE PARROCCHIE
RESTANO»
«Negli Stati Uniti in generale e qui a Filadelfia in modo particolare, i fedeli sono
molto attaccati al loro parroco. Anche se la Chiesa può vivere un periodo di
sofferenza per qualche difficoltà, non viene meno il sostegno delle persone al
parroco ed alla parrocchia. È una caratteristica del laicato cattolico negli Usa»,
spiega padre Joseph Logrip, 64 anni, parroco di Mother of Divine Grace, a Port
Richmond, Filadelfia nord, e vicario per questa zona della città. «La parrocchia
una volta era per gli italiani – spiega padre Logrip – e io stesso sono di origini
italiane. Poi però le nuove generazioni hanno dimenticato la lingua dei nonni e
bisnonni e ora le 1600 famiglie praticanti vivono in tutt’altro contesto sociale».
Qualche resto delle origini italiane rimane e infatti a metà giugno si svolgerà
anche quest’anno un Festival musicale e gastronomico. Dal punto di vista
religioso, l’arcidiocesi vive una continua evoluzione. Nell’area compresa tra Gaul
street, Thompson street, Belgrade street e Allegheny Avenue, si trovano cinque
chiese cattoliche, tra cui una per la popolazione polacca raccolta in questa fascia
della città. «Tuttavia la situazione delle parrocchie è in continua evoluzione –
conferma padre Logrip – prima di prendere la responsabilità di questa parrocchia,
dove è annessa una scuola cattolica, primaria e secondaria con 500 alunni, ero
parroco a SS. Philip and James Parish a Exton, con poco più di 800 famiglie
cattoliche. Da questi numeri deriva l’esigenza di rivedere la distribuzione delle
parrocchie, anche a fronte di un calo della presenza dei sacerdoti.
La questione è assai complessa perché quando si parla ai fedeli loro si rendono
perfettamente conto della situazione e della necessità di arrivare ad accorpare o
chiudere delle parrocchie ma chiedono sempre che non sia la loro a subire questo
destino!». Un piano pastorale si sta studiando, nel frattempo le esigenze
cambiano. Spostandosi un poco più a nord, nel New Jersey, la realtà è tutt’altra.
«Qui – spiega padre Carlo Fortunio, italiano, da oltre 14 anni negli Usa – il
contesto sociale ispanico ci mette a confronto con problematiche diverse. La
chiesa è vista come un luogo di aggregazione e una risorsa.
Tuttavia dobbiamo sempre fare i conti con le amministrazioni locali; ogni
iniziativa per venire approvata e realizzata deve avere già il suo finanziamento e il
benefattore pronto a dare fondi. E alle volte possiamo trovarci di fronte a forme di
condizionamento, che si superano sempre con il dialogo e la buona volontà».
Fabrizio Mastrofini
Una reazione –
Caro Fabrizio,
ho letto domenica il tuo articolo su Filadelfia apparso su Avvenire e ti scrivo in quanto un pò
sorpreso da alcune affermazioni contenute nell'articolo che ritengo francamente ingiuste.
Innanzitutto il collegamento tra immigrazione e aumento della criminalità, come anche affermato
nell'occhiello del titolo, è naturalmente criticabile, in qualsiasi parte del mondo, anche perché
l'immigrazione ispanica negli USA è ormai così numerosa da non permettere tali affermazioni.
Lo stesso vale per il collegamento tra immigrazione e degrado urbano: il degrado delle città
statunitensi, e in una certa misura anche di quelle europee, è dovuto principalmente ad anni di
abbandono di qualsiasi politica sociale degna di questo nome, oltre che alla scomparsa di progetti
urbanistici globali, e non solo legati a singoli edifici di grande richiamo e di poca incidenza sul
tessuto urbano circostante.
L'idea poi che adesso l'immigrazione ispanica tenda al Nord è giusta, ma in realtà questo è un
fenomeno di lunga data: basti vedere la fiorente presenza cubana nella New York della seconda
metà dell'ottocento (a New York si stampavano ben 5 giornali in spagnolo già allora), la presenza
dei messicani a Chicago negli anni cinquanta-sessanta (vedi il romanzo "Caramelo" di Sandra
Cisneros), o la presenza di portoricani un po` dappertutto a nord fin dagli anni quaranta (vedi "Poeta
a New York" di García Lorca).
Questo significa peraltro che la storia dell'immigrazione ispanica negli Stati Uniti è storia di lunga
data (diciamo almeno dalla metà dell'ottocento), e molto differenziata, dato che non si può
confondere tra i portoricani di New York, i cubani di Miami, i messicani di El Paso e quelli della
California (tutte comunità che ad esempio parlano varietà di spanglish anche molto differenziate tra
loro).
Inutile dire poi che l'immigrazione ispanica (al contrario ad esempio di quella italiana dei primi del
novecento) ha prodotto fenomeni culturali di grande spessore, tanto che ormai esistono numerose
cattedre nelle Università americane dedicate allo studio della cultura chicana, o latina, o come
altrimenti si vuole denominare.
La citazione che poi chiude l'articolo (anche se mi viene il dubbio che lo abbiano tagliato: difficile
che si chiuda con una citazione) è assolutamente risibile: affermare che la popolazione ispanica
segua modelli di condotta individualista nel paese che ha fatto dell'individualismo la propria
bandiera è perlomeno curioso, laddove coloro che studiano da vicino il fenomeno notano la
tendenza degli ispanici (come tutte le comunità di immigrati) a fare gruppo, e qui si in alcuni casi
con risvolti criminali pericolosi (vedi le gang sudamericane delle periferie), ed affermare che l'idea
di società che proviene dall'America Latina sia basata "sulla corruzione, sul nepotismo,
sull'interesse privato" mi suona vagamente razzista, oltre che farmi pensare che forse noi italiani in
questa materia dovremmo tacere e non farci troppo notare.
Intanto un caro saluto
Stefano ****
Population, Immigration, and Global Ethics
by Jonette Christian
http://www.susps.org/ibq1998/discuss/jchristian.html
This is the text of a speech given by Jonette Christian on October
9, 1999 at the Aspen Institute, Aspen Colorado, during the Myth
of Sustainable Growth conference.
I never really appreciated this remarkable quality about us until I experienced a Latin culture.
For three generations, my family have been friends with a middle class family of well educated
Mexicans—and we have exchanged children over the summers. On a recent visit I noticed that
the river which used to run through their city with many bridges over it had completely
disappeared. No one seemed to know or to care what had happened to their river. They simply
weren't interested. I was astonished. Can you imagine that any American community would
allow a whole river to simply disappear—with so little interest from the people? Are we
surprised that Mexicans are now sending their people to find employment throughout America?
A culture which allows a river to disappear might just as easily find itself without jobs for their
children. The wealthy and the educated who might have been organizing an environmental
movement in Mexico , who might have been organizing a war on poverty or political
corruption, or a conference like this one which challenges the prevailing doctrines on growth
have instead decided to promote the migration of their many poor and uneducated citizens
into American communities. And are we truly a good neighbor by collaborating with this
solution? In l940 Mexico had a population of only 19 million. Today her population is l00
million, not including the millions which have already immigrated to America. The population
doubling rate is just 32 years. The poverty, environmental degradation, and human suffering
which this astronomical growth produces was not caused by American racism, social injustice,
capitalism, or even corporate greed—but far more common human failings: procrastination,
denial, and the failure of an entire culture to examine itself and make changes.
Culture is fundamental in understanding poverty and high growth. Authoritarian cultures, not
surprisingly produce authoritarian governments, and these nations are especially vulnerable to
economic domination from outsiders. For instance, multinational corporations can obtain unfair
advantages in a country like Guatemala, which would never be tolerated in a country like
Denmark. The ruling elites of Latin America have had little interest in protecting the welfare of
their own people. But the problem lies within the culture. In Latin societies there is no code of
conduct that calls for social responsibility or citizen activism outside of the family.
Consequently, very few political leaders in Latin America leave office without amassing
tremendous wealth for themselves and their relatives. Latin presidents do not turn to their
people and say, "Ask not what your country can do for you, but what you can do for your
country." Patriotism of this order is sadly missing. Political corruption, nepotism and petty
thievery pervade these nations, and there is barely a whisper of protest from the people. The
awesome price for generations and generations of citizen passivity and neglect for the common
welfare is painful indeed.
2. Aspetti specifici
2.1Washington ha perso l'America latina?
Da: Le Monde diplomatique – dicembre 2007
http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_view_lemonde.php3?page=/LeMondearchivio/Dicembre-2007/0712lm01.02.html&word=venezuela;chavez
Perché l'ambasciata americana a Caracas ha aperto una serie di «consolati satelliti» nei cinque
stati del Venezuela produttori d'idrocarburi? Perché il Pentagono vuole riattivare l'aeroporto
militare Mariscal-Estigarribia, nel Chaco paraguaiano, a poche decine di minuti di volo dalla
Bolivia? Dalla fine degli anni '90, Washington è in difficoltà in America latina. Il progetto di un
grande mercato dall'Alaska alla Terra del Fuoco, la Zona di libero scambio delle Americhe, non è
decollato. Al suo posto sono comparsi governi di sinistra, moderati o radicali, un'alleanza
energetica Venezuela-Bolivia-Argentina, una Banca del sud che si oppone al Fondo monetario
internazionale e alla Banca mondiale, l'Alternativa bolivariana delle Americhe (Bolivia, Cuba,
Nicaragua, Venezuela), l'inizio di un «socialismo del XXI secolo» a Caracas, La Paz e Quito...
Washington tenta di arginare questa emancipazione promovendo un gran numero di trattati di
libero commercio, legittimando il «diritto di ingerenza democratica» e rafforzando la
cooperazione militare in nome della guerra contro il terrorismo e il narcotraffico, in difesa
della... democrazia di mercato.
DI JANETTE HABEL *
«L'America latina è un continente perso.» L'affermazione è di Moises Naim, direttore della
rivista Foreign Policy. Meno categorico, il presidente dell'Inter-American Dialogue, Peter
Hakim, esprime comunque la stessa preoccupazione quando si chiede: «Washington [sta]
perdendo l'America latina (1)?» Da un decennio, gli Stati uniti subiscono sconfitte su
sconfitte in questa parte del mondo. Il rifiuto delle politiche neoliberiste ha portato al
potere coalizioni di sinistra, radicali o moderate, che esprimono a diversi livelli la loro
indipendenza.
Nell'aprile 2002, è fallito il colpo di stato contro il presidente venezuelano Hugo Chávez.
Subito dopo, la forza del movimento indigeno, in Bolivia, ha portato al potere Evo Morales
malgrado l'opposizione del dipartimento di stato. Pur esercitando pressioni di ogni tipo, gli
Stati uniti non sono riusciti neppure ad impedire l'elezione di Daniel Ortega in Nicaragua,
né quella di Rafael Correa in Ecuador (2). E allora, intervenire in modo più energico? Il
fallimento della spedizione irachena rende poco probabile, almeno per un certo periodo, un
impegno militare diretto su un altro fronte. Tuttavia, malgrado il crescente rifiuto di cui è
oggetto, l'essenziale dell'impianto neoliberista resta in piedi. Certo, annunciato con grande
enfasi da William Clinton durante il Vertice delle Americhe tenutosi a Miami alla fine del
1994, il grande mercato che avrebbe dovuto coinvolgere l'intero continente dall'Alaska alla
Terra del Fuoco, la cosiddetta Zona di libero scambio delle Americhe (in spagnolo Alca),
non è decollato. Ma, secondo Carlos Gutierrez, segretario americano al commercio, le
imprese americane, nel 2005, hanno investito 353 miliardi di dollari in America latina e nei
Caraibi. Le loro filiali impiegano un milione e seicentomila persone. Nel 2006, le
esportazioni americane sono aumentate del 12,7% e le importazioni del 10,5%.
Il fallimento dell'Alca non deve nascondere i progressi degli accordi bilaterali o
multilaterali, ottenuti in particolare grazie ai trattati di libero commercio (Tlc) (si legga
l'articolo di Nora Garita pagina 4). L'attrattiva esercitata dal mercato americano costituisce
infatti un potente richiamo: «Il nostro paese deve trovare nelle relazioni con tutti i paesi
del mondo, e in particolare con gli Stati uniti, la forza che manca alle sue dimensioni»,
afferma ad esempio il ministro uruguaiano dell'economia, sedotto da un Tlc con gli Stati
uniti che rischia, tra l'altro, di aprire un conflitto con il Mercato comune del Sud
(Mercosur), il che non dispiacerebbe affatto a Washington.
Anche se considerate di centrosinistra, le élite latinoamericane sono pronte a capitolare di
fronte all'offensiva neoliberista. Col passare del tempo, lo spazio politico dei Tlc si è
ampliato.
Una nuova tappa nell'integrazione continentale - versione nordamericana - è stata
raggiunta il 23 marzo 2005 a Waco (Texas). Il Partenariato per sicurezza e prosperità
(Psp) nordamericano prevede la creazione di una comunità economica di sicurezza tra
Stati uniti, Canada e Messico. Per il giurista Guy Mazet, «la novità dell'accordo sta
nell'introduzione della nozione di sicurezza nella logica di processi economici e
commerciali, e nell'istituzionalizzazione del potere delle imprese e del settore privato che
ormai si impongono alle politiche pubbliche (3)».
Ci si può interrogare sulla legittimità giuridica di un accordo negoziato a margine dei
parlamenti nazionali. «Il settore privato utilizza il quadro internazionale per ottenere
maggiore influenza sulle politiche nazionali», osserva Mazet.
Il ricercatore americano Craig Van Grasstek ha scoperto che tutti i paesi latinoamericani
che fanno parte della coalizione dei volontari (coalition of the willing) in Iraq beneficiano di
un Tlc con gli Stati uniti. E lo stesso vale per quelli - Colombia, Ecuador prima dell'elezione
di Correa, Perú, Costa Rica, Guatemala - che, in America latina, sono usciti dal gruppo dei
Venti (G20) (4). La pubblicazione, da parte del giornale El País, del verbale delle
conversazioni tra George W. Bush e José María Aznar (5), nel febbraio 2003, rivela la
brutalità del ricatto del presidente americano nei confronti dei paesi restii ad appoggiare
un intervento militare in Iraq. «Ciò che è in gioco, è la sicurezza degli Stati uniti,
dichiarava allora Bush.
Lagos [il presidente cileno] deve sapere che il Tlc con il Cile attende la conferma del
Senato. Un atteggiamento negativo potrebbe metterne in discussione la ratifica».
Anche Michelle Bachelet, per quanto sostenitrice di un partenariato strategico con
Washington, è esposta a sanzioni in quanto il Congresso cileno ha ratificato il trattato che
crea la Corte penale internazionale (Cpi), e non intende garantire l'immunità ai soldati
americani davanti a questo tribunale. L'aiuto militare potrebbe venire sospeso. E in questo
caso, il Cile dovrebbe pagare una grossa somma al Pentagono per addestrare i suoi
militari a pilotare gli F-16 appena acquistati.
Per le stesse ragioni Brasile, Perú, Costa Rica, Ecuador, Bolivia e Uruguay si sono visti
sospendere addestramento militare e programmi di aiuto.
Il crollo sovietico ha contribuito a dare grande credito alla retorica democratica di
Washington. Sembra passato il tempo in cui, sulla scia di Ronald Reagan, Jeane
Kirkpatrick polemizzava contro James Carter il quale, parlando a vanvera di «diritti
umani», avrebbe messo in discussione regimi autoritari non comunisti, e tuttavia «più
compatibili con gli interessi americani». Con l'affermarsi del liberismo, si è consolidata la
convinzione che le regole imposte da globalizzazione e mercato riducano i rischi di
sbandamenti «populisti». Come osserva il ricercatore William I. Robinson, si può,
brandendo la bandiera della democrazia, «penetrare nella società civile per garantire il
controllo sociale» attraverso forme di potere più consensuali. «Gli strateghi americani
sono diventati buoni gramsciani nel momento in cui hanno compreso che la vera sede del
potere è la società civile (6)», a condizione però di frammentarla in gruppi e comunità
dagli interessi divergenti.
