L`aristocratico “emigrato”

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L`aristocratico “emigrato”
PAOLO BOURGET
dell'Accademia Francese
L'aristocratico “emigrato”
I.
IL PESO DEL NOME.
L'automobile girava dietro l'abside di Saint­François-Xavier, quando, con un gesto
istintivo, Landri de Claviers-Grandchamp afferrò il portavoce, Egli gridò allo
chauffeur di fermare davanti ad una delle porte laterali. La potente limousine era
ancora in movimento allorché Landri, saltato sul marciapiede, sparì nella chiesa;
pochi secondi dopo ne uscì per la porta principale sul boulevard degl'Invalidi. Con la
figura elegante e ardita che aveva Landri, con la sua piacente fisionomia, marziale
e sognatrice ad un tempo, che la bocca altera, quasi superba, avrebbe resa dura
sotto la vela tura un po' fulva dei baffi se gli occhi, di un bruno carezzevole, non ne
avessero addolcito l'espressione, quell'astuzia infantile non poteva significare che
una cosa: il desiderio di proteggere contro la curiosità e i commenti un convegno
clandestino. Era vero, ­ ma, cosa che avrebbe fatto morir da ridere gli ufficiali del
reggimento di dragoni al quale il giovane conte apparteneva in qualità di
luogotenente, - egli aveva quel convegno con una donna della quale era
innamorato follemente senza aver mai ottenuto nulla da lei. Che dico? Non aveva
neppure osato, tranne una volta, di parlarle dei suoi sentimenti. Molti elementi nella
vita di lui avrebbero dovuto cospirare a renderlo fatuo e nauseato: quel volto e
quella professione, il suo patrimonio e il suo nome, ­ uno dei migliori di Francia, al
quale non è mancato che il fulgore delle grandi cariche di corte! Ma Landri era nato
romantico, e rimaneva tale anche a ventinove anni. In lui, come in tutti. i giovani
veramente affettuosi, la commozione aboliva la vanità. Egli aveva incontrato la
signora Olier nel 1903. Così si chiamava quella donna, oggi vedova, e allora
maritata a uno dei suoi compagni. Si era nel 1906. L'amava dunque da tre anni, né
gli era mai venuta l'idea che tale perseveranza in una devozione muta e
disinteressata fosse una frode. E tanto meno lo pensava in quella mattina tepida e
come illanguidita sul finir di novembre, in cui incedeva, trascinato, sollevato da una
imminente speranza. Quantunque avesse anche motivi di gravi preoccupazioni,
respirava liberamente e godeva di camminare sui marciapiedi del vecchio quartiere
che ben conosceva. Dietro a lui, la cupola degl'Invalidi velava il suo oro d'una
nebbiolina madreperlacea; a destra, le torri di San Francesco s'ergevano in un
vapore trasparente: a sinistra, gli alberi di un vasto giardino privato agitavano, al di
sopra del muro di cinta, i rami quasi spogliati; e a perdita d'occhio s'ingolfava il
popoloso boulevard del Montparnasse, con un formicolio di tranvai e d'omnibus, di
carrozze e di carri. A un certo punto, il giovanotto svoltò in via Oudinot per entrare
in via di Monsieur. Lì si fermò ad un portone ed esitò alcuni istanti prima di
spingere il battente socchiuso. Quel portone dava accesso a un cortile in fondo al
quale si celava una di quelle palazzine civettuole e antiquate, graziose e fuor di
moda, come nella stessa strada, che prendeva nome dall'antico regime, se ne
contavano ancora una diecina venticinque anni or sono. Purtroppo spariscono, ad
una ad una! Appena muore uno dei proprietari, i picconi dei demolitori si mettono
all'opera. Un aristocratico gingillo di pietra viene abbattuto, e nel suo posto sorge
uno di quei casamenti da reddito, sulla cui soglia la sosta ansiosa di un innamorato
come Landri disdirebbe. Certo, è un pregiudizio, poiché per chi ama, la figura della
donna amata veduta nella gabbia di un ascensore riempirebbe di poesia e di
fascino anche le scale di quegli orribili edifici di mattoni e d'acciaio che gli Americani
chiamano brutalmente «sky-scrapers», (raschiatori del cielo). V'è tuttavia una più
intima, più penetrante soavità, nella completa armonia tra la decorazione dove vive
una donna e la passione che essa ispira. Questa soavità aveva inebriato con mille
godimenti Landri de Claviers in tutte le sue visite a quel romitaggio di via di
Monsieur. Egli non l'aveva mai gustata più profondamente che in quel momento, in
cui stava per arrischiare un passo molto importante per l'avvenire del suo amore.
Andava da Valentina Olier con la ferma volontà di avere con lei un colloquio
decisivo e di chiederle la sua mano. Se aveva insistito perché ella lo ricevesse a
un'ora un po' anormale, aveva avuto ragioni imperiose che lo scusavano
anticipatamente di questa indiscrezione. La sua timidezza dinanzi a quel portone,
poi i battiti del suo polso quando si risolvette ad attraversare il cortile, derivavano
da un turbamento che non riesce facile spiegare. Era lo sfinimento del cuore per
l'eccesso di commozione, che accompagna il desiderio troppo intenso negli animi
intatti e sensibili. Delicato di natura, Landri non era invecchiato prima del tempo
per l'abuso delle esperienze precoci. Per quel giovanotto, degno veramente di sì
bell'appellativo, ciò che lo aspettava dietro le tende del pianterreno, era tutta la sua
felicità o tutta la sua infelicità. Ma, ripeto, egli sperava. I suoi occhi si deliziavano,
come di solito, nel guardare le linee della facciata della casa, così strettamente
associata all'immagine della sua Valentina. Sarebbe ella mai sua? Un riflesso di lei
illuminava per Landri quella graziosa costruzione di due piani, i cui svelti pilastri, le
sobrie ghirlande, il frontone a balaustrate, le nicchie adorne di busti classici,
offrivano un perfetto esemplare dell'architettura dell'epoca di Luigi XVI. Stile
composito, antico e pastorale, come fu quella strana epoca, in cui una società che
stava per finire recitava l'idillio - aspettando la tragedia - in mezzo ad architetture
pompeiane. Quella palazzina era stata costruita per gli amori d'uno dei tanti fastosi
intendenti generali di quel tempo. Oggi, modestamente suddivisa in piccoli
appartamenti, contava come inquilini, oltre la vedova dell'ufficiale, un magistrato in
ritiro al primo piano, e il direttore di un ministero al secondo. Quel capriccio
galante, preparato per le cene di un rivale di Grimod de La Reynière, era adesso
l'asilo di vite quasi claustrali. Come piaceva a Landri la scelta fatta dalla signora
Olier di una abitazione così ritirata! Rimasta libera e sola a ventisei anni, con un
figlio piccolissimo, senza parenti prossimi, con poche relazioni mondane e un
modesto patrimonio, Valentina aveva apprezzato in quell'appartamento ciò che ne
avrebbe distolto molte altre donne: un fascino di oblio, di silenzio e di
raccoglimento. Dall'altra parte, il piano terreno dava sopra un piccolo giardino,
contiguo ad altri più vasti, e siccome il muro limitrofo spariva sotto l'ellera, quel
recinto di pochi metri sembrava l'angolo remoto d'un parco. Mentre pulsava il
campanello elettrico dell'ingresso, Landri era sicuro che il servitore, accorso al suo
suono, lo condurrebbe, come di solito, per l'angusto vestibolo e il salotto coi mobili
coperti di fodere, ad una stanzetta minuscola, aperta sul giardino e che serviva di
secondo salotto alla signora Olier. Ella sarebbe lì, intenta a scrivere, alla piccola
scrivania che collocava presso il fuoco o presso la porta a vetri, secondo le stagioni.
Oppure leggerebbe, seduta sulla poltrona di vecchia stoffa a righe fuor di moda,
color di rosa stinto e verde pallido, sempre la stessa. Oppure le sue dita affusolate
sarebbero occupate con l'ago del ricamo. Comunque, lettere, lettura o lavoro,
musica, - un pianoforte che essa non apriva se non quando era sola attestava quel
talento, - la sua occupazione sarebbe interrotta ogni tanto da uno sguardo gettato
nel viale di quel giardino, dove il suo figliuolo Lodovico si baloccherebbe. Landri
trovava lì un simbolo di ciò che era stata, da quattordici mesi che le era morto il
marito, tutta quella vita di vedova e di madre. Oh, quanta affettuosa gratitudine
egli rivolgeva alla giovane per avergli provato in tal modo come avesse avuto
ragione di astrarla, fin dal loro primo incontro, da tutte le altre donne!...
Valentina era lì, infatti, nel salottino dolcemente rischiarato dal sole di quella
mattina, vicino a perforare un ultimo tessuto fluttuante di nebbia. Ella era
apparentemente assorta sopra un ricamo che non finiva mai. Ma il quaderno di
musica aperto sul pianoforte e lo sgabello un po' smosso avrebbero potuto far
intendere al giovanotto come ella avesse ingannato l'attesa della venuta di lui. Un
altro indizio manifestava la sua agitazione: essa non aveva il bambino presso di sé.
Contrariamente alle sue consuetudini, lo aveva mandato a spasso fin dalle dieci.
Perché, se non per rimanere sola coi propri pensieri? Tuttavia, la padronanza di sé
stessa che ella aveva le permise di accogliere il suo visitatore con l'inchino del capo
consueto, amichevole e contegnoso, col medesimo sorriso di un'affabilità sostenuta.
Tutt'al più, il battito delle sue palpebre tradì una nervosità smentita dal timbro
calmo della voce e dallo sguardo impenetrabile dei suoi occhi celesti. Le donne
come lei, coi capelli di un biondo pallido, quasi cinereo, con le mani e i piedi sottili,
la vita slanciata, i gesti brevi, pare che debbano lasciar trasparire le loro minime
impressioni, tanto si giudicano frementi e vibranti. Invece, spesso nulla è più
misterioso di quelle creature tutte finezza e sensibilità. Questo stesso eccesso di
nervosismo diventa per esse un principio di forza. Appena conoscono il mondo,
comprendono come l'acuità delle loro commozioni le renda creature eccezionali,
solitarie. Per uno di quegli istinti di difesa che la natura morale possiede come la
natura fisica, costoro si avvezzano a nascondere il proprio cuore acciocché la vita
non abbia a sopraffarlo. Esse provano una specie di pudore delle loro commozioni;
dapprima tacciono soltanto le più profonde, poi anche quelle più lievi. Finiscono
così col conseguire una vera potenza d'impassibilità esteriore che aggiunge al loro
fascino l'attrattiva di un enigma, tanto più che questo dualismo volontario, questa
costante sorveglianza, questo contrasto prolungato tra ciò che dimostrano e ciò che
provano, tra il loro essere reale e il loro essere apparente, esercita un potere anche
sul loro modo di sentire e di pensare. Sovente sono raffinate fino alla scaltrezza,
quando sono pure, e, se tali non sono, fino all'astuzia, per la delizia o la
disperazione dell'uomo che s'innamora di loro, secondo che egli è dal canto suo
molto complesso o molto semplice. Landri de Claviers-Grandchamp era l'uno e
l'altro, per motivi risguardanti le particolarità del suo destino. Così egli aveva già
sofferto molto per quella donna, e le andava tuttavia debitore dei momenti più
deliziosi che la sua giovinezza, oscurata da una malinconia nativa e acquisita,
avesse conosciuti. Le prime parole scambiate tra lui e la signora Olier faranno
capire perché, e, al tempo stesso, quali chimere pericolose, quasi inumane, può
concepire una di queste sentimentali scrupolose come era Valentina, che amano
l'amore e che lo temono, che non vogliono privarsi di un affetto caro, né cessare di
stimarsi abbandonandovisi, che si esaltano senza stordirsi e si accalorano senza
perdere la ragione. Ma era giunta l'ora di finirla con tutti gli equivoci. Il giovanotto
aveva preso la sua risoluzione, e la giovane donna l'aveva letta fra le righe
enigmatiche della lettera di lui. Essa la leggeva anche nelle sue pupille, di cui aveva
tanto spesso, da tre anni, fatto abbassare lo sguardo soltanto col suo
atteggiamento. Nessuna forza al mondo impedirebbe oggi a Landri di parlare. Essa
lo sapeva. Sapeva quali parole direbbe, e si preparava ad ascoltarle, poi a
rispondervi, sconvolta nell'intimo suo, e apparentemente calmissima nel vestito da
lutto. Si era abbigliata come per uscire, onde avere un pretesto di interrompere
quella visita a suo talento. Il nero del panno e del crespo dava alle sue gote un po'
infossate pallori eburnei che la rendevano ancora più bella. Dopo le prime parole di
consueta cortesia, fra le quali ella trovò il mezzo d'insinuare un'allusione alla
necessità di uscire prima di far colazione, vi fu tra loro uno di quei passaggi di
mutismo come càpitano tra due persone sul punto di proferire parole irreparabili, di
cui hanno bisogno e paura al tempo stesso. Il rumore del fuoco nel caminetto e il
movimento del pendolo dell'orologio erano divenuti ad un tratto percettibili in quel
silenzio, che l'ufficiale ruppe finalmente, con un accento in cui fremeva la
commozione.
- «Avrete di certo capito, signora,» cominciò, «come si tratti. di cosa gravissima
perché io abbia osato pregarvi di ricevermi a un'ora indebita. Non avevo la scelta.
Debbo partire per Saint-Mihiel domani sera. Ho ottenuto a stento un permesso
brevissimo. Mio padre mi aspetta a Grandchamp, dove oggi dà una caccia a cavallo,
e sapete quanto caso egli faccia del suo seguito. Bisogna, se non voglio
dispiacergli, che io arrivi prima della fine. Ho preso stanotte il treno di Commercy.
Alle nove ero alla stazione dell'Est. In un'ora e mezzo; con l'automobile, sarò a
Grandchamp. Vi dico tutto ciò perché…»
- «Perché non mi credete vostra amica,» interruppe ella crollando il capo. «Ma
invece lo sono, e profondamente. Non occorre che vi scusiate. Mi avete assuefatta
ad una devozione troppo schietta, che io so troppo schietta,» sottolineò, «perché
non abbia indovinato che la vostra lettera era dettata da un motivo
importantissimo. Ditemelo semplicemente, come a un'amica, ve lo ripeto, a una
vera amica, che vi risponderà in modo eguale».
Essa ebbe, nel dire queste poche parole, un'espressione di fisionomia soavissima,
ma fermissima. La sua voce calcò particolarmente su questa parola di «amica»,
ripetuta tre volte. Era il richiamo a un pericolosissimo, a un fragilissimo impegno!
Ne sono stati conclusi migliaia di simili da che uomini appassionati come Landri
sanno tuttavia rispettare l'oggetto del loro amore, e donne segretamente
innamorate come Valentina sognano di conciliare le commozioni di un affetto
proibito con le strette esigenze della virtù. La cosa rara non è che l'una proponga e
l'altro accetti il patto romantico di un'amicizia senz'altra sfumatura, ma che questo
patto sia mantenuto. Occorre a tal uopo una sincerità completa, quasi ingenua dei
due contraenti, scevra di astuzia nell'uomo e di civetteria nella donna. È anche
necessario che le loro vite siano per forza separate, che i loro incontri non siano
frequenti. Non sempre sincerità è sinonimo di verità. Si può rimanere sinceramente
in una condizione radicalmente falsa, accanirvisi attraverso mute rivolte, intime e
lunghe sofferenze, agonie nascoste, come quelle il cui ricordo fremette nella
risposta del giovanotto:
- «Un'amica ?...» Quale amarezza assumevano queste dolci sillabe sulla sua bocca
improvvisamente contratta! «Lo sapevo, io, che fin dal principio del nostro
abboccamento vi sareste rifugiata dietro la mia promessa. Lo sapevo che avreste
indovinato le frasi che voglio dirvi e non mi avreste permesso di dirle. Dio è
testimonio, ed anche voi, signora, ne siete testimone, che ho fatto di tutto per
mantenere l'assoluto riserbo che imponeste come condizione ai rapporti tra noi...
Lasciatemi parlare; l'ho pur meritato, che mi lasciate parlare...» supplicò, dietro un
gesto della signora Olier che si era quasi alzata. La sua preghiera conteneva tanto
doloroso ardore, ch'ella sedette di nuovo, e non tentò più di frenare una
confessione che il suo tatto di donna aveva preveduta, in quegli ultimi tempi.
Per quanto fosse assuefatta a dominarsi, il suo pallore ognor più profondo, il suo
respiro ognor più breve denunziavano l'agitazione sollevata in lei dalla voce
dell'uomo di cui aveva voluto farsi solo un amico, e che continuava: «Sì, l'ho
meritato. Sono stato così onesto, così leale nella mia risoluzione di obbedirvi! Tutto,
anche il silenzio impostomi, mi era meno penoso che perdervi completamente. E
poi, vi davo tanta ragione! Mi son rimproverato tante volte l'errore di quel
momento, tre anni fa! L'avervi confessato ciò che avrei dovuto nascondervi perché
non eravate libera, mi rimordeva! Io passo ogni giorno da Saint-Mihiel, davanti al
muro del giardino dove ebbe luogo quella scena, e mi pare sempre di rivedervi col
pensiero come vi vidi dopo la mia folle dichiarazione, quando mi lasciaste ad un
tratto e risaliste in casa, senza voltarvi. Quali settimane seguirono, quando
c'incontravamo quasi tutti i giorni ed io non esistevo per il vostro sguardo! «Mai,
mai ella mi perdonerà», dicevo fra me, e quest'idea mi straziava. Fui leale quando
volli cambiar reggimento, partire da Saint-Mihiel; leale quando tentai, prima della
partenza che credevo definitiva, di parlarvi ancora. Avevo bisogno di spiegarmi con
voi, di farvi comprendere che nessuna vile idea di seduzione aveva attraversato la
mia mente, che se ero stato uno stolto, non avevo tuttavia cessato un secondo di
nutrire per voi tanta stima, tanto rispetto! Ah! sarò molto vecchio, molto freddo,
quando potrò ricordarmi senza lacrime, - guardate, ne ho pieni gli occhi, - il viso
che faceste quel giorno, il vostro sguardo, l'accento col quale mi diceste: - «Ho
dimenticato tutto. Datemi la vostra parola che questo istante di aberrazione non
tornerà, ed io vi rivedrò come per il passato. Non voglio che la vostra vita sia
sconvolta per causa mia...» Mentre mi parlavate, io pensavo, - quell'ora l'ho tanto
presente pensavo: «Pur di respirare l'aria che ella respira, pur di vederla
camminare, pur di continuare a udire la sua voce, farò qualunque cosa.» E voi mi
tracciavate il programma della nostra relazione per l'avvenire. Dicevate che il
mondo non crede molto a un'amicizia disinteressata tra uomo e donna, ma che voi
ci credevate, purché entrambi fossero veramente leali. Potrei ripetervi sillaba per
sillaba tutte le vostre frasi di quel pomeriggio. Io vi ascoltavo, con un certo non so
che d'inesprimibile, di placido e di esaltato ad un tempo, in tutto il mio essere. Era
come se avessi veduto e sentito tutta l'anima vostra. Vi promisi allora
solennemente, se mi riammettevate nella vostra intimità, d'essere l'amico che mi
permettevate ch'io fossi, e null'altro. Questa parola ho il diritto di ripetere che l'ho
mantenuta. Affermo che la manterrei ancora, se le circostanze fossero rimaste le
medesime. Ma son mutate. Ah, signora, se fosse possibile leggere in un cuore, io vi
esorterei di guardare nel mio! Vi vedreste come, alla notizia della sventura che vi
colpì, io non avessi un impulso egoista su questo mutamento. Non pensai che alla
vostra ambascia, alla vostra solitudine, al vostro figlio rimasto orfano. Finché la
catastrofe fu recente, mi sarei vergognato d'intravedere un orizzonte nuovo dinanzi
a me… dinanzi a noi. Ma non posso impedire che la vita sia la vita. A venti sette
anni una donna ha il diritto di rifare la propria, senza che offenda menomamente la
memoria di colui che non è più. In quanto a me, non manco alla parola data
dicendovi: «Signora, il culto, l'adorazione che avevo per voi tre anni fa e che mi
proibiste giustamente di esprimervi allora, io li ho sempre. Il silenzio serbato sui
miei sentimenti fin da quel tempo, deve rispondervi della loro profondità. Io lo
rompo oggi che potete ascoltarmi senza che l'espressione del più fervido, ma del
più rispettoso, del più deferente amore debba suscitare in voi il minimo rimorso.
Quello che vi dissi in giardino, ve lo ripeto, aggiungendovi una preghiera che non
respingerete. Vi amo. Lasciate che vi dedichi quel che mi rimane di giovinezza, tutta
la mia vita. Accettate ch'io diventi un appoggio nel vostro isolamento, un conforto
nella vostra tristezza, un secondo padre per il vostro figliuolo. Accettate ch'io vi dia
il mio nome. Siate mia moglie, e benedirò questa lunga prova che mi autorizza a
ripetervi ciò che sentii fin dal primo giorno in cui v'incontrai: - potevate dubitarne? vi amo, e non ho mai amato, né amerò mai nessuna donna all'infuori di voi.»
Questo discorso appassionato, così stringente e così diretto, non somigliava affatto
a quello che Landri aveva preparato durante la veglia della notte e sotto la luce
fredda dell'alba, mentre il diretto dell'Est lo trasportava lontano dalla piccola città di
guarnigione dove il suo destino gli aveva fatto incontrare il capitano Olier e la sua
graziosa moglie. Quante tappe diplomatiche si era proposto anticipatamente! E le
aveva saltate tutte, per giungere ad una chiesta di matrimonio formulata
bruscamente, con quella spontaneità più suadente di ogni prudenza presso una
donna che ama; e Valentina amava Landri. Essa lo amava, in mezzo a complicazioni
sulle quali è bene insistere di nuovo per evitare alle inconseguenze di quel
carattere, leale perfino nelle sue scaltrezze, fin la più lieve parvenza di civetteria.
Essa lo amava, ma in una singolare ignoranza delle cose d'amore, nonostante il
matrimonio e la maternità. La sua unione con un uomo più attempato di lei,
combinata dalla sua famiglia, non le aveva fatto conoscere quello sconvolgimento
totale dell'essere dopo il quale una donna è veramente donna. La tenerezza in lei
non era mai stata che immaginativa. Essa aveva trovato, nelle pure e innocenti
delizie di quella intimità senza carezze, senza parole precise, con un giovanotto dal
quale tuttavia si sentiva amata e che essa riamava, la sola voluttà che la sua
sensibilità, ancor tutta morale, potesse concepire. Insomma, essa amava, - e
quell'amicizia le era bastata! Era dunque inevitabile che al primo tentativo del suo
preteso «amico» per trascinarla nel mondo scottante della passione completa, - e
una chiesta di matrimonio, in simili condizioni, altro non era che questo, - ella si
ritraesse quasi violentemente. Eppure aveva dovuto prevederlo, quel passo che
metterebbe fine al paradossale e instabile compromesso di coscienza da lei
escogitato tra i suoi doveri di sposa e il suo segreto amore. Sì, lo aveva infatti
preveduto, appena le era morto il marito. La sua consuetudine di riflettere,
aumentata ancora nella monotonia di una vita da semi-reclusa, l'aveva fatta
compiacere quasi dolorosamente nell'esame minuzioso dei motivi pro e contro la
decisione da prendere, ed aveva finito, in questa prospettiva falsata dalla
meditazione solitaria, col pensare contro il proprio cuore. Essa non aveva veduto
che la forza delle obiezioni, le difficoltà insormontabili, e si era attenuta al partito
più opposto al suo profondo desiderio. Per giunta, si era cullata nella chimerica
speranza di rimandare di settimana in settimana quella spiegazione che s'imponeva
ad un tratto così imperiosamente. E vi si trovava sprovvista e preparata ad un
tempo, sconvolta dalla sorpresa e come corazzata più ancora che armata di
ragionamenti lungamente calcolati. Rischiava così di apparire freddissima mentre
era molto commossa, padronissima di sé stessa e molto convenzionale mentre era
tanto fremente. Ah, come la sua ostentata energia era vicina alla debolezza quando
cominciò a rispondere!
- «Voi mi avete fatto dispiacere, amico mio. poiché nel mio cuore io continuerò a
darvi questo nome che voi non volete più. Non vi faccio nessun rimprovero...
M'ingannai io, nel credere che il vostro sentimento per me potesse mutare, che
fosse mutato. Forse questa trasformazione non è possibile. Ero in buona fede
anche io, desiderandola, volendola, sperandola. Lo sapete, non è vero?.. Ora
questo sogno è finito...» E ripeté, come parlando a sé medesima: «Finito, finito...»
Poi, volgendosi verso Landri: Come volete ch'io vi permetta di tornar qui, ora, che
mi abbandoni alle lunghe conversazioni, alla corrispondenza epistolare che m'erano
così care, dopo che mi avete parlato in tal modo? Non si tenta due volte una prova
come questa. Tre anni fa, potei credere a un impulso della vostra gioventù, a
un'esaltazione che si sarebbe calmata. Oggi non posso più accarezzare questa
illusione. Ma sopra un punto avete ragione: le circostanze sono mutate. Se allora
ebbi il diritto e il dovere di giudicare con severità una confessione che sarei stata
colpevole di ascoltare quanto lo eravate voi nel farla, come potrei condannarvi ora
di un passo che è tutto stima e rispetto?.. Ho vissuto poco in società, ma tuttavia
abbastanza per capire che una fedeltà di cuore come la vostra, così prolungata e in
queste condizioni, non è comune. Essa mi commuove più di quanto posso
esprimervi...» La voce le tremava mal suo grado nel lasciare sfuggire queste parole
che significavano chiaramente: «Ed io pure vi amo.» «Ma,» proseguì con fermezza,
«bisogna che questo colloquio sia l'ultimo, poiché non posso rispondervi la parola
che voi mi chiedete, poiché nella mano che voi mi stendete non posso metter la
mia...»
- «Dunque,» egli balbettò, «se ben comprendo, rifiutate...»
- «Di essere vostra moglie. Sì,» diss'ella, e questa volta i suoi occhi celesti
guardavano Landri fissamente sotto le loro sopracciglia avvicinate. La sua bocca
sottile si stringeva in una piega energica. Tutto il suo fragile essere si irrigidiva in
una tensione che provava all'innamorato la forza della commozione che essa
domava. E ripeté: «Sì, rifiuto. Potrei addurvi molti pretesti che per altri sarebbero
delle ragioni, che dovrebbero esserlo per me. Ho un figlio. Potrei dirvi: «Non voglio
che egli abbia un patrigno.» Non sarebbe vero. Sono certa che voi sareste per lui
quello che avete detto, un secondo padre. Potrei citare il mio lutto, così recente, e
rimettere a più tardi la mia risposta. Più tardi, il motivo che mi fa declinare l'offerta
del vostro nome sarebbe il medesimo, poiché è appunto questo nome, e ciò che
esso rappresenta, che mi proibisce di abbandonarmi ad una simpatia di cui avete
avuto troppe prove. Avrò fra poco ventotto anni, amico mio. Non sono più una
donna giovanissima. Ho riflettuto molto al matrimonio. So che ci si sposa per
amarsi, ma anche per vivere e stare insieme, avere un focolare, essere una
famiglia. Per questo, è necessario che non vi siano tra i due sposi quelle differenze
di origine e di ambiente che non si modificano e che fanno sì che i parenti di lei non
possano mai imparentarsi veramente coi parenti di lui... Il vostro nome non è
solamente antico, ma illustre; è commisto a tutta la storia di Francia. Vi fu un
maresciallo de Claviers­Grandchamp compagno di Bajardo, un cardinale de
Claviers-Grandchamp amico di Bossuet. Altri Claviers-Grandchamp sono stati
ambasciatori, governatori di province, commendatori dello Spirito Santo, pari di
Francia. La vostra casa si è imparentata con altre dieci case dell'aristocrazia
francese o europea; le vostre cugine, con duchi inglesi, principi tedeschi o italiani.
Voi siete un nobile, ed io una borghese, una piccola borghese. Non m'interrompete;
ascoltatemi,» diss'ella, appoggiando la sua mano fine sul braccio del giovanotto e
fermando così la protesta di lui: «E’ meglio che vi dica tutto in una volta. Non parlo
con umiltà né con orgoglio, poiché non ho mai capito né l'uno né l'altro di questi
sentimenti quando si tratta di fatti innegabili e immutabili come la propria
condizione. Sono una borghese, lo ripeto. Ciò significa che i miei hanno vissuto in
ristrettezze dapprima, poi modestamente. lo mi trovo ricca coi trentamila franchi di
rendita che essi mi hanno accumulati, in tanti anni! Nel nostro ceto è un
patrimonio; nel vostro sarebbe la rovina. Quando passeggio o in questo quartiere e
passo dinanzi ai pochi palazzi antichi che ancora vi sono, nei giorni dei grandi
ricevimenti vedo nei cortili le carrozze e le automobili che aspettano, i camerieri in
livrea, tutto quel fasto che voi non scorgete più, tanto vi è naturale; e sapete qual'è
l'impressione ch'io provo sempre? Che se dovessi vivere in quel modo, sarei troppo
spostata, troppo schiacciata!... Sono inezie. Ve le cito, perché rappresentano tutto
un genere di consuetudini, tutto un codice sociale. Non dite che voi non imporrete
queste consuetudini a vostra moglie, che la esonererete da questo codice; non
potreste. Oggi, nella vostra qualità di scapolo e a cagione della vostra carriera di
ufficiale, avete potuto semplificare molto la vostra vita. Ma la vostra moglie non
sarebbe soltanto la compagna del signor de Claviers­Grandchamp, semplice
luogotenente dei dragoni, a Saint-Mihiel; ma sarebbe anche la nuora del marchese
de Claviers-Grandchamp, che abita un vero palazzo a Parigi, che possiede nell'Oise
un castello storico. Egli è vedovo, quindi esigerebbe, ed avrebbe ragione di esigere,
che la sua nuora facesse con lui e per lui gli onori di quelle dimore principesche. E
d'altra parte, prima di tutto non mi accetterebbe. Voi mi avete parlato tanto di lui!
Lo conosco così bene, senza averlo veduto! Non per nulla lo chiamate l'Emigrato.
Tante volte avete cercato di dimostrarmi che egli non è un uomo del nostro tempo;
che ha l'orgoglio, la religione della sua stirpe e della vecchia Francia. E un uomo
simile ammetterebbe che il suo erede, il solo che sopravvive dei suoi quattro
figliuoli, prendesse per moglie la vedova di un capitano figliuolo di un dottore, figlia
essa pure di un notaro di provincia, la quale prima di chiamarsi signora Olier si
chiamava signorina Barral? Mai! Unirvi in matrimonio con me, amico mio,
equivarrebbe prima di tutto a guastarvi con vostro padre, e, più o meno, con tutti i
vostri parenti, con tutta la vostra società. Che v'importa? mi direte; quando due
persone si amano, si bastano scambievolmente. Questo è vero e non è vero. Voi
soffrireste passione e morte che io fossi pur lontanamente umiliata, che, vostra
moglie, non avessi il grado dovuto a vostra moglie. Io soffrirei vedendovi soffrire, e
forse - non voglio farmi migliore di quel che sono - soffrirei per me stessa. Siamo
tanto ingegnosi in tutti i ceti a ferire coloro che si considerano come intrusi! Se poi
avessimo figliuoli, si sentirebbero essi veramente fratelli e sorelle del mio, ch'è figlio
di un povero meschino Olier, essi che sarebbero dei Claviers-Grandchamp? E se...