Poco a poco, dopo gli attentati dell'11 settembre, all'interno dell'Organizzazione degli stati
americani (Osa) si è stabilito un principio: la difesa dell'ordine democratico va di pari
passo con il diritto d'intervento contro qualsiasi «alterazione» di tale ordine. L'adozione
(per acclamazione) della carta democratica dell'Osa, nel 2001, ha sancito questa
impostazione, sotto l'occhio vigile del segretario americano alla difesa Donald Rumsfeld.
La salvaguardia della democrazia, anche per mezzo della forza, non è un'idea nuova. Il
fatto veramente nuovo, è che è sia ormai condivisa da alcuni settori della sinistra in nome
del «diritto di ingerenza umanitaria».
Il comando strategico di Miami Ma i nuovi rapporti di forza sul continente rendono più
complesso il ruolo dell'Osa. Il fatto che non tutte le sfide alla democrazia vengano trattate
in modo paritetico provoca tensioni. Nel corso della trentasettesima assemblea generale
dell'organizzazione, riunita a Panama nel giugno 2007, il segretario di stato americano,
Condoleezza Rice, chiese l'invio in Venezuela di una commissione d'inchiesta per chiarire
perché il governo Chávez non rinnovasse la concessione (ormai scaduta) di Radio Caracas
Televisión (Rctv). La richiesta venne rifiutata, e il segretario di stato, isolato, dovette
abbandonare la riunione. Di fronte alle difficoltà delle relazioni multilaterali,
l'amministrazione americana conta su suoi collegamenti diretti: organizzazioni non
governative (Ong) e fondazioni. L'Agenzia americana per lo sviluppo internazionale
(United States Agency for International Development, Usaid) ne è il perno, in particolare
per gli aiuti finanziari. È «lo strumento più appropriato quando la diplomazia è insufficiente
o l'uso della forza militare presenta dei rischi», dichiarava Andrew Natsios, suo
amministratore, l'8 maggio 2001. È una valutazione che si applica perfettamente al
Venezuela, dove l'Usaid finanzia molte iniziative e i democracy builders («costruttori di
democrazia») sono pronti a iniziare il lavoro. L'Istituto repubblicano internazionale (Iri),
diretto da John McCain, candidato alla Casa bianca, fa parte delle cinque Ong che
attribuiscono i fondi dell'Usaid a organizzazioni e programmi politici dell'opposizione
venezuelana.
Così, dopo il fallimento del colpo di stato contro Chavez, sponsorizzato da Bush nel 2002,
il dipartimento di stato ha creato a Caracas un ufficio della transizione, che ha tra i suoi
obiettivi dichiarati quello di «incoraggiare la partecipazione dei cittadini al processo
democratico». La «resistenza non violenta» è presentata come il metodo più efficace per
destabilizzare i governi, preludio al loro rovesciamento.
Ci si può chiedere quale sia il reale obiettivo della campagna per la «difesa della libertà di
espressione» in Venezuela e della strumentalizzazione politica delle rivendicazioni
separatiste dell'opposizione di destra che, in Bolivia, controlla quattro dipartimenti (Santa
Cruz, Beni, Pando, Tarija) e blocca i lavori dell'Assemblea costituente. «Una destra
razzista, separatista, violenta e antidemocratica», commenta il vice presidente boliviano
Alvaro García Linera. Che i governi venezuelano, boliviano ed ecuadoregno abbiano
ripreso il controllo delle proprie riscorse strategiche - petrolio e gas - , i primi
due attraverso parziali nazionalizzazioni, non è estraneo al comportamento di
Washington.
Quanto a Cuba, mentre Bush ha ulteriormente inasprito l'embargo, la «transizione
democratica» viene preparata da una commissione incaricata di elaborare proposte alcune delle quali sono tenute segrete «per ragioni di sicurezza nazionale» - nella
prospettiva del dopo castrismo.
Trasferito da Panama a Miami nel 1998, il comando Sud dell'esercito degli Stati uniti
(Southern Command, Southcom) è il principale dispositivo militare in America latina. I
suoi rapporti con i governi latinoamericani prevedono contatti solo con i militari, gli
interlocutori civili ne sono esclusi. Il Southcom stabilisce l'agenda della regione in modo
unilaterale, senza informarne direttamente il dipartimento di stato. Poiché le agenzie per
l'aiuto allo sviluppo o all'agricoltura sono state relegate in secondo piano - l'aiuto bilaterale
è diminuito di un terzo rispetto all'epoca della guerra fredda - , è il dipartimento della
difesa che ormai si fa carico di buona parte dei programmi di assistenza al subcontinente.
Il trasferimento non è neutro, perché il bilancio della difesa è molto meno controllato dal
Congresso di quelli per gli aiuti all'estero. Si calcola che, dal 1997 al 2007, l'ammontare
del sostegno militare e di polizia degli Stati uniti all'America latina sia stato di circa 7,3
miliardi di dollari (7).
I militari escono dalle caserme In mancanza di una comune e universale definizione del
terrorismo, il Consiglio nazionale di sicurezza (Cns) non si perde in precisazioni: la guerra
condotta contro il terrorismo viene definita come «un'impresa globale di durata incerta» e
«di portata generale». In questa guerra asimmetrica, i nemici sono vari: fondamentalisti
islamici; contrabbandieri e narcotrafficanti rifugiati nella «tripla frontiera» tra Argentina,
Brasile e Paraguay; «populisti radicali» soprattutto in Venezuela e in Bolivia;
«organizzazioni terroristiche» - Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), Esercito
di liberazione nazionale (Eln) e paramilitari in Colombia; movimenti sociali. Ma anche
bande giovanili, rifugiati, immigrati clandestini, e altri terroristi «potenziali»...
Per i responsabili del Southcom, gli interessi americani non sono oggi minacciati da una
potenza straniera, in quanto il subcontinente è una zona denuclearizzata, priva di armi di
distruzione di massa.
La principale minaccia emergente, secondo il generale James Hill, ex
comandante del Southcom, «è il populismo radicale che mina il processo
democratico e restringe i diritti individuali, invece di proteggerli». Questo
populismo radicale (incarnato da Chávez) si rafforzerebbe a causa delle
«profonde frustrazioni» provocate dal fallimento delle «riforme democratiche»,
«stimolando un sentimento antiamericano (8)».
Il generale Bantz J. Craddock, da parte sua, accusa i «demagoghi anti-Stati uniti, antiglobalizzazione e ostili al libero scambio» di essere i responsabili dell'instabilità politica.
Per combatterli, afferma, è necessario rafforzare le forze di sicurezza della regione e
aumentare il budget militare del Southcom, perché «non è possibile lasciare che l'America
latina e i Caraibi si trasformino in una terra di nessuno, dove stati violenti, ripiegati su se
stessi, vengono tagliati fuori dal mondo circostante da governi populisti autoritari (9)».
Parallelamente all'impegno del Pentagono, va segnalata la presenza di consiglieri militari
americani e il ruolo crescente, in Colombia, assunto da milizie private e soggetti civili privi
di incarichi ufficiali della stessa nazionalità. Le missioni compiute da questi subappaltatori
non possono essere effettuate dalle forze armate, a causa dei limiti all'impegno delle
truppe americane fissati dal Congresso. Le compagnie di sicurezza private, invece,
possono partecipare ad operazioni militari senza il suo consenso.
Su un altro piano, vale la pena di ricordare che, a settembre, la multinazionale bananiera
americana, Chiquita Brands, è stata condannata, da un tribunale di Washington, a una
multa di 25 milioni di dollari per aver versato, dal 1997 al 2004, 1,7 milioni di dollari ai
paramilitari delle Autodifese unite della Colombia (Auc), per garantire la protezione delle
sue piantagioni. Gli avvocati delle famiglie di centosettantatre persone assassinate nelle
regioni bananiere hanno intentato causa a Chiquita. Ma un accordo, negoziato con il
governo americano, ha liberato dall'azione giudiziaria i dirigenti dell'impresa. «Sono
sorpreso che, con qualche milione di dollari, negli Stati uniti si possa comprare
l'impunità», ha costatato, del tutto impotente, il ministro colombiano della giustizia. Su
sollecitazione di Washington, gli eserciti latinoamericani sono di nuovo coinvolti in compiti
di pubblica sicurezza. Nel dicembre 2006, il presidente messicano Felipe Calderón ha
inviato settemila soldati nello stato di Michoacán per combattere il traffico di droga.
L'esercito interviene anche nelle favelas di Rio di Janeiro, in Brasile; contro le bande di
giovani (i maras), in America centrale; e nel controllo dell'immigrazione alla frontiera
messicana. Questa militarizzazione della pubblica sicurezza non è una novità, ma, favorita
dalla richiesta di protezione a fronte dell'aumento del crimine organizzato, contraddice la
tendenza al ritorno dei militari nelle caserme che si osservava dalla fine delle dittature. Le
organizzazioni di difesa dei diritti umani sono preoccupate, perché gli «istigatori di
disordini» sono spesso indigeni, giovani senza lavoro, disoccupati marginalizzati.
L'intervento dell'esercito può criminalizzare queste categorie sociali, resuscitare il vecchio
«nemico interno» e, di conseguenza, ridare ai militari quella capacità di pressione politica
che è un sinistro ricordo del passato (10).
È in questo contesto, che, nell'ottobre 2007, Bush ha chiesto al Congresso di approvare il
piano Mexico di aiuto alla lotta contro il narcotraffico. Il suo bilancio previsionale - 1.400
milioni di dollari - è destinato all'acquisto di materiale militare (elicotteri, sistemi di
controllo) e all'addestramento congiunto degli eserciti dei due paesi. I pericoli di una
militarizzazione della lotta antidroga sono tanto più evidenti, in quanto molti stati, in
Messico, sono alle prese con gravi conflitti sociali. Un supplemento di bilancio di 50 milioni
di dollari dovrebbe peraltro estendere la «guerra contro il narcotraffico» all'America
centrale. La reazione del Congresso, a maggioranza democratica, è incerta. Gli Stati uniti
raccomandano da tempo una riforma del ruolo tradizionale delle forze armate
latinoamericane. L'accento viene posto sulla cooperazione regionale e l'interoperatività,
mentre, durante il periodo della guerra fredda, l'aiuto militare era quasi esclusivamente
destinato alla collaborazione bilaterale. Il Southcom ha come obiettivo la creazione di una
forza di intervento rapido, capace di fare fronte ai nuovi pericoli. Nel 2007, durante la
trentasettesima assemblea generale dell'Osa a Panama, la Rice ha proposto la formazione
di un'alleanza di mutua difesa contro qualsiasi minaccia alla sicurezza del continente, un
modo per controllare la politica interna degli stati membri ed accertarsi del rispetto delle
regole democratiche.
La proposta è stata rifiutata, perché i latinoamericani non hanno voluto approvare quello
che consideravano uno stratagemma americano per punire il Venezuela (11).
Opinioni divergenti a sinistra Poiché Washington ha bisogno di essere presente sul terreno,
e di alleati che legittimino il suo intervento, la realizzazione di una forza d'intervento
regionale, visti gli attuali equilibri regionali, appare incerta. Tuttavia, l'esempio di Haiti
potrebbe fare scuola.
William LeoGrande ha analizzato il ruolo dell'amministrazione Bush nella caduta del
presidente Jean-Bertrand Aristide (12). Ritiene che, anche se l'allontanamento forzato fu
facilitato dalla deriva dell'ex sacerdote, rimane comunque il fatto che sono stati gli ex
membri di una forza paramilitare, il Fronte per l'avanzamento e il progresso di Haiti
(Fraph), sostenuti dall'amministrazione Bush, i responsabili della sua caduta. Una
manipolazione del «diritto d'ingerenza» particolarmente riuscita... Stupisce, infatti, che
certi eserciti del continente partecipino alla Missione delle Nazioni unite per la
stabilizzazione di Haiti (Minustah) (13), mentre vengono severamente contestate le
condizioni dell'allontanamento forzato dell'ex presidente: Dante Caputo, ex rappresentante
del segretario generale dell'Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) ad Haiti, ha messo in
discussione il ruolo della Central Intelligence Agency (Cia) nella caduta di Aristide (14).
Una «forza di stabilizzazione» come la Minustah rischia di diventare un modello per il
futuro.
Il Southcom dispone di molti altri strumenti per convincere. Nel 2001, a Santiago del Cile,
i paesi membri dell'Osa hanno adottato la nozione di «sicurezza cooperativa». Essa
favorisce la «trasparenza delle procedure militari» (15). E gli incontri regolari dei ministri
della difesa del continente (Dma) rafforzano la fiducia reciproca.
L'internazionalizzazione delle azioni armate, le esercitazioni navali congiunte,
l'addestramento da parte di Washington di diciasettemila militari latinoamericani (cifra del
2005) e la vendita di armi consolidano i rapporti.
Il ruolo dirigente del Pentagono e il peso del complesso militare-industriale sono stati
confermati dal fatto che sia stato ufficialmente tolto l'embargo sulla vendita di armi nei
confronti l'America latina, mentre gli Stati uniti erano già il maggior fornitore di questo
tipo di attrezzature della regione. Una tale decisione rischia di provocare una corsa agli
armamenti: la vendita degli aerei da combattimento F-16 al Cile può spingere alla
«modernizzazione» altri eserciti della regione (16). Il ministro della difesa brasiliano ha
annunciato che nel 2008 il Brasile vorrebbe aumentare di più del 50% il bilancio per spese
e investimenti delle forze armate, e questo benché il paese abbia relazioni «consolidate e
pacifiche» con tutti i paesi del Sudamerica.
Nei confronti di Washington, la sinistra latinoamericana è divisa tra sostenitori di un
partenariato negoziato, che costringe a limitare le riforme sociali, e difensori
dell'integrazione politica latinoamericana, di cui l'Alternativa bolivariana per le Americhe
(Alba) (17) sarebbe un primo passo. «L'imperialismo di oggi non è lo stesso di
trent'anni fa», osserva Atilio A. Boron (18). I politici di sinistra devono tener
conto dei cambiamenti, pur sapendo che l'amministrazione americana non è
pronta a tollerare la riappropriazione delle risorse nazionali, il rifiuto dei trattati
di libero scambio, l'indipendenza politica rivendicata dai governi boliviano,
ecuadoregno e venezuelano.
note:
* Universitario, Institut des hautes études d'Amérique latine, Parigi.
(1) Foreign Affairs, Palm Coast (Florida), gennaio-febbraio 2006.
(2) Sotto diverse forme, e con politiche molto differenti, la sinistra è al potere nei seguenti paesi: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cuba, Ecuador,
Nicaragua, Uruguay, Venezuela. Sono considerati socialdemocratici anche i governi di Costa Rica, Guatemala, Panama e Perú (anche se
quest'ultimo attua una politica molto conservatrice).
(3) Guy Mazet, Centro di ricerca e documentazione sull'America latina (Credal) - Cnrs, Mimeo Colloque, Ivry, aprile 2007.
(4) Nato nel 1999, il G20 riunisce il G8 (Germania, Canada, Stati uniti, Francia, Italia, Giappone, Regno unito, Russia), paesi emergenti
(Sudafrica, Arabia saudita, Argentina, Australia, Brasile, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Turchia), più l'Unione europea in quanto
tale.
(5) El País, Madrid, 27 settembre 2007.
(6) William I. Robinson, «Democracy or polyarchy?», Nacla Report on the Americas, vol. 40, n. 1, New York, gennaio-febbraio 2007.
(7) Washington Office on Latin America (Wola), «US military programs with Latin America 1997-2007», Below the Radar, Center for International
Policy, Latin America Working Group Education Fund, marzo 2007.
(8) General James Hill, House Armed Services Committee, Washington, 24 marzo 2004.
(9) «Posture statement of general Bantz J. Craddock before the house armed services committee», Washington, 9 marzo 2005.
(10) Lucía Dammert e John Bailey, «Militarización de la seguridad pública in América latina?», Foreign Affairs in spagnolo, Palm Coast, aprilegiugno 2007.
(11) William LeoGrande, «A poverty of imagination: George W. Bush's policy in Latin America», Journal of Latin American Studies, Cambridge
University Press, Regno unito, 2007.
(12) Ibid.
(13) Forza delle Nazioni unite, la Minustah è posta sotto il comando brasiliano, mentre il delegato del segretario generale è un cileno; conta
militari brasiliani, uruguayani, cileni, argentini, peruviani, ecuadoregni.
(14) Le Monde, 18 novembre 2004.
(15) Cfr. Richard Narich, «Tendances en matière di sécurité en Amérique latine», e Cristina López, «La politique extérieure des Etats-Unis
envers l'Amérique latine», Défense nationale et sécurité collective, Parigi, novembre 2007.
(16) Mentre vendono F-16 al Cile, gli Stati uniti negano a Caracas i pezzi di ricambio per gli stessi aerei utilizzati anche dall'aviazione
venezuelana.
(17) Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela.
(18) Atilio A. Boron Empire et impérialisme, L'Harmattan, Parigi, 2003.
(Traduzione di G.P.)
2.2 Quell'America latina che accetta il confronto
da: Le Monde diplomatique – maggio 2009
http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Maggio2009/pagina.php?cosa=0905lm06.01.html
DI MAURICE LEMOINE
Revolución o muerte! La lotta è stata terribile per cacciare dal Nicaragua una dittatura in
piedi da più di 40 anni e che gestiva il paese come una propria hacienda. La guerra è stata
senza tregua in questa terra di laghi viola e di vulcani color ocra. E la gioia popolare è
esplosa quando il 19 luglio 1979, votando con le armi, i muchachos del Fronte sandinista
di liberazione nazionale (Fsln) hanno stanato dal suo bunker il generale Anastasio
«Tachito» Somoza.
La bandiera rossa e nera che sventola su Managua rappresentava un esempio
imbarazzante, soprattutto per i vicini Salvador e Guatemala.
Così il repubblicano Ronald Reagan, eletto presidente degli Stati uniti nel novembre 1980,
ha deciso di reagire: attraverso i controrivoluzionari nicaraguegni - i Contras l'aggressione contro il potere sandinista durerà per più di 10 anni. Cotti dal sole della
montagna, i cacharros (1) si sono battuti con energia: «No pasaran!» (2) Ma nel 1991, in
un paese distrutto, vinto dalla fame e dalla guerra, sono stati costretti a deporre le armi. E
alla fine delle elezioni presidenziali, hanno democraticamente restituito il potere.
E poi, e poi comincia la lunga discesa all'inferno.
Due anni prima, nel 1989, in Venezuela il prezzo del petrolio crolla.
Si vende al prezzo dell'acqua. Per «salvare» il paese indebitato, il Fondo monetario
internazionale (Fmi) impone un piano di aggiustamento strutturale. Il popolo non ha più
farina, zucchero, caffè, olio e riso. Gli aumenti dei prezzi e delle tariffe lo mettono in
ginocchio; i trasporti pubblici aumentano dall'oggi al domani del 100%.
Il 27 febbraio, senza leader, senza organizzazioni, senza parole d'ordine, senza bandiere,
il popolo invade le strade di Caracas.
«Abbiamo il diritto di vivere! Anche noi siamo venezuelani!» Una rivolta caotica, un
movimento spontaneo provocato dalle sofferenze patite: vetture bruciate, supermercati e
negozi saccheggiati. Il presidente socialdemocratico Carlos Andrés Pérez ordina alla
guardia nazionale e all'esercito di ristabilire l'ordine, a qualunque costo.
I risultati sono drammatici. Circa 3 mila morti - il caracazo.
E poi, e poi più nulla (por ahora - per adesso).
Ecuador, 1990. Strade bloccate, haciendas prese d'assalto, chiese occupate. Rifacendosi a
una lunga storia di rivolte contro il colonizzatore e i proprietari terrieri, gli indigenis si
ribellano e fanno tremare il potere.
E poi, e poi viene l'oblio.
In Bolivia è ancora prima, nel 1985, che una privatizzazione selvaggia delle miniere di
stagno ha gettato sul lastrico 24 mila lavoratori indigeni. In balia dei venti freddi
dell'Altiplano, priva di tutto, questa gente si trasferisce nella regione del Chapare, dove
comincia a piantare l'unica coltivazione redditizia per un contadino povero: la coca. Ma per
Washington coca è sinonimo cocaina. E arriva la repressione.
E poi, e poi tutto sembra rientrare nell'ordine.
Nel 1978-79 nel Brasile in piena dittatura i lavoratori metallurgici dell'Abc paulista (3)
entrano in sciopero - nonostante il suo carattere illegale - e affrontano le forze dell'ordine
scatenate. Nello stesso momento in cui in Nicaragua - eccoci tornati al nostro punto di
partenza - i sandinisti rovesciavano Somoza.
Inizio degli anni '90. La democrazia ha ripreso i suoi diritti. Ex paradiso dei dittatori,
l'America latina diventa il laboratorio di un liberismo sfrenato. Nel 1980 il continente
contava 120 milioni di poveri; venti anni dopo sono 225. Washington, l'Fmi, la Banca
mondiale e le borghesie (sempre meno) nazionali impongono la loro ferrea legge.
I movimenti sociali non hanno abbassato le braccia e cercano di resistere.
E ovunque resistono, dai senzaterra brasiliani (e paraguaiani) ai boliviani in lotta contro le
multinazionali «dell'acqua» e «del gas».
Ma queste rivolte, talvolta molto violente, hanno un carattere limitato, degli obiettivi
immediati e circoscritti.
«Abbiamo intrapreso la lotta necessaria per ottenere dallo stato messicano quello che non
ci ha mai voluto concedere: il lavoro, la terra, un tetto, il cibo, la sanità, l'istruzione,
l'indipendenza, la libertà, la democrazia, la giustizia e la pace» (4), afferma l'Esercito
zapatista di liberazione nazionale (Ezln) tra le montagne del Chiapas, quando il 1° gennaio
1994 passa per un breve periodo alla lotta armata.
L'azione dell'Ezln e del subcomandante Marcos avrà un ruolo determinante nella caduta,
nel 2000, del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), padrone incontrastato del Messico
dal 1929. Ma a causa della mancanza di una strategia chiara sulla «presa del potere»,
ritenuta secondaria, gli insorti non potranno impedire l'arrivo alla testa del paese del
reazionario Partito di azione nazionale (Pan). E dovranno accontentarsi di gestire
l'autonomia locale che hanno instaurato nelle loro comunità del Chiapas.
Intanto più a sud cadono diversi presidenti come Jamil Mahuad o Lucio Gutiérrez
(Ecuador), Alberto Fujimori (Perù) e Fernando de la Rúa (Argentina), cacciato al grido di
«No alla globalizzazione!», «Fuori dall'Fmi!», «Que se vayan todos!» (5). Dai primi anni
'80 quattordici presidenti non hanno potuto portare a termine il loro mandato.
Ma sostituiti da chi e da cosa? Nel momento delle elezioni, in un atmosfera elettrica, i
candidati si sono disputati la vittoria fra gadget e striscioni. La marea di promesse e di
slogan di ogni genere non ha lasciato molto spazio a un vero dibattito di idee. Ancora
peggio, in democrazie ormai ostaggio dei mercati, in piena crisi economica e sociale, tutti i
partiti tradizionali - sia di destra che di sinistra - hanno esercitato la stessa gestione della
cosa pubblica. E tutte le forze politiche si sono trovate disorientate quando sono arrivati i
momenti difficili.
Ma al di là di queste vicissitudini, nella maggioranza dei casi i popoli possedevano una
latente coscienza collettiva. Barili di polvere pronti a esplodere, mancava loro solo la
«scintilla». Né la collera spontanea né le mobilitazioni popolari erano state in grado di
accendere la miccia. Questo compito spetterà a un leader. L'incapacità della classe politica
tradizionale di canalizzare la rivolta dei poveri ha aperto la strada a dirigenti di origine
sindacale, militante o militare.
Questa constatazione può dare fastidio ai sostenitori dei movimenti no global, agli
anticapitalisti o a chi, fedele al principio «né dio, né signore né tribuno», insiste sulla
direzione collettiva o sulla spontaneità popolare. Tuttavia il ruolo centrale del «dirigente
carismatico» è evidente - senza rimettere in discussione ovviamente il ruolo di milioni di
cittadini anonimi, che in un modo o in un altro partecipano ai vari «processi» sociali.
Cuba non avrebbe potuto resistere cinquant'anni all'aggressione americana senza Fidel
Castro. In Venezuela la rivoluzione bolivariana non sarebbe quello che è senza il
presidente Hugo Chávez. La trasformazione sociale della Bolivia porta oggi un nome, Evo
Morales.
«Nella carriera di ogni grande dirigente, un atto simbolico fondamentale, un gesto eroico
segna la nascita politica» (6). La difesa dei lavoratori delle piantagioni di banane per
Eliécer Gaitán negli anni '40 in Colombia (7). L'assalto alla caserma della Moncada a
Santiago de Cuba da parte di «Fidel» il 26 luglio 1953 e la successiva epopea della Sierra
Maestra. Il tentativo di colpo di stato del tenente colonnello Chávez il 4 febbraio 1992 per
rovesciare, tre anni dopo il trauma del caracazo, «una democrazia ingiusta e corrotta».
«La storia mi assolverà!», affermava il giovane Castro durante il suo processo dopo la
Moncada; «Non abbiamo raggiunto i nostri obiettivi por ahora», annuncia Chávez in
occasione della sua resa davanti alle telecamere dopo il fallimento del colpo di stato. Due
frasi che avranno un impatto enorme e che daranno ai loro autori una grande forza
simbolica presso le popolazioni più povere.
Quattordici presidenti non hanno potuto portare a termine il loro mandato Meno «fuori
dalle regole» ma esempio altrettanto valido di identificazione con la causa popolare: in un
tempo, tribuno e uomo politico abituato alle lotte quotidiane - ministro della sanità nel
1940, ha condotto un'energica azione in favore dei centri di igiene pubblica - Salvador
Allende sa mobilitare i suoi sostenitori; grazie ai 41 giorni di sciopero dell'Abc paulista nel
1979, ai colpi di manganello e alla prigione, il presidente del Sindacato dei lavoratori della
metallurgia di São Bernardo, Luiz Inácio da Silva, diventa un eroe nazionale; la resistenza
alla violenta repressione dei cocaleros del Chapare, di cui dirige il sindacato, e nel 2002 la
sua espulsione illegale dal parlamento, fanno di Morales uno dei protagonisti della vita
politica boliviana; il suo impegno nella «Chiesa dei poveri» in nome della teologia della
liberazione porterà il vescovo Fernando Lugo alla presidenza del Paraguay.
Il rapporto particolare fra il leader e il popolo - si pensi a Chávez, a Morales e in misura
minore al presidente ecuadoriano Rafael Correa - provocano fastidio e addirittura paura
fra i «benpensanti». Radicalmente contrario al sistema, antioligarchico, antiestablishment, il discorso costituisce l'elemento centrale di questo rapporto.
Populismo! Risposta demagogica e superficiale alla crisi! Retorica teatrale che eccita un
popolo ignorante! In realtà nel loro esercizio del dialogo, questi dirigenti assimilano il
risentimento popolare e lo traducono in modo più coerente, con più forza, contribuendo
alla formazione di un'identità collettiva organizzata. «Senza dubbio una relazione dialettica
esiste fra il presidente [Chávez] e il popolo, un'osmosi in cui i due elementi sono
indispensabili e hanno bisogno l'uno dell'altro. Il popolo venezuelano (...) si è costituito
come soggetto politico attraverso le azioni di Hugo Chávez e del movimento bolivariano;
parlare di uno senza l'altro non ha senso nell'attuale fase storica» (8).
I discorsi di questi presidenti non sono per i loro sostenitori, spettacoli ai quali assistere;
sono - aspetto fondamentale della dinamica dei movimenti popolari - eventi ai quali
partecipano e di cui si alimentano per entrare a far parte dei cambiamenti in corso nel
quadro di democrazie che si dichiarano partecipative. Questi due soggetti politici si
rafforzano a vicenda.
Una relazione dialettica esiste fra il leader e il popolo Ma quello che si chiama carisma non
è fondato solo sulla seduzione o sulla capacità di sollevare le folle con discorsi infiammati.
Così come si può essere conservatore o addirittura reazionario e fascisteggiante, ed essere
dotati di queste qualità. Il dirigente deve essere giudicato sul lungo periodo, soprattutto in
base alle sue azioni.
Eletto come portavoce dei poveri nel 2002, il presidente Lula inaugura il suo mandato
recandosi al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e al Forum di Davos. Cercando in
permanenza di combinare il diavolo e l'acquasanta, Lula lancerà una serie di politiche
pubbliche di assistenza in favore dei più poveri, ma senza mai rimettere in discussione le
strutture economiche esistenti e favorendo un approfondimento del modello neoliberista
(9). La stessa constatazione vale, con alcune differenze, per altri capi di stato «di sinistra»
come Tabaré Vásquez (Uruguay), Néstor e Cristina Kirchner (Argentina) e Michelle
Bachelet (Cile). Rappresentando il progressismo contro la destra oligarchica, rinunciando
al tempo stesso a introdurre profonde riforme sociali, questi leader hanno ceduto alle
esigenze del capitale privato.
I «radicali» invece si dotano di veri strumenti per portare a termine una profonda
trasformazione della società. A cominciare dall'elezione di un'assemblea costituente e di
una riforma - approvata attraverso referendum - della costituzione (Venezuela, Ecuador,
Bolivia). Molti osservatori parlano di semplice moda e di inutile agitazione. Arrivato al
potere grazie a un'alleanza molto larga e senza maggioranza al congresso, il presidente
paraguaiano Lugo ha chiarito bene la questione a proposito della riforma agraria:
«Dobbiamo accettare il fatto che la fine del latifondo chiesto dai movimenti contadini si
scontra con una limitazione costituzionale. Se non cambiamo o modifichiamo la
costituzione, sarà impossibile portare a termine una radicale riforma agraria» (10).
Tanto in America latina che in Europa, il grosso delle forze di sinistra ha preso l'abitudine
di cancellare qualunque riferimento al socialismo.
Ma è proprio qui che va cercata la linea di demarcazione. Il 30 gennaio 2005, in occasione
del quinto Forum sociale mondiale, Chávez ha parlato per la prima volta del «socialismo
del Ventunesimo secolo». In seguito anche Morales e Correa hanno varcato il Rubicone
(11). Questi tre leader non hanno avuto remore: nazionalizzazione delle risorse
strategiche, programmi sociali di massa, redistribuzione delle terre, sviluppo in Venezuela
di forme non private di proprietà e di controllo (cooperative, imprese in cogestione,
consigli municipali) e così via.
Con una conseguenza che di fatto costituisce una grande differenza - forse l'unica - con i
«moderati»: queste misure implicano una prova di forza, uno scontro con l'ordine
dominante.
Quando nel dicembre 2001 l'opposizione (minoritaria), preoccupata per una serie di
riforme ritenute troppo radicali, comincia a manifestare il suo rifiuto al governo, Chávez
risponde alla folla sul viale Bolivar: «Non siamo qui per fare qualche cambiamento
superficiale, non siamo qui per mentire al popolo sovrano. No! (...) Su questa rivoluzione
non è possibile alcuna marcia indietro!». Quattro mesi dopo, nell'aprile 2002, il presidente
venezuelano dovrà fare i conti con un tentativo di colpo di stato. Ma il grande sostegno
popolare di cui gode, e che non è mai venuto meno, gli permetterà di resistere. E poi di
accelerare e di approfondire la rivoluzione bolivariana.
Sabotaggi dell'assemblea costituente, serrate padronali, minacce di secessione della
provincia di Santa Cruz: nel settembre 2008 Morales dovrà affrontare un tentativo di
destabilizzazione. Ma grazie al sostegno di una forte maggioranza, anche lui non farà
marcia indietro.