Ma a che pro enumerare le miserie contenute nelle parole così crudeli, così sagge,
così profonde: un matrimonio mal assortito?... No. Non sarò vostra moglie, amico
mio, e verrà un giorno in cui mi ringrazierete di avervi difeso contro voi stesso, di
averci difesi entrambi, oserei dire… Non sufficientemente, però; poiché non ho
saputo impedirvi di dire parole che interromperanno per sempre, per molto tempo
almeno, vincoli così dolci...» Essa ripeté: «Così dolci!...» E, quasi con mi singhiozzo:
«Ah, perché, perché mi avete parlato di nuovo così?..»
- «Perché vi amo,» rispose egli quasi selvaggiamente. E voi... Ma se mi amaste, le
benedireste queste differenze tra i nostri due ambienti, invece di temerle! Voi
cogliereste, in questa ostilità della mia casta, - confesso che non ci avevo mai
pensato, - il mezzo di avermi tutto per voi... Se almeno vi avessi veduta dibattervi,
esitare!... Ma l'aridità della vostra risposta, la lucida analisi dei nostri due gradi
sociali, il bilancio delle nostre famiglie fatto così posatamente, freddamente,
matematicamente, mentre io venivo a voi folle di commozione, pensando solo alla
vita del cuore… questo mi ha straziato più del vostro rifiuto. Avrei potuto discuterlo,
combatterne i motivi... Ma l'indifferenza non si discute né si combatte. La si
subisce, e questo è orribile!...»
- «Siete ingiusto, Landri!» diss'ella. Molto di rado lo chiamava per nome. Questa
tenerezza di linguaggio, la sola che ella si fosse mai permessa, e così poco, le era
venuta alle labbra dinanzi all'evidente, disperazione del giovanotto. Una donna che
ama può sopportar tutto, dissimular tutto, tranne la pietà che le ispira una
sofferenza cagionata da lei a colui che essa ama, e, distruggendo, con questo
slancio involontario della sua passione tutto l'effetto del suo rifiuto di poco prima,
ella soggiunse: «Io! Indifferente per voi!... Ma a chi pensavo dunque parlandovi, se
non a voi, unicamente a voi, al vostro avvenire, alla vostra felicità?..»
- «Come vorrei,» interruppe egli, «che non pensaste che a voi, invece, che aveste
l'egoismo dell'amore, le sue esigenze, i suoi sragionamenti!... Eppure,» proseguì
con l'asprezza della passione che si sente condivisa nonostante tutte le resistenze,
e che si esaspera, «è vero. Voi avete nel cuore qualche cosa per me. Non siete una
civetta. Non vi sareste beffata di un uomo che vi ha dimostrato che vi amava, e
come! Vi dicevo poc'anzi che non mi amavate. Certe volte lo credo, e questo mi
tortura; certe altre, vi sento così commossa, così fremente, ecco, come ora... Ah,
per quanto avete di sacro al mondo, Valentina...» - egli mai si era permesso questa
familiarità che la fece sussultare come un bacio, - «se veramente stimate il
sentimento che provo per voi, se la mia lunga fedeltà vi ha commossa,
rispondetemi! E' vero, è proprio vero che tra la mia felicità e me, - poiché la mia
felicità siete voi, voi sola, capite? - tra il vostro cuore ed il mio, non v'è che
quest'ostacolo, quest'unico e misero ostacolo, il mio nome?»
- «Niun altro», ella rispose, «ve lo giuro».
- «E volete ch' io m'inchini dinanzi a ciò, che rinunzi a voi perché io mi chiamo
conte de Claviers-Grandchamp e voi signora Olier, e la società in cui sono nato
biasimerà questo matrimonio?..»
- «Non son io che voglio così,» rispose essa, «è la vita.»
- «E’ la vita?» ripeté egli, con voce divenuta a un tratto sorda e cattiva: «Che cosa
volete dire con ciò? Ma ho forse bisogno di domandarvelo?... Come se, fin dalla mia
giovinezza, non avessi sempre veduto questo stesso ostacolo sorgere dinanzi a tutti
i miei slanci: il mio nome, sempre il mio nome, ancora il mio nome!... Finirò col
maledirlo. Sono un nobile, dite. Dite piuttosto che sono un paria altolocato, dinanzi
al quale furono chiuse tante strade quando aveva vent'anni, perché portava questo
gran nome, e la donna che egli ama non vuol saperne, di lui, per la stessa
ragione!... Ah, posso pur dire di viverla, la tragedia del nobile, poiché la mia
sventura vuole che tale io sia, posso pur dire di conoscerla, questa paralisi
dell'essere giovanile, vibrante, ansioso di agire, per causa di un passato che non è
stato suo neppure un giorno, questo soffocamento per causa di pregiudizi che egli
non condivide neppur più!... Valentina, dite che non mi amate; sarò molto infelice,
ma non proverò quello che ho provato poc'anzi, e con quale violenza, un nuovo
sussulto di questa vecchia ribellione di cui ho tanto sofferto, che ho tanto
combattuta in me medesimo, e che talora giunge fino all'odio della mia casta. Sì,
sono stato, sono tuttora vicinissimo a odiarla, ed è veramente una crudeltà, poiché,
nonostante tutto, appartengo a questa casta. Essa mi tiene prigioniero. Ne conosco
le virtù. In certi momenti ne vado superbo, in certi altri, come questo per esempio,
ne provo orrore!...»
- «Non parlate così, non abbiate di questi sentimenti», implorò la signora Olier.
«Voi mi fate paura, quando vi vedo così ingiusto, non solamente per me, - ve l'ho
perdonato, - ma per la vostra sorte. Questo è sfidare Dio. Parlate di ostacoli, di
prigione, di soffocamento.... Io penso, invece, a tutti i privilegi che aveste
nascendo, e, prima di tutto, al più grande di tutti: quello di essere così facilmente
un esempio. Se aveste udito i discorsi che facevano sul conto vostro quando
arrivaste a Saint-Mihiel, giudichereste meglio il valore di questo nome che per poco
non avete bestemmiato, - e perché?... - Io li udivo, quei discorsi, e ne vado altera
per voi: - «Si chiama conte de Claviers­Grandchamp, e lavora. Avrà un trecentomila
franchi di rendita ed è passato brillantemente agli esami. E’ buon collega. Tratta
bene i soldati. Ha tutte le migliori qualità di un capo...» Voi chiamate i nobili dei
paria, perché eccitano molta invidia. Ma quando son degni del loro grado, qual
potere esercitano!...
E tutto ciò non val più nulla ai vostri occhi, se non potete piegare alla vostra
volontà quella di una povera donna che fra dieci anni sarà quasi vecchia!... E allora
direte di lei, se la riconoscerete: «Dove avevo la testa quando credevo di amarla
tanto?...»
- «E se fra dieci anni l'amo ancora,» disse il giovanotto, «se ho passato questi dieci
anni a rimpiangerla? Se il rifiuto di questa donna coincidesse con una di quelle crisi
che fanno mutare tutto in una vita? Se fossi in uno di quei momenti in cui un uomo
deve prendere una decisione importante, e in cui ha bisogno di sapere su quale
appoggio potrà fare assegnamento?...» - Parve esitare, e, col tono mutato di un
uomo che, abbandonatosi al tumulto delle sue commozioni, si frena e non vuol più
che precisare fatti, proseguì: - «Ora mi comprenderete: io ero venuto con l'idea di
cominciare da questo, ma la vostra presenza mi ha commosso troppo. Vi ho detto
che ho ottenuto a stento un permesso brevissimo, di quarantott'ore. Il nostro
nuovo colonnello non la pensa come voi, circa i nobili. Egli è con loro aspro e
severo. L'altro giorno disse di me, a proposito del mio titolo e del mio «de»: «A me
non piacciono i nomi rimbombanti.» Del resto, non ha avuto torto di esigere ch' io
torni in servizio domani sera, poiché sappiamo da fonte ufficiale che si faranno due
inventari di chiese in paese, e si prevede, la resistenza.»
- «Possibile?...» esclamò Valentina, congiungendo le mani. «Da che è stata votata
questa legge della separazione, non ho mai letto la narrazione di una scena come
quelle di Paramè o di Saint-Servan, senza temere che voi pure V'i trovaste in uno di
quegli orribili casi di coscienza di cui tanti bravi ufficiali sono stati vittime!... Io
credevo che a Saint-Mihiel fosse andato tutto bene senza bisogno dell' intervento
della truppa... D'altra parte, l'arma a cui appartenete viene chiamata raramente in
tali faccende...»
- «Questa volta verrà chiamata,» rispose Landri. «Siamo stati avvertiti. Ed è logico.
Sceglieranno o i cacciatori o noialtri. Questi due reggimenti contano un certo
numero di persone che hanno nomi rimbombanti, fra cui questo conte de ClaviersGrandchamp, che lavora, che tratta bene i soldati, che ha tutte le migliori qualità di
un capo. L'occasione è buona per stroncare lui e qualche altro della sua specie! Il
pretesto c'è: le due chiese da inventariare sono quelle di Hugueville-en-Plaine e il
santuario di Nostra Signora di Montmartin. Nella prima, v'è un vecchio prete,
venerato a cinquanta leghe di distanza, che ha dichiarato dal pulpito di non cedere
che alla forza. Voi sapete la devozione del dipartimento alla Madonna di
Montmartin. Si tratta di far presto, prestissimo, perché i contadini non abbian
tempo di arrivare. Hugueville e Montmartin sono lungi da Saint-Mihiel. Ci vuole la
cavalleria. Se i dragoni sono chiamati, tocca al mio plotone, e con molta probabilità
io sarò della partita.»
- «Povero amico mio!» disse la giovane avvolgendo l'ufficiale con uno sguardo in
cui rifulse la tenerezza che ella si era giurata e spergiurata di nascondergli...
«Anche voi dovrete dunque abbandonare quest'esercito che amate tanto, e nel
quale vi era riserbato un sì bel posto!...»
- «Non lo lascerò,» interruppe egli, e il suo viso assunse un'espressione così dura,
che maravigliò Valentina.
- «Che cosa volete dire?» essa domandò.
- «Che mi sono ben bene interrogato, e che non ho trovato nella mia coscienza
quello che i miei compagni di cui parlate hanno trovato nella loro. Essi erano dei
credenti, ed io, sapete bene, ho dei dubbi, io non frequento i sacramenti. Avrò
ripugnanza nell'eseguire certe requisizioni; ma la ripugnanza non è lo scrupolo. Ci
passerò sopra. Non lascerò l'esercito.»
- «Neppure se dovrete comandare ai vostri uomini di abbattere le porte di una
chiesa?»
- «Lo comanderò loro»
- «Voi?» essa esclamò. «Voi?...»
- «Finite pure,» egli soggiunse, con aria ancor più cupa. «Voi, un ClaviersGrand­champ!... Non osate dirla, questa parola. Eppure la pensate, l'avete sulle
labbra. Di un altro che io non fossi, giudichereste naturale, specialmente voi che
conoscete il nostro mestiere, che nel mio stato d'animo eseguisse un ordine
militare, e non vedesse, nell'occupazione della chiesa d'Hugueville o di Montmartin,
che un servizio comandato. Ma di me, non lo ammettete. Perché? Sempre per
causa del mio nome!... E vi meravogliate ch'io dia in escandescenze, come poc'anzi,
contro una schiavitù di cui io solo conosco il peso?.. Ebbene,» proseguì con
crescente furore, «appunto perché sono un Claviers-Grandchamp non voglio uscire
dall'esercito. Voglio servire, capite, servire, non essere un ozioso e un inutile, un
uomo ricco con uno stemma autentico sulle sue carrozze. Non voglio disfare, a
cagione di un ordine da trasmettere, e di cui non sono responsabile, tutto il lavorio
della mia gioventù, tornare ad essere un Emigrato all'interno, come tanti miei
parenti, tanti amici miei, come mio padre!...»
- «Non rinnegherete anche lui, spero?» supplicò ella. «Gli volevate tanto bene, lo
ammiravate tanto!...»
- «Gli voglio bene e io ammiro sempre,» rispose il giovanotto, con accento
profondo, «sì, lo ammiro. Nessuno più di me conosce le sue facoltà e ciò che egli
avrebbe potuto essere. Che soldato! Ne ha dato prova durante la guerra. Che
diplomatico! Che amministratore! Che consigliere di Stato! E invece non è nulla.
Nulla, nulla, nulla!... Tutto il dramma del mio pensiero è appunto l'evidenza delle
magnifiche doti di mio padre, paralizzate dal suo nome, unicamente dal suo nome.
Fin da quando ho potuto osservare, ho veduto che quell'uomo intelligente,
generoso, schietto, non fa uso alcuno di queste energie, non partecipa a nessuna
delle attività del suo tempo. Eppure esiste una Francia contemporanea. Egli vi è,
ma non ne fa parte. Essa non vuol saperne di lui, che non vuol saperne di lei. Ed
egli avrà passato la sua giovinezza, la sua età matura, la sua vecchiaia, a far che? A
figurare in una fastosa parodia dell'antico regime, fra i suoi ricevimenti a Parigi e a
Grandchamp, la caccia a cavallo e un vasto e inutile patronato di una clientela alta
e bassa che vive sul suo lusso e sulla sua generosità. Ho sentito troppo presto il
nulla di tutto ciò; egli non lo sentirà mai. Egli è giuoco di un miraggio. E’ vicinissimo
a un'epoca in cui la nobiltà era ancora un'aristocrazia. Il mio nonno aveva ventisei
anni, nel 1827, quando succedette alla dignità di pari del mio avolo, e questi, prima
dell' '89, era colonnello dei dragoni di Claviers. poiché vi furono dei dragoni di
Claviers-Grand­champ, come di Custine e di Jarnac, di Belzunce e di Lanan. Quel
tempo è lontano! Per mio padre, queste cose distrutte, abolite, son sempre realtà.
Gli pare di toccarle. Egli ne ha conosciuti i testimoni. Si è baloccato, bambino, sulle
ginocchia di vecchie signore che erano state alla corte di Versailles. Si direbbe che
questo passato lo affascini sempre più, ci mano a mano che si allontana. Per me,
esso è la morte, ed io ho voluto vivere. Perciò sono entrato nell'esercito. Del resto,
non avevo da scegliere. Tutte le altre vie erano chiuse al futuro marchese de
Claviers-Grandchamp. Ecco i privilegi di cui parlavate dianzi. Vi ho lasciato dire. Sì,
chiuse. Gli Affari esteri? chiusi. L'Impero, almeno, avrebbe accettato mio padre.
Oggi non ci vogliono più. Il Consiglio di Stato? chiuso. Gl'Interni? chiusi. Vi par
concepibile che un nobile diventi prefetto? Lo erano sotto Napoleone e sotto la
Restaurazione. Le professioni libere? chiuse. Se un nobile avesse magari il genio di
Trousseau, di un Berryer, di un Séguin, non lo si chiamerebbe neppure per curare
un raffreddore, dirimere una questione di confine, o costruire un cavalcavia. Il
commercio? chiuso. L'industria? chiusa, o quasi. Per riuscirvi, ci occorre, a noialtri,
una superiorità che io non mi son mai sentita. La politica? parimente come sopra. E
poi si rimprovera ai nobili di non abbracciare una carriera! Si dimentica che essi
sono esclusi da quasi tutte, e che le altre son rese loro dieci volte più difficili dalla
loro nascita. E non volete ch'io dica che siamo dei paria. Io, lo ripeto, non ho voluto
esserlo. Mi restava l'esercito. Ho studiato a Saint-Cyr, non senza lotte. Lì, almeno,
ho conosciuto la gioia di non esser messo da parte, di sentirmi un Francese come
gli altri, di non essere esiliato fuori del tempo in cui vivo, della mia generazione,
della mia patria; ho conosciuto la gioia dell'uniforme, del compagno al quale si sta
vicini, del capo obbedito, dell'inferiore comandato. Quest'uniforme non me la
strapperanno che con la vita. Perdendola, io perderei tutte le mie ragioni di
esistere... Tutte no, perché vi amo. Avevo voluto parlarvi oggi, per sapere se mi
sareste rimasta nella calamità che si prepara. Avrà le sue crudeltà!... Ora che
sapete quale crisi sto per attraversare» soggiunse, «mi risponderete ancora il no
che mi avete detto dianzi? Non ho fierezza, e torno a domandarvelo: volete esser
mia moglie? non più quella del conte de Claviers-Grandchamp, di cui temete il
padre e l'ambiente, ma d'un soldato di cui questo ambiente non vorrà più saperne,
e che suo padre respingerà. Se avrò presieduto a un inventario di chiesa, i miei
saranno diversamente sdegnati che per un matrimonio male assortito, come voi
dite, e come io non dico. Se sarete mia, la piaga sanguinerà purtroppo, ma avrò
voi. Voi e la mia carriera, la mia carriera e voi; v'è da attinger coraggio.»
- «Mi avete turbata troppo profondamente,» disse Valentina. «Non so più nulla...
Non vedo più chiaro in me. Vi ho sentito soffrir troppo. Dio mio, quando ho ricevuto
la vostra lettera, ho indovinato di che cosa volevate parlarmi; ma non ho indovinato
tutto. Avevo preso delle risoluzioni con me medesima, e mi credevo sicura di
mantenerle. Dinanzi al vostro dolore, non posso. Sentite, siate generoso, non
insistete più oltre: lasciatemi il tempo di riflettere. Dianzi vi dicevo che d'ora in poi
non potevo più ricevervi. Non ho fierezza neppur io, e ritiro quel che ho detto.
Giacché dovete ripassar da Parigi domani per tornare a Saint-Mihiel, tornate da me.
Avrò riflettuto. Sarò in grado di rispondere senza trovarmi sotto l'impressione di una
commozione che mi sconvolge. Ah! perché, durante i colloqui che da tre anni
abbiamo avuti insieme, non mi parlaste così apertamente su certe intimissime cose
vostre? Vi avrei aiutato...avrei tentato almeno...»
- «Questa è un'altra delle disgrazie del nobile,» rispose Landri. «V'è un soggetto
che non si può mai toccare per il primo, ed è appunto quello della nobiltà. Ma
calmatevi, vi prego, come io stesso mi calmo. Guardate: è bastato che non mi
abbiate ripetuto il «mai» di dianzi, per rendermi la padronanza di me stesso.
Domani sarò qui, e se non potrete ancora rispondermi, aspetterò. Vi ho veduta
compiangermi, comprendermi, e questa è una gioia che cancella molti dolori!...
Sono come volete ch'io sia? Vi ho parlato come desiderate?..».
- «Sì,» diss'ella, più commossa di quanto volesse ora lasciare scorgere da
quest'improvvisa dolcezza, da questo ritorno di affetto sottomesso dopo quegli
scatti di passione. «Ma» insinuò, «se foste veramente come voglio, accettereste un
mio consiglio.»
- «Quale?» domandò Landri con ansia.
- «Quello di confidarvi a vostro padre. Sì, di parlargli dei vostri proponimenti, - di
me, se credete, - ma prima, ad ogni costo, delle vostre apprensioni a proposito di
questi prossimi inventari. Ne avete l'obbligo verso lui,» insisté a cagione di un gesto
del giovanotto. «Non vi parlo della solidarietà che lega i membri di una famiglia, per
non tornare sulla questione del nome, quantunque borghesi e nobili siano uguali,
quando si tratta dell'onore comune. Voi ne avete l'obbligo verso lui, per rispetto al
suo gran cuore. Egli vi ama. Una decisione così contraria alle sue idee rischia di
cagionargli un gran dispiacere. Non deve saperla da un altro, ma da voi, e prima
che accada nulla, affinché egli ne conosca i motivi. Voi glieli direte, e, se anche li
biasima, non cesserà almeno di sapere che siete degno di stima. Lo so anch'io, io
che sono credente, ed a cui questa azione riuscirà tanto dolorosa, se l'eseguite.
Pregherò tanto perché Dio risparmi a vostro padre e a me questo dolore!... Ma, ve
lo ripeto, bisogna che parliate al signor de Claviers. E' necessario.»
- «Tenterò,» rispose il figlio i cui occhi esprimevano di nuovo un vero sgomento.
«Voi non lo conoscete, non sapete come impone, anche a me, anzi, specialmente a
me, che leggo tanto bene nell'animo suo. Ma avete ragione, e vi obbedirò...»
- «Grazie,» diss'ella alzandosi. «E ora, pensate a non disporlo male trascurando i
suoi desideri. Giacché vi ha voluto a Grandchamp per questa cacciata, dovete
andare, sarà bene anche per me, che ho bisogno di un po' di pace e di solitudine. E
poi, dovete pure far colazione, ed è mezzogiorno meno un quarto.» - L'orologio di
un convento vicino sonava tre colpi, il cui rimbombo si prolungava fino al salotto, al
di sopra degli alberi del giardino. Anche il piccolo orologio che era sul caminetto
aveva gettato tre note acute. - «Avete appena tempo.»
- «Con l'automobile sarò a Grandchamp in un'ora e mezzo, » egli rispose. - Ma
voglio continuare ad essere obbediente, tanto obbediente per quanto dianzi sono
stato ribelle.» Aveva preso la mano della giovane, e vi premeva le labbra,
soggiungendo: - «Dimenticavo che debbo fermarmi in via Solferino a prender
notizie di un amico del babbo che è malato grave. Ma farò presto.»
Valentina Olier aveva ritirato le dita con un movimento così nervoso, che Landri non
aveva potuto fare a meno di domandarle:
- «Che avete?..»
- «Nulla,» diss'ella. In via Solferino?... Dunque è il signor Jaubourg, quest'amico
malato? Ed ora vi recate dal signor Jaubourg?.. »!
- «Sì. Come sapete il suo nome?... » E, rispondendo alla sua propria domanda: «E' vero,» soggiunse, sono andato spesso da lui uscendo da casa vostra. Ve ne ho
parlato, e abbastanza male. Ora me ne dispiace. Egli non mi ha mai dimostrato
molta simpatia, e quando volli entrare a Saint-Cyr, contribuì a metter su mio padre
contro me. Gliene serbai rancore. Ma è passato tanto tempo, e alla fine egli è
frammisto a tanti ricordi della mia infanzia! La notizia della sua malattia mi ha
sconvolto. Secondo il telegramma di mio padre, che ho trovato a casa e che mi
diceva di passare da lui, egli è moribondo.»
- «E' moribondo?» essa ripeté. Dio mio! Spero che non vi faranno entrare. Nello
stato di sensibilità sofferente in cui siete, questa visita sarà troppo penosa ed è
inutile. Mi promettete che non cercherete di vederlo?»
- «Cara, cara amica!» disse Landri, dando un altro bacio sulla mano contratta di
Valentina, vi ripeto che non sapete quanta calma mi avete resa, né qual coraggio
avrei in questo momento per sopportar qualunque ambascia. E questa visita non
sarebbe un'ambascia. Ma farò in modo di contentarvi, anche in un'occasione che mi
è indifferente. Non vi ho merito alcuno. Preferisco che niuna immagine troppo
penosa venga a frapporsi con quello che ho qui» e additò il cuore - e il mio
ritorno... domani. Com'è lontano, pur essendo così vicino!»
- «A domani dunque!» essa rispose, con un sorriso, che Landri non indovinò come
fosse forzato... Venite alle due. E ora, addio...»
- «Addio!» diss'egli, avvicinandosi istintivamente. Nei suoi occhi brillò un lampo di
passione tosto repressa dagli occhi di lei. Egli ripeté: «Addio,» con un accento
soffocato dallo sforzo che faceva per dominarsi, per non cedere all'ardente brama
di coprir di carezze quella chioma bionda, quella fronte pura, quella bocca
fremente, e si slanciò fuori del salotto. Essa ascoltò il passo del giovane che
attraversava la stanza attigua e il vestibolo, poi il rumore dell'uscio di casa che si
apriva e si richiudeva. Landri era uscito, e certo era già lontano, mentr'ella, rimasta
al medesimo posto e nel medesimo atteggiamento, guardava fissamente nel
proprio pensiero. Quello che vi vedeva, non era la figura elegante e marziale del
giovanotto che essa amava, che l'amava, e del quale sapeva ora che sarebbe la
moglie. No, ella si rivedeva a Saint-Mihiel, molto tempo addietro. Le pareva di
rivivere quell'ora: Landri era giunto al reggimento. Valentina aveva un'amica, una
certa signora Privat, moglie di un ufficiale della guarnigione. Più volte le era
sembrato che colei dimostrasse al nuovo venuto una freddezza singolare.
Spensieratamente, le aveva domandato, - udiva ancora la sua voce far questa
domanda: - «Pare che il signor de Claviers-Grandchamp vi sia antipatico.
Perché?..» E udiva Margherita Privat risponderle:
- «Lo confesso, ma ciò deriva da cose molto vecchie. Noi avevamo un cugino
lontano, un certo signor Carlo Jaubourg, che frequentavamo molto. Dico
frequentavamo molto, ma dovrei invece dire che i miei genitori frequentavano
molto. Essi accarezzavano l'idea di fargli sposare una delle mie zie. Ad un tratto la
relazione si raffreddò, e il matrimonio non avvenne. Questo raffreddamento
cominciò dal giorno in cui egli fece amicizia coi Claviers. Pare che egli abbia avuto,
o almeno i miei genitori lo hanno supposto, una passione per la signora de Claviers;
hanno perfino creduto che vi sia stata una relazione amorosa. Nelle famiglie si
sanno molte cose che il pubblico non arriva a capire. Il nostro cugino ci ha sfuggiti.
I miei parenti non hanno cercato un ravvicinamento che poteva parere interessato.
Il signor Jaubourg è figliuolo di un agente di cambio, e ricchissimo. Mio padre si è
afflItto molto per questa rottura, che è stata la cagione di un cattivo matrimonio
contratto da mia zia per dispetto. Io ho sempre serbato rancore a questa signora
de Claviers, forse ingiustamente, e la vista di suo figlio rievoca questi penosi
ricordi.»
Era passato molto tempo, ma la signora Olier ritrovava in sé quel senso di mestizia
che aveva provato nell'udire i discorsi della signora Privat. Quanto doveva amare
già Landri, senza saperlo! La veracità di questa confidenza era garantita dal
carattere di colei che la faceva e dal caso che la provocava. Ma tuttavia meritava un
forse. Perciò la signora Olier non ci aveva creduto completamente. Nondimeno ne
aveva serbato un dubbio incancellabile. Quante volte si era domandata se la madre
del giovanotto avesse davvero commesso uno sbaglio, e se egli fosse mai esposto a
saperlo! Essa aveva sussultato lievemente ogni volta che, da allora, Landri aveva
pronunziato, durante i loro colloqui, il nome di Jaubourg; e, tutta scossa com'era,
queste impressioni molteplici e confuse si erano svegliate ad un tratto quando il
giovane aveva annunziato la sua visita in via Solferino. Le era sembrato di vederlo
al capezzale di un malato che, nella sua agonia, si lascerebbe forse sfuggire un
segreto terribile. Il suo sgomento era stato tale, che gli aveva tenuto dietro una
preghiera molto imprudente, se effettivamente le relazioni di Jaubourg e della
defunta marchesa de Claviers-Grandchamp fossero state colpevoli!
- «Sono pazza!» concluse col dire a sé stessa, strappandosi a quella specie di
sogno a occhi aperti che le aveva rappresentato con dei particolari di allucinazione
la breve scena: il suo appartamento a Saint-Mihiel, il volto della signora Privat, la
voce e le parole di lei. Se il signor Jaubourg fosse stato l'amante della signora de
Claviers, non sarebbe rimasto, dopo la sua morte, l'amico del signor de Claviers.
Speriamo che il mio gesto e il mio grido non abbiano svegliato nessun sospetto in
Landri! Non me lo perdonerei mai... No. Egli è tanto leale, tanto retto. Ha un cuore
troppo nobile, per supporre negli altri il male che a lui farebbe orrore di
commettere. Speriamo che parli a suo padre di queste possibilità d'una requisizione
contro una chiesa. Me lo ha promesso, dunque gli parlerà. Suo padre gl'impedirà di
effettuare questa orribile idea. Io, non posso. Lo amo troppo. Mio Dio, come l'amo,
come l'amo!... Mi sono tanto schermita... Ora sento che sono tutta sua!...»
E siccome in quel momento alcune risa attraverso la parete le annunziavano il
ritorno del piccolo Lodovico, la madre aprì l'uscio per chiamare il suo figlioletto, e,
stringendoselo al cuore, lo baciò con effusione per provare a sé stessa che
quell'amore, al quale finalmente stava per abbandonarsi accettando di diventare la
moglie di un secondo marito, non prendeva nulla al figliuolo del primo, e gli diceva:
- «Lo sai che la mamma vuol tanto bene anche a te, lo sai? Dimmi che lo sai...»
II. UN SIGNORE.
La signora Olier non s'ingannava: quel piccolo gesto fatto senza pensarvi, come di
mano stesa per impedire una caduta, doveva essere un segno che poi avrebbe
confermato in Landri una dolorosa idea. Quell'anima di giovanotto, ­ Valentina non
aveva sbagliato neppur su questo, - era troppo generosa per non rifuggire
istintivamente dalla sfiducia, questa calunnia del pensiero. Come avrebbe potuto
fare eccezione per sua madre? Egli non aveva mai incriminato, neppure un
secondo, né supposto che si potesse incriminare in simile senso l'assiduità di un
amico di casa sua. Le lacrime che aveva versate per la morte della signora de
Claviers­Grandchamp erano state affettuose, sincere lacrime di figlio la cui
venerazione non ha limite. Perciò, mentr'egli tornava da via di Monsieur a piazza
Saint-François per riprendervi l'automobile, nessun sospetto sorgeva in lui.
L'imprudente preghiera rivoltagli dall'amica di non vedere il malato di via Solferino,
altro non era che la prova di una tenerezza ansiosa, di cui egli si sentiva
commosso.
- «Come l'amo!» ripeteva, facendo eco, e intuendolo, al sospiro appassionato che
ella, dal canto suo, gli mandava. «Anch'ella mi ama. Si dibatte ancora, ma l'ho
compreso, l'ho veduto, lo so... So che sarà mia moglie». E ripeté: «Mia moglie!»
con un fremito intimo di tutto il suo essere che gli fece chiudere gli occhi.