Queste rotture pongono seri problemi ai teorici. Senza copiare gli schemi sperimentati in
altri posti, e senza recitare il decalogo del perfetto rivoluzionario, questi movimenti
obbediscono a leggi specifiche, avanzano, indietreggiano, si sbagliano, riprendono la loro
strada, esplorano nuove strade. Alla politica dello scetticismo - profondamente
conservatrice, perché ritiene che la democrazia liberale sia l'unico modello possibile e
accettabile - queste rotture contrappongono la politica della convinzione; ricordano che
talvolta in alcuni momenti storici i popoli si scatenano e rompono radicalmente con la
«fatalità».
note:
(1) Giovani soldati volontari dell'Esercito popolare sandinista (Eps).
(2) «Non passeranno!».
(3) Santo André, São Bernardo e São Caetano sono periferie industriali della «Grande San Paolo».
(4) «Organo di informazione dell'Ezln», n. 1, Città del Messico, dicembre 1993, in Ya Basta!, Dagorno, Parigi, 1994.
(5) «Che vadano via tutti!»
(6) Si legga l'analisi - da cui prendiamo spunto - di Diane Raby: «Le leadership charismatique dans les mouvements populaires et
révolutionnaires», Cuadernos del Cendes, Caracas, agosto 2006, pubblicato in francese nel luglio 2007 dalla Rete di informazione e di
solidarietà con l'America latina (Risal), http://risal.collectifs.net
(7) Rendendosi conto del pericolo che rappresentava, l'oligarchia colombiana lo assassinerà nel 1948, prima che potesse arrivare al potere; la
sua morte getterà la Colombia in un clima di guerra civile da cui non è ancora uscita.
(8) Diane Raby, op. cit.
(9) Sarà rieletto nel 2006, grazie alla sua popolarità «personale» e non «politica», ritenuto come un male minore di fronte alla destra.
(10) El País, Madrid, 26 marzo 2009.
(11) Ovviamente questi presidenti sono arrivati al potere attraverso un'elezione democratica, in un quadro politico pluralistico, in presenza di
osservatori internazionali e hanno introdotto nelle loro costituzioni il referendum revocatorio - tutte misure dirette a impedire la tentazione del
potere «a vita» di cui sono sospettati, troppo spesso a torto.
(Traduzione di A.D.R.)
2.3 Uruguay Inaugurates Mujica: Life after Vázquez
May 7, 2010 By editors
http://globalgeopolitics.net/wordpress/2010/05/07/uruguay-inauguratesmujica-life-after-vzquez/
Council on Hemispheric Affairs, COHA
by COHA Research Associate Leland Garivaltis
On March 1st, José “Pepe” Mujica, former guerilla and today social democrat
and leader of the Frente Amplio (Broad Front-FA) political coalition, was
inaugurated as President of Uruguay. The 74-year-old former Agriculture
Minister triumphed in last November’s election with 52 % of the vote. The
previous president and moderate Tabaré Vázquez of the FA became Uruguay’s
first avowedly socialist leader and made a number of progressive changes to
help improve the lot of the poorer segments of the population within the small
nation. Now, the question is whether or not Mujica will dramatically change or
follow the path of the previous administration; so far, Mujica has demonstrated
his allegiance to Vázquez’s approach to governance. While Vázquez
preeminently concerned himself with domestic affairs, Mujica, up until now,
has displayed a distinct flair for foreign policy initiatives.
Though both were active figures within FA, a political alliance that is becoming
increasingly progressive in its political make-up, Mujica is not expected to veer
too far from his New Deal-like orientation toward his Venezuelan counterpart,
Hugo Chávez. Rather, they both have displayed a distinct predilection to
emulate President Luiz Inácio Lula da Silva, as well as tap into the economic
clout represented by their Brazilian neighbor. According to Alfredo Garcé of the
University of the Republic in Montevideo, Mujica will follow “the model of Lula.
To win the elections [in Brazil] he put on an Armani suit and said he wanted a
government of the left but moderate to permit a political economy respectful of
capitalism.”
Similarly, Mujica hopes to rid his country of much of its extreme poverty, as
well as focus on neglected rural areas, along with strengthening the private
sector, increase wealth and attract investment to the country. Progressives are
hoping that Mujica will continue implementing social and economic projects
that are comparable to those of Vázquez, as Mujica has pledged, and that he
does not stray too far from his campaign platform.
Mujica will be prone to reach out to other area governments and elected Latin
American leaders, as many of them face the same challenges. Like him, they
will be meeting these issues with their social ideals derived from their reformist
creed. It is no wonder why a number of the regional countries, some of which
suffer from one of the worst inequalities in terms of a distorted distribution of
wealth, would lean toward more leftist and populist solutions. These parties
have attempted to alter the fate of their citizens through increased social
spending and a rebalancing of the nation’s public and private sectors.
Tupamaros and Economic and Political History
It is almost a poetic outcome that Mujica was elected president of the country
that imprisoned him for 14 years after the successful right-wing military coup
of 1973, against which he fought as a member of the Movimiento de Liberación
Nacional (the Tupamaros). The guerrilla group had taken up arms in the cause
of social justice, achieving their goals by means of political kidnappings, urban
bombings and similar acts of coercion. The group worked to promote its ends
by pushing for positive social change. Mujica spoke out against the country’s
increasingly restrictive government that would soon evolve into a fully realized
dictatorship, eventually being responsible for human rights violations and a
mounting number of disappearances within Uruguay. It was not until the 2004
presidential election, which Vázquez handily won, that the doors opened for a
new bold political direction in this small southern cone country to be found in
South America.
During the 1960s, Uruguay had achieved significant growth and rising
prosperity. It also experienced an escalated respect for civil liberties and a
further strengthening of its welfare state. However, the eventual decline in the
nation’s primary exports of wool and beef initiated the deterioration of its state
economy and a precipitous increase in its inflation rate, along with devastating
unemployment figures. These dismal indicators were accompanied by soaring
incidents of corruption among Uruguay’s overblown state bureaucracy (the
state employed one in five of all Uruguayans).
The Tupamaros were largely formed in the 1960s by middle-class, welleducated, radical youth who believed in political and social change and came
from unions and student groups. The guerrilla group organized in order to
alleviate the country’s profound economic and political malaise, as well as to
cry out against the highly bureaucratic state machinery. The economy
continued to decline throughout the 1960s, and by 1968 Uruguayan authorities
declared the country to be in a state of emergency. In the following years, the
increasingly authoritarian government struggled with corruption and failed to
improve the economy, which later led to the creation of a popular FA coalition,
whose ideologies in part coincided with those of the Tupamaros. However, the
Tupamaro’s murder of Dan Mitrione, a United States police trainer with alleged
CIA connections, who was present in Uruguay at this time, caused a national
rejection of the FA party and the Tupamaros by a majority of Uruguayans, who
had previously supported the movement.
Then, in 1973, President Juan María Bordaberry declared a state of internal
war due to the country’s economic decline. Bordaberry, a right wing, civilianelected leader who later presided over a military rule, was only recently was
sentenced to 30 years in prison for violations of the constitution during his
dictatorship. While in office he increased the spending on the previously
neglected military from 1 % of the national budget to over 26 %. Over the
next decade, Uruguayan leftists were severely suppressed through arrests and
disappearances and soon were sufficiently decimated and did not represent a
formidable political force until the election of Tabaré Vázquez in 2005, at which
time the FA was solely a political rather than military force.
One Montevideo resident recently observed that, “A lot of people died and
went to jail in the seventies to win what the FA has today.” The civilian-military
regime that originated in 1973 managed to profoundly scare the nation with its
abuses, repression and human rights violations. After the Bordaberry
dictatorship ended in 1984, Uruguayan leaders have since struggled to
alleviate the trauma and historical pain resulting from dictatorial rule.
Vázquez: His Presidency and Legacy
Former President Tabaré Vázquez revitalized Uruguay after the economy of the
country chronically underperformed and the country’s inflation rate was seldom
stable, with an exchange rate of 24.479 Uruguayan pesos to one US dollar in
2005. The nation, just before its 2004 election suffered severely from the
Argentine financial crisis of the late 1990s and early 2000s. This was because
Uruguay normally is “overly dependent on Argentina in terms of trade,
tourism, on-resident bank deposits, and investments in agriculture and real
estate.” In 2002, President Jorge Batlle battled the largest economic crisis in
Uruguay’s recent history, leading to increased and drastic emigration, which
was also evident during the dictatorships of Juan María Bordaberry (19721976) and Gregorio Álvarez (1981-1985). During this period, the nation’s
youth streamed out of the country in pursuit of career opportunities and
improved living standards, which eliminated in effect, a whole generation of
Uruguay’s work force. As a result, in the early 1970s, at the beginning of the
era of military rule, around 12 % of the total Uruguayan population and 20 %
of its economically active workforce was living abroad. Many more followed
after the government began oppressing the nation’s academics and its leftist
thinkers.
When Vázquez was elected he gave a voice to the people, one that had been
denied during the 12 years of dictatorships that had plagued the country last
century even though, Presidents Sanguinetti (1985-1990) and Lacalle (19901995) had introduced executed major economic reforms that stimulated the
nation after more than a decade of dictatorial rule). According to one
schoolteacher in the country’s capital of Montevideo, “Now the people will have
more opportunities to participate in the government … the FA makes people
feel more connected, so more people become involved.”
In a recent conference held at Washington’s Woodrow Wilson Center on April
19th with former President Vázquez, he declared that there must be greater
dialogue between the government and Uruguay’s people in regards to the
social movements now being manifested in the country, and today’s focus
should be the “época de concretar cambios,” (time to realize changes) because
to him, the basis of a strong state is built on constructive social changes.
Uruguay, along with other Latin American countries, according to Augusto de la
Torre, the World Bank Chief Economist for Latin America and the Caribbean,
did not suffer from the global economic crisis on the same scale as many other
countries. However, in regards to the country, there is a lack of sustainable
growth even though unemployment has witnessed decline and wages have
remained strong. De la Torre concludes that growth is stagnating: “countries
have low expectations because they look too much to the past and are unable
to mobilize strong savings or investments.” That is not to say that Uruguay has
not seen many improvements, prompted by social reforms, which Vázquez
believes are the “núcleo de desarrollo.” Improved institutions and
macroeconomic reforms have stimulated growth beyond that of several of
Uruguay’s neighbors.
During the Vázquez presidency, there were significant economic
accomplishments: the per capita GDP rose from $6,000 per year to $9,000 per
year; growth averaged 7 % per year, and unemployment steadily decreased
from about 13 % before 2005 to 6.4 % in 2009, the lowest since record
keeping began.
Vázquez appointed a balanced cabinet in order to provide the country with a
formula that took both the right and the left into account. At the Wilson Center
meeting, Vázquez stated that a strong nation, no matter if one is on the left or
on the right, needs the confidence of its citizens and the ability to speak out to
the population. Showing a willingness to take an alternate path than the one
taken by Chávez, Vázquez selected Danilo Astori a former leftist-turned-neoliberal militant to be his Minister of Economy and Finances. This pleased the
right and ensured an orthodox free-market economy with relatively little state
interference as well as bolstered international economic ties.
In regards to bi-national relations with Argentina, it is vital for Mujica not only
to maintain close ties with Buenos Aires, but also to look to what is described
as “the real anchor in the region:” Brazil. Both relationships are crucial to
perpetuating the Mercosur trade agreement in good stead. As a cardinal
principle, Vázquez also went out of his way to sustain good ties with the United
States, along with other left-leaning administrations of Latin America.
Secretary of State Hillary Clinton has been in contact with both Vázquez and
Mujica (she was present at the latter’s March 1st inauguration) and is working
to strengthen ties with Montevideo. At a time when nuclear issues have
resurfaced as a major topic of discussion, due to the recent nuclear summit in
Washington and in a region where President Chávez remains an influential
economic and political factor, it is important for the United States to maintain
close ties to a democratic, leftist-leaning government in Uruguay. Secretary of
State Clinton let it be known that:
We hope to build on the strong foundation that President Vázquez has left,
because it has demonstrated that Uruguay can make great progress against
the odds, given the economic downturn, and can bring the people of the
country together to decrease poverty and increase social justice.
At a September 2009 meeting between Vázquez and Clinton, when asked
about the nuclear threat in Latin America, Vázquez answered that Uruguay was
against the development of such weapons and an arms race in South America,
because there are clearly other aspects which regional governments must
focus their attention, resources and wealth, especially because the region has
some of the worst indexes of distribution of wealth in the world.
However, statistics do show that populist administrations like Venezuela’s
have, in fact, registered considerable reduction in extreme poverty as well as
in distributions of wealth. For example, based on information compiled by
SEDLAC (CEDLAS and the World Bank), from 2003-2006, in populist countries
such as Venezuela and Argentina, the annual percentage changes in extreme
poverty were -19.2 % and -19.6 % respectively, whereas, in social democratic
countries like Uruguay and Brazil, the annual percentages of extreme poverty
were -9.8 % and -9.6 %. Both, in conclusion, have been able to alter
extensively the inadequate distribution of wealth in their countries as well as
aid the many people who live in extreme poverty.
In the aforementioned meeting with Secretary of State Clinton, Vázquez went
on to say that the governments of South America should devote more
financing to provide better health care, education for children, education to
prevent diseases and better housing for the populace. These social reforms
represent a significant part of the Vázquez legacy and will aid Mujica and the
FA in bringing his fight to the countryside, with the eradication of extreme
poverty, as well as lessening the disparities of wealth. Today, in Latin America,
there remains in general, an uprising against poverty, aided by a number of
social democratic and populist leaders having been elected into office. This is a
unique and new trend for the region, which are serving to assist and benefit
the majority of a population after it has faced decades of dictatorships,
economic downturn and unjust governments.
Mujica Policies and Presidency: What is to come?
Former President Vázquez referred to Mujica as a man who “speaks the
language of the people, of the poor, of the needy.” Mujica is from the
countryside, where only 7 % of Uruguayans reside. The rural population faces
great neglect and much greater hardships beyond those of the urban
population, which receives more attention and aid from the government.
According to a neighbor of Mujica, “He’s just an ordinary guy … he’s going to
strengthen the focus on the poor, giving them a helping hand.”
Furthermore, Vázquez has set a high standard of achievement through
delivering social and economic reforms to the growing Uruguayan state, and
Mujica can attribute his election to the well-ordered domestic economy
prepared for him by the former president. According to Arturo Porzecanski, a
distinguished economist-in-residence at American University, “Mujica only had
to promise [a sense of] continuity [for the country], and to not “rock the boat.”
On that note, Danilo Astori the former finance minister under Tabaré Vázquez,
is now Mujica’s new vice president, which shows that Mujica does not seem to
be looking to change the successful economic policies of the previous
administration. Also appointed to his cabinet are two former jailed guerrillas:
Luis Rosadilla as the Minister of Defense, and Eduardo Bonomi as the Minister
of the Interior.
One of the first issues passed on to Mujica from the Vázquez administration
has been the long-burning dispute over the Botnia pulp mill, located on the
Uruguay River, that allegedly has caused environmental damage to Argentina.
The April 20th verdict of the International Court of Justice (ICJ) at The Hague
scolded Uruguay for not presenting the information of plan to construct the
project to Argentina, but did not call for the mill to be dismantled. While the
agreement left many Argentinean activists sorely upset, Argentine President
Cristina Kirchner and President Mujica agreed to work together on the issue
and, according to National Public Radio, Kirchner had nothing but good things
to say about the Uruguayan president. While the mill and river dispute raises
greater questions about contamination in the Rio Guayleguachu, Rio Uruguay,
Rio Salto and Rio Paysandu ranging from Brazil to Argentina, the relationship
between the two countries has not been fatally undermined even though
activists and environmentalists on both sides of the border are furious over the
court’s recent ruling.
Regardless of the pulp mill issue, it is crucial, as Senate Foreign Relations
Committee staffer Fulton Armstrong said in an interview with COHA, for a
small country like Uruguay to remain close to both of its much larger
surrounding counterparts (i.e. Brazil and Argentina). Mujica’s ability to restore
strong ties with Argentina was the first step he needed to take as president,
and now he can focus on his campaign pledges for Uruguay.
According to an article written by Benjamin Dangl and published at Upside
Down World, “Among other campaign platforms, Mujica has promised to focus
on the construction of new housing projects for the country’s poor, reactivate
the country’s train grid, expand the access and quality of education, and
participate actively in regional integration with other South America[n]”
countries and attract investment. Following policies previously initiated other
by countries such as Chile, Brazil and Venezuela, Mujica is pledged to lessen
the gap between rich and poor while reducing the number of those who live on
an income of less than $1.25 a day (the poverty line as defined by the World
Bank), while maintaining Uruguay’s steady growth. As Mujica sees it, the
Vázquez presidency serves as a stepping-stone for where he wants to lead the
country, in order to further strengthen the growing economy, while continuing
with the social policies that have surged since 2005.
—–
This analysis was prepared by COHA Research Associate Leland Garivaltis
Posted 07 May 2010
© Copyright 2010 Council on Hemispheric Affairs, COHA. All rights reserved.
Link to the original article on COHA.org
2.4 Petrolio e ancora petrolio…
The Strategic Vulnerabilities of Oil Dependence
Global Geopolitics Net
Monday, July 21, 2008
© Copyright 2008 Daveed Gartenstein-Ross. All rights reserved.
Originally Published by FDD Policy Briefings
Daveed Gartenstein-Ross
http://globalgeopolitics.net/art/0721-Gartenstein-Ross-Oil-Dependence.htm
America's dependence on oil is its Achilles' heel in the battle against terrorism, a
fact that has not escaped the terrorists. Osama bin Laden and other terrorist
leaders have declared the oil supply a top target, while plots by al-Qaeda and
other groups have demonstrated their desire to disrupt world energy markets. A
catastrophic attack on key facilities would devastate the world economy, but
disruptive attacks that fall short of that are also a powerful tool of asymmetric
warfare. This significant weakness should factor heavily in current political
debates about alternatives to oil.
(…)
Conclusion
Disruptions of the global oil supply will harm the U.S. and its allies. The situation
appears to be growing more rather than less perilous: Luft and Korin noted in
their contribution to Francis Fukuyama's 2007 compilation Blindside that the
growing worldwide demand for oil has reduced OPEC's spare capacity from seven
million barrels a day in 2002 to only two million barrels today (less than 2.5% of
the market). "As a result," they write, "the oil market today resembles a car
without shock absorbers: the tiniest bump can send a passenger to the ceiling."
Moreover, the world is projected to have 1.25 billion cars on the road in 2030, a
dramatic increase from 700 million today.
Blindside was sponsored by The American Interest magazine, based on a May
2006 conference that probed the nature of uncertainty—or, in Fukuyama's
words, "why the future is inherently difficult to anticipate, and how to mitigate
our blindness to its vicissitudes." Amidst other contributors' discussions of such
low probability yet high impact events as an asteroid hitting the earth or a
massive outbreak of avian flu, Luft and Korin warned that a severe oil shock
generated by a terrorist attack is "an eminently predictable catastrophe if ever
there was one."
Indeed it is: an eminently predictable catastrophe that would dramatically change
the global order, in ways that most policymakers have probably never
contemplated. There are a great many reasons for the U.S. to pursue alternatives
to oil. The threat of terrorism should be a part of the discussion—and it also adds
urgency to the equation.
— Daveed Gartenstein-Ross is the vice president of research at the Foundation
for Defense of Democracies, and the author of My Year Inside Radical Islam.
3. La Chiesa nel contesto ed oltre
3.1. La teologia
Da Medellín 1968 ad Aparecida 2007: un filo non spezzato
Da Credere oggi 171/2009 - Editoriale
Nell’agosto del 1968 ebbe luogo a Medellín in Colombia la prima Assemblea generale
dell’episcopato latinoamericano, che si prefiggeva lo scopo di tradurre nella realtà del
subcontinente le indicazioni pastorali e gli impulsi di rinnovamento derivati dal concilio
Vaticano II. Si è concordi nel considerare tale assemblea come l’atto di nascita di quella
scuola o corrente teologica che viene chiamata teologia della liberazione. Sono noti i suoi
legami con altre visioni che circolavano in Europa alla fine degli anni Sessanta del XX
secolo, come la «teologia politica» (Johann Baptist Metz) e la «teologia della speranza»
(Jürgen Moltmann). Si trattava in effetti di una presa di coscienza, che si stava diffondendo
in molti paesi del mondo e risvegliava nei cristiani una precisa responsabilità storica
davanti alle situazioni di ingiustizia.
Cambiava anche il metodo di fare teologia: utilizzando la famosa triade della Jeunesse
Catholique francese (vedere - giudicare - agire), il punto di partenza diventò la realtà
storica, interpretata sia alla luce della fede sia secondo le analisi delle scienze sociali, per
tendere verso «la liberazione dell’uomo da ogni forma di servitù che l’opprima»; si voleva
lottare contro una «situazione di peccato» per raggiungere la liberazione integrale dell’uomo.
In tal modo la teologia della liberazione in America Latina mise in discussione i
condizionamenti ideologici, sociopolitici ed ecclesiali di una teologia segnatamente europea
nelle sue preoccupazioni e nelle sue prospettive, e ciò fu fatto a partire da un diverso
rapporto con la realtà, sottolineando la necessità di adattare la teologia alle diverse
situazioni culturali e sociopolitiche.
La scelta qualificante di Medellín (1968) fu anzitutto l’opzione per i poveri, in quanto sono
essi i primi destinatari del vangelo. Di conseguenza fu assunto l’impegno per una giustizia
sociale che liberasse le persone dall’oppressione economica, culturale e civile; infine, dal
punto di vista pastorale, si diede slancio alla creazione di comunità ecclesiali di base (CEB)
come espressione concreta di una chiesa in cui i cristiani stessi, anche in assenza del
sacerdote, si organizzano, prendono in mano la Bibbia, si appropriano della Parola per
approfondirla e viverla con spirito comunitario.
Bisogna tuttavia riconoscere che la liberazione a Medellín era più vincolata agli aspetti
economici e politici della realtà. Solo più tardi, altre dimensioni, quali le discriminazioni di
carattere culturale, di genere, di razza e di colore, di orientamento sessuale, o le sfide che
emergono dall’ambiente, ottennero maggiore attenzione nella riflessione teologica in chiave
liberatrice. Oggi, le teologie eco-femministe, la teologia india, la teologia nera, la teologia
dell’inculturazione e tutta una spiritualità liberatrice, rappresentano sviluppi importanti nel
campo della riflessione che si riconosce erede della teologia nata a Medellín.
Da Medellín ad Aparecida (2007) c’è dunque un filo non spezzato: lettura della realtà a
partire dai segni dei tempi; scelta preferenziale per i poveri, impegno per la promozione
umana e difesa della dignità della persona. A ciò si aggiunge, nel quadro attuale della
globalizzazione, la consapevolezza che tali questioni, e altre come la salvaguardia del
creato, non sono più ristrette al continente latinoamericano ma riguardano tutti i paesi del
mondo e l’intera umanità.
Qualcuno ha detto frettolosamente: la teologia della liberazione è morta. Sembra invece che
sia più viva che mai, nel senso che la ricerca teologica si è allargata, è divenuta più
complessa e attenta soprattutto al fenomeno del pluralismo religioso, un problema che
tocca anche paesi di antica cristianità, come quelli europei. Infatti la convinzione che ha
guidato la fatica di questa indagine, per quanto ancora incompleta e provvisoria, è stata,
tra le altre, quella di porre domande anche alla teologia occidentale, alla teologia in
generale. Davanti alla crisi del cristianesimo riteniamo importante interrogare i «laboratori
del sud del mondo», e qui quello latinoamericano. Come si è visto nei fascicoli di «Credere
Oggi» dedicati alla Teologia in Africa (n. 152) e alla Teologia in Asia (n. 158), essi
rappresentano nuove vie del cristianesimo. L’esperienza credente e riflessa fatta in
America Latina rappresenta un vero è proprio laboratorio, da cui le chiese cristiane
dell’Occidente possono trarre utili indicazioni per il proprio rinnovamento. La fede vissuta e
celebrata a Guadalupe (Città del Messico), come in mille altri luoghi mariani molto popolari
in America Latina, è la possibilità concreta e reale di una ricerca di fede e di
un’espressione religiosa piena di gioia, di entusiasmo e di vita, assai diversa dalla
freddezza e dalla monotonia che spesso si riscontrano nelle comunità cristiane in Europa.
A proposito del pluralismo religioso, che interpella più direttamente la chiesa cattolica in
America Latina, ci sono certo questioni non del tutto chiarite come l’interpretazione del
sincretismo, o della «simbiosi» tra riti e credenze di origine non cristiana e altri più
tipicamente cattolici. Sembra, a volte, che sia messa in discussione l’unicità e la necessità
della mediazione salvifica di Cristo e si riscontra una qualche ambiguità circa lo specifico
della rivelazione cristiana.(…)
3.2 Le sfide
ISSUES IN PLANTING A MULTICULTURAL CHURCH
Damian O. Emetuche
Published in www.GlobalMissiology.org “Featured Articles” April, 2009
(A workshop paper presented at the 2008 Mosaix-Portland Conference)
http://www.globalmissiology.org/portugues/docs_pdf/featured/emetuche_issues_planting_multicult
ural_church_2_2009.pdf
It is obvious that the United States is becoming more diverse in population than
ever before. I live in a small suburban community north of Seattle, in a street of
20 houses. Out of these twenty houses, we have families whose roots are from
Indonesia, Japan, Nigeria, China, Europe (white Americans), Korea, Singapore,
Peru, Mexico, and the Philippines. My street, it seems, is a microcosm of the new
America. In the City of Seattle, services and community information are provided
in 28 languages in the Seattle government web site. Some of the languages
include; Arabic, Cambodia, Farsi, Hindu, Portuguese, Russian, Samoan, Somali,
Urdu, and Vietnamese. David A. Anderson in his book, Multicultural Ministry,
asked the question, “Did you know that by 2050 almost 50 percent of the
American population will probably be racial or ethnic minorities?”. Anderson’s
question was based on the projected population of the US using the 2000 census
data. Here are some figures; The projections, based on assumptions about future
childbearing, mortality, and international migration, foretell a potential cultural
shift.
The nation's Hispanic and Asian populations are expected to triple by 2050, while
non-Hispanic whites are expected to grow more slowly to represent about one-half
of the nation's population. ‘More than half of U.S. population growth is now
among Hispanics and Asians.’ Between 2000 and 2050, the population of
Hispanic origin (who may be of any race) will increase from 36 million to 103
million. Their portion of the country's
population will nearly double, from 13 percent to 24 percent, during that period.
The Asian population is projected to triple, from 11 million to 33 million. This will
slightly more than double their population share, from 4 percent to 8 percent.
According to the projections, the non-Hispanic white and black populations
would increase more slowly than other groups. Non-Hispanic whites are expected
to increase from 196 million in 2000 to 210 million in 2050, representing a 7
percent increase. Beginning in the 2040s, non-Hispanic whites are projected to
start losing population and to make up 50 percent of the total population in
2050, a drop from 69 percent in 2000.
The black population is projected to grow from 36 million to 61 million in 2050,
an increase of 71 percent. That change will increase blacks' share of the nation's
population from 13 percent in 2000 to 15 percent in 2050.”
The truth is that the world is around us, and our world as we know it is
changing. We can no longer hide in our little ethnic cocoons and pretend that it is
all about us. Globally, “almost 200 million people live in a country that is
different from their place of birth. Thirteen and a half million are refugees. Within
this worldwide wave of migration, the United States is home to the
largest population of international migrants. Thirty –three million people –about
twelve percent of the U.S. population –are foreign born.”
In a city like Miami, Florida, six out of ten people are foreign born, and a quarter
of all Californians are immigrants. In the city of Sacramento, it seems everyone is
a minority—including whites according to Ron Stodghill and Amanda Bower. “Of
the city's inhabitants, 41% are non-Hispanic white, 15.5% are black, 22% are
Hispanic and 17.5% are Asian/Pacific Islander. Although many cities are diverse
(think New York City or Los Angeles), in Sacramento people seem to live side by
side more successfully.”
It follows that you have to be comfortable in your skin not only to live in, but to
minister in multi-cultural America of the twenty-first century. Immigrants in the
days of early pioneers assimilated into the Anglo-Saxon tradition, and their
relationships with their former countries were cut off. However, modern
technology as Mark Krikorian argues, “enables newcomers to
retain ties to their homelands, even to the extent of living in both countries
simultaneously…”. Therefore, with the interaction of various cultures and
traditions, individuals begin to build consensus in relationship and tolerant of
each other thereby developing multicultural mindset.
Diversity in essence brings about a change in worldview from mono-cultural state
of mind to multiculturalism. Canada is an example of multi-cultural society.
Canadian Heritage site states, Canadian multiculturalism is fundamental to our
belief that all citizens are equal.
Multiculturalism ensures that all citizens can keep their identities, can take pride
in their ancestry and have a sense of belonging. Acceptance gives Canadians a
feeling of security and self-confidence, making them more open to, and accepting
of, diverse cultures. The Canadian experience has shown that multiculturalism
encourages racial and ethnic harmony and cross-cultural understanding, and
discourages ghettoization, hatred, discrimination and violence.
From the biblical perspective, Apostle Paul was a good example of a
multiculturalist, he was comfortable with diversity unlike Apostle Peter. Paul
insists, Though I am free and belong to no man, I make myself a slave to
everyone, to win as many as possible. To the Jews I became like a Jew, to win the
Jews. To those under the law I became like one under the law (though I myself
am not under the law), so as to win those under the law. To those not having the
law I became like one not having the law (though I am not free from God's law but
am under Christ's law), so as to win those not having the law. To the weak I
became weak, to win the weak. I have become all things to all men so that by all
possible means I might save some. I do all this for the sake of the
gospel, that I may share in its blessings.
The Question of Leadership
It should be noted from the onset that any and everything that is not genetically
inherited is cultural. We are all products of our cultural upbringings and are
often ignorant of how we are immersed into them and have become slaves to our
cultures and traditions. The blindfolding of culture can even be more subtle as
Conde-Frazier, Kang, and Parrett argued.
For example, “If I belong to a given culture and am ministering to people who, for
the most part, share the same culture, we may together be essentially blind to
how that culture is affecting our perspective. This type of problem is even more
vexing if the group in question represents the majority culture within a larger
context.” The result is that more often than not,
our leadership style becomes more culturally structured than biblically oriented.
To achieve harmony in a multicultural church, leadership has to be shared. Any
spiritually qualified person who is willing to serve should be given the
opportunity. The body of Christ should never concentrate power to one ethnic
group as it can easily create dissention and mistrust. The same is true of trusting
younger people with power and leadership according to Bruce Milne. “Obviously,
maturity is an important biblical quality in leaders; the very term
“elders” expresses that. But young people also need to be affirmed as having gifts
to contribute to a congregation’s life and direction.”
Therefore leaders should reflect the racial diversity of the congregation, because
“members of different racial groups desire to feel represented by the members of
the church, especially racial minorities who historically have received a lack of
respect for their opinions and perspectives.”
Generally, in leadership, areas of conflict may relate to three issues;
1.Task, or in the case of a church, the vision or direction of where and what
it should be.
2. Process of reaching the goals, and
(3), relationship of the team players.
To avoid crisis, vision should be well communicated and well understood by the
leadership team.
As to the process of reaching the set goals, this is where leadership style and
culture could create conflict. The process has to be spelled out, agreed upon and
worked together. The third aspect is the relationship between the leaders; there
must be love and trust. Remember that every culture is egocentric, and biased
against the other. Therefore, emphasis should always be placed in Christ, the
unity of the body and sincere love for all believers.