L'immagine di Valentina fece subito sorgere dinanzi. al suo spirito quella di suo
padre, e il ricordo dell'impegno testè preso spezzò subito quello slancio di gioia:
«Essa ha ragione», disse tra sé senza ambagi, riprendendo mentalmente i
medesimi termini di cui ella si era servita, «io debbo parlargli di lei e del resto. Ho
l'obbligo di farlo, per rispetto al suo gran cuore. Lo farò». La sola idea di questa
spiegazione inflisse al giovanotto un'angoscia di timidezza. Egli ne aveva sempre
sofferto in presenza di quell'uomo di cui portava il nome, di cui era l'erede, al quale
voleva bene, dal quale era corrisposto, e mai aveva potuto aprirsi a lui
completamente, spiegarsi circa i suoi più reconditi pensieri. La sua personalità,
molto virile nelle decisioni profonde, ma sensibilissima, e per conseguenza
facilmente sconvolta nelle sue affermazioni esteriori, era sempre stata come
meravigliata di quella del marchese, così intera, così dominatrice, così indiscutibile.
La sua resistenza a questo dispotismo morale non era completamente cosciente.
Era quella, tuttavia, che lo infervorava nel suo costante sforzo per non essere un
«emigrato», com'egli diceva, per rendersi utile, per appartenere al tempo in cui
viveva; «servire» era una delle sue parole favorite. Bisogna ripeterlo, perché è
vero. Molti giovanotti della sua condizione hanno provato, come lui, questo
magnanimo e saggio appetito di un'azione efficace e benefica. Molti hanno, come
lui, tentato di reagire contro l'ostracismo che la Francia derivata dalla Rivoluzione
esercita, coi suoi costumi come con le sue leggi, contro le famiglie antiche. Essi,
come lui; hanno inciampato in mille difficoltà. Di rado, però, le hanno prese al
tragico come lui. Questa veduta eccessiva e morbosa del suo destino svelava in
Landri uno squilibrio, una mancanza di certezza. Infatti, se da certi lati egli pensava
assolutamente al rovescio di suo padre, da certi altri subiva un vero ipnotismo di
quella forte individualità, ed era vicinissimo a dubitare di sé stesso dinanzi ad una
intransigenza che egli non aveva osato di affrontare veramente se non una sola
volta, quando si era trattato di Saint-Cyr. Il suo spirito si era sviluppato con letture,
osservazioni, riflessioni solitarie, tenute sempre in bilico dalla parola calda,
dall'intelligenza imperiosa, dalle convinzioni salde e logiche, dal carattere, insomma,
del marchese. Anche Landri aveva carattere, ma a scatti, e quando si era dato
ponderate ragioni. Suo padre, invece, ne aveva sempre, e allegramente,
spigliatamente, come camminava, come respirava, per uno svolgimento della sua
energia interiore, se si può dire, che era inerente a lui come la muscolatura a un
leone. La reverenza di Landri per quella tempra opulenta e potente rimaneva tanto
sovrana sul suo temperamento, più raffinato forse, ma più debole, che egli era
stato sul punto di esimersi, quando Valentina gli aveva chiesto quella promessa.
Nondimeno l'aveva fatta. Il suo orgoglio d'innamorato avrebbe sofferto troppo a
confessare una debolezza che ora tornava a sentire.
- «Sì», ripeteva fra sé, «debbo parlargli, - in qual modo?... Di Lei? Sarà una cosa
molto penosa; ma basta che egli la veda, vincerò la causa. Ella è così fine, così
bella, così Signora!... Degli inventari? Non è possibile. Ella mi ha compreso subito,
benché religiosa com'è. La loro religione, però, non è la medesima. Per lei, la
Chiesa è la fede. Coloro che non l'hanno son da compiangere. Per mio padre la
Chiesa è come la monarchia, come la nobiltà, l'assolutismo dell'ordine. È la
gerarchia che garantisce le altre. Che rispondergli? Penserei come lui, se il nostro
tempo non fosse il nostro tempo.» Così parlando fra sé e sé scantonava di fianco a
Saint-François-Xavier, nel punto dove aveva lasciato l'automobile. Il suo meccanico,
non vedendolo tornare, aveva affidato la vettura alla sorveglianza d'uno dei
numerosi fannulloni che trasformano quella piazza fuor di mano in un circolo di
ciclisti e di giocatori di palla, ed era andato a rifocillarsi da un vinaio vicino.
«Buono!» disse il giovane, di malumore, «Augusto non c'è!... Non arriverò davvero
a Grandchamp! Non farò colazione, ecco,» concluse. «Ma come va la macchina?» E
mentre il ragazzetto lasciato a guardia del veicolo correva a chiamare il poco
scrupoloso chauffeur, egli si diè a esaminare la vettura minuziosamente, con occhi
di conoscitore. Anche quello era stato uno dei piccoli punti in cui aveva messo il suo
amor proprio di uomo proclive al moderno. Egli s'intendeva delle riparazioni e delle
manovre della sua automobile quanto un professionista. «Tutto è in ordine,» disse.
«Guiderò da me; andremo più presto e non mi irriterò i nervi a pensare.» Cominciò
dunque a mettersi il mantello, il berretto, gli occhiali, i guanti adatti, e non appena
Augusto lo ebbe raggiunto egli lanciò la sua pesante macchina con tanta abilità
come se non avesse portato quel nome di Landri, - che indicava nella famiglia de
Claviers­Grandchamp una pretesa, più o meno giustificata, - ma che risale al
dodicesimo secolo, di discendere dai re della prima stirpe. E la carrozza di ultimo
modello aveva sugli sportelli lo stemma singolare che, col motto: E tenebris
inclarescent, esprime questa favolosa origine: tre rospi d'oro in campo di sabbia.
Furono queste, secondo certi araldici, le armi dei primi re della Francia. Géliot se ne
indignava già nella sua Vera e perfetta scienza degli stemmi gentilizi. (1) Egli non ci
vedeva che tre fiori di gigli eseguiti rozzamente. C'era da star freschi a sostenere
questa tesi davanti al collerico marchese! «E dire,» pensava l'erede dello
pseudo­Merovingio, «che ci son voluti degli anni per fare accettare a mio padre la
sola idea dell'automobile! Ma finalmente ne ho avuta una, e di buona fabbrica.
Arriverò prima della fine della caccia.» Per una fanciullaggine che tutti i giovani
comprenderanno, invece di filar diritto per il boulevard, l'Esplanade, poi il lungo
Senna, aveva preso la via di Babilonia, per incrociare via di Monsieur. Voleva
rivedere ancora una volta la palazzina del tempo di Luigi XVI. Valentina gli tornò
tanto presente, che si era di nuovo assorbito in questa visione interna quando
arrivò dinanzi alla casa dove abitava Jaubourg. Anche i più teneri innamorati: anzi,
specialmente i più teneri, sono di una insensibilità quasi feroce per quello che non
concerne né da vicino né da lontano l'oggetto della loro passione. Questi non ebbe
bisogno di ricordarsi la promessa per non cercar di vedere il malato.
- «Dal portinaio vi sarà il bollettino medico,» disse ad Augusto; «scendete,
copiatelo, iscrivetemi, e tornate subito, perché non abbiamo tempo da perdere.»
Lo chauffeur saltò dal sedile con la precipitazione di un servitore che vuol farsi
perdonare una mancanza. S'ingolfò come una folata di vento dietro il battente
dell'enorme portone che dava un aspetto signorile alla dimora dell'uomo senza
titoli, ma tanto inappuntabile nella sua eleganza, che era stato Carlo Jaubourg.
perché il suo home avesse potuto soltanto pronunziarsi a proposito della signora de
Claviers-Grandchamp, bisognava che lui - il quale veniva da un ambiente così
diverso - avesse saputo farsi nell'alto ceto un posto veramente eccezionale. Dietro
a quelle alte finestre non rimaneva, dell'uomo sommamente raffinato, del gran
borghese divenuto, a forza di spigliatezza, di bel contegno, e poi di spirito, un
membro notevole del mondo signorile, che un misero straccio, un vecchio ridotto
all'agonia da una polmonite. La paglia che copriva il selciato per attenuare il rumore
delle carrozze attestava la gravità di uno stato di cui Landri ebbe una prova più
decisiva. Il suo messaggero ricomparve con un foglio in mano sul quale era scritto
questo laconico e sinistro rapporto: Notte agitatissima. Stato stazionario. Professar Louvet. Dottor Pietro Chaffin. L'ufficiale lesse queste parole sottovoce, e
con un'indifferenza che, nel suo genere, era di un'ironia incosciente quanto crudele,
piegò il foglio e se lo mise in tasca, dicendo: «Va bene. Andiamo!»
- «Il portiere mi ha detto di avvertire il signor conte,» interloquì lo chauffeur «che il
signor Jaubourg aveva raccomandato in modo speciale di far salire il signor conte,
se fosse venuto...»
- «Io?» esclamò il giovanotto con una meraviglia e una noia non dissimulate. Un
lampo di esitazione gli passò negli occhi e fece l'atto di scendere. «No, via... non ne
ho proprio il tempo!...» E con questa parola di un' ironia peggiore, lanciò di nuovo
l'automobile. Il veicolo aveva già passato la Senna, preso la via delle Tuileries,
fiancheggiato la mole dell'Opéra, quella della stazione del Nord, passato la barriera,
passato Saint-Denis, entrava nella strada della foresta di Hez al di là della quale si
trova il castello di Grandchamp, senza che la mente del figliuolo della signora de
Claviers avesse neppur cominciato a intravedere dietro a questo secondo piccolo
segno il mistero che poche ore dopo avrebbe sconvolto il suo destino: «Jaubourg
vicino a morire desidera di vedermi? perché mai, dopo che mi ha dimostrato tanta
antipatia durante tutta la sua vita?.. E semplice: mio padre gli aveva annunziato la
mia visita. Dovevo salire. Ma che avrei di più da portare a Grandchamp che questo
bollettino?... E poi, c'è Pietro Chaffin. Sarà stato mandato lì da mio padre, e lo tiene
informato.» Quel Pietro Chaffin era figliuolo dell'antico precettore di Landri,
diventato, sotto il titolo più elegante di segretario, l'uomo di affari e l'intendente del
marchese. Cotesto giovanotto, che si era distinto durante il corso dei suoi studi, si
trovava a capo della clinica di Louvet, medico curante dei Claviers­Grandchamp.
«D'altra parte» proseguiva l'innamorato «io avevo promesso,» - e la sua bocca, che
si apriva per respirar l'aria fresca della celerità, si chiuse come per mandare
attraverso lo spazio un ultimo bacio di addio sulle mani scottanti dell'amica sua.
Questo ricordo gli fece correre nelle vene un'onda di sangue più caldo, e
l'automobile volò, più veloce, attraverso la fuga delle case coi camini che
fumavano, delle coltivazioni autunnali, dei paesaggi vaporosi, di tutto
quell'orizzonte che, di solito, suscitava in Landri più riflessioni che commozioni.
Quante volte, andando a Grandchamp, aveva osservato quel moltiplicarsi
d'innumerevoli poderetti che frastagliano il suolo, isolano i castelli, li accerchiano,
stanno per conquistarli! Simbolo dell'ascesa delle classi dal basso. Oggi egli non vi
vedeva più che lo spazio da divorare, al termine del quale si troverebbe di faccia a
suo padre ed alla sua promessa. Aveva voluto guidare per non pensarvi più, e a
suo dispetto faceva e disfaceva con la mente il piano di quel colloquio, mentre
procedeva, lasciando dietro a sé Saint-Denis e la sua basilica, Groslay ed i suoi tetti
muscosi, le foreste d'Isle­Adam e le sue bianche cave, Beaumont e la lunga linea
turchina dell'Oise, il grazioso gruppo del Cahet, il bosco di Saint-Vaast, Cireslès­Mello con le sue filande, Balagny e il placido Thérain, Mouy e i suoi comignoli
grigiastri.
- «E’ il tocco e trentatré,» disse lo chauffeur guardando l'orologio, quando in fondo
alla strada si disegnarono le prime case di Thury e le basse querce della foresta di
Hez. Questo si chiama filare! Il signor conte non aveva mai guidato così bene...»
- «Ora non ci manca che di trovar la caccia», rispose Landri. Davvero questa corsa
non è andata male. Adesso prendete voi il volante, Augusto, per favore. Io, intanto,
frugherò i viali col cannocchiale. Andiamo verso La Neuville, e pian piano, per
distinguere tutti i rumori».
Anche la foresta, sulla cui sabbia scorrevano, narrava ora, al pari della campagna,
lo spartimento della vecchia Francia. Per l'addietro, essa giungeva fino ai boschi di
Compiègne, a quelli di Carnelle, e la sua totalità formava, tra la Senna e l'Oise, un
dominio immenso e ricco di cacciagione, del quale ora non rimangono che
appezzamenti. L'appezzamento di cui si tratta occupa un altipiano poco popolato,
che l'automobile percorreva a piccolissima velocità. Ogni tanto la fermavano, per
chiedere un ragguaglio a un passante, per scrutare col cannocchiale le insenature
delle macchie, per ascoltar più che altro gli squilli di tromba. Landri aveva creduto a
più riprese di riconoscere qualche segnale. A un tratto appoggiò la mano sul braccio
dello chauffeur. Una fanfara gli giungeva distintamente all'orecchio.
- «Ma questo è un segnale di riunione!» esclamò. «Così presto?... Sì... E non è
lontano... A sinistra, con un po' di celerità... Ci siamo. Vedo i cacciatori. Fermiamoci
un istante, ch'io guardi. Che bel colpo d'occhio!...»
Una brusca svolta aveva scoperto una depressione di terreno. All'estremità dèlla
strada si apriva: largamente una delle poche radure di quella foresta tanto fitta. Sul
fondo di carpini e di faggi, che univano le loro chiome rogge all'oro pallido delle
betulle e al verde cupo degli abeti, si svolgeva la scena finale di quella troppo breve
giornata. Alcune, carrozze tirate da due cavalli giungevano al crocicchio, ed anche
alcune automobili. Si schieravano in fila sopra una strada. Nel centro faceva circolo
la folla già numerosa composta di campagnoli venuti per assistere alla cuccagna, di
invitati che avevano seguito la caccia in carrozza, e di cacciatori il cui costume dei
colori dell'equipaggio – color tabacco di Spagna con risvolte turchine - ravvivano
con una nota gaia quel quadrettino, delizioso e pittoresco quanto mai. Qui, uomini
di scuderia provvedevano di coperte i cavalli riscaldati dall'ardore della corsa. Più
lungi alcuni servitori recavano panieri pieni di provviste per il lunch. La soave luce
autunnale gettava caldi bagliori su quei gruppi sui quali correvano suoni di tromba
mescolati all'abbaiare dei cani impazienti, e ogni suono, con le sue varie note,
spiegava a Landri i movimenti che si producevano in quella folla e che egli si
divertiva a seguire col cannocchiale. Le trombe sonavano annunziando che il cervo
era atterrato; i cani erano stati portati lontani dall'animale; il primo battitore
tagliava il piede destro anteriore e lo consegnava al capocaccia. Le trombe, intanto,
sonavano gli onori del piede. Il capo caccia presentava il piede ad una delle signore
i cui tricorni si distinguevano bene accanto ai tocchi di velluto degli uomini. Le
trombe sonavano di nuovo a raccolta. L'abbaiare dei cani raddoppiava. Dal suo
posto di osservazione Landri distingueva benissimo i particolari della cuccagna: il
valletto dei cani, in piedi, e come a cavallo sul cervo, ne dondolava la testa, per le
corna, dinanzi alle bocche ululanti, tenute a distanza dalla frusta alzata del
battitore. Un'altra fanfara! La frusta si era abbassata. I cani si erano slanciati sulla
massa sanguinolenta di cui già non rimaneva più niente.
Nella prima fila degli spettatori di quest'antica e selvaggia cerimonia, il giovanotto
aveva subito riconosciuto la bella figura del padre. Nella sua acconciatura di
capocaccia, completata, secondo la moda antica, da un tricorno rialzato da un
bottone di ottone, il marchese de Claviers-Grandchamp giustificava subito, soltanto
col suo aspetto, quel soprannome di «emigrato» che il figliuolo gli dava molto
volentieri. Il marchese evocava, invincibilmente, l'immagine d'uno di quei cacciatori
che ci vengono rappresentati dalle gustose pitture dello scalone di Fontainebleau,
oppure da quel grazioso quadro di Versailles che rappresenta una delle cacce del
principe de Conti, intorno al castello d'Isle-Adam. Il marchese era un uomo di
sessantacinque anni, la cui robusta vecchiaia faceva vergogna alle sfinite maturità
di oggigiorno. Era di alta statura, diritto, e si manteneva svelto, quantunque fosse
gagliardo, con un bel volto, un bel colorito, cui davano risalto i capelli bianchi. Il
naso lungo, fine e arcuato, un po' troppo vicino alla bocca sensuale e spiritosa,
dava al suo profilo una vaga somiglianza con quello di Francesco I. Egli lo sapeva, e
sottolineava questa analogia col taglio della barba tutta bianca, come i capelli. La
sua fisionomia non aveva bisogno di questo artificio, perché gl'ignoranti dicessero
di lui a tutta prima: «E’ un ritratto che cammina.» Tutto in lui provava la stirpe, la
lunga durata di una famiglia in un allevamento continuo d'inerzia, di opulenza e di
dominio. Il suo essere era improntato di bontà, e tuttavia ne emanava
un'inesprimibile atmosfera di dignità, quella baldanza dell'uomo che ha sempre
occupato il suo grado, come l'occuparono tutti i suoi antenati. In quel momento, i
suoi occhi turchini, di un turchino profondo e penetrante, esprimevano, come il suo
fiero volto, la più completa e la più cordiale soddisfazione. Rideva allegramente,
scoprendo i larghi denti chiari e perfetti. Aveva accanto a sé due uomini del suo
grado, che Landri conosceva benissimo, un certo signor de Bressieux e un tale de
Charlus. Questi, piccolissimo, quasi gracile, sembrava uno sgorbio accanto al
magnifico capocaccia. Anche i suoi lineamenti molto fini denotavano la nobile
stirpe, ma strozzata, consunta. De Charlus aveva appena cinquantacinque anni, e
sembrava invece il più vecchio dei tre. Bressieux, più giovane, aveva un migliore
aspetto, ma alcun che di avvilito degradava la sua fisonomia, e il suo freddo
orgoglio contrastava non meno stranamente con i modi larghi e semplici del
marchese. Landri poteva, a sì poca distanza, discernere quel gruppo con una
esattezza quasi fotografica, e provava, una volta di più, quel sentimento di cui
aveva parlato alla signora Olier: un'ammirazione affettuosa per suo padre. Il signor
de Claviers-Grandchamp era davvero sotto tutti i rapporti il tipo animalescamente e
moralmente superiore dell'aristocratico, di quello migliore. Egli era tagliato nella più
ampia, nella più ricca stoffa umana. Quale differenza tra il suo generoso, il suo
magnifico modo di tenere il proprio grado, e il tentennio di Charlus circa i diritti di
precedenza! Era questa l'unica, e meschina occupazione di quell'uomo, delicato e
retto, ma ipnotizzato sulle meschinerie della sua nobiltà tuttavia autentica. Qual
differenza altresì tra la geniale spontaneità del signor de Claviers, e la scaltrezza da
cavalier d'industria che Bressieux spiegava, sotto la sua aria impertinente, per
continuare una vita elegante con espedienti equivoci! Nato da nobile famiglia,
imparentato con la nobiltà, dotato di discernimento, di istruzione, di tatto, molto
esperto, egli serviva d'intermediario tra le persone del suo grado, i cui affari non
andavano bene, e i negozianti di antichità o i ricchi amatori. A quali condizioni?
Nessuno aveva mai pensato di domandarlo a questo individuo col viso di giocatore
e di duellante, rovinato dalle carte e dalle donne, ma che aveva serbato, del suo
nome, il contegno più irreprensibile e il più virile coraggio. In Charlus e in Bressieux
la loro casta finiva. Nel marchese, la casta poteva essere disutile, ma era intatta. Il
suo figliuolo lo vedeva così gran signore di modi, fin nel momento in cui al
pittoresco spettacolo di poc'anzi seguiva la più borghese occupazione: una
colazione fredda mangiata sull'erba! Ora egli andava dall'uno all'altro degli invitati,
di carrozza in carrozza, seguito dai camerieri che portavano i panieri aperti, aiutato
in quella ospitale faccenda da una ragazza vestita da amazzone che aveva seguito
la caccia a cavallo senza essere fra le cacciatrici. Landri riconobbe una delle sue
ballerine nelle poche feste da ballo dov'era andato nei due ultimi inverni.
- «E' la piccola Maria de Charlus;» disse fra i denti, «non è diventata bella, no!...» E
ad alta voce, al meccanico: - «Voglio internarmi, andiamo. Mi son guadagnato la
colazione.»
La limousine cominciò a scendere il pendio mentre il giovanotto si levava i guanti, il
berretto, la maschera e il mantello di cui si era camuffato. Se il signor de Claviers
era arrivato al punto di ammettere l'esistenza dell'automobile, rimaneva tuttavia
ferocemente ostile agli orribili accessori necessari a quel mezzo di locomozione.
Quella precauzione puerile contro il possibile malumore paterno in ogni altra
circostanza avrebbe fatto sorridere Landri stesso. Ma la vista della signorina de
Charlus aveva a un tratto ravvivato le sue preoccupazioni, un po' calmate,
nonostante tutto, dalla stanchezza e dalla distrazione del viaggio. Egli intravedeva
una nuova ragione di risparmiare le minime suscettibilità del marchese. La figliuola
del gentiluomo maniaco non meritava affatto la bottata di disprezzo con cui Landri
l'aveva salutata. Maria de Charlus non aveva certo i lineamenti regolari: bocca
troppo grande, naso troppo corto, fronte troppo sporgente; ma i suoi occhi
salvavano tutto col loro spirito; e, se non era bella, aveva il fascino della donna
«carina» che tanti uomini preferiscono alla bella. Piuttosto piccola, come suo padre,
ma fatta benissimo, ballava e montava a cavallo con una grazia ardita e al tempo
stesso virginea, ed aveva anch'ella, nella sua fisionomia originale, quell'aria di
«ritratto» che si trova frequentemente nelle classi privilegiate. I più refrattari alla
tesi dell'eredità debbono dire, loro malgrado, dinanzi a questo fatto, la parola
volgarizzata, indefinita e indefinibile, e tuttavia così esatta, di atavismo. Landri era,
più d'ogni altro, capace di afferrare il carattere interessante di quel volto di ragazza,
molto simile ad una di quelle figure del diciottesimo secolo di cui La Tour ha notato
le espressioni intelligenti; - ma egli era innamorato di un'altra donna, era andato a
Grandchamp con l'idea di disarmare l'ostilità di suo padre contro un matrimonio
vivamente bramato, e già più d'una volta alcune persone gli avevano fatto allusione
a Maria de Charlus in tono assai singolare. La presenza di lei a quella caccia, dopo
che il signor de Claviers aveva insistito tanto perché egli vi andasse, non aveva
forse rapporto con quegl'indizi? Il fatto sta che ella scorse il giovanotto per la
prima, avanti ancora che la carrozza si fosse fermata. Un lieve rossore le salì alle
guance. Ella disse una parola al marchese, che si voltò e vide suo figlio uscire dalla
pesante carrozza. Al gesto che gli fece con la mano, Landri sentì, come il solito, un
caldo al cuore. Era forse la più strana sfumatura di quelle strane relazioni: il figlio
non aveva mai avvicinato il padre senza uno slancio di entusiasmo e di affetto; e,
subito dopo, si ripiegava, si ritirava. Landri aveva letteralmente in sé due anime:
l'una che si esaltava al contatto di quella potente vitalità, l'altra che ne era come
sgomenta e scombussolata. Ma questa volta il secondo impulso non si produsse
così presto. Il giovanotto provò nella sua ansietà una sorpresa troppo soave
osservando che in quell'accoglienza non v'era traccia di rimprovero, benché egli
arrivasse a caccia finita, dopo aver ricevuto un vero predicozzo perché fosse
puntuale. Egli aveva passato la linea delle carrozze e quella delle persone che
mangiavano in piedi, distribuendo strette di mano e scappellate. La prima parola
del signor de Claviers fu per dirgli, con una di quelle risate sonore che risonavano
sincere, ­ quel vecchio signore non sarebbe stato l'uomo ammirabile e cavalleresco
che era se la sua franchezza non fosse stata assoluta, nelle più piccole circostanze
come nelle più grandi:
- «Ebbene, Landri, non mi loderai più la comodità dell'automobile! Il tuo treno
arrivava a Parigi verso le nove. Sono le due!... Ah, il cavallo, il cavallo!... I quattro
buoni postiglioni che facevano strada e non si fermavano!... Insomma, ci sei.
Peccato, hai perduto una bella caccia! È stata più divertente di quello che ci si
figurava. L'assalto è stato vivace. Ma Tonnerre sente stupendamente i ritorni. Non
ha lasciato i cani cadere in fallo. La fatica è stata poca. L'inseguito si è mantenuto
quasi sempre in vista. L'animale è rimasto soffocato dalla celerità, ed abbiamo finito
col raggiungerlo dopo un chilometro. Ecco quello che ti ha fatto perdere la tua
macchina da ritardi.»
- «Gli farò mutare opinione sull'automobile, signor de Claviers,» disse allegramente
la signorina de Charlus rivolgendosi a Landri; ne assumo l'impegno. Al prossimo
circuito lo conduco con me, e andremo come il vento. Vedrà così che è un
divertimento pari alla caccia. Ho giurato di ridurlo up to date.» Essa guardava il
nuovo arrivato con uno sguardo nel quale si leggeva il desiderio di piacere, mentre
citava quest'intraducibile americanismo, che significa «secondo il tempo che corre»
il quale avrebbe potuto essere il suo motto. Poiché Maria aveva questo tratto
comune a talune donne della sua condizione, che proviene loro da una reazione
contro l'immobilità del loro ambiente: non voler ritardare. Se Landri era proclive alla
modernità, essa si piccava di essere ultra-moderna. «Non col treno, col lampo,» si
compiaceva di dire, «con tutti i treni lampo,» la qual cosa non impediva che in
fondo in fondo ella pensasse precisamente come suo padre e come il marchese.
Per una divergenza inattesa, Maria non piaceva al giovanotto e piaceva
all'Emigrato! Questi indovinava sotto i suoi atteggiamenti l'irriducibile «non si
decade mai quando ci si chiama come noi» degli aristocratici puro sangue; e poi,
ella amava suo figlio, il marchese lo sapeva. Landri, invece, rimproverava alla
ragazza quell'aria di sfida, quella esagerazione che era come la caricatura delle sue
proprie idee. E più che altro, Landri intuiva che essa lo amava; ed egli amava
Valentina! Non rispose né allo sguardo, né al discorso di lei, e disse al marchese:
- «Non ho avuto ritardi per la strada, padre mio. Mi sono indugiato a Parigi un po'
più di quanto credevo.»
- «Sei andato da Jaubourg?» domandò il signor de Claviers. «Lo hai veduto?...»
- «Non l'ho veduto,» rispose Landri. Neppur lui sapeva mentire: arrossì, e
soggiunse impacciato: Sta male!... Vi ho portato il bollettino.»
- «Dammelo», disse vivamente il signor de Claviers. E lesse ad alta voce la
minacciosa riga:
- «Pietro Chaffin?...» ripeté. «Son contento che vi sia il figliuolo di Chaffin. Ve lo
avrà mandato suo padre, per riguardo a me, poiché sa quanto bene io voglio a
Jaubourg. Quel bravo Chaffin!... Povero Jaubourg! Pranzai con lui, al Circolo, l'altro
mercoledì. Non è ancora una settimana. Accusava una puntura, un mal di testa, e
gli dissi: «Avete preso del fresco. Non ci badate, non è nulla... Era la polmonite che
si annunziava, e forse egli morrà!...»
- «Vi sarà una bell'asta,» disse Bressieux, il quale soleva parlare con la punta dei
denti, come se morsicasse le parole: «So che ha due Fragonard della prima
maniera... quelli che erano del povero duca de Fleury, vi ricordate, Goffredo?» Quest'altro nome merovingio dei Claviers era portato dal marchese; ma poche
persone avevano il privilegio di darglielo, e Bressieux se lo prendeva. - «Egli sapeva
comprare,» concluse. «Aveva molto gusto.»
- «E per essere un borghese,» insistette Charlus, «era assai ben educato. Non gli
ho riscontrato che un difetto: non era religioso!»
- «Peccato! Un uomo così distinto!...» disse ironicamente Maria. «State tranquillo,
babbo, non avrà trasporto civile. Non vorrà farvi questo tiro.» Ma siccome in fondo
ella era buona, si vergognò un poco di avere motteggiato un moribondo sui lati
ridicoli della sua vita, e soggiunse: «Che importa! benché volesse fare lo snob era
un ottimo uomo...»
- «Eccellente!» ripeté il marchese; e con quell'umanità semplice che aveva sempre
tanto commosso suo figlio, proseguì, con le lacrime agli occhi: «Lo conosco da più
di trent'anni. Egli è stato per me un amico sincero. Un amico non si può sostituire,
alla mia età e a nessuna età! Noi siamo qui, felici, si respira, si cammina; e lui,
poveretto, mi par di vederlo che soffre, che...» S'interruppe, poi con voce profonda:
«Se deve andare,» soggiunse «voglio dirgli addio.». S'interruppe di nuovo, e
siccome la meravigliosa vitalità del suo sangue gli spingeva naturalmente al cervello
idee ottimiste: «Ma noi lo facciamo già morire,» disse, «e il bollettino non annunzia
peggioramenti. Speriamo. Oggi non son potuto andare a Parigi per causa della
caccia. Domani tireremo a qualche pernice. Andrò domani l'altro.»
Era facile vedere che aveva avuto un rimorso di non essere al capezzale di
quell'amico che egli amava. Aveva ceduto, cedeva ancora alla passione ereditaria la
quale voleva che Filippo XVI andasse a caccia al cervo mentre i Giacobini gli
prendevano il trono; e scotendo definitivamente i pensieri tristi, disse al figliuolo:
- «Devi essere stanco, mio caro. Bisogna mangiare...» E rivolto a un servitore: «Un
piatto... Del fegato d'oca? Ecco...» Cominciava a servir Landri lui stesso. «Questo è
il fegato dei miei allievi, signorina Maria, e me ne vanto!... Orsù, un bicchiere di
sciampagna? Ho fame anch'io.» E mangiava di nuovo. «Questa è fame di buona
lega, una fame che il vostro circuito in automobile non mi metterà davvero,
signorina. Quattr'ore di galoppo nella mia foresta, è la vita che respiro da tutti i
pori. Questi boschi sono nostri da trecento anni. È un'investitura... Ah, vorreste
ridurmi up to date!... Vi ridurrò io, invece, vecchia Francia. Poc'anzi mi avete
recitato dei versi decadenti. Ve ne reciterò io alcuni del cinquecento. Sono di
Giacomo Grévin, il medico di Margherita di Francia. E’ appunto la descrizione della
nostra foresta:
«Di queste selve nelle ombrose fratte
Son porchetti selvatici, cignali
Seduttori di timide cerbiatte,
Cervi cornuti e satiri fatali:
C'è, infin, quel che ne' boschi, a suo maggiore
Sollazzo, può trovare un cacciatore.»