(…)
In his book, The Disuniting of America, Arthur Schlesinger posses this question,
“What happens when people of different ethnic origins, speaking different
languages and professing different religions, settle in the same geographical
locality and live under the same geographical locality and live under the same
political sovereignty?30 Again, Schlesinger states, “Unless a common purpose
binds them together, tribal hostilities will drive them apart. Ethnic and racial
conflict, it seems evident, will now replace the conflict of ideologies as the
explosive issue of our times.” And to me, faith in Christ, and a multicultural
church could give them a true purpose.
The neighborhood where a church is located will play a critical role on who
attends and who does not. Biblically, Paul planted his churches in major
population and cosmopolitan centers of the Roman Empire. Roland Allen, in
Missionary Methods: St. Paul’s or Ours? Insists that “All the cities, or towns, in
which he planted churches were centers of Roman administration, of Greek
civilization, of Jewish influence, or of some commercial importance.”
The Pauline cities of the New Testament like many of our cities today were
immigration centers, and focal points of change. Most changes would occur in the
cities first and then spread to the country side. The cities represent the cutting
edge of every society.
It should be noted that it is not just any neighborhood in every city that can be
suitable for a multicultural church. It has to be in a mixed neighborhood, an
industrial area, or an academic community, and not some exclusive
neighborhoods. Downtown areas, transitional areas of a city, low and middle
integrated areas, and commercial districts because of their diversities could
be excellent locations for a new multicultural church plant.
Da: Mastrofini F., Geopolitica della Chiesa cattolica, Laterza, Roma-Bari 2006.
Capitolo 3 – America
Negli Usa, con 67 milioni di fedeli, i cattolici si confermano la confessione più numerosa; in
America Latina si raccoglie la metà dei cattolici del mondo, sebbene sia vistoso l’attivismo
propagandistico delle sétte religiose. Ecco i dati essenziali sulla diffusione del cattolicesimo. Dietro
le cifre abbiamo spinte progressiste e conservatrici, grande dinamismo nella ricerca teologica,
frenate imposte dalla Santa sede, un dibattito sempre attuale e mai sopito sul ruolo delle religione –
se sia da relegare nella sfera privata oppure dargli spazio in ambito pubblico – mentre serve un
ripristino di credibilità dopo gli scandali sugli abusi e i temi della povertà e dello sviluppo
alimentano scelte che vedono militare i credenti su opposte sponde politiche e sociali.
1. Unità (fittizia) del continente?
L’America si presenta come una composita galassia, che dalla metà degli anni Novanta
avanza sulla strada difficile e tutta in salita del dover lavorare in maniera più unitaria sui temi di
rilevanza generale. È un’impostazione voluta dalla Santa Sede e da Giovanni Paolo II in particolare
quando nel 1992 a Santo Domingo, nel discorso ai vescovi per la quarta assemblea generale
dell’episcopato latinoamericano, ribadì che «in un futuro non lontano» sarebbe arrivato il momento
di un incontro dei rappresentanti «di tutto il continente americano – che potrebbe anche avere
carattere sinodale – per incrementare la cooperazione tra le diverse chiese particolari nei differenti
settori di azione pastorale»1. Il passaggio completo suona così:
En esta misma línea de solicitud pastoral por las categorías sociales más desprotegidas, esta
Conferencia General podría valorar la oportunidad de que, en un futuro no lejano, pueda celebrarse un
Encuentro de representantes de los Episcopados de todo el Continente americano, —que podría tener
también carácter sinodal— en orden a incrementar la cooperación entre las diversas Iglesias particulares en
los distintos campos de la acción pastoral y en el que, dentro del marco de la nueva evangelización y como
expresión de comunión episcopal, se afronten también los problemas relativos a la justicia y la solidaridad
entre todas las Naciones de América. La Iglesia, ya a las puertas del tercer milenio cristiano y en unos
tiempos en que han caído muchas barreras y fronteras ideológicas, siente como un deber ineludible unir
espiritualmente aún más a todos los pueblos que forman este gran Continente y, a la vez, desde la misión
religiosa que le es propia, impulsar un espíritu solidario entre todos ellos, que permita, en modo particular,
encontrar vías de solución a las dramáticas situaciones de amplios sectores de población que aspiran a un
legítimo progreso integral y a condiciones de vida más justas y dignas2
Da allora la cooperazione tra nord e sud del continente è cresciuta, la disparità economica e
sociale si è approfondita, la sfida portata dalle sétte religiose è diventata più forte, la teologia si è
attrezzata per rispondere alle emergenze sociali ma ha subito anche condanne da parte della
Congregazione per la dottrina della fede; soprattutto nel nord America il tema al centro del dibattito
riguarda il ruolo della religione, più facilmente collocata nella sfera delle scelte private.
2. Nord America
1
Giovanni Paolo II, Discorso inaugurale della IV Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano (Celam), Santo
Domingo, 12 ottobre 1992 in Insegnamenti
2
ivi, corsivo nel testo.
Con 67 milioni di cattolici ed una tendenza a crescere, gli Usa rappresentano il 6% della
popolazione cattolica globale di 1,1 miliardi e si piazzano al quarto posto dopo il Brasile (144
milioni di cattolici), Messico (126 milioni), Filippine (70 milioni). Le statistiche possono aiutare
anche a cogliere altri aspetti: a fronte del 6% della popolazione cattolica, abbiamo negli Usa il 12%
dei vescovi del mondo e il 14% dei sacerdoti. Con 41 mila sacerdoti, parliamo di un clero che è più
numeroso di Brasile, Messico e Filippine, visto che i sacerdoti di questi tre paesi messi insieme
arrivano a 37 mila. Gli Usa hanno nelle loro file 13 cardinali (2006) mentre il Brasile ne ha 8, il
Messico è a quota 5 e le Filippine sono a 2. Nel cattolicesimo statunitense convivono diverse anime:
una più conservatrice ed una seconda di tendenza fortemente progressista, espressa da molti ordini e
congregazioni religiose e da consistenti associazioni e gruppi che chiedono maggiore democrazia
nella Chiesa. Non a caso alla fine di settembre 2005 alla Fordham University della Compagnia di
Gesù a New York, si è svolto un dibattito significativamente intitolato «Can we talk?», «Possiamo
parlare?», che già dal titolo indica lo stato di disagio per la difficoltà ad identificare luoghi e spazi
di un confronto libero. La richiesta è in linea con lo spirito democratico che anima la società Usa, in
cui le chiusure preconcette non sono facilmente accettate e neppure le soluzioni dall’alto.
Molti settori vedono con favore una fede devozionale, non impegnata nel sociale, sensibile
alla riflessione teologica e alla preghiera, critica verso gli ambiti ecclesiali più interventisti nel
sociale. Si deve aggiungere la presenza di un 30% e più di cattolici immigrati dall’America Latina,
che stanno modificando il volto della Chiesa in una direzione che solo il futuro potrà indicare in
maniera più precisa.
2.1 Credibilità minata
Su questa complessa realtà si innesta il problema dell’emergere degli scandali legati agli
abusi sessuali compiuti dai sacerdoti. Gli effetti sono stati dirompenti per la credibilità della Chiesa,
che ha risposto, d’intesa con il Vaticano, varando nuove norme restrittive e misure a protezione dei
ragazzi3 che contemplano per i sacerdoti la sospensione al momento dell’accusa e l’estromissione
dalla Chiesa se riconosciuti colpevoli. La normativa allestita per rispondere all’emergenza si è
rivelata non in grado di risolvere il problema che oggi persiste – secondo le leggi particolari degli
Usa e al suo interno di ognuno dei diversi stati – con i processi in sede civile, che portano come
conseguenza la richiesta di risarcimenti milionari alle vittime e che le diocesi devono pagare. Il
fenomeno è limitato al momento a poche diocesi, ma rischia senz’altro di estendersi. In base alle
richieste di risarcimento, tre diocesi in pochi mesi hanno chiesto ufficialmente la procedura di
bancarotta: Portland in Oregon, Tucson in Arizona e Spokane nello stato di Washington. Solo a
Spokane la diocesi deve versare 77 milioni di dollari per 125 casi e così al vescovo, mons. Skylstad,
nel 2005 non è rimasta altra scelta che inviare una lettera aperta a tutti i fedeli, vittime comprese,
per sottolineare che la procedura di «bancarotta» è l’unico modo «equo e corretto» per saldare il
debito contratto. Gli avvocati delle vittime hanno contestato la procedura, ritenendola non
necessaria e sottolineando che in questo modo la diocesi ha solo vantaggi in quanto si mette al
riparo da accuse future e successive richieste di risarcimenti. A Portland i risarcimenti alle 66
vittime ammontano a 300 milioni di dollari; 21 milioni di dollari sono chiesti a Tucson, a fronte di
3
La prima misura concreta della Conferenza episcopale, la Carta per la protezione dei giovani e degli adolescenti è del
2002 ed è stata approvata sull’onda lunga dello scandalo degli abusi sessuali commessi dai sacerdoti negli anni
Sessanta, Settanta ed Ottanta, in molti casi con i vescovi che, pur informati, non intervenivano. La campagna di stampa
ha preso l’avvio dalla diocesi di Boston ed ha provato le dimissioni dell’arcivescovo, il cardinale Bernard Law (13
dicembre 2002). La Carta prevede che tutte le diocesi debbano avere un ufficio che si occupi della prevenzione e norme
rigide per la revisione e l’implementazione delle norme, sulla cui applicazione vigila un apposito comitato. Inoltre i casi
di abuso sono avocati dalla Congregazione per la dottrina della fede e si può arrivare alla rimozione del sacerdozio per i
colpevoli. La misura è già stata presa diverse volte. Uno degli effetti della campagna di stampa e dell’emergere dello
scandalo riguarda il moltiplicarsi delle procedure contro le diocesi e l’aumento delle richieste di risarcimento da parte
delle vittime.
20 milioni di dollari di introiti. La legge federale prevede che con il ricorso al Chapter 11 la
competenza passi dal giudice ordinario ad uno speciale tribunale amministrativo-finanziario, che
assume la supervisione di tutto l’assetto finanziario della società o dell’ente; con la procedura
vengono fissati i termini per i creditori: in concreto, se entro il periodo stabilito dal giudice non se
ne presentano di nuovi, in futuro nessun altro potrà avanzare rivendicazioni. Le associazioni delle
vittime degli abusi criticano proprio questo passaggio della procedura scelta dalle diocesi, in quanto
conteggiano decine di persone che non hanno denunciato il loro caso per paura o vergogna, e in
questo modo perderanno ogni diritto al risarcimento. Il passo successivo prevede la nomina di
diversi comitati incaricati di rappresentare gli interessi dei creditori, che devono lavorare in accordo
con gli esperti dell’ente in bancarotta, per mettere a punto un piano di riorganizzazione per pagare i
debiti e consentire la ripresa delle normali attività. Se il piano viene respinto dai creditori, il giudice
può comunque approvarlo costringendo anche i creditori ad accettarlo. Nel frattempo procedono le
normali attività dell’ente in bancarotta: vengono pagati regolarmente stipendi e fornitori, ma ogni
decisione amministrativa diventa di competenza del tribunale. L’obiettivo del Chapter 11 è di far
tornare la compagnia o l’ente di nuovo attivo sul mercato. Se invece le diocesi avessero fatto
riferimento ad un’altra normativa, quella del cosiddetto Chapter 7, ciò avrebbe provocato la messa
in liquidazione completa della diocesi stessa.
2.2 Diocesi da ristrutturare
La Chiesa si trova ad affrontare un processo di ristrutturazione delle parrocchie, a fronte
della diminuzione del numero dei sacerdoti e della conseguente impossibilità di poter assicurare la
presenza di almeno un sacerdote per le normali attività pastorali. Iniziata negli anni Ottanta nelle
aree rurali del paese, la ristrutturazione tocca le città. A Boston, ad esempio, nel 2005 l’arcivescovo
ha varato un piano di chiusura di 65 parrocchie a causa del cambiamento demografico: negli anni
intere zone dell’arcidiocesi hanno sperimentato unoe spostamento di popolazione verso le regioni
suburbane; altrove si è verificato un calo rispetto al numero dei frequentatori delle parrocchie
stesse, cui si aggiunge la diminuzione dei sacerdoti e il conseguente innalzamento dell’età media.
Pesa inoltre il venire meno delle risorse finanziarie della stessa arcidiocesi, perché, secondo i
calcoli, solo nella zona urbana di Boston, il mantenimento delle strutture costa 104 milioni di dollari
ogni anno. Da qui la necessità di una «riconfigurazione», piuttosto una «ristrutturazione», dalle
dimensioni imponenti per l’importanza della città e per il tipo di provvedimenti che sono stati
annunciati. Di rilievo pure il processo decisionale che ha portato al risultato finale, perché un
intervento così vasto non poteva non coinvolgere tutte le componenti dell’arcidiocesi a diversi
livelli. E allo stesso tempo è interessante verificare quali criteri siano stati messi a punto per arrivare
a una decisione razionale. Sicuramente, l’approfondimento di questi ultimi due aspetti, potrà fornire
dei suggerimenti validi anche per situazioni simili che possano verificarsi in futuro, soprattutto nei
paesi occidentali. Stiamo parlando di una arcidiocesi che copre 6.382 kmq.; l’arcidiocesi di Milano,
tanto per fare un confronto, copre 4.217 kmq. Boston ha una popolazione di quasi 4 milioni di
abitanti, di cui i cattolici sono circa 2,1 milioni. Le parrocchie sono 357 e divise in cinque regioni, a
loro volta suddivise in 22 vicariati e questi ultimi in 82 zone pastorali.
Il cambiamento era stato annunciato attraverso una lettera inviata alle 82 zone pastorali
chiedendo sia suggerimenti sulla “riconfigurazione”, sia una prima lista di parrocchie suscettibili di
chiusura, chiedendo anche di indicare i motivi. Le risposte sono state a loro volta analizzate
attentamente da parte di un comitato costituito dall’arcivescovo, composto di 24 persone, sia laici
che sacerdoti, per prendere in esame e incrociare le risposte venute dalle zone pastorali, dai vescovi
ausiliari e dagli incaricati della pastorale diocesana ai vari livelli, insieme alle proposte ed ai
suggerimenti dello stesso arcivescovo. Due i criteri messi a punto: non basarsi solo sul rendimento
finanziario come il più importante motivo per decidere; prendere in considerazione le necessità dei
più poveri e delle nuove comunità di persone che vivono all’interno dell’area dell’arcidiocesi. Alla
fine comunque la decisione è arrivata: 65 parrocchie in meno.
2.3 Ombre ma anche luci
Il Nord America è un laboratorio per la Chiesa anche rispetto al problema del rapporto tra la
fede e la vita pubblica, come ha evidenziato il dibattito del voto del 2004 per le elezioni
presidenziali, con la posizione dei vescovi – appoggiata dalla Santa Sede – a valutare le posizioni
degli sfidanti sui temi etici e morali. Un dibattito che nel caso in questione si è ridotto nei termini
concreti ad una sola, importante domanda: è legittimo negare l’accesso alla comunione ai politici
che sostengono l’aborto? Ma ha anche un’altra dimensione: mostra il rientro, a pieno titolo, del
tema della coerenza tra fede e convinzioni politiche, in un paese dove si fa di tutto per ridurre la
religione a questione strettamente privata, senza implicazioni sulle scelte politiche, economiche e
finanziarie delle amministrazioni. Le diverse posizioni sono state illustrate dalla rivista «America»
dei gesuiti statunitensi, con un’articolata serie di interventi4. Nel primo, l’arcivescovo Raymond
Burke, di St. Louis ha sostenuto che è preciso dovere di un vescovo negare l’accesso alla
comunione per un politico cattolico «che ha violato la legge morale in maniera grave». Nel secondo
articolo, don John Beal docente di diritto canonico alla Catholic University of America, precisa che
la norma invocata in questo caso specifico – il canone 915 del Codice di diritto canonico5 – va
interpretato sempre come vincolante, in senso assai restrittivo. Tuttavia dopo la premessa mette in
evidenza che l’applicazione ad un settore come la politica è questione diversa, in quanto il voto a
favore o contro uno specifico provvedimento o una specifica legge (in questo caso a favore
dell’aborto), potrebbe essere solo «una frazione» della attività legislativa di un uomo politico, e
dunque basarsi su un unico aspetto può essere riduttivo. Nel terzo articolo, Joseph Califano, stretto
collaboratore dei presidenti Johnson e Carter, a partire dalla sua esperienza sottolinea che in
politica ci si trova spesso a fronteggiare conflitti tra le convinzioni personali – in questo caso di
cattolico praticante – e le necessità che nascono dal dover svolgere attività pubbliche. E porta degli
esempi concreti, tra cui la trattativa per arrivare alla coesistenza pacifica tra il presidente Johnson e i
vescovi sul tema del «controllo delle nascite» in un programma di governo che, peraltro, aveva il
merito di fare della lotta alla povertà uno dei pilastri dell’azione sociale. In quel caso – rievoca
Califano – ci si accordò sul fatto che il presidente avrebbe usato l’espressione «questione della
popolazione» piuttosto che «controllo» e in questo modo i vescovi avrebbero mantenuto un
atteggiamento neutrale.