Aveva detto questi versi con un tono commosso che denotava che egli ne sentiva la
grazia arcaica e che il cacciatore conosceva le lettere. Non aveva avuto bisogno di
farsi aiutare da nessuna penna per scrivere la Storia e genealogia della casa de
Claviers-Grandchamp, un capolavoro, fra parentesi, uno di quei libri «che hanno un
motivo di essere scritti», da mettere accanto, nella libreria, a quella eloquente
Storia di una famiglia vivarese, pubblicata quell'anno da un altro erede di una
grande casata. Maria de Charlus era troppo delicata, anche nel suo cattivo tono
affettato, per non sentire quel che vi era di pittoresco e di patetico nella figura di
quel vecchio gentiluomo la cui originalità già tanto spiccata aveva accentuato i
propri rilievi per reazione contro un tempo troppo ostile. La forza del suo tipo dava
la misura della sua solitudine. Essa rispose, scherzevolmente:
- «Io mi chiamavo l'aristocratica prosciolta; ma se tutti i nostri fossero come voi, in
verità io credo che mi chiamerei ben presto l'aristocratica pentita...»
- «Che buona memoria avete!» diceva Charlus con ammirazione. «Il mio nonno mi
citava sempre la memoria del vostro...»
- «Mi darete questi versi, Goffredo?» pregava Bressieux. «Qualche volta mi
chiedono dei motti per dipingere sui pannelli, néi padiglioni di caccia...»
- «L'aristocratico pentito son io,» rispose il marchese, «Sì, pentito di essermi
permesso di dare una lezione alla più spiritosa delle Marie. La memoria del mio
nonno? Sì, hanno sempre detto che gli somiglio. Non v'è più esercito di Condé.
Altrimenti!... Avrete i versi, Luigi. Quantunque, per dire il vero, non so che gusto vi
sia a mettere i motti sui pannelli. Quando si hanno, si tengono; quando non si
hanno... Ma scusatemi, signorina, e voi pure, amici miei; debbo lasciarvi. Le
carrozze vi riaccompagneranno. Non voglio imporvi un lungo giro vizioso che io
debbo fare prima di tornare a casa. Landri verrà con me. Noi andremo in
automobile, signorina, e intanto farò le prove per il circuito. Arrivederci a fra poco
al castello...» Aveva preso il figlio a braccetto e lo trascinava verso la limousine
salutando intorno a sé, rivolgendo la parola a questo o a quello: «Non vi
dimenticate, Travers, che vi aspetto a pranzo stasera... Venite a pranzo a
Grandchamp, caro Hautchemin... Férussac, voi siete a pranzo a Grandchamp con la
signora Férussac, siamo intesi? Alle otto. Se ritardate, vi aspettiamo.» E, appena
seduto nell'automobile, dopo aver indicato al meccanico la direzione da prendere:
«stasera saremo più di trenta a tavola,» diss'egli a Landri. «Non lo so neppure con
precisione, figurati. Ho ordinato per quaranta, a caso... mi piace far così! Ciò
ricorda la tavola aperta di altri tempi. Che generosa e altera espressione la tavola
aperta!... La gente moderna parla della questione sociale. I nostri padri l'avevano
risoluta. Che cos'è un gran signore? Null'altro che un sindacato vivente. Pensa
quante persone vivevano alle sue spalle, quante ne vivono alle nostre! Spendere
largamente un vistoso patrimonio, di padre in figlio, nella medesima terra, significa
nutrire un paese, parecchie generazioni. Quando si parla del fasto dei nobili di altri
tempi, ci si figura che bevessero delle perle come Cleopatra, egoisticamente. Ma
quel fasto era un servizio pubblico! Era la fontana che accaparra le acque per
distribuirle. La fontana è stata rovesciata, e l'acqua si sparpaglia, si sciupa, si
perde, ecco... Bada! Augusto sbaglia». E afferrando il portavoce: «A sinistra,»
gridò, «a sinistra, e poi la seconda strada a destra... Vi son tre querce a gruppo e
un tabernacolo...» E rivolto al figlio, proseguì: «Io conosco la foresta albero per
albero; vi ho passeggiato tanto, e cavalcando buoni cavalli! Ti ricordi di Toby, il mio
irlandese, come saltava?.. Andiamo da compar Mauchaussée.»
- «Il nostro antico giardiniere?» domandò Landri. «Che fa?»
- «Quel che ha sempre fatto.
«Com'è dolce, amica bottiglia,
Com'è dolce il tuo gorgogliar!...»
Ma io voglio vedere suo figlio. Lo avevo preso in qualità di aiutante, quando suo
padre si ritirò, ti ricordi? Si è rotto un piede, l'altra settimana, non da noi, ma da
suo padre, nell'abbattere un albero. Il dottore crede che non potrà più lavorare.
Egli è tutto disperato. Figurati che ha moglie e cinque figliuoli. Chaffin voleva che
gli dessi un sussidio, e basta. «Non si cade sotto la legge degl'infortuni sul lavoro»
egli diceva. - «Non ho bisogno della loro legge per saper quello che debbo fare,» gli
ho detto io. «Egli avrà lo stipendio che gli era assegnato, integralmente, vita
natural durante, come suo padre...» Tu sai ch'io sono socialista alla vecchia usanza,
la quale differiva dalla nuova in questo, che i poveri riscotevano il denaro dei ricchi
direttamente, mentre oggi gli uomini politici tengono tutto per sé. Ciò è molto up to
date, come dice la piccola Maria de Charlus. A proposito, come ti pare? E carina,
non è vero?»
- «Carina?» disse Landri. «Mi maraviglio come possa piacervi, con le idee che
ha...»
- «Che crede di avere,» corrèsse il marchese. «Le passeranno; è effetto della
gioventù. Quello che non le passerà, è la nobiltà. Essa ne ha dal capo alle piante.
Le hai guardato i piedi e le mani? Ah, è proprio una Charlus firmata!... Sai che cosa
dicevo fra me e me, oggi, nel vederla a cavallo? E come cavalca!... Che sarebbe
una squisita contessa de Claviers-Grandchamp. E sai anche che c'è?.. Che essa non
vuole che te... Sì, sì, davvero!... Senti se non pare il principio di un capitolo di
romanzo. Un anno fa, Maria ne aveva venti; ella fu chiesta in sposa dal duchino de
Lautrec, capisci; ma rifiutò con moltissima meraviglia dei genitori; ella era tanto
giovane... e la lasciarono in pace. Sei mesi fa, altra chiesta, del principe de La Tour
Enguerrand, il vedovo. Altro rifiuto. Un mese fa, Lautrec torna alla carica. Essa
rifiuta di nuovo, e la madre le chiede una spiegazione. Chi avrebbe creduto che
«l'aristocratica liberata», com'ella si chiama, quella ragazza che assume arie tanto
moderne, avesse un sentimento sempre all'antica usanza, - senza dubbio è la sola
sempre buona e sempre giovane! «Non sposerò altri che il signor de Claviers,»
diss'ella, «o resterò zitella.»
- «Non è possibile,» interruppe il giovanotto; «ci siamo parlati a mala pena al ballo,
due o tre volte ogni inverno.»
- «Siete troppo modesto, mio signor figlio,» soggiunse il marchese. «A quanto pare,
quelle due o tre volte sono bastate. Insomma, stupore della madre, stupore del
padre. Essi raccontano il fatto alla signora de Bec-Crespin, loro cugina, che lo
racconta alla signora de Contay sua madre, che lo racconta a Jaubourg, il quale a
sua volta lo racconta a me; e siccome quella nuora mi piacerebbe moltissimo, e
siccome ho l'onore di essere scaltro, li ho invitati tutti e tre: padre, madre e figlia, e
ti ho chiamato qui. La madre si è scusata di non poter venire perché è raffreddata,
e non si vedrà. Ma oso dire che ella ti conosce già da capo a piedi. Ah, c'è tutto:
spirito, carattere, grazia! Non dico che sia una grande bellezza, ma ha un bel paio
d'occhi e una bella figura! Centomila franchi di rendita attualmente in testa sua,
capisci, lasciati a lei dal suo zio Prosny. Più tardi, altri trecentomila. E che albero
genealogico! Vale quanto il nostro: un di quegli alberi stupendi che sembrano una
bell'azione continuata per settecent'anni: tutti i cadetti furono ufficiali, vescovi,
cavalieri di Malta; tutte le donne rimaste ragazze furono monache, badesse o
priore; venti dello stesso casato furono uccisi dal nemico. Non ti ho seccato spesso
con proposte di matrimonio, figlio mio. La tua cara madre avrebbe saputo sceglierti
una sposa! lo aspettavo un poco che tu ti aprissi a me. Ma vedo che ti avvicini alla
trentina. lo ho sessantacinque anni. I tuoi tre fratelli son morti, quindi non ho che
te per continuare la nostra casa. Avrei piacere, prima di andarmene, di aver messo
in sella un Goffredo IX de Claviers-Grandchamp. Tu sei Landri X. Bisogna che i
Goffredo raggiungano i Landri. Ecco. Che ne dici?..»
- «Io dico, padre mio,» rispose Landri, «che ero venuto oggi a Grandchamp
appunto con l'intenzione di parlarvi di un progetto di matrimonio... di un altro
matrimonio,» soggiunse.
- «Con una ch'io conosco?» disse il marchese.
- «No, padre mio, con una giovane signora di ventisette anni, vedova di un mio
compagno di reggimento, la quale ha un bambino e non ha patrimonio, o per lo
meno così modesto.... che è ben lungi dalla dote della signorina de Charlus. Ma io
l'amo teneramente da tre anni.»
- «Altro capitolo da romanzo,» disse il marchese de Claviers senza perdere il buon
umore. «Mi ci diverto. Non ti nascondo che m'impensierivi. Non mi parlavi mai di
ragazze. Avevo paura che tu avessi qualche pratica, ma invece hai un amore. La
cosa è ben diversa. A me piace che la gente ami, vedi, che ami molto, che sia
fedele. Non è ricca?..» E ripeté: «Non è ricca?..» Mio caro, io vorrei poterti dire:
«Non ci badare!...» Una nube gli passò sulla fisionomia trasparente come il cielo
turchino di quel pomeriggio diffuso sulla sua cara foresta che l'autunno dorava. «Non è il momento di toccare questa questione, di cui da molto tempo voglio
parlarti. Abbiamo molte spese, noialtri. Se le terre rendessero quello che rendevano
per l'addietro, e anche, forse, se io avessi. sorvegliato meglio i nostri interessi, ce la
caveremmo più facilmente. Pensa che questo mostruoso Codice civile è già passato
su due generazioni, con le sue divisioni forzate che riducono in polvere la Francia.
Dei milioni che la tua bisnonna ci aveva salvati durante la Rivoluzione, non
emigrando e chiedendo il suo falso divorzio, che cosa ho avuto? Trecentomila
franchi di rendita, e per giunta tutti gli aggravi di prima! Ti ripeto, non è il momento
di parlarne... Da tre anni?» disse dopo un breve silenzio... «Chi è? Come si
chiama?...»
- «Signora Olier,» rispose il giovanotto.
- «Ah!» esclamò il padre. «Ed è nata?»
- «Signorina Barral».
-... «Olier? Barral? Ma allora... non è una persona del tuo grado?.. Rispondimi
francamente, mio caro. Sono tuo padre, il capo di famiglia. Ne hai l'obbligo. Sei il
suo amante? Hai uno sbaglio da riparare? Quel bambino è tuo?»
- «No, padre mio, ve ne do la mia parola d'onore. Le ho detto due volte soltanto in
vita mia che io l'amavo. Una volta, quando viveva suo marito. Ed ella non mi
permise di rivederla altro che con la promessa di non parlarle mai più dei miei
sentimenti. La seconda volta è stato oggi. Ecco perché san venuto in ritardo.»
Il signor de Claviers aveva ascoltato questa confessione con le sopracciglia
corrugate, la bocca stretta. I suoi occhi turchini prendevano quella tinta cupa che il
figlio gli conosceva fin troppo e che annunziava la scossa di profonde commozioni.
Vi fu tra i due uomini un nuovo silenzio, il quale coincise con la fermata della
limousine dinanzi la casa dei Mauchaussée, una costruzione civettuola che il
castellano di Grandchamp lasciava goder gratuitamente a un vecchio servitore. Le
tendine delle finestre e il fumo che usciva dal tetto del camino attestavano
l'agiatezza goduta da quei vassalli della sua carità. Tuttavia quando scese
dall'automobile senza dir nulla a suo figlio, che non lo seguì, egli aveva la
fisionomia di un giustiziere più che di un benefattore. I dieci minuti che suo padre
passò in quella casetta parvero smisuratamente lunghi a Landri. Egli si sentiva certo
un minor peso sul cuore: aveva fatto la prima parte della sua confessione, quella
che gli era parsa più difficile a formulare, poiché riguardava un punto troppo vivo
nel suo cuore; avrebbe ora il coraggio di fare la seconda, e di recare un altro colpo
a quell'uomo, che egli aveva sentito novamente così appassionato, così tenero e
impetuoso? Come si sfogherebbe la collera di cui aveva veduto adombrarsi a un
tratto quella fronte potente? Altri punti interrogativi sorgevano al suo pensiero:
perché il marchese, a cui le questioni di denaro ripugnavano tanto profondamente,
aveva parlato con quella minuziosità del patrimonio dei Charlus, e del proprio con
quel riserbo pieno di sottintesi? Landri era troppo disinteressato per riflettere al suo
avvenire ed alle possibili diminuzioni della sua eredità. Egli sapeva che suo padre
era ricchissimo, e non si era mai meravigliato delle spese alle quali lo aveva sempre
veduto supplire. Non gli aveva neppur mai chiesto il suo patrimonio quando era
uscito dai pupilli. Il marchese gli passava un assegno che equivaleva alla rendita di
un milione e mezzo ereditato da sua madre. Quel lamento enigmatico significava
forse che cotesto gran signore sarebbe costretto, alla fine, di restringere un lusso
che gli era indispensabile come respirare e muoversi? Mentre escogitava questa
domanda, senza farsela così chiaramente, il giovanotto pensava a colui che aveva
trattato del matrimonio de Charlus.
- «Che idea ha avuto Jaubourg d'immischiarsi ancora nei fatti miei? Come quando
si trattò di Saint-Cyr. Mi ha sempre dimostrato dell'antipatia, e ora viene a far da
terzo tra mio padre e me!... Era per questo che aveva detto che mi facessero
salire… Ecco, la porta si apre; prepariamoci a sostenere l'assalto… Orsù, lo faccio
per Valentina...» La soave figura passò di nuovo davanti al suo pensiero. Essa fu
cacciata da un concerto di voci, che dicevano con l'accento paesano: «Riverito,
signor conte.... Sta sempre bene, il signor conte?...» Erano i cinque ragazzi
Mauchaussée, la loro mamma, la nonna e il nonno, che il marchese guidava dinanzi
a sé, verso suo figlio. Gli occhi pieni di soggezione e di sorrisi dei bambini e delle
bambine, l'aspetto intimidito e umile delle due donne, la faccia illuminata e gioviale
dell'ubriacane, illustravano comicamente il discorso col quale il signor de Claviers li
presentava al loro futuro protettore.
- «Li riconosci?» diss'egli. I bambini crescono. Sono i vostri germogli, Mauchaussée,
ed anche i vostri, signora Martina. Ne avrai anche te, Landri, ma c'è tempo. Orsù,
ragazzi, gridate: Evviva il signor conte!»
- «Evviva il signor conte!» gridarono i cinque ragazzi.
- «Evviva il signor marchese!» esclamò Mauchaussée. E dietro queste esclamazioni,
che nell'anno 1906 erano paradossali quanto l'esistenza dello stesso signor de
Claviers, l'automobile riprese la via: «Al castello!» egli aveva detto ad Augusto. Poi,
prendendo la mano del figliuolo e stringendogliela:
- «Ecco perché tu non puoi fare il matrimonio di cui mi hai parlato or ora. E' per
motivo dei Mauchaussée e dei loro simili, - che son legioni, - che vivono su noi,
sulla casa Claviers-Grandchamp. Non puoi mica voler contribuire a distruggerla.
Quando si demolisce un tetto, si distruggono tutti i nidi di quel tetto. Quando si
taglia il tronco di uno di questi alberi, tutti i rami muoiono. La nostra famiglia, te lo
dicevo anche dianzi, come quella dei Charlus, data fin dal 1060. Questi lignaggi si
contano. Tu non derogherai...»
- «E' forse derogare,» domandò Landri con impazienza, il condurvi per nuora una
donna irreprensibile, che io amo profondamente e che mi ama, bella, fine,
intelligente? Si deroga mancando all'onore. Vi si manca forse, se si fa un
matrimonio d'amore, senza calcolo d'interesse, senza scopo di ambizione? In che
cosa la signora Olier, divenuta contessa de Claviers, disturberebbe i Mauchaussée,
e tutta questa bell'opera di clientela tradizionale, che fa uno degli appannaggi
morali delle grandi case, e una ragione di esistere della nobiltà, - condivido la
vostra opinione, - in che cosa ?...»
- «In questo, ch'ella è la signora Olier, nata Barral, semplicemente, e che il suo
figliuolo ha degli zii e delle zie Olier, dei cugini Olier, essa ha dei cugini Barral,
fors'anche fratelli e sorelle, tutta una società che, sposando quella donna, tu
imparenti con noi. Tu vorresti legare quella famiglia alla nostra. Legare! Scruta
questa parola così profonda, come tutte quelle in cui il linguaggio non fa che porre
istintivamente l'esperienza dei secoli. Ciò significa che fra gli Olier, i Barral e i
Claviers-Grandchamp tu istituisci una solidarietà, che tutte queste vite sono
collegate. Non ti farò che una domanda: vai a dire ai Mauchaussée che il cugino
della signora Landri de Claviers ha bottega, per esempio, che è come uno dei
parenti loro. Credi forse che la signora Landri de Claviers sarà per essi degna della
stessa deferenza? E supponendo che nessun Olier, nessun Barral si trovi in simile
caso, credi che i parenti nostri, i Candale, i Vardes, i Nançay, i Tillières in Francia, e
tanti altri, e gli Ardrahan in Scozia, e i Gorka in Polonia, e gli Steno in Italia,
saranno per tua moglie come se ella fosse una Charlus? La nostra unità di famiglia,
dunque, ne soffrirà. Tu avrai menomato la casa de Claviers, senza aver mancato
all'onore, ciò è evidente. Ma vedi, un nome come il nostro è l'onore, con qualche
cosa di più.»
- «O di meno,» disse Landri. «Ma sì,» insistette vedendo la meravoglia del padre,
«meno la vita, la vita, alla quale tutti hanno diritto, tranne noi. Noialtri non abbiamo
diritto alla felicità individuale, me lo avete dichiarato. Non abbiamo diritto all'azione
comune. Quanto avete esitato a permettermi di entrar nell'esercito! Che ci resta da
fare? Da difendere delle tombe? Voi ne avete la forza; io no.»
Landri non si era mai spiegato tanto circa i suoi segreti pensieri. Gli era stato
troppo doloroso di trovare sulla bocca del marchese le medesime obiezioni, quasi le
stesse parole di Valentina. Ne aveva sentito troppo l'implacabile e brutale verità. La
sofferenza era stata la più forte. Appena ebbe gettato questo grido di ribellione,
egli ebbe verso suo padre uno slancio appassionato. E gli prese la mano,
dicendogli: «Scusate,» mentre il signor de Claviers gli rendeva la sua stretta e gli
rispondeva con voce commossa, ma così ferma, così virile, quella di un uomo che,
giunto alla sera della sua vita, si afferma e afferma che non si è ingannato nella sua
fede:
- «Scusarti, e di che cosa, povero figliuolo mio? D'amare, e di provare una
ribellione di tutto il tuo cuore dinanzi a un ostacolo in cui tanti giovanotti della tua
età ed anche del tuo grado non vedrebbero, oggidì, come te, che un pregiudizio? Di
essere giovane e di aver questo bisogno d'impiegare utilmente le tue energie, che
tu inganni facendo vista di fare il soldato? Poiché sai bene che fai vista di farlo. Se
domani le persone che ci governano ti comandassero di eseguire una delle loro
infami faccende, la presa di una chiesa, che cosa faresti ?...»
Nel dir queste parole, che attestavano con la loro incosciente divinazione quanto
egli pensasse a suo figlio, il marchese aveva la sua idea. Egli non osservò il sussulto
del giovanotto, al quale salì alle labbra un grido, che tuttavia non emise. Egli
ascoltava suo padre continuare, e lo ascoltava con maggior interessamento in
quanto che il signor de Claviers non era solito discutere le sue convinzioni. Egli le
affermava con la sua sola presenza. Certo la sua tenerezza per Landri l'avvertiva
che quello era un istante solenne, come ne sorgono spesso all'improvviso nelle
relazioni tra padre e figliuolo, in cui una frase mal compresa può creare tragici
malintesi, e, come se avesse voluto giustificare anticipatamente la severità del suo
veto con argomenti irrefutabili per quegli stesso che ne sarebbe vittima; egli si
spiegava, si confessava, o, per meglio dire, pensava ad alta voce:
- «Credi che queste ribellioni non le abbia attraversate anch'io? Credi che anch'io
non mi sia domandato, quando mio padre mi parlava come io ti parlo, se egli non
fosse un uomo di un altro secolo, che ignorava il tempo in cui viveva, e che volesse
trascinarmi nel suo errore? Credi tu che io non sia stato attratto dall'azione, da
tutte le azioni, dalla guerra, dalla diplomazia, dalla politica? Che non abbia sentito
anch'io la voce tentatrice mormorarmi: «Non si serve il governo, si serve la
Francia!» Quanti dei miei amici l'hanno ascoltata, questa voce! lo non li giudico. In
quanto a me, non ho potuto, e non me ne pento. Ecco perché. Ascolta. Quello che
sto per dirti ti sembrerà che si scosti molto dal punto di partenza del nostro
colloquio, eppure, non lo perdo di vista. No, io non ho potuto, perché studiando
bene questa Francia sorta dalla Rivoluzione, mi sono accorto che essa aveva da
impiegare altri operai all'infuori di me nelle sue cancellerie, nelle sue caserme, nelle
sue assemblee, e che eravamo in pochissimi abili a servirla altrove. Mi hai detto
qualche volta che io ho l'anima di un emigrato. È vero. Ma chi ha salvato la Francia
dallo smembramento, nel 1815, se non gli emigrati, e, primo di tutti, Luigi XVIII?
Se non vi fossero stati degli emigrati, se il Re, sostenuto da questo pugno di fedeli,
non si fosse imposto per venti anni ai consigli dei collegati, la patria era divisa. Che
cosa le avevano serbato, a questa patria così crudelmente ostile?- un principio. Chi
la misurerà, la forza dei principi, delle verità sociali sostenute da un gruppo di
uomini, talvolta da un solo uomo, se si chiama il Re?…
Ebbene, il male della Francia sorta dalla Rivoluzione non sta nei fatti, non sta negli
uomini: esso consiste nella mancanza di principi, o nei principi falsi, che è peggio.
lo non la rinnego, questa Francia: ha lavorato tanto, da cent'anni in qua, e lavora
molto, con costanza, con volontà, con slancio! Tuttavia, falliscono o no, tutte le sue
speranze? Questo paese ha o non ha in Europa un posto inferiore a quello che
aveva nei giorni peggiori della monarchia? Eppure non è più vecchio dell'Inghilterra,
la sua grande rivale del medio evo! Ha egli progredito nella pace sociale? Ha
trovato la stabilità, questa asserzione di tutte le dottrine politiche, come il palpito
regolare del polso è l'asserzione della salute? Si è che la Rivoluzione ha tentato di
fondare la società sull' individuo, mentre la natura vuole che essa sia fondata sulla
famiglia. Quando compresi questa grande legge, compresi la nobiltà. Compresi che
i nostri pregiudizi sono profonde verità sociali, elaborate dalla esperienza secolare
che è il costume e trasformate in istinto. Profonda verità sociale: non può esservi
aumento di forza in un paese se gli sforzi delle generazioni non si susseguono, se i
vivi non si considerano come usufruttuari tra i loro morti e i loro discendenti.
Questo è il diritto di anzianità e delle sostituzioni!... Profonda verità sociale: bisogna
che le famiglie mettano buone radici per durare, che abbiano il fondamento
territoriale, che si amalgamino ad un suolo. Questo è il dominio patrimoniale, che
non si divide per non esser venduto!... Profonda verità sociale: bisogna che vi siano
gradi sociali perché vi siano costumi, e non vi sono gradi sociali se non vi sono
classi, e distinte. Questi sono i tre ordini!... Profonda verità sociale: ogni individuo
non è che il proseguimento di coloro che l'hanno preceduto, un momento di un
lignaggio. Unendolo ad un altro individuo che sia al medesimo grado dello
svolgimento della sua famiglia, c'è il caso di ottenere una creatura superiore, di
fissare dei caratteri acquisiti. Questa è la stirpe!... Tutte queste verità venivano
praticate dalla vecchia Francia, che le aveva incarnate nelle Case. Le Case! Fin da
quando compresi la loro importanza, e che erano l'attuazione delle leggi stesse
della famiglia, la parte del nobile in faccia alla Rivoluzione mi apparve chiaramente:
mantenere innanzi tutto la propria Casa. Se tutti avessimo agito così, quale riserva
avrebbe la Francia per l'ora della inevitabile crisi! Tuttavia ne rimangono
abbastanza fra noi di coloro che hanno adempiuto questo dovere, ciascuno come
ha potuto, specialmente in provincia e in quella forte aristocrazia rurale che
ritroveremo quel giorno, come nel '71. E poi, se anche fossi solo nella mia specie,
non sarei perciò meno persuaso del mio dovere. Se non vorranno più saperne di
noi, finiamo almeno nobilmente. Decenter mori. Un aristocratico ha verso sé
medesimo il dovere di rimaner tale, o di morire. lo sono rimasto aristocratico. La
disgrazia dei tempi non mi ha permesso di aggiungere una pagina alla storia dei
Claviers­Grandchamp, ma io l'ho scritta, questa storia, ed ho serbato il suo grado
alla nostra casa. Ho salvato lo splendore del nome, come dicevano i nostri avi. Che
posso aggiungere, Landri? Tuo padre ha continuato suo padre, che aveva a sua
V'alta continuato il suo. Essi ti chiedono tutti per la mia bocca: Sarai il nostro
proseguimento?»
- «Io vi venero e vi amo,» rispose il giovanotto, - ed era vero che quella
professione di fede, pronunziata dal vecchio signore fra gli alberi del dominio
ereditario, assumeva una grandezza quasi dolorosa. A cento anni di distanza, il
Claviers-Grandchamp dell'esercito di Condé rifletteva il suo pensiero nel nipote, con
quella coscienza di sé che è uno dei caratteri d'ogni fine di stirpe. Pare che, prima
di sparire, le specie sociali come le specie animali attingano il loro ultimo succo
vitale nei tipi più compiuti e che riassumono tutti gli altri. Ancora una volta Landri
sentì la superiorità di quell'uomo che, in mancanza di un ambiente favorevole,
aveva passato i suoi lunghi anni in un apparato scenico, e per motivi così profondi,
così frammisti del più generoso idealismo! Egli era troppo intelligente per non
comprendere il valore dell'alta filosofia contenuta nel solenne discorso del signor de
Claviers. A suo dispetto, come spesso gli era accaduto, la sua mente conveniva di
quelle idee, che tuttavia egli non voleva accettare. In quale solitudine avevano esse
imprigionato suo padre! Il suo cuore stesso reagiva contro esse. Le profonde verità
sociali,» come aveva detto il marchese, sono le fredde amiche dell'età matura.
L’innamorato che non abbia trent'anni le sacrificherà sempre allo sguardo di un paio
d'occhi chiari, ad un riflesso di luce sopra una chioma bionda. Alcune immagini di
questo genere fluttuavano anche dinanzi allo sguardo di Landri, e gli davano la
forza di obiettare a suo padre:
- «Eppure in questa vecchia Francia che voi volete continuare, le classi si
compenetravano appunto per mezzo del matrimonio. La figlia di Colbert è stata
duchessa; la figlia del signor de Mesmes, pure; la figlia di Gilles Ruellan,
egualmente. E il padre di Colbert era un negoziante di panni; il padre del signor de
Mesmes un contadino di Mont-de-Marsan. Gilles Ruellan aveva fatto il barrocciaio.»
- «Va benissimo,» rispose il signor de Claviers. «Ma in quel tempo la Francia era
sana. Le case non erano toccate. Queste grandi verità sociali che solo la loro
esistenza oggi rappresenta, non avevano bisogno di esser difese integralmente.
Una casta minacciata equivale a una città assediata: essa deve chiudersi. Non v'è
abbastanza intransigenza nel tempo nostro, anche fra noialtri, perché io rinunzi alla
mia. Non ho mai tanto ammirato niuna cosa nella mia gioventù, quanto il gesto del
conte de Chambord recante la sua bandiera bianca, - quanti l'hanno compreso,
anche fra i nostri amici? - «No, Landri, non si transige nella difesa di un principio
vinto. Non lo si difende mai troppo...»
- «Allora,» interrogò il giovanotto, con un tremito, «se io verrò un giorno a chiedere
il vostro consenso...»
- «Per sposare la signora Olier? Te lo rifiuterò...»
- «E se ne faccio a meno ?...» egli osò dire.
- «Tu non ne farai a meno... Essa stessa, capisci? essa stessa non te lo
permetterà... Ti conosco, Landri mio,» proseguì il padre, con una voce così tenera,
che contrastava stranamente con l'evidente inflessibilità della sua decisione.
«Perché tu ami in tal modo quella donna, bisogna ch'ella sia purissima e delicata.
Essa stessa ha voluto che tu mi parli prima di risponderti. Non è vero? Quella donna
non vorrà mai che tu la sposi contro l'espressa volontà di tuo padre. Se essa non
avesse questa elevatezza nel suo modo di pensare, te lo ripeto, tu non
l'ameresti...»
- «E se così fosse, non ne sareste commosso?..»
- «Non si tratta delle mie, né delle tue commozioni, figlio mio. Si tratta del nostro
nome. Non v'è mica l'eroismo militare soltanto: v'è l'eroismo familiare. Soldato, ti
parrebbe naturalissimo di sacrificar la tua vita. Un uomo di un certo nome deve
giudicar naturale di sacrificare la propria felicità. Ma si tratta veramente di questa?..
È una crisi, e passerà. Ad ogni modo,» proseguì con un tono di affettuosa giovialità,
«tu non mi hai chiesto il mio consenso, dunque io non l'ho rifiutato. Noi abbiamo
parlato di progetti, di probabilità, di ipotesi... e nulla più. Comunque, sii gentile,
stasera, con Maria de Charlus. Non esser crucciato con lei perché ti ha prescelto,
come dicevano graziosamente le nostre avole. Ed ora godiamoci quello che mi ha
lasciato la mia. Eccoci fuori della foresta e nel parco. Se quella coraggiosa donna
non fosse rimasta qui durante il Terrore, tutto sarebbe stato tagliato, devastato,
bruciato, saccheggiato. Non posso tornar mai a Grandchamp senza pensare a lei»!
Tacque, e i suoi cupi occhi turchini si riempirono di devozione nel guardare il
castello che appariva là in fondo, cupo e grandioso edificio di mattoni e di pietre,
un capolavoro della prima maniera di Mansart. Nel diciottesimo secolo, un ClaviersGrandchamp, al quale un cugino aveva lasciato, per riconoscenza di un favore
fattogli, un patrimonio guadagnato nella Compagnia delle Indie, mobiliò di nuovo
tutto l'interno, senza toccare la facciata. Sul davanti, si stendeva un immenso
giardino alla francese. Occorrevano dodici giardinieri per mantener quella
meraviglia, tutta aiuole, siepi, fontane, con una quantità di gruppi di bronzo intorno
alle vasche e di statue di pietra pei viali. In quel bel crepuscolo d'una trasparenza
bigia evanescente, il giardino era stupendo; aveva, come i giardini di Versailles e di
tutto il nostro diciassettesimo secolo, quell'aspetto di una natura lasciata intatta
nella sua forza, ma regolata, ravviata, resa armoniosa nelle sue espansioni. Era
veramente «l'ordine» percettibile, quello della società di allora da cui i ClaviersGrandchamp erano usciti. Gli alberi vigorosi, ma potati e ravviati, allungavano le
loro fronde sotto una disciplina. Nell'aspetto di quel giardino, subito dopo siffatto
colloquio, l'animo addolorato di Landri trovò un simbolo del suo destino. Anche lui,
come quegli alberi, subiva una disciplina. Neppur lui poteva svolgersi liberamente.
Non sposerebbe mai Valentina, il signor de Claviers aveva troppa ragione. Essa non
entrerebbe una famiglia nobile, senza il consenso del capo. L'allusione fatta dal
perspicace e implacabile marchese alle eventualità della sua carriera militare finiva
di ghiacciargli il sangue. Che avrebbe egli fatto nell'una e nell'altra circostanza?
L'albero del viale che spinge i suoi rami fuori della linea imposta dal giardiniere
distrugge la bella totalità, e l'albero stesso non riuscirà mai ad espandersi. Egli
serba la traccia dei colpi di scure che lo hanno potato, e che avrebbero fatto la sua
bellezza nella uniformità del viale; isolato, gli riescono una mutilazione. Tale è la
sorte del membro di una casta che se ne distacca e pretende di vivere per conto
proprio. Ma nobiltà, casta, case, matrimoni mal assortiti, tutte queste idee non
erano forse una fantasmagoria, una superstizione, il chimerico reliquario di una
realtà abolita, un anacronismo insensato nella Francia odierna?.. Lungi dal padre, il
figlio avrebbe risposto: sì. In quel momento, in quella carrozza dove sentiva
muovere e respirare un uomo così vivo e palpitante che comunicava alle sue
credenze la fiamma intensa della sua vita personale e le animava, Landri non
poteva. La suggestione della presenza paterna agiva di nuovo su lui con una forza
tale, che egli non poteva neppur dar torto a quella volontà, contro la quale
insorgerebbe domani, ma da lontano, - e cadeva in una malinconia che non sfuggì
al signor de Claviers. Col suo carattere adamantino, l'«Emigrato» era degno
davvero di pronunziare il verso di don Diego, feroce e sublime di virilità coraggiosa:
V'è un solo onore, vi sono tante amanti.
Lo aveva quasi detto, qualificando di crisi passeggera il sentimento del suo figliuolo,
e vi era di nuovo molta pietà, molta tenerezza nell'accento col quale egli ricominciò
a parlargli per strapparlo ai suoi pensieri.
- Ti figuri la vita di quella donna, qui, sotto il Terrore? Sai che una denunzia contro
lei fu cagione che lo scellerato Rolando, nel novembre del '92, proponesse al
comitato di legislatura di sospendere per le mogli degli emigrati gli effetti del
decreto del 20 settembre?... E se non fosse stato per il procuratore-sindaco de
Thury, un nostro ex giardiniere, appunto, essa aveva un bell'essere divorziata: le
prendevano tutto, anche la vita. Essa non cessò mai di corrispondere col marito;
andò a trovarlo due volte, e tre volte lo ricevette qui. C'è da fremere a pensare a
quei colloqui! Ma che coraggio! Che eroismo, per tornare alla mia parola! Ella agiva
così per noi; voleva difendere l'eredità, la casa. Avrebbe potuto, con i suoi gioielli,
passare quegli anni in Germania o in Inghilterra, felice; invece morì, consunta dal
dolore, nel 1804.... Per venerazione alla memoria di lei il mio nonno non permise
mai che nulla fosse mutato nell'interno del castello, e neppur mio padre, né io.
Nulla, nulla, nulla. Quando non ci sarò più io, fai pur mettere il telefono, poiché tu
sei più up to date che il tuo vecchio genitore,» concluse ridendo. Ma basta!...
Guarda, ecco il grazioso Bressieux che cospira di nuovo con Chaffin! Costui sogna
ben altri mutamenti che il telefono. Pare che certi particolari non siano di stile, e
allora Chaffin viene ad opprimermi con dissertazioni su maniglie da serrature,
placche da caminetto, bracciali da tende, suggeritegli da Bressieux. Nulla. Nulla.
Non muterò nulla. Non ricordo dove ho letto questa frase di un poeta inglese,
credo: «La sirena ama il mare, ed io amo il passato.» «Bressieux,» gridò con la sua
voce forte e sonora, dalla finestra dell'automobile vicinissima ora alla scalinata
d'ingresso, non finite di sciuparmi Chaffin. Egli non vorrà più abitare a Grandchamp,
perché non è di stile abbastanza puro!...»
Luigi de Bressieux era, infatti, presso un angolo del castello, tutto intento ad
osservare - almeno sembrava - l'ornato di una finestra del pianterreno. Egli non si
era ancora tolto il vestito da caccia, e la visiera del berretto di velluto gli
nascondeva gli occhi. Accanto a lui c'era un ometto piccolo, pingue, di pelo che in
altri tempi era stato rosso ed oggi tendeva al grigio, uno di quegli uomini la cui
fisionomia burbera ce li fa giudicare senza ambagi. Le pupille lucide di costui,
impenetrabili e mobili, annunziavano che nascondeva molte complicazioni dietro la
rude bontà dei suoi modi. Era l'ex precettore di Landri, promosso da dodici anni a
quel grado di factotum che non doveva essere una sinecura, con le grandi rendite
del marchese de Claviers e le sue spese, molto più grandi, purtroppo!... Egli lo
chiamava, - già lo sappiamo, - «il mio bravo Chaffin,» come diceva «il mio bravo
Jaubourg,» ed anche «quel gentile Bressieux». Un saggio conoscitore della natura
umana lo asserì: colui che non si rassegna ad essere ingannato non sarà mai
magnanimo; e quel generoso marchese de Claviers­Grandchamp era veramente
magnanimo. Come si sarebbe meravigliato se nel momento in cui egli interpellava
Bressieux, una di quelle macchine moderne - oggetti della sua avversione un po'
sincera e un po' simulata - avesse potuto raccogliere e trasmettergli il colloquio che
il suo arrivo improvviso aveva interrotto!
- «Bisogna che l'affare sia concluso in dieci giorni al più tardi,» diceva Bressieux. I
due negozianti americani ripartono l'8 dicembre. lo li conosco: non indugeranno.
Vogliono portar via gli arazzi. Se la cosa va per le lunghe, vi rinunziano. Gli altri
negozianti non arrivano a tutta la somma. Allora, avremo l'asta pubblica, con le sue
alee. Sapranno tutti che il marchese è in cattive acque, e non troverete più quattro
milioni. Vi parlo nell'interesse di lui.»
- «Ed io penso al suo interesse,» rispondeva Chaffin. Quattro milioni? I debiti più
grossi, sarebbero pagati, e forse egli s'indurrebbe a fare una vita più ristretta. Ma
non vuole che gliene parli. Non ho neppur osato di fargli vedere le citazioni
dell'altra settimana. Non vuol convenire, e tuttavia non lo ignora, che è rovinato.
Io, che so come ambisca a tutto questo castello, - non lascerebbe vendere neppur
una tazza, - non ho il coraggio di proporgli di liquidare tutto in una volta, arazzi,
mobili, ritratti!
- «Insomma, è o non è costretto a fare questa vendita?»
- «Sì, è costretto...»
- «Ha un mezzo qualsiasi per sfuggirvi?»
- «No, se non gli piove qualche milione dal cielo.»
- «O se un amico, Jaubourg per esempio, non gli lascia i suoi averi,» insinuò
Bressieux.
- «Qualora li lascerebbe al signor conte Landri,» disse vivamente Chaffin che non
accetterebbe» soggiunse dopo un silenzio, durante il quale i due compari evitarono
di guardarsi come persone che sanno una cosa, sanno che la sanno, e non vogliono
convenirne: ­ «Ebbene, mi rivolgerò al signor conte Landri. Ne sono anche in
obbligo, acciocché il suo patrimonio non sia inghiottito dal baratro. Gli dirò la verità,
e saprà che questa offerta di una compra in blocco dei tesori del castello è una
fortuna che oltrepassa ogni speranza, il solo mezzo di acquistar tempo. Basta che
egli revochi la procura generale che ha dato a suo padre e che richieda i suoi
capitali. Il signor marchese non può renderli. Per non subire questa umiliazione
davanti al figliuolo, cederà. Ma odo la sua voce. Stasera stessa avrò parlato a
Landri. Voi avrete la risposta subito.»
Andarono entrambi verso la limousine di dove scendevano il signor de Claviers e
Landri. I complici non avevano detto una parola che li mettesse in balìa l'uno
dell'altro, e tuttavia il vero sottinteso di questo colloquio era uno di quei tiri sinistri
da banda nera, come il commercio internazionale di antichità ne ha fatti parecchi,
in questi ultimi anni, in Francia e altrove, sugli avanzi delle ricchezze storiche. Il
«bravo Chaffin» era semplicemente un contabile infedele che aveva razzolato per
dieci o dodici anni a suo agio nelle prodigalità del gran signore, e si preparava a
ritirarsi incassando una forte percentuale sopra una somma offerta da un sindacato
di negozianti di curiosità, in cambio dei tesori conservati intatti a Grandchamp
dall'eroismo dell'avola: Luigi de Bressieux aveva, dal canto suo, fiutato le trattative
del servo sleale coi rivenditori, ed era riuscito ad assicurarsi una senseria,
interessando nell'affare due celebri antiquari d'America. Era vero che tale
liquidazione, fatta in quel momento, poteva salvare il resto del patrimonio, e questo
pretesto copriva ufficialmente la viltà di un traffico che i due fattori di questo sozzo
intrigo trattavano all'insaputa del così detto beneficiario di tale operazione. Questo
silenzio li condannava. La deferenza sovrana dovuta a una certa qualità d'uomini è
tale, che l'amico sleale e il ribaldo amministratore si sentirono impacciati l'uno
davanti all'altro da un oscuro rimorso quando il marchese disse loro, col suo bel riso
leale:
- «E' inutile che mi traviate Chaffin, caro Bressieux. Finché vivo io, nulla sarà
smosso nel castello; morto io, spero che sarà lo stesso», soggiunse appoggiandosi
alla spalla del figliuolo.
III. TRAGICO ROVESCIO DI UNA GRAN VITA.
- «Nulla sarà smosso nel castello?» ripeteva Chaffin mezz'ora dopo, mentre saliva
lo scalone e si dirigeva verso le stanze occupate da Landri quando veniva a
Grandchamp, ch'erano quelle dei cadetti. Da dodici anni il figliuolo minore, ormai
rimasto figlio unico, vi si era stabilito. Invece si smoverà tutto, signor marchese!...»
E il volto del mandatario infedele esprimeva quell'odio che nutrono i cattivi servitori
per i padroni traditi, mentre guardava sulle pareti le pitture di Beauvais, una delle
glorie del castello, gli arazzi stupendi rappresentanti scene cinesi, di Fontenay,
Vernensaal e Dumont. I principi sedevano su tappeti di Persia, in costumi asiatici; le
principesse passavano in portantina, vestite di stoffe bianche, adorne di gemme. Le
ancelle portavano gli ombrelli. Alcuni negri offrivano delle frutta sotto i baldacchini
inghirlandati di fogliame. Quanto tempo era scorso da che Chaffin aveva salito
quegli scalini per la prima volta, e ammirato, con uno stupore di piccolo borghese
trasportato in una dimora dell'alta società, quelle magnificenze degne delle Mille e
una notte! Egli era allora un povero maestro privato, con moglie e carico di
famiglia. Era stato introdotto nella casa dal cappellano, come precettore del figlio
minore. Quel prete, che aveva educato il maggiore, era troppo vecchio e non si
sentiva di assumere una nuova educazione. Egli aveva temuto la presenza di un
altro ecclesiastico, e, pregato dal marchese di trovare qualcuno, si era ricordato di
un insegnante da lui incontrato a Parigi in un collegio religioso. Questi, a sua volta,
aveva suggerito il suo collega Chaffin. Nell'affidare, come aveva fatto, l'educazione
di Landri a un precettore preso a caso, il signor de Claviers si era conformato,
ancora una volta, al tipo classico del Gran Signore. Si rimane meravigliati della
spaventosa facilità con la quale fin dai più remoti tempi le persone di nobilissimo
casato abbandonano i loro figliuoli a spiriti dubbi. Neppure i principi sono meticolosi
su questo punto. Un adolescente, dal quale dipende l'avvenire di un impero, sarà
stato educato magari da un rifiuto dell'Università, pari per delicatezza al Dubois del
Reggente! Per buona sorte di Landri, Chaffin aveva ancora, in quel tempo, se non
le vere virtù, le vere abitudini del buon padre di famiglia. Ammogliato con figli
anche lui, le sue garanzie di onorabilità erano effettive. Nondimeno, avendo
passato la quarantina senza trionfare, era già inasprito, e vicinissimo a considerare
gli umili lavoratori della sua specie come gente ingannata dalla società. L'atmosfera
di gran lusso dove era entrato senza preparazione, lo aveva traviato. Era stato
convenuto che egli abiterebbe presso il suo allievo. Tale disposizione, isolandolo dal
suo focolare e dalla sua primiera esistenza, lo aveva disarmato contro il nuovo
ambiente. Poi aveva subìto l'intimo e lento lavorio di corruzione che produce
necessariamente sul plebeo povero, quando è di essenza volgare, la scoperta delle
immoralità nascoste dei nobili e dei ricchi. È un vero tirocinio di depravazione quel
certo pessimismo della servitù fatto di segreta invidia e di vile spionaggio. Quando il
marchese, - finita l'educazione del figlio - gli aveva offerto il posto di segretarioamministratore, Chaffin era maturo per la parte d'intendente all'usanza antica».
Lo stile del signor de Claviers in questo caso e esattissimo. Questa denominazione
corrispondeva per il castellano di Grandchamp ad un partito eroico: stanco dello
spreco, aveva risoluto di governare da sé il proprio patrimonio. Di solito, per le
persone del suo grado, è il momento nel quale comincia la rovina definitiva. Dopo
tre mesi, il così detto segretario verificava da solo i conti, e innanzi la fine del primo
anno, le infedeltà erano cominciate. Poi s'erano moltiplicate di saldo in saldo, per
giungere alla vigliacca impresa già accennata che un nucleo di rivenditori strozzini
voleva tentare, con l'aiuto di costui, sui tesori di Grandchamp. Per quali tappe la
coscienza dell'antico maestro privato era scesa a quel grado di disonestà? Il
mutamento del suo volto, in quegli ultimi anni, lo rivelava. L'inquietudine arrogante
del ladro sempre sul punto di esser còlto in fallo gli contraeva la faccia, gli aguzzava
le pupille, rendeva il suo gesto più nervoso. Ma si finisce sempre col non guardar
più coloro che vediamo incessantemente. Il marchese non aveva osservato questi
segni rivelatori, e Landri nemmeno. D'altra parte, appena si trovava in presenza a
loro, il furbo si sorvegliava sempre più, a mano a mano che le sue infamie
aumentavano. Per questo, giunto in cima alla scala ed arrivato alla porta dietro la
quale sapeva di trovare il giovanotto, prima di bussare si fermò un momento, il
tempo di comporre la sua fisionomia, e, quando entrò, dietro la risposta venuta
dall'interno, il duro e cinico sogghignatore era scomparso; non rimaneva che un
umile e fedele impiegato della famiglia, commosso, ma che si reprimeva, sgomento
ma risoluto, al quale la propria devozione impone il passo più penoso. Egli non esita
più. Il suo segreto lo soffoca. Bisogna che lo gridi. Questa parte era tanto più facile
a sostenersi, perché Chaffin non aveva che da mentir poco. Il suo piano, di una
formidabile semplicità, e per mezzo del quale sperava di premunirsi per sempre
contro qualsiasi sospetto di complicità, consisteva nell'esporre al futuro erede del
marchese la vera condizione della casa de Claviers-Grandchamp nell'anno di grazia
1906. Soltanto taceva le proprie dilapidazioni e il suo accordo con gli esecutori
dell'ultimo assalto.
- «Che c'è, mio buon Chaffin?» domandò il giovanotto. Si era alzato, per ricevere il
suo visitatore, dalla poltrona a sdraio dove aveva vissuto momenti atroci, da che
suo padre lo aveva lasciato, a prendere e riprendere il filo per lui tanto crudele del
loro colloquio: «Che cos’è accaduto? Mi spaventate.» Dinanzi alla fisionomia
sconvolta di colui che fu il suo precettore gli era balenato alla mente una disgrazia;
che il marchese fosse stato colpito da un attacco....
- «No, non è accaduto nulla,» rispose Chaffin, «nulla ancora!... Ma io non posso
tacere più a lungo. Se non foste venuto a Grandchamp oggi, sarei venuto io a
Saint-Mihiel. Non si può andare avanti così. lo impazzirei. Mi ucciderei... Landri, il
signor de Claviers non mi vuole ascoltare. Io ho il titolo di segretario, la qual cosa
vuol dire che sono il gerente del patrimonio, non è vero?.. Ebbene, se le cose
vanno come vanno, Landri, io non sarò più gerente di nulla! Non vi sarà più
patrimonio, capite? più patrimonio, più nulla, nulla...»
- «Dite che il babbo non vuole ascoltarvi? - interruppe Landri. - Ciò mi meravoglia.
Egli pure è impensierito dello stato delle cose. Si è lagnato con me, oggi stesso,
dell'aggravio delle sue spese. Orsù, calmatevi, mio caro maestro.» Aveva aggiunto
queste parole, tanta era completa la sua fiducia in quell'uomo che gli rappresentava
la sua prima gioventù. Il vostro affetto per noi spinge al tragico delle piccolissime
difficoltà, ne sono sicuro. Spiegatemele.»
- «Vi dirò le cifre,» rispose Chaffin semplicemente, «e vedrete se esagero. Sapete
quanto deve il marchese sui suoi immobili: Grandchamp, il palazzo di via del
Faubourg-Saint­Honoré, le vostre case della pianura Monceau, le ville di Cabourg,
tutto insieme? Due milioni e cinquecentocinquantamila franchi, che si scompongono
come segue: un milione e settecentocinquantamila franchi al Credito fondiario, e
ottocentomila ad un altro mutuante. Per questo abbiamo più di centoquindicimila
franchi l'anno d'interessi da pagare, prima di qualunque altra spesa.»
- «Bisogna proprio che me lo diciate voi, perché io non creda di sognare!...»
esclamò Landri dopo un silenzio. E ripeté: «Due milioni e cinquecentocinquantamila
franchi? E mio padre non ha più di quattrocentomila franchi di rendita!...
Possibile?... Eppure non giuoca. La sua vita è irreprensibile. Non ha cavalli da
corsa... Dov'è dunque andato a finire tutto questo denaro?...»
- «Lo saprete fra poco,» proseguì l'implacabile Chaffin. Finiamo prima di
enumerare i debiti. Ve ne sono altri. Accanto al passivo immobile, v'è il passivo
mobile. Per questo il signor marchese deve più di altri due milioni: somme prese
sulla firma. Non parlo dei pagamenti da fare ai fornitori, degli stipendi arretrati, di
tutto il resto: ammonta forse a un altro milione, ma fluttuante, e da cui me la cavo
come posso. E una battaglia quotidiana. La impegno e la vinco!... Dal passi va
mobile non me la cavo. Ah, merita il suo nome, quello! Si muove, minaccia, vuole
spezzar tutto.. Sentite, Landri. Quando vi avrò detto tutto, condividerete il mio
orgasmo. Questi due milioni e più, come vi potete figurare non rappresentano un
credito solo: sono dieci, quindici, venti debiti diversi... Cioè, erano; poiché oggi!...
Ma lasciatemi entrare nei particolari, e capirete come questi debiti siano ammontati
a cifre fantastiche col solo tiro brutale degli interessi, e perché io vi dica: erano. Vi
è stato, per esempio, un credito Gruet. Io lo scelgo; è tipico, e poi è quello che ha
fatto scoppiar la bomba. Nel 1903 avemmo assoluto bisogno di trecentomila
franchi. Métivier, nostro notaro, ce li aveva procurati per mezzo di un certo signor
Gruet, un onesto uomo d'affari, - ve ne sono. Vi è quello, e lo giudicherete voi
medesimo! Egli sta in via Lafayette. L'imprestito scade il 15 luglio 1905. Non
eravamo pronti. Gruet stesso mi suggerisce una tale che dà il denaro in prestito ad
un tasso equo, una certa signora Muller, che ha bottega di stoffe antiche in via
della Chaussée-d'Antin. Ci vado senz'altro. Con mia grande meravoglia, essa
accetta, e rimborsa Gruet con sostituzione davanti al notaro. La cosa era
correttissima, co­me vedete. Soltanto, il 15 luglio scorso, i trecentomila franchi
Gruet erano diventati 346.500 franchi Muller. Fate il conto: due anni d'interessi alla
scadenza del 1905, trentamila; più sedicimilacinquecento per il 1905-1906.
Ascoltate ancora. Questo 15 luglio eravamo nella stessa impossibilità di pagare.
Feci dei passi presso la signora Muller, la supplicai... Che cosa non farei io per il
signor marchese!... Mi fu concesso un po' di tempo, e un bel giorno quel credito
Gruet, diventato credito Muller, diventò credito Altona. Ci giunse un primo ordine.
Nascosi 1'incidente al signor marchese, s'intende, e corsi da questo tale. Trovai un
uomo che abita un magnifico palazzo in piazza Vendòme, con l'aria direi quasi di un
gran signore, se non conoscessi il signor marchese e voi, Landri, - circondato da
stupendi oggetti d'arte. E un magazzino disposto come una collezione, un museo
dove vendono al minuto. - Altona mi ricevette con fare principesco, e, con calma,
placidamente, mi spiegò come non solo abbia comprato il credito Muller, ma come
una gran quantità delle nostre cambiali siano nelle sue mani, o in quelle dei suoi
uomini di paglia. Non si tratta di tutti i nostri debiti, ma quasi. Ne ha per più di un
milione e quattrocentomila franchi. Ha raggranellato tutto quello che ha potuto.
Con la medesima calma egli mi dichiarò che agiva per conto di un sindacato dei
suoi colleghi, i quali, da qualche anno, mirano alle maraviglie conservate a
Grandchamp. Come hanno saputo che il signor marchese si trova in cattive acque?
Come son giunti a sapere i nomi degli strozzini ai quali abbiamo dovuto rivolgerci?
Come si son messi d'accordo con costoro?.. Non ve lo posso dire, perché non lo so.
Comunque, quella prima visita di usciere, era la cannonata che apre il fuoco.
Insomma, essi sono in grado di citarci in tribunale e di farci fare una vendita
giudiziaria. Altona non mi ha nascosto che avrebbe proceduto implacabilmente in
questa esecuzione, se pure...»
- «Ebbene? » chiese Landri. «Finite...»
- «Se pure noi non accettiamo l'offerta che egli mi ha fatta per parte dei suoi soci,
ed è evidentemente la mira che hanno avuta. «Abbiamo calcolato,» mi ha detto, sempre con la sua perfetta cortesia, - «la probabilità dell'asta pubblica. Possiamo
guadagnarci, come possiamo perderci. Certi oggetti, per i quali abbiamo fin d'ora
un collocamento vantaggioso, potrebbero sfuggirci. Preferiamo farvi una proposta
di compra in blocco. Daremo quattro milioni in contanti di tutto, cioè di tutti gli
oggetti enumerati nel documento giustificativo N. 44, che figura in fondo al libro
sulla Storia della casa di Grandchamp. Faremo, voi e noi, un ottimo affare. Voi
evitate la probabilità dell'asta, pagate i debiti, più avete due milioni di contanti per
rimettervi a galla. In quanto a noi, il nostro guadagno è assicurato. Abbiamo due
americani che danno un milione e mezzo soltanto degli arazzi. Avete quindici giorni
per riflettere e decidere.» Vi ripeto quello che mi ha detto, parola per parola.
Quindici giorni!... Sono già passati sei giorni da che ebbi questo colloquio con
Altona, e non ho ancora avuto la forza di avvertire il signor marchese!... E volete
che io non perda la testa?..»
- «Lo avvertirò io,» esclamò il giovanotto, «e subito. Avete perduto sei giorni,
Chaffin, sei giorni su quindici! Avete mancato gravemente al vostro dovere.
Andiamo da mio padre.»
- «Per dirgli che cosa?» domandò il segretario mettendosi davanti alla porta, verso
la quale Landri aveva già fatto un passo.
- «Quello che è, né più né meno.»
- «E per riuscire a che cosa? Egli rifiuterà di credervi, contro l'evidenza, dicendo:
«Non oseranno di toccare Grandchamp!» Oppure impiegherà questa settimana a
cercar tanto denaro da pagare il debito Altona. Può darsi che ne trovi, perché,
infine, gli arazzi, i mobili, i quadri, le statue di bronzo ci sono, e noi sappiamo che
valgono almeno quattro milioni, poiché l'altro li offre. Dunque, il signor marchese
troverà. questo denaro. Ma a che tasso? Egli lo prende al venti, al trenta, al
cinquanta per cento, forse!... E fra un anno siamo al punto in cui ci troviamo oggi,
con la differenza che i nostri due milioni di questo debito saranno diventati due
milioni e trecentomila franchi, senza parlare della necessità di trovare altri quattro o
cinquecentomila franchi per continuare durante l'anno una vita che bisogna mutare
ad ogni costo. Capite, Landri, bisogna. Voi mi avete rimproverato di aver mancato
al mio dovere. Sì, è vero, non ho potuto dire a vostro padre quest'orribile parola:
bisogna. Pensate che il disastro della sua immensa ricchezza deriva dal fatto che
egli non ha mai voluto dire a sé medesimo: bisogna. Voi chiedete dov'è andata
questa ricchezza? - Col vivere spendendo cinquecentomila franchi di rendita,
quando lui e la signora marchesa ne avevano quattrocentomila, come avete detto
ora, allorché sposarono. Con un foglio di carta, un lapis e due colonne, quella delle
entrate e quella delle spese, vi farò toccar con mano la cosa. Il signor de Claviers
ha voluto conservare a Grandchamp il lusso del padre suo, il quale aveva quasi il
doppio delle sue. rendite, e del suo nonno, che ne aveva il triplo. La vostra signora
zia e la vostra signora prozia hanno portato il resto in casa Nançay e in casa
Vardes. Il signor marchese maledice sempre il Codice civile, ed ha ragione. Ma è il
Codice, ed è più forte di noi e di lui. Egli ha tenuto il castello come se fosse il vostro
nonno e il vostro bisavolo. Sapete che cosa significa ciò? Prima di tutto, centomila
franchi per il parco, il giardino, le serre; più sessanta mila franchi per l'equipaggio;
più quaranta mila franchi per la caccia a tiro, e trentacinquemila per le scuderie.
Siamo subito a duecentotrentacinquemila. E il resto in proporzione. La tavola?
Stasera abbiamo quaranta persone a pranzo, e il signor marchese si crederebbe
disonorato se il suo cuoco non fosse citato come uno dei più bravi di Parigi. Il
servitorame? Lo conoscete, e sapete pure che il signor marchese non vuol mai
separarsi da un vecchio servitore senza assegnargli una pensione. Anche ieri ci
disputammo per il figlio di Mauchaussée. Milleduecento franchi al padre, e la casa;
mille duecento franchi al figliuolo. Son più di trenta che godono lo stesso beneficio.
Per questo, dunque, vanno quarantamila franchi. E ogni giorno gli giungono delle
domande alle quali il signor marchese non ha che una risposta: date. E si dà: si dà
ai frati e alle monache, agli ospedali e alle chiese, alle scuole e per le elezioni.
Senza captare i soccorsi privati che non passano dalle mie mani. Furono dati
centomila franchi alla mano, quando eravamo in gravi imbarazzi, al signor de
Lautrec, senza ricevuta, per pagare un debito di giuoco! Ne ho avuto la prova. Osai
fare un'osservazione al signor marchese, il quale mi rispose: «Se non ci aiutiamo
fra noi, chi dovrebbe aiutarci»? - Che agisse così il primo, il secondo anno, nel '66,
nel '67, fino alla guerra, era naturale; ma quando egli s'è veduto diminuire la
rendita delle terre, crescere le ipoteche, accumulare i conti non pagati, è strano che
non abbia tentato di reagire. Ma è così, ed io me lo spiego benissimo! Ogni
risparmio equivaleva ad abbassare la casa de Claviers-Grandchamp, materialmente,
in modo concreto, in un modo che egli avrebbe veduto coi propri occhi e toccato
con mano. Risparmi? Cioè, gli alberi tagliati ogni tre anni, - e nell'intervallo? - i viali
tenuti meno bene, - e dopo le piogge? - Meno fiori nelle aiuole, meno cavalli in
scuderia, la caccia a cavallo con meno cani e meno battitori!... Gliene è mancato
l'animo. Ha prorogato all'anno dopo. Il debito è ingrossato e lo ha trascinato nel
suo vortice. E poi, egli ha sempre sperato. Ieri, era un collocamento di denaro
vantaggioso: il signor Jaubourg lo aveva messo sopra una buona strada. Egli
guadagnò centoventimila franchi. Una goccia d'acqua nel deserto! Ieri l'altro, uno
dei vostri cugini, il signor de Nançay, gli lasciava morendo centomila franchi. Altra
goccia d'acqua. Queste somme impreviste lo hanno ingannato con un miraggio che
si accordava troppo all'istinto ereditario. Gli sarebbe più facile di lasciare tutte le
sue consuetudini, che non restringerle: ecco l'evidenza. Per ciò, Landri, io considero
provvidenziale l'offerta di Altona, capite. Bisogna che il signor marchese l'accetti.