Se la posizione di principio è chiara, qualche differenza importante emerge
nell’interpretazione, che invoca il principio costituzionale della separazione tra chiesa e stato, su cui
si fonda la visione statunitense. Mons. Sheridan, di Colorado Springs, in una lettera ai fedeli, ha
scritto senza mezzi termini che proprio la separazione è una distorsione: «in nessun modo si deve
suggerire che delle coscienze ben formate non debbano far sentire il loro peso nelle scelte
politiche»6. Una posizione più sfumata è stata espressa dall’arcivescovo di Portland, mons. John
Vlazny, che inserisce anche altre tematiche sul tappeto. Certamente il tema dell’aborto è importante
e il no a questa pratica è netto e senza appello. Ma introduce un significativo distinguo:
se il voto – rileva – va ad un particolare candidato perché gli altri hanno significative carenze su temi
di grande importanza, come, ad esempio, i temi della guerra, della pace, dei diritti umani e della giustizia
4
R. L. Burke, Profecy for Justice: Catholic Politicians and Bishops; J. P. Beal, Holy Communion and Unholy Politics;
J. A. Califano, Caught Between God and Caesar, in «America» 21-28 giugno 2004. Cfr. anche l’editoriale Catholics
and Politics 2004, del 24/5/2004.
5
Il canone 915 recita così: “Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione
o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”.
6
Cfr. la rubrica dell’arcivescovo sul settimanale cattolico «The Catholic Herald», ottobre 2004.
economica, allora non c’è un’evidente opposizione all’insegnamento della chiesa e ricevere la comunione
sembra piuttosto appropriato7.
Nel dibattito, oltre ai vescovi, si sono inseriti teologi e canonisti. Padre James Heft, titolare
della cattedra «Fede e cultura» all’università cattolica di Dayton, ha sottolineato che dal Vangelo si
ricavano poche indicazioni su come si dovrebbe comportare un politico cattolico, per il semplice
motivo che a quell’epoca non ce ne erano. Dunque le regole e le norme successive, elaborate dalla
Chiesa, devono sempre essere analizzate con grande attenzione, tenendo conto che il cattolicesimo è
una «religione pubblica», in oscillazione tra interpretazioni più rigoriste e altre meno. A ciò si
aggiunge l’evoluzione dei tempi: l’aborto è indubbiamente un crimine, ma in passato si sosteneva la
«guerra giusta» che oggi invece ben pochi avallano. Anche il canonista Beal, su «America» offre
argomentazioni secondo cui se, da un lato, la preoccupazione dei vescovi è fondata e i loro
interventi sono in linea con la lettera della legge canonica, dall’altro, la situazione sul terreno appare
in effetti molto più sfumata. E qui inserisce paragoni storici con l’Italia, spiegando che, ad esempio,
negli anni ‘40, la scomunica contro il partito comunista avrebbe dovuto venire estesa anche oltre i
politici, toccando coloro che sostenevano e votavano, non solo in Italia ma in tutto il mondo.
Occorre seguire la stessa strada anche negli Usa? Beal sottolinea piuttosto l’importanza di
riprendere in mano la funzione tipica della Chiesa e dei suoi pastori: insegnare la verità e mostrare a
chi sbaglia dove sia il suo errore. Fare ricorso solo e unicamente alle misure disciplinari, invece,
sarebbe un «implicito riconoscimento» che la Chiesa «ha mancato dal punto di vista del suo ruolo di
insegnamento».
Il cattolicesimo nordamericano sintetizza le tematiche del rapporto fede e politica, ruolo
pubblico o privato della religione, coerenza tra fede e scelte in ambito civile e sociale, che occupano
i principali spazi di discussione in Occidente. La presenza di molti gruppi impegnati su temi quali
l’ecologia, la pace, la libera discussione dei problemi e l’impegno di decine di congregazioni
religiose, maschili e femminili, è una conseguenza dell’impostazione democratica e pragmatica
dello stile di vita nordamericano. Che ha effetti importanti sulla vita della Chiesa, portandola ad una
maggiore apertura, ad un maggior dialogo, ad un maggior confronto con la società nelle sue diverse
articolazioni. L’influsso del 30% di ispanici cattolici, ancora non adeguatamente studiato, tra cui
molti portatori di una religiosità devozionale, di tipo tradizionale, modificherà anche, nel medio e
lungo termine, l’assetto del cattolicesimo e per questo il Nord America costituisce oggi un
laboratorio importante.
3. Sudamerica in ebollizione
La metà dei cattolici del mondo si trovano nell’America centrale e latina; Brasile, Messico,
Colombia ed Argentina vengono annoverati tra i paesi con la più ampia presenza cattolica nel
mondo. Allo stesso tempo, l’America latina si trova stretta dalla morsa delle sétte religiose di
derivazione protestante, che hanno una propaganda molto penetrante ed attiva ed il subcontinente
dai forti contrasti sociali, vive dei forti contrasti religiosi. La presenza delle sétte religiose data dalla
seconda metà degli anni Sessanta, dalla fine del Concilio Vaticano II, quando si capì – o meglio, lo
capirono gli Usa – che il rinnovamento ecclesiale significava la fine di un’epoca di grande
vicinanza tra Chiesa e potere politico, in quel caso i regimi dittatoriali. La strategia nordamericana
puntò allora alla diffusione delle sétte, con il loro credo fondamentalista e carismatico-pentecostale,
per distogliere dall’impegno verso i problemi sociali, mettendo l’accento piuttosto sulla dimensione
spirituale dell’esperienza religiosa8. Il Guatemala era al 95% cattolico una generazione fa,
7
«Catholic Sentinel», 6 maggio 2004.
Cfr. ad esempio A.M. Ezcurra, Iglesia y transicion democratica, Puntosur, Buenos Aires 1988. Per una storia
dettagliata della Chiesa nei diversi paesi e con una panoramica a livello continentale, è utile La Chiesa in America
latina (a cura di E. Dussel), Cittadella, Assisi 1992.
8
esattamente all’epoca della fine del Concilio; oggi è al 60%. Il Perù contava il 97% di cattolici
all’epoca del censimento del 1992; dieci anni dopo la quota era scesa al 75%. Dati ben conosciuti
dai vescovi e dal Vaticano e non a caso la sfida delle sétte è al centro delle preoccupazioni dei
diversi documenti pastorale degli ultimi anni, in cui la Chiesa non rinuncia all’impegno sociale, e
alla «opzione preferenziale per i poveri»9, spesso contestata e legata alla teologia della liberazione,
accusata di adottare il marxismo come metodologia di analisi della realtà riducendo la fede ad
attivismo sociale o ad una forma di politica. La teologia della liberazione nasce negli anni Settanta
in Perù, dalla riflessione del teologo Gustavo Gutierrez, diventa in poco tempo uno dei modelli di
ispirazione dell’azione della Chiesa, che si impegna per ridurre le ingiustizie sociali, perché
comprende che il messaggio del Vangelo non può restare disincarnato dalla realtà10. Anche in
questa impostazione c’è il Concilio Vaticano II, che ha permesso una lettura della Bibbia a partire
dall’incarnazione, cioè ha sottolineato l’esperienza di Dio che si fa uomo come il punto di vista da
assumere per guardare alla realtà. I due documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede
negli anni Ottanta11, hanno messo in luce gli aspetti negativi e gli aspetti positivi della liberazione
cristiana intesa in chiave teologica e nelle sue conseguenze e limiti sociali, per la preoccupazione di
avere una Chiesa «politicizzata».
3.1 Problemi da affrontare
Negli anni seguenti, il consolidamento della democrazia e la fine dell’epoca delle dittature,
praticamente in tutti gli stati, ad eccezione di Cuba, ha chiuso il dibattito ed anche la polemica sulla
Chiesa che si oppone ai regimi politici dittatoriali. La «Chiesa dei poveri» che emerge dai
documenti degli episcopati e da quelli della Santa Sede12 si impegna per dare voce ai diritti dei
settori della popolazione che oggi vivono in condizioni di emarginazione rispetto alla
partecipazione politica e sotto la soglia della povertà. Il documento «Ecclesia in America», che fa
da sintesi e bilancio del Sinodo dei vescovi, radunato in Vaticano l’anno prima, elenca in maniera
dettagliata i diversi problemi da affrontare e risolvere. Lo fa nel quadro di un nuovo rapporto per cui
Nord e Sud del continente, diversi per stili di vita, economie, modelli sociali e di sviluppo, devono
trovare i modi per cooperare e collaborare, in base al principio di sussidiarietà, secondo cui l’uno e
l’altro, il più forte ed il più debole, devono aiutarsi tra loro. In particolare, poi, il capitolo V elenca i
diversi problemi concreti che interpellano la Chiesa. Troviamo le espressioni «amore preferenziale
per i poveri e gli emarginati» nel paragrafo 58; riferimenti precisi a: «debito estero» nel 59; «lotta
alla corruzione» nel 60; «droghe» nel 61; «corsa agli armamenti» nel 62; «cultura della morte e
società dominata dai potenti» nel 63; «popoli indigeni e gli americani di origine africana» come
nuovi soggetti destinatari di un’opera di promozione, nel paragrafo 64. La visione della Chiesa è
contro il neoliberismo.
Sempre più, in molti Paesi americani, domina un sistema noto come «neoliberismo»; sistema che,
facendo riferimento ad una concezione economicista dell'uomo, considera il profitto e le leggi del mercato
come parametri assoluti a scapito della dignità e del rispetto della persona e del popolo. Tale sistema si è
9
E’ la celebre espressione che esprime l’impegno sociale della Chiesa latinoamericana, che si trova nel documento
finale della seconda assemblea generale dell’episcopato latinoamericano di Medellin del 1968 e riconfermata nella
successiva assemblea di Puebla del 1979. L’espressione, dapprima contestata, è poi passata nel vocabolario anche della
Santa sede, sebbene si tenda a distinguerla da un collegamento troppo stretto con un vero e proprio impegno attivo nel
settore socio-politico. In ogni caso, tra i tanti pronunciamenti papali sul tema, nel messaggio di Natale 1984, Giovanni
Paolo II disse: «davanti a te, Verbo eterno, che hai voluto nascere nello squallore di una stalla, per arricchire gli uomini
della tua divinità, la Chiesa rinnova la sua opzione preferenziale per i poveri».
10
G. Gutierrez, Teologia della liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 1992. La prima edizione italiana dell’opera
è del 1972; questa nuova edizione a venti anni di distanza traccia anche un bilancio critico dell’esperienza compiuta.
11
Istruzione circa alcuni aspetti della teologia della liberazione, 6 agosto 1984 e Istruzione circa la libertà cristiana e
la liberazione, 22 marzo 1986.
12
Cfr l’Esortazione apostolica Ecclesia in America, del 22 gennaio 1999.
tramutato, talvolta, in giustificazione ideologica di alcuni atteggiamenti e modi di agire in campo sociale e
politico, che causano l'emarginazione dei più deboli. Di fatto, i poveri sono sempre più numerosi, vittime di
determinate politiche e strutture spesso ingiuste. La migliore risposta, a partire dal Vangelo, per questa
drammatica situazione è la promozione della solidarietà e della pace, in vista dell'effettiva realizzazione della
giustizia. A tal fine occorre incoraggiare e aiutare quanti sono esempio di onestà nell'amministrazione delle
finanze pubbliche e della giustizia. Come pure occorre appoggiare il processo di democratizzazione in atto in
America, poiché in un sistema democratico sono maggiori le possibilità di controllo che permettono di
evitare gli abusi13.
Se le enunciazioni di principio risultano chiarissime, nella pratica le differenti situazioni
politiche e sociali, come anche le diverse sensibilità o gli interessi dei vescovi, portano a scelte
diverse.
3.2 Martiri latinoamericani del Novecento
I temi della giustizia sociale, della solidarietà, dei diritti umani, hanno portato la Chiesa ad
avere molti martiri della fede: da mons. Oscar Romero in Salvador e i gesuiti dell’Università
Centroamericana a mons. Juan Gerardi di Città del Guatemala, da mons. Angelelli alle tre religiose
statunitensi uccise in Salvador per il loro impegno, fino a suor Dorothy Stang in Brasile nel 2005.
Oscar Arnulfo Romero (1917-24 marzo 1980), nel 1977 venne nominato arcivescovo di San
Salvador, in un periodo di grandi contrapposizioni ideologiche e politiche, mentre la guerra civile
tra il governo dittatoriale e la guerriglia di sinistra imperversa nel paese, con la repressione
dell’esercito colpisce indiscriminatamente. Mons. Romero, una solida fama di conservatore, dal
momento in cui divenne arcivescovo conosce più da vicino il divario e le contrapposizioni sociali.
In particolare l’uccisione del sacerdote gesuita Rutilio Grande segnò una svolta nella sua biografia
portandolo a denunciare le ingiustizie e i drammi della popolazione, chiedendo conto al governo
delle ingiustizie e degli assassinii indiscriminati e allos tesso tempo denunciando le azioni violente
della guerriglia. Nel 1978 il Times scriveva che «il suo ruolo di voce degli oppressi offre
un’alternativa pacifica alla rivoluzione violenta». Venne ucciso alle 17,30 del 24 marzo 1980,
mentre celebrava la messa. Da quel momento divenne un simbolo della conversione della Chiesa e
delle lotte per la giustizia sociale. «Nel nome di Dio e qi questo popolo sofferente – disse nella sua
ultima omelia – chiedo, supplico, ordino che cessi la repressione». Ai funerali parteciparono 50
mila persone; la commissione d’inchiesta costituita sotto l’egida delle Nazioni Unite dopo gli
accordi di pace del 1992 che segnarono la fine della guerra civile, dichiarò che l’assassinio era stato
comesso dai paramilitari dietti dal maggiore Roberto D’Abuisson. Pochi giorni dopo il rapporto, il
parlamento votò l’amnistia per tutti coloro che avevano partecipato a delitti politici, tra cui anche
l’assassinio dell’arcivescovo.
Il 16 novembre 1989, i militari fecero irruzione nella sede dell’Università centroamericana di San
Salvador ed uccisero sei gesuiti, tra cui il rettore padre Ignacio Ellacuria, e due domestiche. Il fatto
di sangue avvenne durante alcuni giorni di combattimento, nella capitale, tra esercito e guerriglia, e
quest’ultima venne accusata dell’eccidio. Più accurate indagini portarono in primo piano le
responsabilità dell’esercito e di alcuni ufficiali come mandanti della strage. La Corte interamericana
per i diritti umani, indicò chiaramente le colpe del governo militare dell’epoca, che individuava
nell’Università dei gesuiti un pericoloso centro ispirato alla teologia della liberazione.
Il 26 aprile 1998, mons. Juan Gerardi Conedera, vescovo ausiliare di Città del Guatemala, è stato
ucciso in un agguato nel garage della parrocchia. Due giorni prima aveva presentato i risultati di un
rapporto sui casi di atrocità e violenze commesse nel periodo 1990-1996 dall’esercito, nel periodo
più duro della guerra civile e della repressione militare. L’indagine successiva ha visto diversi
13
Ecclesia in America, par. 56.
giudici rassegnare le dimissioni dal caso e tutti i tentativi di interrogare il capo della polizia
presidenziale non hanno sortito effetti.