Quando Grandchamp sarà vuotato dei mobili che per lui sono reliquie, non vorrà
più tornarvi. Non vi sarà più giardino alla francese, o per lo meno se ne ridurrà il
mantenimento; non più caccia a cavallo: non più tavola bandita. Con quello che gli
resterà, egli avrà sempre da vivere agiatamente. Daremo la caccia in affitto, forse
anche il castello. Cominceremo a togliere le ipoteche. La casa de ClaviersGrandchamp non avrà più il suo fasto per qualche anno, ma raggiungerà il proprio
motto: E tenebris inclarescent. Non si oscurerà per sempre.»
Abbandonatosi all'ardore della sua dimostrazione, Chaffin aveva commesso uno
sbaglio; egli aveva mutato accento a mano a mano che appoggiava sulle cifre,
terribile commento al discorso fatto dal marchese al figliuolo, nella foresta, due ore
prima, sullo splendore del nome! Certo, la gioia crudele di quando aveva salito la
scala non accendeva più la fiamma sinistra nelle pupille gialle di Chaffin, ma i suoi
bassi sentimenti per l'imprudente e magnanimo padrone si manifestavano nella
spietata esattezza con la quale pensava e parlava di questo disastro. Egli credeva di
conoscer bene Landri col saperlo molto impressionabile, e avendo contribuito, per
l'addietro, con un lavorio di sorda critica, a staccarlo dal suo ambiente. Lo aveva
veduto tener testa al marchese nella questione di Saint-Cyr. D'altra parte, non si
trattava forse della dilapidazione della futura eredità? Egli però non sapeva né il
grado di disinteresse del giovanotto, né quali corde profonde la poesia così vera del
carattere del signor de Claviers toccasse in quel tenero cuore. Il brutale relatore del
rovinoso bilancio pareva non si accorgesse neppure di quella poesia. Il quadro che
aveva fatto della vita del marchese, così follemente disordinata ma generosa, o
meglio, la sua requisitoria in cui aveva sottolineato la stoltezza di voler comparire
del gran signore, senza notare abbastanza l'idealismo e la carità di lui,
contraddiceva molto stranamente il contegno di cane ringhioso ma fedele che di
solito egli ostentava.
Landri sentì soltanto d'intuito questa sfumatura. La rivelazione della imminente
catastrofe lo colpiva troppo, per il momento. Pur tuttavia bastò perché provasse un
bisogno invincibile di diventar solidale con suo padre, e rispose:
- «Cosicché voi, Chaffin, ammettete che i mobili di Grandchamp vadano venduti?
Questi tesori che la nostra avola salvò eroicamente nel '93 dovrebbero andar
dispersi? Mio padre dovrebbe essere scacciato da casa sua da quella banda nera?..
No, mai! Darei piuttosto tutto il mio patrimonio personale.»
- «Ebbene,» insinuò Chaffin, «richiedetelo.»
- «Non mi venite a dire che è inghiottito anche quello...» gridò il giovanotto. Non
finì la frase, e disse energicamente: «So che non è vero!...»
- «Infatti non è vero,» rispose il segretario. «Il signor marchese serba un capitale
molto superiore al milione e cinquecentomila franchi che avete ereditati dalla
signora de Claviers. Voi gli deste, dopo il suo rendimento dei conti di tutela, una
procura generale che comportava il diritto di alienare e ipotecare. Lo faceste perché
egli ereditava un quarto dei beni di vostra madre, cioè cinquecentomila franchi.
Questi beni consistevano, in parte, in case. Voi voleste rimanere indiviso. Basta
dunque, perché sia in regola con voi, che egli vi presenti il milione e
cinquecentomila franchi di cui vi ha passato esattamente la rendita, e può infatti
presentarveli, ma ad un patto, e sine qua non. Deve vendere la mobilia di
Grandchamp, che è il solo valore realizzabile. I fabbricati e le terre sono gravati
d'ipoteche e difficili a vendersi. Non ne parliamo; bisognerebbe aspettare troppo
tempo, e per giunta non sareste il credito re privilegiato. Siete venuto voi stesso al
punto dove volevo condurvi. Era il motivo del mio passo, Landri.
Voi potete cavare d'impaccio il signor de Claviers, voi solo, col richiedergli il vostro
patrimonio.
- «Io? A lui?»
- «Sì; voi, ritirandogli la vostra procura. Lo conosco: non vorrà che possiate
supporre un istante ch'egli ne abbia abusato. Non avrà pace finché non vi avrà reso
tutto, lì, subito. Se in quel momento gli verranno offerti i quattro milioni di Altona, li
accetterà. Convengo che è orribile, Grandchamp spogliato dei suoi tesori. Ma un
castello smobiliato si può ammobiliare di nuovo, mentre un patrimonio inghiottito
non si -ricostituisce; e con altri cinque anni di questa vita, il vostro è inghiottito per
sempre. Ero in obbligo di dirvi la verità. Ve l'ho detta. Decidete.»
Mentre Chaffin formulava questa proposta, Landri lo aveva guardato in un modo
tale, che l'altro dovette distogliere gli occhi da lui. Per la prima volta, l'antico allievo
dell'Intendente disonesto si rivolgeva questa domanda: «E’ proprio lo stesso
uomo?..» Nel lampo di un'improvvisa intuizione egli scòrse la pericolosa trama
ordita intorno all'antica dimora e di cui uno dei fattori era quell'uomo che gli
consigliava - che cosa? Un parricidio morale, dato il carattere del signor de Claviers.
Fu un lampo soltanto. Quel crudele consiglio, infine, poteva essere ispirato
all'amministratore in agguato dall'angoscia di una di quelle crisi di affari in cui
l'umanità sparisce dinanzi alla implacabilità delle cifre. Comunque, Landri era stato
troppo ferito nella sua intima delicatezza, e nella sua risposta fremeva uno sdegno
appena represso:
- «Non lo farò,» diss'egli. «Preferisco di perdere tutto, piuttosto che il suo cuore. Il
mio primo impulso era quello che debbo seguire. Bisogna dirgli tutto, e senz'altro
indugio. Si tratta dell'avvenire della famiglia, ed egli ne è il capo. Spetta a lui, non a
me, di decidere. Andiamo.»
- «Io ho fatto quello che ho potuto,» rispose Chaffin. «Voi non volete. Andiamo.»
Aprì la porta per il primo, e i due uomini si trovarono subito di faccia al cameriere di
Landri. Quel giovanotto aspettava nell'andito, pronto a entrare appena il padrone
fosse libero. «Stava ad ascoltare?» disse fra sé Chaffin. «S'anno tutto, del resto, da
molto tempo!» Egli calunniava quel ragazzo, figliuolo di un vecchio lampista del
castello - Grandchamp era tutto illuminato a olio, e ci volevano due individui
speciali addetti soltanto a quel servizio! - Quel servitore doveva fare un'ambasciata
il cui mistero lo agitava; questo era il semplicissimo motivo del suo stare in
agguato.
- «C'è una persona che ha bisogno di parlar subito col signor conte,» diss'egli. «E
cosa urgente e importante, ma si tratta di una parola sola. La persona aspetta in
camera del signor conte.»
- «Se si tratta di una parola sola,» rispose Landri, meravigliato anche lui,
nonostante il proprio turbamento, dal contegno del cameriere e da queste formule,
«ci vado. Torno subito, Chaffin; aspettatemi. Voi intanto, Giovanni, andate a vedere
dove si trova in questo momento il signor marchese.»
- «Landri non dirà nulla al signor de Claviers, proprio nulla,» ripeteva fra sé l'antico
precettore, rimasto solo. L'attimo in cui i loro sguardi si erano, poc'anzi, incrociati,
gli aveva rivelato delle energie e una perspicacia da lui non supposte nel suo
allievo. Aveva accettato senz'altra resistenza quella proposta di andare a dire la
verità al marchese, per timore di svegliare qualche sospetto. Si rispondeva
anticipatamente fra sé e sé: «E se gli dice tutto?... Che me ne importa? I miei conti
sono in regola. lo non ho mai agito senza autorizzazione firmata. No. Non gli dirà
nulla. Non gli si può parlare, a costui. Landri prorogherà. Domani va a Parigi. Andrà
a chieder consiglio. Consiglio? Ma a chi?... Forse a Jaubourg. No, non gli vuol bene,
mentre invece ama, anzi, adora il marchese!... Ah, la voce del sangue! Che farsa! è
proprio come quella della famosa loro stirpe!...» Chaffin sghignazzò. Egli
oltraggiava due volte, col pensiero, il padrone, nella persona e nelle idee di lui.
«Landri andrà piuttosto da: Métivier, il notaro. Sì, davvero!... Métivier mi chiamerà,
e quando saprà come stanno le cose, sarà della mia opinione. L'offerta di Altona è,
per me, all'uno per cento, quarantamila franchi. Per essi tuttavia è la salvezza.»
L'accanito calcolatore non lo supponeva neppure: se, fedele al vile spionaggio di
cui era stato pronto ad accusare il servitore, avesse messo l'orecchio all'uscio della
stanza attigua, avrebbe udito prepararsi appunto uno di quei colloqui che
s'immaginava. La «persona», come aveva detto prudentemente Giovanni, che
aspettava Landri, era il maggiordomo del malato di via Solferino, venuto
direttamente da Parigi per dire al giovanotto:
- «Quando il signor Jaubourg ha saputo che il signor conte era passato a prender
notizie di lui senza salire, è stato molto dispiacente, anzi addolorato. Ho dovuto
prender subito il primo treno per Clermont. Egli vuole assolutamente vedere il
signor conte. Debbo insistere che vossignoria venga domani, se ripassa da Parigi,
poiché il signor Jaubourg è molto aggravato, e non andrà avanti più di due o tre
giorni al massimo!... Mi ha molto raccomandato di non farmi vedere, acciocché il
signor marchese non sappia il suo passo. Aveva paura d'impensierirlo troppo.
Insomma, ecco mi qui...»
- «Dite al signor Jaubourg che verrò domani alle undici», aveva risposto Landri. La
premura dimostrata da un moribondo di risparmiare un'angoscia ad un vecchio
amico, lo aveva commosso. Egli ne aveva sentito maggiormente la delicatezza in
quanto che aveva il cuore come agghiacciato dalla brutalità, deferente nella forma,
ma così dura in fondo, del suo antico maestro. In qualsiasi altra circostanza, la
singolarità del procedimento, quel servitore mandato a due ore di ferrovia, gli
avrebbe dato del filo da torcere; ma un cruccio troppo concreto e troppo presente
sospendeva in lui qualunque lavorio dell'immaginazione, e mentre scendeva la scala
con Chaffin, poco si curava delle ragioni per cui Jaubourg desiderava tanto di
vederlo, né se si trattava o no d'insistere sul matrimonio con Maria de Charlus.
Giovanni era tornato ad annunziare che il signor de Claviers-Grandchamp era in
salotto da pranzo. Fu lì, infatti, che il figliuolo e il segretario trovarono
l'imprevidente possessore dei tesori agognati dalla banda Altona. Il gran signore
portava ancora il suo vestito da caccia. Non aveva avuto un quarto d'ora disponibile
da che era tornato. Adesso era occupato col suo maggiordomo, - sempre secondo il
suo stile, - a distribuire i posti intorno all'immensa tavola apparecchiata e
imbandita. Innumerevoli candele, già accese, illuminavano l'argenteria cesellata da
Roettiers. I piatti, sottili e schiacciati, disegnavano il loro fregio a nastro sul candore
abbagliante della tovaglia, intorno al trionfo da tavola, opera magistrale di Germain,
che rappresentava il rapimento d'Europa, sopra una larga base di conchiglie. La
stanza, di forma ottagona, era ricoperta d'intagli di legno rifatti nel diciottesimo
secolo. Otto colonne agli otto angoli, scannellate e sormontate da capitelli corinti, le
davano una maestà che veniva rallegrata da quattro alti arazzi di Gobelin, del
seguito delle cacce di Oudry, alternati con specchi. Tali arazzi, nelle serate come.
quella, prolungavano sulle pareti il divertimento della giornata, come pure i corni da
caccia circondati di rami d'alloro che si vedevano nelle lumiere capolavori di un
allievo di Gouthière. Il colore bianco avorio degli intagli di legno intonava con quello
delle poltrone di canna e col riflesso della lumi era del centro, di cristallo di Venezia,
- un capriccio di una castellana di altri tempi, la moglie del restauratore di
Grandchamp. Il ritratto di costui, opera di Parrocel, s'incastrava sul caminetto di
marmo bianco. Era a cavallo, nel costume di tenente generale che aveva quando
rimase ferito a Fontenoy, con la corazza sotto la giubba di color celeste chiaro, la
sciarpa bianca, il cordone rosso, e, in mano, il bastone da comandante. Quella sala,
dove ai colori tenui o vivaci dei fiori si univa lo scintillio dei cristalli, era come una
nota briosa nello splendore che divenne improvvisamente tragico agli occhi del
giovanotto. Le cifre emesse da Chaffin si disegnarono sulle pareti tanto
distintamente quanto il Mane Thecel Phares del festino biblico, e in pari tempo egli
sentì la impossibilità preveduta dall'altro, quella d'infliggere il dolore di una visione
identica al povero e magnifico «Emigrato» di cui quel suntuoso ricevimento era
forse l'ultima gioia, - gioia infantile, ma cordiale, ma calda nella sua ampia
espansione.
- «Quaranta!» aveva esclamato, appena veduto il figliuolo: «Saremo davvero
quaranta. Un'Accademia!... L'ho completata invitando i nostri piccoli vicini, i Sicard,
e due amici che hanno in casa loro, i Saint-Lary. Due coppie graziose! Mi delizierò
gli occhi su quelle due giovani felicità. Ebbene, Chaffin, non avevo ragione, io,
d'ordinare il pranzo per quaranta? Non mi direte più che spreco!...» E rideva forte.
«Guarda, Landri, il nostro. Parrocel. Com'è bello, a vederlo di qui!... E dire che non
ti vedrò mai vestito così, neppure se un giorno tu fossi generale ed io vivessi
ancora. Che belle uniformi allegre erano quelle di prima! Com'erano eleganti gli
ufficiali che andavano alla battaglia con quei colori! Oggidì abbiamo tutto triste,
anche l'eroismo. Tu mi aiuterai: stavo destinando i posti. Dapprima avevo messo la
signora de Férussac di faccia a me, e te laggiù, accanto a...» Fece vedere un
biglietto al figliuolo, sul quale era scritto il nome della signorina de Charlus. «Ora
cambio tutto. Tu starai di faccia a me.»
- «Ma no, babbo,» disse vivamente Landri. «Vi prego di lasciarmi dove mi avevate
messo. Vi assicuro che lo preferisco.»
- «Davvero? Vuoi? » disse il signor de Claviers. Vi era tanta ingenua riconoscenza
sul suo volto, e quello studio per cambiare i posti a tavola dimostrava un riguardo
così affettuoso per le suscettibilità del cuore del giovanotto, che questi si sentì
salire le lacrime agli occhi; e siccome suo padre gli domandava:
- «Orsù... Che c'è? perché mi cercavi ?...»
- «Per domandarvi se vi vedrò domani prima ch'io parta,» egli rispose. Si disponeva
già a ritardare quella rivelazione che aveva voluto fare immediatamente.
- «Credo di no,» soggiunse il marchese. Prendi il treno a Clermont? Alle dieci?..
Allora no addirittura...» E Landri non protestò! «Hai passato la notte in ferrovia;
dovrai viaggiare anche domani, dunque hai bisogno di riposo. lo debbo andar a
vedere un mio fattore molto lontano di qui, che chiede una riparazione. Lo sapete,
Chaffin, dico del vecchio Chabory. Ma non l'avrà, ve lo prometto; sarò implacabile;
non ne ha diritto. Ne profitterò per muovere il mio nuovo baio. Un animale
stupendo, che Régie Ardrahan mi ha mandato da Dublino, un altro Toby!... Ma
gl'Inglesi non hanno mai saputo insegnare il trotto a un cavallo. Monterò alle sette
e mezzo per esser di ritorno quando i miei ospiti si sveglieranno. No. Non ci
rivedremo. E stasera non conta!... Ci rifaremo alla tua prossima visita. Volevo
venire su da te, per raccomandarti di fermarti da Jaubourg nel passare da Parigi, e
vederlo, se puoi, tu stesso. Mi telegraferai come lo avrai trovato.»
- «Landri farà quello che vuole,» disse Chaffin, «ma io ho qui un telegramma di mio
figlio, ricevuto or ora, e che venivo a comunicarvi. Il signor Jaubourg sta meglio,
molto meglio».
- «Che buona notizia!» esclamò il signor de Claviers. «Mi levate un peso dal cuore,
Chaffin. Dunque, festa completa. Stamattina una buona cacciata,» e canterellò
l'arietta:
«Stamattina, una cerbiatta.
«Che sbucava, quatta, quatta....
«E stasera un pranzo di quelli che sa fare Lardin,» - era il suo cuoco. - E canterellò
un'altra arietta, la Bourbon:
«Sì, la caccia, il vino e le belle,
«A Bourbon gli piacevano assai....
«Ma andiamo a vestirsi, caro Landri, per esser pronti quando queste belle
verranno!...»
- «Vedete,» disse sottovoce Chaffin a Landri, mentre uscivano dalla sala da pranzo
dietro al marchese, non gli avete - parlato, non avete potuto. Domani sarebbe lo
stesso. Lo avete sentito... N'ero sicuro. Guardate in faccia la situazione. Farete
quello che vi ho consigliato; è l'unico mezzo. lo aspetterò ancora quarantott'ore
prima di avvertirlo...»
E si allontanò dirigendosi verso il suo studio, senza che Landri avesse trovato,
questa volta, una parola da rispondergli. Egli si sentiva umiliato di giustificare col
suo contegno il silenzio poc'anzi vivamente rimproverato al suo antico maestro.
Tuttavia lo capiva, il motivo di affetto appassionato al quale egli cedeva ritardando
il risveglio da quel sogno felice sull'orlo di un abisso, non aveva nulla di comune
con gli oscuri moventi di un uomo senza dubbio molto equivoco. Landri aveva
avuto di nuovo questa impressione quando l'altro accennò a quel presunto
telegramma mandatogli in giornata dal figliuolo. L'ambasciata che egli aveva avuta
mezz'ora prima smentiva quel miglioramento, di certo inventato da Chaffin. Perché?
A caso, e per diminuire la probabilità di un consiglio del sagace Jaubourg sul partito
da prendere. Il giovanotto non poteva indovinarlo; ma ormai non poteva più
rispondere a sé medesimo con convinzione: «Per risparmiare un dispiacere a mio
padre.» Il primo sussulto di meravoglia era passato. La riflessione gli mostrava ora
troppi enigmi in quest'avventura, e prima di tutto la rinunzia sistematica alla lotta,
l'accettazione di un avvenimento che avrebbe dovuto essere motivo d'una
resistenza disperata. Ma dunque Chaffin non era leale?.. Questa ipotesi schiudeva
orizzonti così tenebrosi, che Landri la respinse. I suoi ricordi d'infanzia e di
giovinezza protestavano contro di essa: «Egli mi avverte,» disse tra sé. «Chi ve lo
costringeva?... Dio mio! Come è difficile sapere la verità, e più che altro qual sia il
dovere!...»
Qual'era il suo dovere? Appena ebbe formulato questa domanda, essa occupò
tutto il campo del suo pensiero. Avrebbe voluto consigliarsi con qualcuno. Ma con
chi?.. Quando, vestito da sera, traversò di nuovo la biblioteca per scendere nelle
sale del pianterreno, volse lo sguardo al ritratto della madre, e si fermò per
contemplarla, come se la figura della morta potesse animarsi per dargli un
appoggio, un suggerimento. Ma il suo affetto filiale interrogò invano ripetutamente
il fine e delusorio volto che era stato quello della bella signora de Claviers! Egli non
ne avrebbe ricavato che dei dubbi su di lei, se il denunziatore avesse spinto fino
all'ultimo le sue confidenze sulle miserie segrete della loro famiglia. Quel ritratto era
stato fatto nel 1878; Landri era appena nato, e la signora de Claviers aveva allora
trent'anni. Ella era ritrattata seduta, con un vestito da sera di velluto rosso che le
lasciava scoperte le braccia fresche, le spalle svelte, il collo piuttosto lungo, dove
corruscava una fila di perle enormi. Aveva la testa piccolissima, con una folta
capigliatura castana; la bocca di un disegno sinuoso, dove errava un sorriso, ma
impersonale e come di prammatica. Gli occhi, di un'espressione sognatrice e
osservatrice in pari tempo, passionale e riserbata, contraddicevano la indifferenza
voluta di quel sorriso. Era l'immagine di una donna dolcissima e semplicissima a
prima vista, complicatissima osservandola meglio, e incomprensibile, - una donna
felice, ma d'una di. quelle felicità profonde e turbate che non si effondono,
condannate come sono, dalla colpa, a rimanere clandestine. Landri, senza saper
bene il perché, non aveva mai prediletto quella tela, conservata come una reliquia.
Sua madre l'aveva lasciata espressamente a lui con un testamento scritto negli
ultimi giorni dell'atroce malattia di cui moriva: un cancro al fegato. In preda
all'ansia che lo divorava egli detestò ad un tratto quel quadro, e se ne allontanò in
fretta. La gran dama vestita in gala, che aveva regnato su tutta quella vita di
prodigalità, condividendola, non aveva nessun aiuto morale da dargli. Né lo
aiutavano le avole e gli avi, le cui fisionomie antiquate popolavano tutte le pareti
dei salotti da essi abitati secondo il medesimo principio di spesa sfrenata. Gl'invitati
del marchese cominciavano ad arrivare, e il giovanotto guardava, al di sopra delle
loro teste, quei ritratti di famiglia: donne vecchie e donne giovani dei secoli passati,
signori e prelati, ambasciatori e guerrieri, commendatori dello Spirito Santo e
cavalieri della gran croce di San Luigi. Quelle immagini, con la sola presenza,
pareva supplicassero l'erede del proprio nome di adoprarsi a risparmiar loro il
supremo oltraggio, cioè quello di esser portate via, dall'avito maniera per non
rappresentar più che un'opera di Rigaud o di Largillière, di Nattiér o di Tocqué, di
Drouais o della Vigée-Lebrun, in una collezione qualunque. Ma come risparmiar ad
essi quest'oltraggio? Landri sentiva aumentare la propria incertezza. Qual'era il suo
dovere?.. Se Chaffin fosse sincero, se avesse parlato spassionatamente, se, per
salvar suo padre dalla rovina totale, fosse occorso di sacrificare con forza d'animo
quei ritratti, e tutto il resto, gli arazzi, la collezione di Boucher, la Nobile Pastorale,
Marcantonio di Natoire, la mobilia di stoffa di Beauvais, quei legnami dorati di Foliot
e di Cagny, i tappeti, le statue, gl' intagli, tutta quella decorazione il cui frivolo fasto
richiedeva invincibilmente riunioni. come quella di cotesta serata?.. Passando dagli
oggetti alle persone, Landri studiava, l'uno dopo l'altro, in quei salotti prima, poi
nella sala da pranzo, i volti conosciuti dei convitati del signor de Claviers, e il signor
de Claviers in persona. Il giorno in cui i Férussac, gli Hautchemin, i Travers e i
Sicard, i Saint-Lary, e tutti gli altri, compresi Luigi de Bressieux e Florimondo de
Charlus, sapessero la rovina del loro ospite, lo compiangerebbero molto più di
quanto lo compiangeva il suo segretario? L'egoismo, la leggerezza, la indifferenza
loro diventavano quasi percettibili per l'immaginazione dolorosa del figlio. Frattanto
il pranzo era cominciato. I servitori, con la livrea dei Claviers-Grandchamp,
andavano e venivano fra i convitati. Le stoffe chiare degli abiti scollati si
alternavano col nero delle giubbe; gli sguardi brillavano, le bocche ridevano, i piatti
si succedevano, i vini riempivano i bicchieri, e il marchese, nel centro della tavola,
guardava quella festa con occhi fulgidi di brio. Erano tutti i Claviers-Grandchamp
che ricevevano per mezzo suo, così magnificamente. Un barlume di scontento
velava a mala pena le sue pupille quando, volgendo l'occhio dalla parte del figlio,
ne scorgeva la visibile preoccupazione. Egli diceva fra sé: «Quel povero Landri
pensa alla signora Olier!...» e il suo vecchio cuore generoso provava un oscuro
rimorso, che egli dissipava alzando la testa e fissando il ritratto del tenente
generale, ferito a Fontenoy. Le voci si alzavano sempre più. Le risate diventavano
più gioconde. Le guance, sferzate dall'aria della campagna, si colorivano
nell'atmosfera della sala. L'angoscia di Landri diventava più acuta. Era possibile che
quella festa fosse veramente l'ultima? Ma che fare, che fare?... Egli si sforzava di
parlare di cose indifferenti con le sue due vicine, di cui l'una, quella di sinistra, era
la bella, bionda e insignificante signorina de Férussac. L'altra, la spiritosa Maria de
Charlus, diventava più allegra via via che il pranzo inoltrava. Ella sentiva che per
Landri era come se non esistesse, e cedeva a quell'istinto che ha compromesso la
felicità di tante donne innamorate: fare impressione ad ogni costo su colui che esse
amano, spiacergli piuttosto che non essere osservate. Caricando la sua manìa
d'essere al fatto d'ogni cosa, s'era messa a sfilare una lista di soprannomi satirici,
come era di moda distribuirne l'inverno precedente a Parigi. Quelle cattiverie
anodine davano sfogo alla sua irritazione.
- «E Bressieux,» diss'ella a un certo momento, «non sapete come si chiama
Bressieux? Il visconte della Roccantica. E quel povero Jaubourg, in conseguenza
delle sue belle relazioni fra noialtri? Jaubourg-Saint-Germain. Mi par proprio
curioso.»
- «Jaubourg Saint-Germain?.. » disse Sicard, il vicino di destra della graziosa
ragazza stizzita. «Non lo sapevo, questo. Sì, è curioso!... » Il più curioso era che i
coniugi Sicard avevano anch'essi un soprannome, - ignorato dagli interessati,
s'intende: - «I Tre Mezzi.» Questo brutto bisticcio voleva significare che la
piccolissima signora de Sicard, maritata al piccolissimo signor de Sicard, era
sospettata di amare teneramente il piccolissimo signor de Traverso Lo storico dei
costumi contemporanei si scuserebbe di notare, anche di volo, simili inezie, se non
avessero un piccolo valore di documenti. Questi scherzi innocenti di una società
così minacciata, danno un'idea della sua noncuranza. Di solito queste lepidezze
della moda urtavano Landri de Claviers. A quel giovanotto intelligente e delicato
mancava, bisogna convenirne, il dono prezioso di sorridere, che aveva il marchese,
e che gl'Inglesi hanno chiamato con una parola quasi intraducibile: sense of
humour. Egli prendeva tutte le cose troppo sul serio. Eppure non gli passò neppure
per la mente, in quel momento, di urtarsi del tono cattivo di Maria. L'epigramma su
Bressieux gli ricordò subito come suo padre e lui avessero sorpreso il gentiluomo
antiquario in colloquio con Chaffin. Lo guardò, al di sopra della tavola, ed osservò
che anche lui lo guardava. Che fosse immischiato nei progetti della banda Altona?
Possibile? Ah! Che fare, che fare? E, prima di tutto, come vedervi chiaro?.. Il
secondo soprannome detto dalla signorina de Charlus fece rivolgere altrove la
mente di Landri. Jaubourg? Doveva andar da lui l'indomani. Se Jaubourg, che
sapeva tutto della loro società, e quel ridicolo soprannome lo attestava, se
Jaubourg sapesse che un pericolo minacciava la loro casa? Se fosse di questo che
egli voleva parlare al figlio del suo amico, non potendo essere ascoltato dall'amico
medesimo?... E, nel caso in cui egli non sapesse niente, perché Landri non gli
direbbe la verità, chiedendogli quel consiglio di cui sentiva più forte il bisogno?
Jaubourg voleva bene davvero al signor de Claviers-Grandchamp. Il pensiero del
giovanotto si fermò a quest' idea, sulla quale tornò più volte durante la sera. Come
gli parve lunga, finché l'ultima carrozza ebbe portato via, scivolando sul selciato del
cortile, l'ultimo invitato!.. Né meno lungo gli parve il principio della notte, quando,
salito nella sua camera, solo solo, tentò di figurarsi quell'appello all'esperienza ed
all'affetto di un uomo dinanzi al quale non si era mai sentito a suo agio! Aveva
incontrato troppo spesso l'ingerenza di Jaubourg in cose che riguardavano soltanto
il signor de Claviers e lui, e sempre celata. Egli non ne aveva saputo mai niente, se
non per caso. Come quel giorno circa il progetto Charlus. Per giunta, Jaubourg non
aveva mai mostrato a Landri quella bontà nella tenerezza, privilegio dei vecchi
amici di famiglia che ci hanno veduti crescere.
Egli aveva tenuto a distanza il fanciullo, poi il giovanotto, con un costante
atteggiamento di critica cortese e sdegnosa ad un tempo. Vi era sempre stato tra
loro una specie d'impaccio. Chaffin aveva indovinato bene su questo primo punto. E
non si era ingannato neppure sul secondo. Più Landri approfondiva l'idea di
appoggiarsi a Jaubourg, più la consueta antipatia si risvegliava. «E poi», concluse,
malato com'è, incapace di fare un tentativo qualunque, senza conoscere il Codice,
di quale aiuto può essermi, se vi è una trama da sventare, precauzioni legali da
suggerirei?..» Allora il pensiero di una possibile procedura sorse in lui, ed egli si
ricordò di Métivier, il notaro: «Dove diamine avevo la testa?» pensò. «Bisogna che
vada da lui. S'invoca un giudizio. Vi si fa opposizione. Un notaro sa i mezzi da
escogitare, sa i mezzi di prendere in prestito del denaro. Il mio patrimonio esiste
tuttora, Chaffin ne ha convenuto. Métivier mi dirà se posso impiegarlo per salvare
Grandchamp, e la via da seguire... «Rifletté che, restando soltanto mezza giornata
a Parigi, l'indomani, non aveva tempo per fissare un abboccamento con un uomo
occupatissimo, che, forse, non troverebbe a casa. Perciò prima di coricarsi scrisse
una lunga lettera molto spiegativa, che si proponeva di lasciare allo studio, in caso
di assenza. In essa riferiva minutamente tutta la storia che Chaffin gli aveva detta,
dando i nomi della signora Muller e di Altona, le cifre che gli erano state rivelate, il
mezzo suggeritogli dall'antico precettore, la sua volontà di sacrificare i propri
interessi personali perché il castello fosse conservato intatto. Aggiungeva che,
costretto a tornare a Saint-Mihiel, farebbe di tutto per trovarsi a Parigi appena la
sua presenza vi fosse necessaria. Nel rileggere quella lettera, egli si meravigliò di
osservare come gli paresse facile, ora, quella domanda al suo colonnello di un
nuovo permesso che la mattina giudicava impossibile, con la imminenza
degl'inventari. Le rivelazioni di Chaffin avevano sconvolto tutto il piano che egli si
era fatto. Altre, più tragiche, stavano per sorgere e sconvolgerlo ancora. Egli non le
supponeva, come non aveva supposto queste il dì prima, quando si credeva infelice
e tutto il dramma della sua vita gli pareva contenuto in questi due desideri: non
lasciare l'esercito e non perdere la donna che amava. Non l'aveva dimenticata,
tuttavia, la dolce amica. Nell'addormentarsi, alla fine di quella giornata così
laboriosa, la quale ne precedeva una che lo metterebbe più crudelmente alla prova,
egli tornava con la mente al colloquio della mattina, nel salotto di via di Monsieur.
Ammirava le brusche. svolte della vita che ci riserba tali sorprese, e si
rimproverava, come un vero innamorato, di non aver più pensato a Valentina da
qualche ora.
- «Ma è anche per lei che andrò da Métivier domani!...» diceva fra, sé. «La rovina
di mio padre, che dovrebbe allontanarmi da lei, me ne avvicinerà ancor più, se do a
lui una prova di quanto gli sono affezionato. Se gli salvo Grandchamp non potrà più
opporsi al mio matrimonio. Quando saremo rovinati, il vistoso patrimonio della
signorina de Charlus diventerà un ostacolo. E poi, se egli si ostinasse a non darmi il
suo consenso, io sarò forte nella mia coscienza, essendomi sacrificato a lui, come
voglio fare, come farò.»
IV.
TRAGICO ROVESCIO DI UNA GRAN VITA
(seguito).
La soave e cara immagine dell'adorabile donna sulla quale Landri aveva
l'affettuosa consuetudine di fermare la propria mente, ogni sera, da anni e anni,
prima di chiudere gli occhi, era di nuovo lì al suo risveglio. Tale è la magia di un
sentimento appassionato, nella gioventù: egli era senza dubbio molto preoccupato
del passo che si disponeva a fare presso il notaro Métivier; i disordini nei loro
interessi rivelati da Chaffin erano molto gravi, e trascinavano seco, per l'avvenire,
conseguenze pericolose; inoltre, nessuna delle difficoltà contro le quali aveva
battuto il capo il dì prima era scomparsa; egli rimaneva sempre esposto a ricevere,
prima della fine della settimana, forse, un ordine di procedere ad uno di quegli
inventari di chiesa annunziati nelle vicinanze di Saint-Mihiel; sapeva fin troppo,
nonostante i sofismi suggeritigli dal suo desiderio, che l'opposizione di suo padre ad
un matrimonio male assortito non cederebbe facilmente. Ma doveva rivedere
Valentina Olier alle due, e, nonostante tutto, provava in sé un'intima gioia. Mentre
si vestiva e mentre faceva colazione, s'interrompeva incessantemente per ammirare
la profondità del cielo turchino, la foresta, in lontananza, resa raggi a dall'autunno,
il giardino alla francese spiegato sotto le sue finestre, e le statue che staccavano le
bianche figure sulla cupa massa dei tassi, tagliati rotondi o a piramidi. Quel cielo
turchino avvolgeva il castello come di una gloria, quando, nella carrozza che lo
portava verso la stazione di Clermont, si voltò per rivederlo. Aveva avuto la fortuna
di non vedere Chaffin al momento della partenza, - aveva temuto un po'
quell'incontro, - ed ebbe quest'altra fortuna d'incontrare, ad un angolo della strada,
suo padre in persona, a cavallo, come aveva annunziato, al suo nuovo baia.
- «Ho voluto presentartelo,» gridò il vecchio gentiluomo al figliuolo appena questi
fu a portata della sua voce, «e anche salutarti. Hai dormito bene? Ne godo. - Il mio
fattore mi ha preso al laccio, si sa: avrà la riparazione. Chaffin mi sgriderà. In
quanto a questo birbante,» e batteva leggermente con la mano sul collo del forte
irlandese che si moveva nervosamente, «ha tentato di buttar giù il suo nuova
cavaliere. Eh! Eh! Non sono per il divorzio, carino mio!... Tuttavia l'ho un po'
ammansito, dandogli il tempo di galoppo. Del trotto, però, ne riparleremo fra
qualche giorno. Ma guarda un po' che cosa sa fare!» Veduto un fosso, egli fece
sollevar l'animale, che balzò dall'altra parte, francamente. A poca distanza v'era un
piccolo muro di pietra, verso il quale il signor de Claviers guidò diritto il baio, con
tale sveltezza ardita, come se avesse avuto venticinque anni invece di
sessantacinque. Il cavallo saltò l'ostacolo. Il marchese salutò con un gesto di
trionfo, e gridò allegramente al figliuolo: «E’ un secondo Toby!... Ed è intelligente,
credilo. Ma come!... Addio, figliuolo, non dimenticare Jaubourg. Fammi subito un
telegramma!... » Egli disparve. Quante volte Landri doveva rievocare quel fiero
cavaliere che galoppava per la campagna! Addio, babbo...» aveva gridato anche
lui; ed era proprio un addio che si scambiavano, - quantunque si dovessero
rivedere ancora, - l'addio del padre al figlio, l'addio del figlio al padre. E ambedue lo
ignoravano!
- «Si dà troppo pensiero del suo amico,» diceva fra sé Landri scendendo dal treno
un'ora dopo, sulla banchina della stazione del Nord.. «Andrò prima di tutto lì. Poi
passerò da Métivier. Piazza della Maddalena è tutta strada per andare a colazione al
Circolo. Il babbo avrà il telegramma più presto. Speriamo che non debba dargli una
brutta notizia!...»
Come accade spesso, il povero giovane temeva quello che avrebbe dovuto
desiderare ardentemente. Quando fu in via Solferino sentì un piccolo sollievo
vedendo che davanti alla casa v'era sempre distesa la paglia. L'amico del signor de
Claviers viveva ancora. Ma il bollettino, nella stanza del portinaio, conteneva una
riga più triste del giorno prima: Notte agitatissima. La debolezza aumenta. Accanto
si apriva un registro dove si allungavano file di firme «rimbombanti», come diceva,
nel suo volgare e pittoresco linguaggio di «corbellatore» il colonnello, che era
massone. Le nostre agonie e le nostre esequie riassumono, come in miniatura,
tutta la nostra personalità sociale. Jaubourg-Saint-Germain» se ne andava, come se
meritasse davvero questo mordace epigramma. Chi mai a Parigi prende tanto a
cuore i veri moventi delle nostre azioni per ricercarli oltre i nostri gesti? Figlio di un
agente di cambio, Jaubourg aveva frequentato quell'ambiente, molto diverso dalla
sua origine, per ragioni che non erano di vanità. Egli aveva impiegato tutto il suo
acume per dissimularle. D'altra parte, se era stato un grande innamorato, era stato
anche questo: - il fatto sociale s'impone anche alla passione, - un ricco borghese
che si aggirava in mezzo ai patrizi. Molti piccoli segni gli davano questo carattere.
Egli aveva scelto per sua abitazione il primo piano di una vecchia casa parlamentare
risparmiata dalla demolizione del boulevard Saint­Germain. Le stanze
smisuratamente alte offrivano un aspetto signorile, in armonia con i bei mobili e le
molte tappezzerie che Carlo Jaubourg vi aveva ammassate, - come a Grandchamp.
Soltanto, mobili e tappezzerie non componevano un tutto. Quell'addobbo
aristocratico, che in casa Claviers era vivente, assumeva qui alcun che di fittizio da
museo. Era l'opera di un uomo che impiegò l'ozio, acquistato dal lavoro dei suoi
parenti, a non somigliar loro. Passava così dal piccolo al grande. Il servitore che
aprì a Landri era il vecchio maggiordomo che il di prima aveva recato laggiù il
messaggio del moribondo. Jaubourg esercitava su lui un patronato molto analogo a
quello del signor de Claviers sui Mauchaussée e loro simili. Ma il castellano
conosceva la sua gente, per usare una delle sue espressioni da capo a piedi».
Erano terrazzani del vicinato di Grandchamp; i loro padri e le loro madri salutavano
già per le vie il defunto marchese, così chiamavano il nonno di Landri; mentre
invece Giuseppe, il servitore di Jaubourg, era entrato in casa di lui per caso, in
seguito alla raccomandazione del segretario di un Circolo. Tuttavia egli si era
affezionato al padrone, con quell'affetto che i servitori furbi concepiscono per i
celibi. Ivi egli si era fatto una casa. La sua devozione era vera, ma per un padrone
che non poteva surrogare. Questo sentimento misto di egoismo non aveva nulla di
comune con la deferenza, familiare e atavicamente feudale, di cui i suoi sottoposti
circondavano il marchese. In Giuseppe v'era alcun che del complice, del fido
testimone che ha fatto con un Parigino ricco e indipendente un contratto di
discrezione. Jaubourg non aveva mai detto una parola o fatto un gesto che
permettesse a chicchessia, specialmente al suo servitore, di supporre quale
interessamento egli avesse per Landri; eppure il furbo e premuroso Giuseppe
accolse il giovanotto con un'aria di mezzo rimprovero. Egli aveva aperto l'uscio
prima ancora che il campanello squillasse, segno evidente che spiava quella visita.
- Come sarebbe stato contento, il padrone, di vedere il signor conte ieri!.. Oggi...»
Storse il labbro e si toccò la fronte: Vossignoria mi permetta di pregarla di non con
tradire in nulla il padrone, in nulla… egli è stato tanto male la notte scorsa... - Non
ha più la testa a posto!.. Ho paura che diventi pazzo!.. Da stamani, sta un po'
meglio... Ma se vossignoria vuol parlare col signor dottore Chaffin mentre vado a
preparare il padrone alla sua visita...»
Il figliuolo dell'antico precettore diventato molto sospetto a Landri dopo il colloquio
del giorno prima, occupava la stanza che serviva di studio all'ozioso Jaubourg. Una
ragguardevole biblioteca giustificava in apparenza questo titolo e mostrava su
ciascun scaffale la costola dei volumi rari che l'amatore aveva comprati per il valore
dell'edizione e della rilegatura, e che aveva poco letti. Pietro Chaffin sedeva davanti
una magnifica scrivania di Riesener. Il marrocchino di quel mobile regale non aveva
certo servito mai a lavori come quello a cui il dottore era intento. Correggeva le
bozze di stampa di un opuscolo di medicina, per non perder tempo nell'intervallo
delle sue soste al capezzale del malato, il quale non aveva scritto, su quella
scrivania, da molti anni, che biglietti di accettazione odi rifiuto ai pranzi. I rapporti
tra il dottore e Landri de Claviers erano sempre stati singolari. Da bambini, si
baloccavano insieme. Poi, la differenza delle loro condizioni li aveva separati. Il
carattere burbero del vecchio Chaffin, - che egli utilizzava come i furbi utilizzano i
propri difetti, esagerandoli, - si ritrovava in Pietro, senza ostentazione. Molto
intelligente ed energico, prendendo l'esistenza soltanto, dal suo lato buono, quello
del lavoro, il capo della clinica ostentava quella rigidezza dei professionisti puri,
sempre irritata contro le incompetenze e le pretensioni. Per lui, tutte le persone di
alto grado - e Landri apparteneva a questa categoria ­ erano inutili ed insipienti.
Per quanto strana possa sembrare questa anomalia, molti dottori, abilissimi
osservatori nell'ordine dei sintomi fisiologici, giudicano la vita morale con certe
semplicità da primitivi. Letteralmente, essi non la vedono. Pietro Chaffin non aveva
mai supposto il dramma intimo che attraversava il giovane nobile, straziato tra la
sua casta e il tempo in cui viveva. La sua altera durezza lo teneva lontano dal lusso
e dalle feste di Grandchamp, ed egli ignorava il rovescio di una società di cui suo
padre non parlava mai se non con le formule del rispetto più convenzionale ed
ipocrita. Egli ignorava egualmente come ispirasse a Landri un interessamento misto
ad una generosa invidia; sì, l'erede dei Claviers-Grandchamp invidiava allo
studente, fin dalla loro giovinezza, la sua indipendenza di vita, il realismo della sua
attività. All'insaputa del compagno, lo aveva seguito attraverso i trionfi dei suoi
studi, raccomandandolo incessantemente al celebre professor Louvet, medico della
sua famiglia. A tali premure, a tali riguardi che vanno incontro all'amicizia, Pietro
Chaffin rispondeva con una freddezza burbera, non scevra di un certo impaccio,
una ritrosia timida e in pari tempo brutale contro una simpatia di cui non
discerneva la causa. Vi era anche un poco di un'altra invidia, meno generosa:
quella del figlio del salariato contro il figlio di chi lo tiene impiegato, e del plebeo
contro l'aristocratico. né quella mattina egli assunse un'aria più sorridente per
accogliere il saluto di Landri e le sue domande circa la malattia di Jaubourg.
- «Ha una polmonite acuta del tipo classico,» diss'egli alzando dalle bozze di
stampa il suo largo volto incorniciato d'una barba rossa, al quale gli occhiali d'oro
davano una fisionomia voluta di dotto tedesco. «Una frescura presa per
imprudenza, un po' di spossatezza nei primi giorni, indolenzimento generale, mal di
testa. Indi, quel fremito unico, speciale, il grido d'angoscia di tutto l'organismo
invaso, e, subito, 39 gradi di febbre. Così il primo giorno. Il secondo: la pena da
una parte, centodieci pulsazioni al minuto e quaranta aspirazioni invece di
quattordici o diciotto. Stanotte, delirio. Stasera o domani la polmonite sarà risolta,
e, temo, in modo severo, considerata l'età del malato.
- «Credete che mi riconoscerà?» domandò Landri. «Giuseppe ha detto che diventa
pazzo.»
- «Giuseppe non sa che cosa significa questa parola,», interruppe bruscamente il
dottore, alzando le spalle, con un gesto che non era lungi dal significare: «e neppur
voi, del resto.» ­ «Anch' io,» soggiunse, «ho usato espressioni approssimative, cosa
che non si deve mai fare. Non è delirio quello che ha avuto stamani il signor
Jaubourg, bensì subdelirio. Le parti alte del cervello erano sotto l'azione delle
tossine, e le altre, quelle incoscienti, liberate e vagabonde. È una specie di
avvelenamento particolare alla polmonite, e che talvolta l'annunzia. È molto simile a
quello dell'alcool. Si manifesta con un sogno parlato e che, per noi, è affatto
incoerente. Probabilmente, se conoscessimo la vita di un intossicato di questo
genere, scopriremmo che la sua incoerenza ha la sua logica e la sua realtà. Spesso
risale ad avvenimenti anteriori. E un fenomeno molto osservato. Noi gli abbiamo
dato uno di quei nomi di cui la gente si fa beffe, lo so. Da Molière in poi, siamo
assuefatti a queste ironie. Noi chiamiamo ciò uno stato ecmnesico, il fondo della
memoria invertito, come chiamiamo onirico il delirio intimamente connesso col
sogno. Perché un certo microbo produce quest'effetto quando si attacca alle
meningi? Questo problema ci condurrebbe a definire che cos'è l'anima, ed è
probabile che voi ed io non saremmo dello stesso parere... Ma lasciamo andare
tutto ciò, che non può intéressarvi. Volevo spiegarvi semplicemente che il signor
Jaubourg non è mai stato pazzo, e che ha tutto il suo senno, stamani. Potete
vederlo. Non trattenetevi molto da lui, e non lo fate stancare.»
Ancora una volta, nell'accento sistematicamente tecnico di questo arido e duro
discorso, Landri poté discernere quell' istinto di ostilità, per lui incomprensibile, che
sempre riscontrò in Pietro. Il dottore aveva dissertato per non dover conversare. E
non aveva detto neppure una parola per chiedere a Landri notizie della sua vita,
dopo che non si erano veduti da qualche anno. Neppure una parola per il signor de
Claviers­Grandchamp, che gli dimostrò sempre tanta benevolenza! Pietro Chaffin
aveva una scusa: il cattivo umore in cui lo metteva il suo maestro, il professor
Louvet, pregandolo di non muoversi da via Solferino. Il capo della clinica obbediva
al suo «pontefice magno» - gli studenti danno irriverentemente questo titolo ai
maestri dai quali dipende il loro avvenire, - e si consolava con l'esser poco amabile
con chi rappresentava, per giunta, quel mondo elegante alla cui deferenza il suo
superiore lo sacrificava. Non si ammettono infrazioni al dovere professionale. Un
dottore non deve dissertare sulla propria scienza con gli amici di un malato. Quella
teoria sui deliri connessi col sogno non era altro che un'uscita pedantesca. Ma
bastava perché le parole strappate a Jaubourg da quell'ebbrezza dell'infezione, se
la crisi ricominciasse dinanzi a Landri, acquistassero nell'anima del giovanotto un
significato molto diverso. Purtroppo egli non aveva bisogno di questa «chiave»
scientifica! Avrebbe decifrato da solo fin troppo facilmente le frasi del morente!
Quelle frasi recavano seco la loro spaventevole luce. Nondimeno, l'ipotesi di una
pazzia delle ultime ore avrebbe lasciato la possibilità di un dubbio, che la diagnosi
così lucida dello scienziato non avrebbe più permesso.
Quando il figliuolo della signora de Claviers entrò nella camera del moribondo,
questi sembrava affranto dall'alta febbre della notte, e quindi più calmo. Giaceva in
un letto che era anche quello un oggetto da museo, come tutti i mobili della.
stanza, composta nel corso di vari anni con una cura da vero collezionista. La
raffinatezza dell'addobbo rendeva più commovente la fine del vecchio, la cui faccia
spaventò Landri, per quanto fosse avvertito. Aveva le guance scottanti, il volto
iniettato, un lampo d'angoscia negli occhi; e il precipitato dilatarsi delle narici, quasi
spasmodico, denotava la lotta contro il soffocamento. Da vivo, - si poteva già dir
così, - Jaubourg era stato l'uomo di società che non si arrende, il mondano la cui
cortesia coraggiosa risparmia agli altri il contatto e lo spettacolo della sua
decadenza. Oggi questa decadenza era completa, sinistramente innegabile e
irreparabile. Nondimeno, per consuetudine della decenza, quel Parigino aveva
trovato l'energia di l'avviarsi per l'ultima volta. Aveva il viso lavato e la barba rasa, i
pochi capelli lisciati, le mani pulite. Si era messo una veste da camera di seta
morbida. Ricercatezze puerili e patetiche, che denunziavano il suo desiderio di non
lasciare un'immagine di sé troppo degradata al suo visitatore, il solo che avesse
ammesso in quella mezza settimana. Egli aveva proibito esplicitamente a Giuseppe
di avvertire i pochi parenti, lontani del resto, che gli rimanevano. Temeva
indovinassero un tatto che da ventinove anni impegnava il suo onore a tener
celato. Sì, tutto lo sforzo della sua vita aveva avuto un solo scopo: lasciare il suo
patrimonio al figliuolo che egli aveva fatto fare, alla moglie di un altro, senza che il
mondo e neppur il marito tradito potessero meravigliarsene. Il mondo, - egli era
riuscito a sviarlo quasi assolutamente con prodigi di diplomazia. Le chiacchiere di
due o tre persone della sua famiglia, come la signora Privat, non avevano
oltrepassato un cerchio ristrettissimo, e i compagni perspicaci come Bressieux sono
rari. L'amicizia che Jaubourg dimostrava al signor de Claviers da che era vedovo, e
che, per un'anomalia molto umana, era sincera, avrebbe addormentato i sospetti di
quell'uomo generoso, se mai ne avesse avuti. Ma quel gran cuore non sapeva che
cosa fosse la sfiducia? Jaubourg lo aveva dunque istituito suo erede universale col
proprio testamento, senza prevenire né lui, né altri. La propria riflessione gli aveva
suggerito questa via complicata, per assicurare almeno a Landri i suoi tre milioni.
Aveva spinto lo scrupolo, come abbiamo veduto, fino a mostrare una persistente
freddezza al giovanotto, che neppur egli doveva conoscere la verità. Il padre
adulterino aveva calcolato tutto, tranne quell'agonia fra le allucinazioni dei ricordi.
In punto di morte, egli stava per distruggere quel capolavoro della sua prudenza, e,
bisogna dirlo, di una cavalleria provocata forse in lui da una tacita rivalità col
magnanimo amico che la passione gli aveva fatto tradire. Vi aveva mancato per la
prima volta, cedendo a un infinito bisogno di rivedere, prima di andarsene per
sempre, quel figlio che portava il nome di un altro e che gli era sì caro. Pochi
uomini hanno la forza di morire veramente soli. Jaubourg si era addotto il pretesto
d'intrattenere il giovanotto sul progetto di matrimonio con la signorina de Charlus,
al quale egli dava molta importanza. Non aveva preveduto l'indebolimento della
propria energia sotto l'attacco del male, e il grido animale della natura in ribellione.
- «Sei venuto, mio caro,» disse con voce tronca e breve, che pareva già un rantolo.
Sei venuto,» ripeté, «grazie.» E prese la mano, che l'altro gli stendeva, con una
stretta appassionata. Quale contrasto con la stretta di mano riserbata e repressa
che gli aveva sempre data quasi a malincuore e con la punta delle dita! Questo era
stato, fra i segni della sua antipatia, uno dei più penosi per il sensibile Landri. «Ho
voluto parlarti... prima di morire... Poiché sto per morire...» E siccome l'altro
protestava: «A che pro mentire?.. Sento la morte... Non ho più forza. Ogni parola
mi strazia...» Si portò una mano sul petto: «Bisogna morir presto. Ho desiderato
parlarti,» insistette, «per il tuo matrimonio...»
- «Con la signorina de Charlus?» domandò il giovanotto. Aveva osservato che
Jaubourg, come Chaffin poco prima, non gli diceva una parola del signor de
Claviers: «Neppur lui gli vuol bene...» pensò, ricordandosi, le ultime parole
gridategli dal marchese lasciandolo. «E la malattia,» pensò ancora. «Ed io che
m'ero proposto di chiedergli consiglio circa il ricatto dei nostri creditori! In che stato
lo trovo!..» Poi, ad alta voce: «Mio padre mi ha detto quanto siete stato buono con
me in quella occasione; ed io ve ne ringrazio molto, capite? molto...»
- «Claviers te ne ha parlato?» saggi unse il moribondo; e con febbrile ansietà: «Che
cosa hai risposto?..»
- «Che non sposerò mai che la donna ch'io amo, e che non amo la signorina de
Charlus...»
- «Ne ero sicuro!...» gemette Jaubourg che si sporse in avanti dolorosamente. Una
tosse rauca lo scoteva, ed egli tentò di comprimerla col fazzoletto, sul quale
apparvero delle macchie color ruggine. «Non chiamare...» trovò la forza di dire a
Landri, che stendeva il braccio per premere sul campanello elettrico. Dinanzi
all'evidente sgomento di quella preghiera, il giovane si ricordò delle
raccomandazioni fattegli dal dottore, ed obbedì. Il malato, sfinito da quella crisi, gli
accarezzò la mano col palmo, per dimostrargli la sua gratitudine. Si era rovesciato
all'indietro, con gli occhi chiusi. Li riapri per soggiungere: «Ma essa ti ama, sai!...
Ed è carina!... E poi, c'è l'avvenire. Io non so che cosa ti rimarrà quando Claviers
non ci sarà più. Non ho mai potuto farlo parlare circa i suoi interessi... già, non li sa
neppur lui. Ah! io tremo per te. Ho fatto quello che ho potuto.... Ma col matrimonio
Charlus si sarebbe tutto accomodato. Chi è quello Chaffin nel quale egli ha sì cieca
fiducia? Chi è?... Non l'ho potuto sapere... Ah, povero Landri!...»
La sua esaltazione aumentava. Il giovanotto non interpretava ancora nel loro vero
senso le parole che, nondimeno, avevano già per lui un carattere molto strano: non
tradivano forse una preoccupazione tutta rivolta verso di lui, in un uomo che egli
considerava esclusivamente come amico di suo padre? D'altra parte, quelle parole
di sfiducia verso Chaffin corrispondevano troppo al suo intimo sentimento, perché
non le rilevasse.
- «Anche a voi, dunque, Chaffin pare sospetto?..»
- «Da molto tempo,» rispose Jaubourg. Mi dirai: Allora perché vi fate curare dal suo
figliuolo?…» Me lo ha imposto Louvet. lo non l'ho rifiutato. Non credevo di esser
così grave.
E poi, il figlio non è come il padre. Ma se tu sapessi che cosa straziante è sentire
che a momenti ci va via la testa, che si parla, che abbiamo parlato… E poi non ci si
ricorda più di quello che abbiamo detto... Nulla. La memoria si oscura... Quanto ho
sofferto stanotte con questa impressione!... Giuseppe mi ha giurato che non ho
detto nulla. E sai, puoi crederlo; egli è fidato, molto fidato. Dio mio,
quest'impressione ritorna!... La mia testa!... Soffro!... Ah, come mi duole! Mi pare
di aver male al pensiero!...» Si prese la fronte tra le mani e la strinse. Un nuovo
nodo di tosse lo fece piegare in due; quando gli fu passato, egli ripeté: «No. No.
No...» Poi, come se questa negazione quasi convulsa gli avesse reso le forze, e
staccando viepiù le parole soggiunse: «Io so perché non vuoi sposar la, quella che
è ricca, che ti salverebbe se Claviers avesse finito tutto... Lo so perché. Tu ami
sempre l'altra...»
- «Quale altra?...» domandò Landri. La grande compassione che provava per il
martirio visibile del malato non impedì che egli sussultasse a quella allusione
diretta. Gli si affacciò alla mente un ricordo: Valentina che lo supplicava di non
salire da Jaubourg malato, di non vederlo. Si conoscevano dunque? La sua
meravoglia fu tale, che insistette quasi duramente: Sì, quale altra? Di chi volete
parlare?...»
- «Della signora Olier
» disse Jaubourg. «Oh, Landri, non far cotesti occhi,
cotesta voce!... Non potrei reggere. Vedi. Non ti dico niente contro di lei.. So che
non vi è stato mai nulla da dire sul conto suo. Ma a Saint-Mihiel tu la vedevi
sempre, lo so. Essa è vedova. So anche questo, e so dove abita... Avrei trovato il
mezzo di conoscerla, se fosse stato necessario... So tutto quello che ti concerne,
vedi. Mi sono sempre studiato di saperlo, giorno per giorno, da che sei nato. Tu
non devi sposarla.... Se essa ti ama davvero, non deve volere. Claviers non
acconsentirà mai, prima di tutto... E poi, tu devi esser ricco… Voglio che tu sia
ricco... Lo voglio... Non capisci. Non devi capire... Ah, ti ho sempre amato tanto,
Landri, vedi, e non ho mai potuto dimostrartelo!... Non dovevo... Non debbo... La
mia testa si turba di nuovo, come ieri... Ma non voglio... Non voglio... No. No. No.
Non dirò nulla… Giuseppe, andate via… Chaffin, andate via... Essi mi guardano...
Non sapranno... Non sapranno... Landri mio! Landri mio!...»
- «Qui non c'è né Giuseppe né Chaffin», disse il giovanotto. «Calmatevi, Jaubourg.
Calmatevi.» Piano piano, lo aveva fatto adagiare di nuovo. Quelle poche frasi del
morente lo avevano commosso fino nel più profondo dell'essere suo. Con quale
appassionato interessamento costui lo aveva seguito, per essere informato così
minutamente d'incidenti d'indole tanto intima? Il signor de Claviers non supponeva
neppure l'esistenza della signora Olier prima del loro colloquio nella foresta, e
Jaubourg, invece, sapeva tutto di lei! E sapeva tutto di lui, aveva detto, «giorno per
giorno da che era nato.» Che cosa significavano queste parole enigmatiche, e
pronunziate con quell'accento?... E le altre: «Ti ho sempre amato tanto… Non ho
mai potuto dimostrartelo... Non dovevo?..» - Già turbato fino all'angoscia, Landri
ripeteva: «Essi non ci sono. Io son qui solo con voi, solissimo...» e, quasi
supplichevole: «Davanti a me, potete dir tutto. Parlate, se ciò può calmarvi. Poiché
dovete calmarvi. E’ necessario...»
- «Non ho nulla da dire,» rispose Jaubourg, a nessuno... A nessuno...» Era tornato
in sé un'altra volta. «Sono calmissimo.... Ma la mia testa si confonde tanto.
Abbracciami, Landri... Dimmi addio... Ho voluto vederti per questo.... Ch' io ti
abbracci una volta almeno! Come ti amo, come ti amo... Ah, figlio mio, figlio
mio!...»
Alcune lacrime gli erano sgorgate dagli occhi, e scivolavano nel sudore di cui la sua
faccia era coperta. E l'appoggiava, quella faccia umida, sulle mani del giovanotto.
Lo stringeva a sé, gli toccava i capelli, le spalle; e questi, spaventato dall'orribile
cosa che gli si rivelava, lo ascoltava continuare:
- «Ora hai ripreso la tua voce buona.... Udirti è stata la sola gioia che potevo avere
da te. Quando eri fanciullo, a Grandchamp... andavo nella biblioteca ad ascoltarti
mentre ti trastullavi in giardino, sotto le finestre...» Si era seduto sul letto. Il sogno
descritto dal dottore cominciava: «- Tu non mi vedi, nessuno mi vede... Io ti
guardo... Tu corri, e i riccioli dei tuoi capelli svolazzano al vento, eguali a quelli di
tua madre. Essa ti viene incontro nel viale, presso i tassi. L'aria le ha colorito le
guance. Com'è bella! Ella sa ch'io son qui, e mi sorride al di sopra della testa del
nostro bimbo. Dov'è andata?...» I suoi occhi avevano mutato espressione.
Fissavano altri quadri. «Come sembra piccina in quel letto immenso!... Ha voluto
adornarsi. Che strazio! Le perle le si attaccano alle pieghe della pelle del collo.
Com'è mutata! Ah, come soffre per morire! Così giovane, e con quel male
tremendo!... Vado via. Lo sai che, se potessi rimanere, non ti lascerei. Genoveffa,
di' che lo sai... La portano via. lo non piango. Guardatemi pure, non lo. tradirò.
Goffredo piange. Io non piango... Mi rimane nostro figlio. Darò tutto a lui, tutto. Ho
trovato il mezzo.... Questo non potrete impedirlo. Questo non lo impedirete…»
Una tremenda visione aveva subito sostituito le immagini fra le quali Landri aveva
riconosciuto, - con quale orrore crescente! - i giuochi della sua infanzia, sua madre
malata, e quel fatto così particolare della collana di grosse perle intorno al collo
dimagrito, l'esequie della madre, e il resto! Il malato si era seduto sul letto, e
guardava il giovanotto con le pupille piene di meravoglia, mescolando
evidentemente l'impressione confusa che aveva della presenza di lui all'incubo che
lo assaliva: «Che dite sottovoce? Che è mio figlio? Non avete il diritto di pensarlo,»
gemeva, «voi non lo sapete.... Non lo dite. Non vi permetto di dirlo...» Poi, siccome
la illusione diventava più lucida e più pericolosa, mandò un grido e si precipitò fuori
del letto. Quel grido passò la parete, giunse al servitore e al dottore, che entrarono
in camera insieme, proprio in punto per trattenere il malato che si era slanciato
verso la finestra al fine di sfuggire le voci che udiva.