Mons. Enrique Angelelli (1923-4 agosto 1976), dal 1968 vescovo di La Rioja, in Argentina, aveva
partecipato al Concilio Vaticano II. Era un deciso difensore della giustizia sociale e della causa dei
diritti umani, in particolare solidale con le rivendicazioni degli operai e dei contadini di una delle
zone più povere del paese. Oppositore del regime militare, salito al potere con il colpo di stato del
24 marzo 1976, lui e il clero erano sotto stretto controllo della polizia. Il 4 agosto, mentre faceva
ritorno a La Rioja, dopo aver celebrato i funerali di alcuni sacerdoti assassinati a Chamical, la sua
auto venne investita e gettata fuori strada. L’inchiesta conclusenel 1983 che si trattò di un incidente
stradale. Il ritorno della democrazia riaprì il caso e nel 1986 il giudice Aldo Morales decretò che si
era trattato di «omicidio premeditato». I mandanti non sono mai stati perseguiti perché rientrarono
nell’amnistia del 1989.
Le suore della congregazione di Maryknoll, Maura Clarke e Ita Ford, la suora orsolina Dorothy
Kazel, la volontaria laica Jean Donovan, furono rapite, violentate ed uccise il 2 dicembre 1980 dai
militari, perché sospettate di essere simpatizzanti della guerriglia del Salvador, a causa del loro
lavoro sociale a favore delle popolazioni povere. Venti anni dopo, il 3 novembre 2000, un giudice
statunitense condannò come mandanti due generali salvadoregni – nel frattempo emigrati negli Usa.
In precedenza, nel 1984, cinque militari, esecutori della strage, erano stati condannati a 30 anni di
carcere.
Suor Dorothy Stang, della congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur, statunitense di
origine, è stata uccisa a 74 anni il 12 febbraio 2005, dopo 22 anni di presenza e impegno sociale
come missionaria in Brasile nello stato di Parà. Aveva dedicato la sua vita per la causa dei
lavoratori senza terra e per la riforma agraria. Dichiarazioni di cordoglio e di condanna
dell’assassinio sono state emesse dai vescovi brasiliani, dall’episcopato statunitense, dalla
conferenza dei religiosi e delle religiose degli Usa, dalla commissione pastorale per la terra dei
vescovi brasiliani.
La nuova frontiera dell’impegno mette in primo piano i temi etici, soprattutto il matrimonio
e le politiche pubbliche su famiglia e natalità, menola povertà e l’esclusione dai meccanismi di
dialogo e partecipazione alla vita pubblica e politico-sociale. Comune è invece la preoccupazione
per le prospettive di sviluppo socio-economico: settori consistenti e rappresentativi (vescovi,
congregazioni religiose, anche il Celam) si interrogano sul trattato di libero scambio (Alca) che ha
l’obiettivo di costruire un’unica area commerciale dall’Alaska alla Terra del Fuoco, con
l’esclusione di Cuba. Proposto nel 1990 dal presidente statunitense George Bush e rilanciato
dall’amministrazione Clinton nel 1994, dovrebbe creare un mercato di 800 milioni di consumatori
con un prodotto interno lordo di 11 miliardi di dollari. Gruppi ecclesiali, ordini religiosi, organismi
pastorali, vescovi e intere conferenze episcopali hanno assunto pubblicamente posizioni via via più
critiche, in alcuni casi unendosi alle iniziative di protesta promosse dalla società civile e da altre
chiese cristiane. A fare da battistrada è stata la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb),
che già nel 2002 aveva promosso un referendum autogestito cui avevano partecipato 10 milioni di
persone, sfociato in un voto plebiscitaria contro l’accordo. L’opposizione all’Alca è stata anche al
centro del Congresso americano della Caritas e di un seminario del 2004 che ha riunito i delegati
delle 15 province latinoamericane della Compagnia di Gesù, tanto che entrambi gli organismi hanno
deciso di aderire alla rete continentale «Sì alla vita, no all’Alca. Un’altra America è possibile». Un
convegno su «Commercio internazionale, Alca e commercio equo», promosso dal Dipartimento di
pastorale sociale del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), ha poi definito l’intesa proposta
dall’amministrazione statunitense un progetto «di falsa integrazione». Stessa impostazione si è
avuta alla riunione dei primi di settembre 2005, a Washington, tra vescovi latinoamericani,
statunitensi e rappresentanti di diverse istituzioni internazionali. Forte preoccupazione hanno
espresso, al termine di un’apposita riunione svoltasi nel settembre 2004, i rappresentanti degli
episcopati dei paesi del Mercato comune del Cono Sud (Mercosur), cioè Argentina, Brasile,
Paraguay e Uruguay, insieme a quelli di Bolivia e Cile. In Honduras si sono distinti nella critica
mons. Luis Santos, vescovo di Santa Rosa de Copan, che ha sottolineato l’impossibilità per le
economie centroamericane di competere in condizioni di parità col colosso statunitense, e il
cardinale Rodriguez Maradiaga, che ha spiegato come la liberalizzazione commerciale avviata nel
1982 dall’amministrazione Reagan con l’Iniziativa per la Conca dei Caraibi abbia in due decenni
fatto aumentare la percentuale degli honduregni poveri dal 59% al 72%”.
3.3 Risposte dalla teologia
Nel 1996 il Celam organizzò un seminario sul tema «Il futuro della riflessione teologica in
America Latina», al quale oltre a un numero ristretto e qualificato di vescovi, partecipò anche il
cardinale Ratzinger e vennero chiamati come relatori diversi teologi: Gustavo Gutierrez, i gesuiti
Juan Carlos Scannone e Ricardo Antoncich e altri esperti come Enrique Iglesias, Carlos Maria
Galli, Juan Noemi14. Si approfondì il passaggio dalla teologia della liberazione alla dottrina sociale,
partendo dalla autocritica verso l’eccessiva utilizzazione delle categorie di analisi tratte dal
marxismo. A questo proposito, il gesuita Ricardo Antoncich parlò di uno «spostamento dal politico
al socioculturale», per accostarsi alla società civile e meno allo stato, dando la precedenza,
nell’analisi, a termini e categorie come «neoassociazionismo popolare», «nuovi movimenti
socioculturali», «comunitarismo». Termini con cui si indica la ricerca di un modello di economia a
misura d'uomo che si sta sviluppando in Salvador, in Brasile, in Cile, in Perù, paesi in cui
l'economia informale ha assunto dimensioni insospettate, e dove la popolazione impara a
trasformarsi in imprenditori attraverso associazioni economiche popolari autogestite, comunitarie e
solidali. Esperimenti, certo limitati per ora, ma che hanno dietro la riflessione di teologi quali Pedro
Trigo e Pablo Richard, che dimostrano come, di fronte al potere forte dell’economia e delle finanza,
occorra in teologia uno sforzo per rielaborare un pensiero che sia al tempo stesso autenticamente
cattolico e latinoamericano, che sappia fondere i molti sostrati di un continente in cui le antiche
culture indigene vivono ancora insieme alla assorbite dalla cultura portata dalla Conquista. Un
continente in cui il «meticciaio» non riguarda solo le razze ma coinvolge le culture e la teologia,
nella ricerca di nuove sintesi.
3.4 La teologia «india»
A livello teologico, il continente latinoamericano si dimostra fecondo di nuovi fermenti,
come ad esempio la «teologia india», che riflette sul ruolo del cristianesimo a partire dalla realtà
delle popolazioni indigene, o meglio di quel che ne rimane dopo l’avvento della colonizzazione
europea. La corrente teologica ha suscitato le attenzioni della Santa sede, e nel 1996 l’allora
segretario della Congregazione per la dottrina della Fede, l’arcivescovo Tarcisio Bertone, oggi
cardinale a Genova, rilevò che
la Congregazione appoggia queste ricerche, anche se richiama la responsabilità dei vescovi all’unità
e alla diversità: l’unità della Chiesa e della fede e la diversità nell’adattamento locale. Vi sono evidentemente
anche dei pericoli come il sincretismo. Non si possono inserire nell’annuncio cristiano e nella liturgia i
riferimenti al Padre-sole o alla Madre-terra o riduzioni della figura di Gesù come si trattasse di un’immagine
occidentalizzata bisognosa di radicale reinterpretazione in base alle culture precolombiane. Sono percorsi
assai discutibili15.
Si tratta di uno sviluppo nella linea della «inculturazione», che ritroveremo tra i temi
importanti per l’Africa ed ancora di più per l’Asia, riguarda situazione di oltre 50 milioni di indios
tra cui realtà etniche significative in Ecuador, Bolivia, Messico e Brasile, omogenee nella critica del
14
15
Il libro Teologie al plurale, EDB, Bologna 1999 raccoglie gli Atti di quel seminario.
Cfr. Teologie e sfide pastorali, intervista in «Il Regno» 14/1996, p. 403.
colonialismo europeo, bene espresso dalle realtà della «scoperta» dell’America e «conquista» che
hanno cancellato gli indios, un fenomeno definito dallo storico Tzvetan Todorov come il più grande
genocidio della storia16. La differenza di fondo tra le culture che si sono scontrate è stata bene
espressa da Adolfo Perez Esquivel, Nobel per la pace argentino, in una sola frase: «Una cultura
egemonica, conquistatrice, egoista, non poteva ‘incontrarsi’ con una cultura collettivista e
comunitaria; non c’è stato un incontro di due culture, ma lo sterminio di una cultura da parte
dell’altra»17. Sembrava un problema di carattere storico, oramai senza agganci con la situazione
attuale, che neanche le celebrazioni per i 500 anni dalla «scoperta», nel 1992, avevano potuto
riaprire; invece l’ultimo decennio ha riaperto la questione degli indios, con la rivolta del Chiapas
dall’1 gennaio 1994, le rivendicazioni politiche in Ecuador, ed anche per il lavoro, in Messico, di un
teologo di etnia zapoteca, Eleazar Lopez, che ha illustrato la posta in gioco della causa india18.
Come rileva il teologo italiano Rosino Gibellini, che ha firmato l’introduzione alla traduzione
italiana del volume di Eleazar Lopez,
Nell’ambito della teologia india si possono individuare due correnti. Una prima, che va sotto il nome
di teologia india-india, intende recuperare i miti e i riti antichi, rifiutando l’evangelizzazione, che la
conquista ha imposto. Qui il cristianesimo è visto come l’ideologia dei conquistatori, e si parla di
disevangelizzazione per recuperare la propria identità india, culturale e religiosa. È una corrente radicale, che
non sembra maggioritaria. Questa corrente, più che di teologia india, parla di teologia originaria, in quanto
intende restaurare le religioni originarie senza mescolanze di elementi estranei, in particolare degli elementi
cristiani, imposti dalla conquista.
Una seconda corrente,
si auto-comprende come teologia india-cristiana; come scrive il teologo zapoteca: Si tratta di una
riformulazione del passato indigeno nell’ambito del cristianesimo. Si concepisce come parte della lotta per
riconciliare i due amori mediante una nuova sintesi vitale di forme distinte di Dio e di espressioni religiose.
Per questo non si rinuncia, ma si riscatta e potenzia, sia l’identità india, sia l’identità cristiana. È un processo
arduo e difficile, perché si propone di inculturare il vangelo in culture che riemergono dopo una repressione
operata anche in nome del cristianesimo storico, e, inoltre, perché si propone di inculturare anche ‘miti e riti’,
attraverso i quali queste culture trovano espressione.
Possiamo cogliere la novità della posizione teologica che viene espressa, utile tra l’altro per
un confronto sui temi che agitano in questo momento l’Europa e di cui nessuno, né politici né
Chiesa, hanno una risposta da fornire. Infatti, secondo la ricostruzione-spiegazione di Gibellini,
la teologia india, come teologia india-cristiana, è una realtà nuova nel panorama della teologia latinoamericana, che si differenzia, sia dalla teologia della liberazione, la quale si focalizza sulla opzione per i
poveri; sia dalla teologia ispanica (hispanic theology), la quale prende atto del ‘meticciaio’, quale esito della
conquista; sia dalla teologia afro-americana (brasiliana e caraibica), che si modella sulla problematica della
black theology. La teologia india, come teologia contestuale, è chiamata ad inserirsi nell’orizzonte della
cattolicità e della ecumenicità, ma essa ha un dono da offrire alla Chiesa e all’Ecumene, che ha trovato
formulazione nei testi del III Incontro di Teologia India, tenutosi nella città andina di Cochabamba (Bolivia),
nell’agosto del 1996; è il dono del rispetto per tutti i popoli, culture e lingue, offerto da popoli, che hanno
subìto per lunghi secoli disprezzo, segregazione e emarginazione; è il desiderio operoso di una Casa grande,
capace di accoglienza, attesa a lungo da popoli che conoscono la pazienza (e le paure) dell’attesa, avendo
vegliato per millenni sui loro colli aspettando il ritorno del sole19.
16
T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 1992
Citato in «Concilium» 6/1990.
18
L’unica opera finora pubblicata in italiano è E. Lopez, Teologia india, EMI, Bologna 2004.
19
Per le tre ultime citazioni si veda l’introduzione firmata da Rosino Gibellini al volume di E. Lopez, cit.
17
3.5 Tra impegno e attese carismatiche
Nella composita galassia latinoamericana, la vera sfida è rappresentata dalle sétte religiose
con la loro tendenza al disimpegno, ad una spiritualità totalmente lontana dalla storia e dalla
incarnazione. La teologia delle realtà terrestri parte dal Figlio di Dio che diventa uomo, vive e soffre
nella storia, ed è il prototipo di ogni cristiano che sa di aspirare ad una ricompensa nel Regno dei
Cieli da guadagnarsi prima di tutto sulla terra con un comportamento coerente con i valori e princìpi
dettati dal Vangelo. Per il movimento pentecostale carismatico, basta la spiritualità, senza agganci
con l’impegno concreto per la giustizia e da qui il grande flusso di denaro che viene dal
protestantesimo degli Stati Uniti, per non mettere in discussione lo statu quo, per non risvegliare
l’idea che la sofferenza di milioni e milioni permetta a pochi gruppi economico-finanziari di godere
di benefici e aree di privilegio. Il fenomeno carismatico, che si diffonde rapidamente, ha una portata
di rilievo straordinario per il futuro assetto del continente latinoamericano. Spieghiamolo con le
parole di uno studioso come Philippe Jenkins
Oggi fascisti e nazisti non sono facili da trovare; i comunisti potrebbero costituire una specie a
rischio d’estinzione, mentre i pentecostali si stanno diffondendo in tutto il mondo. Dato che nel 1900 i
pentecostali erano solo un’esigua minoranza e oggi sono alcune centinaia di milioni non è ragionevole
riconoscere che forse si tratta del movimento sociale di maggiore successo del secolo passato?». E aggiunge:
«In base alle proiezioni attuali, prima del 2050 il numero dei credenti pentecostali dovrebbe superare il
miliardo. (…) A quel punto il numero dei pentecostali sarà più o meno pari a quello degli induisti, e doppio
rispetto a quello dei buddhisti20
La virata «spiritualista» e il conseguenze aumento dei pentecostali a danno dei cattolici si
può spiegare come una risposta alla politicizzazione della Chiesa cattolica. Del resto i pentecostali
protestanti delle chiese cosiddette «evangelical», cioè il filone nato negli Usa dal luteranesimo
storico, erano nel 1940 appena un milione in tutta l’America Latina. Oggi sono 50 milioni, di cui la
metà in Brasile (un quinto della popolazionedel paese). Le nuove forme di appartenenza religiosa
interpellano da vicino sia le chiese protestanti (in quanto «madri»), sia la Chiesa cattolica,
interessata a proseguire sulla via del dialogo ecumenico, anche se nell’incerto quadro di fondo di
quale sarà lo sviluppo futuro dell’America latina in senso politico, sociale ed economico.
20
P. Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004.