- «Lasciateci soli,» disse il dottore a Landri, tanto terrorizzato da quella scena, che
non aveva neppur soccorso l'allucinato. «Giuseppe ed io basteremo. Il E spinse
nello studio il giovanotto, il quale rimase lì un quarto d'ora, annichilito come se
subisse egli stesso un incubo che lo paralizzasse di terrore. Finalmente il dottore
ricomparve. Il suo viso aveva l'impronta di una singolare preoccupazione.
- «Gli ho fatto una puntura di morfina, per calmarlo... Ora resterà assopito fino alla
fine. Ma che crisi!... Quella della notte scorsa non era che il principio. Non date
nessuna importanza a ciò che ha potuto dirvi. Era un'assoluta confusione mentale,
una vera pazzia.» E insistette: «una vera pazzia.
Guardava bene in faccia il suo interlocutore, - troppo in faccia, - nel pronunziare
questa frase che contraddiceva totalmente le formule di poco prima: «Rivive
avvenimenti anteriori.... Il fondo della memoria è invertito» Anche egli, certo,
comprese quale pericolosa importanza assumesse l'antitesi di questa seconda
affermazione con la prima, poiché non poté fare a meno di arrossire. Quali parole
Jaubourg aveva dunque dette nel suo delirio, ancora più esplicite? Aveva articolato,
dinanzi a quei testimoni, la terribile frase: «Sono stato l'amante della signora de
Claviers e Landri è mio figlio?..» Senza dubbio il dottor Chaffin aveva compreso
queste orribili cose attraverso le divagazioni del malato, come Landri medesimo. A
tale evidenza, questi sentì un'onda gelata percorrergli tutto il corpo.
Quando un uomo si è trovato d'improvviso in presenza a un fatto di un'importanza
sommamente tragica per lui, del quale non può affatto dubitare e del quale nulla
supponeva, ha un periodo di semi-ebetismo, assai breve, durante il quale non
saprebbe dire quello che prova. Non è dolore, perché non capisce quello che ha
saputo, non riesce ad afferrarlo; non è neppure esitazione; più tardi, sì, egli potrà,
anzi, vorrà discutere contro l'evidenza; per il momento, il fatto è entrato in lui con
la sua forza irresistibile, come una lama d'acciaio nella carne che perfora, ed
avviene, nelle sue più intime latebre, quello scompiglio totale della natura di cui
parla l'inno liturgico: Stupebit et natura. La vita continua tuttavia intorno a colui che
è stato colpito a morte e che non lo sa. Essa continua anche in lui, che vi si presta
con un auto­matismo analogo a quello di una suggestione. In tale stato era Landri
quando scese la scala della casa di Jaubourg e risalì nella vettura lasciata alla porta,
dando al fiaccheraio l'indirizzo del notaro Métivier, quasi senza accorgersene.
L'orologio caricato prima della scossa terribile funzionava meccanicamente. Il
notaro non era in casa. Che cosa importavano ora al giovanotto quelle noie di
denaro, che gli erano sembrate tanto terribili, e che erano mai di fronte a quell'altra
orribile cosa? Lasciò la lettera e si diresse a piedi verso il Circolo di via Scribe, dove
si era proposto di far colazione. Un ufficio telegrafico davanti al quale passava gli
ricordò la sua promessa di fare un telegramma al signor de Claviers. Vi entrò. Ivi,
mentre appoggiava il braccio sulla tavoletta di legno annerito, dinanzi al modulo già
pronto, e inzuppava la penna nell'inchiostro, quella specie di sonnambulismo cessò
ad un tratto, e la percezione gli tornò, acuta e straziante. Quell'ora atroce che
aveva vissuta era proprio vera. Jaubourg moriva davvero. Egli aveva davvero
pronunziato quelle parole che gli risuonavano ancora all'orecchio, e che avevano
impiantato nella sua mente la più crudele, la più inestirpabile idea. Una improvvisa
evocazione gli mostrava il signor de Claviers che entrava in quella stessa camera, e
il moribondo in preda allo stesso delirio, che pronunziava le stesse parole.
- «Ciò non accadrà!...» diss'egli, e con un gesto di orrore spinto al parossismo
sgualcì il foglio sul quale non aveva neppur cominciato a tracciare l'indirizzo. Scrisse
poi febbrilmente, sopra un altro foglio: «Marchese de Claviers­Grandchamp.
Castello di Grandchamp. Oise. ­ State tranquillo. Sensibile miglioramento.» E firmò.
Indi presentò al finestrino il telegramma menzognero. Era a due passi dal Circolo.
La vista di un socio del Circolo che passava dalla porta e che, per fortuna, non lo
vide, lo fece fermare di botto e subito camminare, correre quasi, nella direzione
opposta. Quel socio del Circolo conosceva Carlo Jaubourg, come tutti gli altri; forse
gliene chiederebbe notizie; l'amicizia che univa il malato al signor de Claviers era
leggendaria. L'amicizia?.. Landri si era detto improvvisamente: - Tutti lo sanno.
Certe vergogne, il mondo le conosce, le propala, ne ride. Soltanto gl'interessati le
ignorano. Tutto il Circolo sa... Tutta Parigi sa... Due sole persone non sapevano...»
Camminò a diritto, - per quanto tempo non avrebbe saputo dirlo, - fuggendo quei
testimoni del disonore familiare, fuggendo sé medesimo. Macchinalmente, a un
certo punto entrò in una trattoria per far colazione. Aveva appena cominciato a
mangiare, quando si alzò. Un'altra immagine sorgeva in lui: quella di Valentina
Olier. Anch'ella sapeva. Ecco che cosa significava il grido uscito dalle sue labbra,
quella implorazione di non andar a vedere il malato: «Il signor Jaubourg è
moribondo? Spero che non vi riceva...» Ella sapeva!... Con un impeto brutalmente
istintivo come la contrazione delle sue dita, poco prima, sul foglio bianco del
telegramma, Landri uscì dalla trattoria. Chiamò un:altra vettura per volare in casa
di lei. Nella sua folle fuga aveva camminato senza badarvi, di strada in strada, fino
alla ringhiera che circonda il ministero dell'Interno. Era vicinissimo alla via del
Faubourg-Saint-Honoré, dove si trova il palazzo de Claviers-Grandchamp. Là era
morta sua madre. Là egli aveva vissuto con... Qual nome dargli, ora, a colui che
egli amava sempre come un figlio ama il padre, e che non gli era nulla, null'altro
che un gran galantuomo oltraggiato nel modo più tremendo da coloro dalla cui
carne, la carne di lui, Landri, era nata? La sola idea di riveder quella casa fece
orrore all'infelice. Egli aveva dato al cocchiere l'indirizzo della signora Olier. Mentre
costui si preparava a svoltare in via dei Saussaies, Landri picchiò forte nel vetro, a
rischio di spaccarsi la mano, e gli comandò di prendere per via di Suresnes, il
boulevard Malesherbes e via Royale. Anche l'aspetto di tutto il quartiere dove aveva
passato la sua infanzia gli era fisicamente insopportabile. Egli chiudeva gli occhi per
non riconoscer nulla. Ma quale impressione avrebbe potuto ricevere, in quella crisi,
che non lo avesse fatto soffrire fino a strappargli delle grida?.. Ed ora, andava da
Valentina... A dirle che cosa?.. A domandarle che cosa?.. La vettura aveva
attraversato piazza della Concordia, percorso via Borgogna, via Barbet-de-Jouy, e
correva sul selciato di via di Monsieur, mentre egli si ripeteva ancora questa
interrogazione senza trovarvi risposta. Aver concepito quell'orribile dubbio, quella
certezza, purtroppo, sulla signora de Claviers e sulla propria: nascita, era già una
sozzura! Esprimere quest'idea, fosse anche a Valentina, specialmente a Valentina,
era un delitto. La tenerezza di un figlio per la madre comporta un carattere sacro;
tutte le energie amorose del nostro essere cospirano potentemente a fare di lei una
creatura a parte dalle altre, più pura, più irreprensibile, più venerabile! Landri
calpesterebbe questo rispetto che egli era il solo a non poter mai perdere riguardo
alla signora de - Claviers, qualunque cosa ella avesse fatto? Ripeterebbe
volontariamente, consciamente, le formidabili parole sfuggite a un moribondo
all'avvicinarsi dell'agonia, e dalle quali era rimasto anch'egli, dopo averle udite,
come schiacciato, come ucciso? Eppure bisognava che egli sapesse se Valentina
sapeva, e che cosa sapeva. La scossa nervosa era stata invero troppo forte. Ogni
potere di inibizione era momentaneamente sospeso in lui. Il suo pensiero doveva
diventare azione, sotto l'impulso della rivelazione fulminante che egli aveva dovuto
subire. Per ciò gli fu impossibile di non attraversare il cortile, di non sonare alla
porta della signora Olier, di non domandare se ella poteva riceverlo. Non aveva
neppur riflettuto che era appena mezzogiorno e mezzo, che il loro fissato era per le
due, e che il solo fatto di arrivare all'improvviso annunziava un avvenimento
straordinario. Forse egli non si ricordava neppure per qual motivo la giovane e lui si
eran dati quel fissato, né l'appassionato, il doloroso colloquio del giorno prima. È il
carattere speciale di quegli stati di eccitabilità incommensurabile in cui ci getta una
scossa morale troppo brusca e troppo violenta; il nostro equilibrio mentale è per un
certo tempo rovesciato. I nostri più cari sentimenti sono come sospesi, ed è pure
sospesa la nostra facoltà di preveggenza. Pare che assistiamo allo scatenamento
interno d'impressioni onnipotenti che ci conducono dove vogliono. Appena il
campanello ebbe squillato, Landri avrebbe voluto di nuovo fuggire come prima. Ma
rimase.
- «O adesso o più tardi,» disse fra sé, debbo vederla tuttavia. Preferisco subito, e
saper tutta l'estensione di questa vergogna.»
Quando il cameriere annunziò a Valentina che il signor conte de ClaviersGrandchamp desiderava di parlarle, e subito, ella era a tavola. Finiva di far
colazione col suo figlioletto. Da ventiquattr'ore che il giovanotto l'aveva lasciata con
la promessa di una risposta definitiva alla sua domanda di matrimonio, essa era
stata in preda agli ultimi sussulti della lotta sostenuta da tre anni, tra il suo amore e
il suo dovere prima, poi il suo criterio. Quel grido col quale il loro colloquio era
finito, quel pensiero «ora son tutta sua» era stato seguito da una suprema
resistenza. Le gravi obiezioni formulate il di prima si erano presentate di nuovo con
una forza che le confidenze di Landri sulle segrete difficoltà delle relazioni con suo
padre non avevano diminuita, - anzi, tutt'altro. Una cosa però era diminuita: la sua
propria autorità sull'amico. Nell'accettare di riflettere ancora sul primo rifiuto, essa
aveva dato prova della sua debolezza dinanzi alla passione del giovanotto.
Valentina lo capiva, e si spaventava nel sentire quanto le riusciva soave
l'impressione di piegare sotto quella forza. Irresistibile ebbrezza interna della donna
che comincia a darsi! Darsi, - parola semplice, profonda, che riassume tutto il
miracolo dell'amore, perché è l'amore stesso! Non esser più sé medesimo,
trasformarsi nelle idee, nei desideri di un altro, diventare quella che egli vuole,
contro l'interesse, contro la prudenza, talvolta contro l'onore, - purché egli sia
felice! E colui che Valentina amava non voleva nulla da lei che ella non avesse il
diritto di concedergli senza rimorsi.
- «Che cosa gli risponderò?...» si era chiesta venti volte, senza mai giungere ad una
risoluzione di cui ella era bensì intimamente, radicalmente sicura rispetto a sé
stessa. «Come posso fare a persuaderlo di aspettare ancora? Di aspettare, e
perché?... Supponendo che io gl'imponga questa nuova proroga e che egli l'accetti,
quali saranno le nostre relazioni? Se non gli dico di sì, e subito, dopo la spiegazione
che abbiamo avuta, bisogna che io gli chiuda la porta. Riceverlo in tali condizioni
sarebbe la peggiore civetteria. Una donna che si è lasciata dire da un uomo che egli
l'ama non deve più vederlo, oppure esser sua... Non vederlo più? Non saper più
quello che pensa, quello che sente?.. Ne soffrirei troppo. Dirgli di sì, se la disgrazia
vuole che egli sia immischiato in uno di quegli orribili scassinamenti di chiesa,
equivale a scavar sempre più l'abisso tra lui e suo padre. Potessi almeno mettere
nel mio consenso il patto che egli chiedesse le dimissioni piuttosto che obbedire ad
una requisizione di questo genere!... No. Sarebbe male. Egli ha la propria coscienza
sulla quale non ho diritto di gravare in nome del suo amore!... Ah, come vorrei
esser sicura che mi decido per il suo bene, e non soltanto perché l'amo e per la mia
felicità!...»
Un piccolo incidente aveva aumentato ancora il suo turbamento: una lunga lettera,
giunta da Saint-Mihiel, e scritta da una delle amiche che aveva ancora laggiù,
moglie di un compagno del defunto capitano Olier. Non trattava d'altro che dello
sgomento provocato in tutti gli ufficiali dall'imminenza di due inventari, - quello di
Hugueville e quello di Montmartin. La corrispondente della giovane vedova riferiva
un colloquio che essa aveva avuto col marito, e narrava come avesse insistito
perché egli chiedesse le dimissioni piuttosto che eseguire certi ordini.
- «Ella è sua moglie,» aveva pensato Valentina. «Una moglie ha il diritto di unirsi
alle risoluzioni importantissime della vita del marito. Avrebbe ella il diritto di
lasciarlo, se lui decidesse contrariamente ai suoi consigli?.. Io tenterei appunto di
esercitare questa pressione se esigessi da Landri un impegno come prezzo della
mia mano. Non lo farò!...»
Tali erano i pensieri che occupavano la mente di Valentina quando il campanello
squillò.
- «Il conte de Claviers-Grandchamp?..» non poté fare a meno di domandare al
cameriere che le riferiva la preghiera del giovanotto; e si fece ripetere il nome,
tanto era viva la sua meravoglia. Che cosa significava quella visita a mezzogiorno e
mezzo invece che alle due?.. Evidentemente, che Landri aveva parlato a suo padre.
Perché egli anticipasse tanto il loro fissato, bisognava che avesse da darle una
buona notizia. Il signor de Claviers acconsentirebbe alla loro unione?.. Era follia
sperarlo, eppure il cuore di Valentina batteva di questa speranza quando passò nel
salottino dove il giovanotto l'aspettava. Prima ancora che egli dicesse una parola,
Valentina sapeva che si era ingannata. E lui, non appena la porta si aperse,
comprese che era venuto a fare a quella donna una domanda impossibile perfino a
formularsi. Come poc'anzi l'umile necessità, esclusivamente materiale, di stendere
un telegramma, lo aveva risvegliato dal suo stupore, ora la necessità di articolare in
una frase lucida l'atroce pensiero, lo risvegliava dalla sua crisi di frenesia. Egli vide
ciò, in modo così chiaro come vedeva venir Valentina: cercare di conoscere la
estensione della vergogna, come aveva detto, equivaleva a rendersene complice,
ad aggravarla. Qualunque cosa avesse potuto sapere la signora Olier, non la
sapeva che per averla sentita dire, e con dei dubbi. Interrogarla, trasformerebbe
quei dubbi in certezza. Landri aveva ad un tratto riafferrato tutte le sue energie
come prima della rivelazione. La sola presenza di una persona a cui parlare, aveva
fatto sentire al figliuolo torturato, con fulminea evidenza, il suo sacro obbligo:
tacere, nascondere il proprio martirio. Tali sforzi su sé stesso, e con quella
prontezza, non si compiono senza una contrazione di tutto l'essere che s'indovina
dalla tensione della maschera immobile, dalla frattura dello sguardo, dalla voce
bianca, - stupenda espressione popolare. - Che contrasto con la fronte esaltata, la
bocca appassionata d'ieri, gli occhi ardenti, la voce calda! Che cos'era accaduto?
Piena ancora delle preoccupazioni ravvivate dalla lettera dell'amica, Valentina pensò
subito al pericoloso affare degli inventari.
- «Siete venuto a mezzogiorno invece che alle due, Landri...» disse parlando ad alta
voce. «Capisco. Dovete tornare a Saint-Mihiel col prossimo treno. Avete ricevuto un
telegramma del colonnello?..»
- «No,» rispose egli meravigliato. Era tanto lungi da quelle difficoltà di soldato, che
non comprese neppur l'allusione.
- «Dunque, se non si tratta degl'inventari...» Essa non finì la frase. La domanda che
le era salita alle labbra non ne uscì. Il suo genio di donna innamorata le faceva
intuire che non doveva neppure formularla. Per essere spigliata e non aver l'aria
d'interrompersi, soggiunse: «Ne sono stata di nuovo molto impensierita, stamani,
per voi!... Ho ricevuto su tale argomento una lettera di Giulia Despois, la moglie del
vostro capitano... Anzi, l'ho messa da parte per farvela leggere. Guardate...»
Aveva veduto sopra una scrivania la lettera preparata infatti appositamente. Ella la
porse a Landri, il quale cominciò a leggerla, o a far vista di leggerla. Valentina
capiva che gli occhi di lui seguivano le righe senza capirne il senso. Landri non
vedeva effettivamente le parole. Quand'ebbe finito la quarta pagina, ripiegò la
lettera e la rese alla signora Olier che la rifiutò.
- «Tenetela. Voglio che la teniate. Rileggetela quando sarete a Saint-Mihiel. Essa
dice molto bene quello che io vi direi molto male».
Parve che il senso di queste parole non giungesse al giovanotto. Tuttavia egli
obbedì, e con un gesto macchinale si mise la lettera in tasca della giacchetta.
Rimasero alcuni istanti senza parlare. Quella specie di assenza nella presenza
spaventava ora Valentina. Doveva essere accaduto un avvenimento molto tragico
per aver colpito quell'uomo così profondamente. A questo avvenimento ella era
estranea, lo sentiva, lo vedeva. Non si trattava del loro matrimonio, né di quello
che il signor de Claviers aveva potuto rispondere. Egli non la guardava, come non
aveva guardato la lettera. Un avvenimento?.. Accaduto fino dal giorno avanti?... Fin
da quando Landri uscì da quel salottino?... Dov'era andato?... A Grandchamp. Ma
era passato da via Solferino. La signora Olier fremette al ricordo della improvvisa
apprensione che l'aveva presa quando Landri le aveva annunziato di dover fare
quel giro. Se, nonostante la promessa che essa aveva voluta da lui, fosse stato
costretto a salire? Se avesse veduto Jaubourg, l'uomo il cui nome andava unito
dalla maldicenza con quello della signora de Claviers? Sgomenta per ciò che
intravedeva, domandò:
- «Arrivaste bene, ieri, a Grandchamp?..» - Il Sicuro, benissimo,» egli rispose, «e in
meno di due ore...»
- «Il Vostro padre fu contento?.. Quella piccola sosta che doveste fare non implicò
un ritardo?..»
- «No», diss'egli, Il giunsi alla fine della cacciata.»
Nel dire quel «no,» la voce di Landri era diventata più dura; le sue palpebre
avevano battuto sugli occhi, nei quali Valentina lesse l'ambascia. Egli aspettava,
irrigidendosi per non singhiozzare, un'allusione che ella non fece. Un abile chirurgo
che fruga una piaga non possiede un'arte maggiore nel fermare l'istrumento di
acciaio al momento in cui farebbe gridare il paziente, di quella che una donna
amorosa ha nel sospendere una dolorosa inquisizione prima di aver trovato la parte
trafitta. Valentina non aveva bisogno d'interrogarlo, ora, per esser sicura del punto
della ferita. La signora Privat aveva avuto ragione: Jaubourg aveva amato la
signora de Claviers. Quello che Valentina aveva temuto, si era dunque verificato. Il
moribondo aveva detto parole che avevano suscitato nel figlio dei dubbi sull'onore
della madre. Ed essa ascoltava, soffocata di commozione, Landri, che continuava a
parlare. Egli non voleva rimanere in quel silenzio, né andarsene prima di avere
spiegato la stranezza della sua visita. Ma non poteva. Non trovava che frasi, la cui
indifferenza simulata ne accentuava vieppiù la inesattezza.
- «Mi hanno dato molte commissioni al castello,» disse, «che mi prenderanno tutto
il pomeriggio. Hanno disposto di me senza interrogarmi, e siccome volevo rivedervi,
san venuto prima».
- «Se anche non foste venuto,» ella rispose, «e non mi aveste avvertita, sarei stata
sicura che non era colpa vostra. Sapete bene che io ho una fiducia completa nel
vostro affetto, e che mai, mai, vi rimprovererei la minima cosa.» Poi, invasa da
un'infinita pietà per quel cuore troppo crudelmente colpito se davvero un amico di
suo padre, nel delirio dell'agonia, gli aveva macchiato per sempre l'immagine della
madre, ella soggiunse: «Landri, io mi rimprovero di non avervi detto ieri
abbastanza quanto mi siete caro. Non ve lo dimostrai abbastanza. Poiché mi siete
caro, carissimo,» ripeté. Sembrava che con queste parole ella volesse ammansire
quel dolore che intuiva feroce, rintuzzato in sé stesso, e accarezzarlo, cullarlo.
«Ripetetevelo qualche volta, quando io non ci sono, qualunque cosa accada...» E
siccome vedeva quella fisionomia, poc'anzi tanto cupa, rasserenarsi, quelle pupille
velate guardarla di nuovo, vederla, l'eccesso della sua tenerezza le strappò la
confessione che non aveva mai voluto fare: «Perché anch'io, vedete, Landri...
anch'io vi amo.»
- «Voi mi amate!...» disse il giovanotto. Con l'istinto dell'amore, la cui doppia vista
ha alcun che di prodigioso, essa aveva detto la sola parola che potesse versare un
po' di balsamo nella ferita di lui: ma facendogliene sentire vieppiù tutta
l'estensione. Egli soffriva troppo per poter gioire di quella confessione
ardentemente bramata. Non poteva più, con quella tremenda cosa, precipitarsi,
assorbirsi, sprofondarsi in quell'amore che finalmente ella gli palesava, e che due
ore prima lo avrebbe immerso in un'estasi di gioia. Quella cosa tremenda era lì, nel
suo pensiero, torturante anche in quel momento, indimenticabile perfino nel fulgore
di quella bella anima finalmente sua! Egli si sentì invadere da un intenerimento così
disperato e così appassionato ad un tempo, che ne ebbe paura. Temette che la
obbrobriosa confidenza gli sgorgasse dal cuore troppo commosso. Ma aveva forse
bisogno di parlare, ora? Non aveva ella indovinato tutto? Ed anche questo lo
commoveva come una prova d'amore più evidente delle parole più appassionate, e
al tempo stesso finiva di spossarlo. Landri balbettò: - «Grazie... Ma, in questo
momento... Ah! non mi dite altro.... Lasciatemi...» E facendole cenno che gli
mancava la voce, si prese il volto tra le mani. Passò così dieci minuti, senza
singhiozzare, senza piangere, senza sospirare, e senza che Valentina tentasse
d'interrogarlo né di consolarlo. Il solo sollievo che quel cuore malato potesse
ricevere senza sanguinarne, era di sentire che ella esisteva, che ella era accanto a
lui, tutta sua. Ed ella lo guardava, trattenendo perfino il respiro per risparmiargli
qualsiasi impressione. Vi era, nella muta e convulsa immobilità di quell'uomo che
subiva l'imperversare della più violenta tempesta interna e che non ne mostrava se
non quell'aspetto di muta agonia, un selvaggio sussulto di energia del quale essa lo
ammirava. Mai, in quei tre anni, erano stati così vicini l'uno all'altra col cuore come
in quel silenzio che finalmente egli ruppe. Alzò la testa: Era pallidissimo, ma
l'accesso era domato. Si alzò, prese la mano della signora Olier, e con voce
profonda le disse:
- «Sì. Voi mi amate, e me ne avete dato la maggior prova che potrete mai darmi.
Lo credo, lo sento, ed ho sentito pure che vi amo, ah! sì, più ancora di quanto
sapevo. Adesso vi lascio.... è necessario. Ma non prima di avervi domandato di
nuovo quello che vi domandai ieri. Valentina, volete esser mia moglie»?
- «Sì,» rispose ella col medesimo accento. Una inesprimibile commozione passò
negli occhi di Landri, che l'attirò a sé. Casto e scottante bacio di fidanzamento, in
cui le sue labbra furono bagnate dalle lacrime che ella versava, ora, sull'ambascia di
lui, che non piangeva! E siccome quelle lacrime di donna lo turbavano di nuovo nel
più intimo suo, egli si strappò da quell'amplesso dicendo:
- «Non mi togliete il coraggio. Ne ho tanto bisogno...»
Dopo questa parola si separarono.
Essa non fece un gesto, non disse una parola per trattenerlo. Sentiva che le
apparteneva com'ella apparteneva a lui, profondamente, assolutamente, e che non
poteva far altro per lui che lasciarlo andar via, finché avesse consumato da sé solo
quel dolore di cui lo compiangeva tanto. Oh, come la sua compassione sarebbe
stata più grande, se avesse saputo tutta la verità! Essa credeva che al capezzale di
Jaubourg moribondo il giovanotto avesse sorpreso delle parole denunziatrici, forse
trovato delle lettere che lo avessero fatto dubitare di sua madre. Le evidenze che
egli stava per sopportare e fra le quali doveva trovare la via dell'onore erano ancora
più atroci.
V.
SOTTO L'UNIFORME.
- «Mi resta lei...» pensava Landri uscendo da via di Monsieur. Camminava di nuova
a diritto, di quel passo automatico e frettoloso che rivela, in certe malattie, il
turbamento incipiente dei centri nervosi. Ma un colpo morale della intensità di
quello che aveva avuto testè, non agisce forse sull'organismo come un vero e
proprio ictus? Spesso si muore di quello; spesso si rimane dementi e paralizzati. Il
senno del giovanotto aveva rischiato di smarrirsi durante la terribile crisi nervosa da
cui era stato preso vicino a Valentina, e che lo aveva indotto a rinnovare la
preghiera ch'ella si promettesse a lui per sempre. «Mi resta lei,» ripeteva fra sé, «e
lei sola.» Questa, l'orribile impressione contro la quale si era dibattuto durante quei
dieci minuti di muta agonia: l'improvviso, il mostruoso crollo di tutto intorno a lui!
Sua madre? La sacra memoria che aveva serbata di lei, macchiata per sempre!...
Suo padre? Non aveva più padre, dal momento che non poteva più dar questo
nome al solo uomo che egli amava con affetto filiale, a quel generoso, a quel
magnanimo marchese de Claviers. Per l'altro, egli non aveva avuto, fin dalla
infanzia, che sentimenti di un'antipatia subito trasformata dalla sinistra rivelazione
in un orrore misto di rimorsi e di pietà. Il suo nome? Non aveva più nome. Quéllo
che portava non era suo. Egli era una menzogna vivente. La sua casa? Non aveva
più casa. Tanto nel palazzo di via del Faubourg-Saint­Honoré come a Grandchamp,
era l'intruso, l'usurpatore. Non aveva il diritto di starvi. Poche parole pronunziate da
un moribondo erano bastate perché la sua vita anteriore non fosse che rovine. Di
coteste parole, egli non dubitava affatto. Erano giunte a lui nella tragica verità della
morte, contro la quale nulla prevale. Ma pure, se ciò fosse stato un improvviso
lampo di pazzia cagionata dalla febbre del male? No. Era forse pazzo Jaubourg,
quando, il dì prima, gli aveva mandato quel messaggero, laggiù, perché voleva
abbracciarlo prima di morire? Era pazzo quando seguiva Landri fanciullo, poi
giovanotto, con quella sorveglianza teneramente vigile, di nascosto? E neppure era
pazzo quando lo aveva stretto a sé con quell'amplesso in cui fremeva tutto l'ardore
doloroso della sua paternità. Non era pazzo in quelle visioni del passato, in quel
«sogno parlato», come aveva detto il dottore, che si collegava a tutta la loro vita
con una spaventevole esattezza. Queste idee erano scaturite tutte insieme nel
cervello sovreccitato del giovanotto durante quei brevi istanti, lucidi, chiari, come le
memorie nella mente di colui che annega. Egli aveva perduto tutto; tutto, tranne la
soave e pura donna che era lì, che lo amava, lo indovinava, lo compiangeva e non
gliela diceva, - per non umiliarlo! Lo slancio impetuoso col quale, dal fondo di
quell'assoluta ambascia, egli aveva chiesto di nuovo a quella rara; amica di unire i
loro destini, era stato eguale, per continuare un confronto fin troppo esatto, al
gesto istintivo dell'annegato che, trascinato dal vortice, afferra con mano disperata
il braccio stesogli dalla barca di salvataggio. Landri avrebbe voluto passare quel
lungo pomeriggio con lei, ai suoi piedi, con la testa sulle sue ginocchia, a sentire
scendere su lui la sola carità accettata dai disperati: la tenerezza nel silenzio! Ma
aveva temuto troppo di parlare, se rimaneva, ed era andato via, per ritrovare,
appena solo, il viavai doloroso delle sue immagini, che lo coinvolgevano di nuovo
nella loro ridda. Ad una ad una, le frasi del moribondo si ripetevano mentalmente in
lui, dal: «Sei venuto...» così teneramente triste dell'accoglienza, fino alle grida della
fine, a quell'imperioso: «Voi dite che è mio figlio?..» suprema confessione di
agonia, mista ad una suprema protesta che ne avvalorava ancora la veracità. Era la
prova dell'accanimento con cui quell'uomo aveva custodito il segreto, finché le forze
glielo avevano permesso.
- «Il figlio di Jaubourg!...» soggiungeva Landri ora. «Sono il figlio di Jaubourg!...»
Quella brutale rivelazione sulla sua nascita cominciava a mostrarglisi nella sua
realtà concreta. L'atmosfera sociale nella quale era vissuto per quasi trent'anni dava
a questa visione un carattere particolare. Aveva sentito tutte le persone del suo
grado, dalle migliori, come un marchese de Claviers, fino alle mediocri e alle infime,
come un Charlus, un Bressieux, parlare di «stirpe», ed era appunto nella sua stirpe
che egli si sentiva improvvisamente ferito. Quel sangue che gli scorreva nelle vene -
e si guardava le mani con un tremito - era il sangue di Jaubourg; quella energia
vitale che gli permetteva di muoversi, di respirare, come faceva in quel momento,
emanava da Jaubourg; la sua carne era carne di quell'uomo. Lo rivedeva col
pensiero, non più misero e abbandonato, sul suo letto di polmonitico, ma giovane,
bello, quale i suoi ricordi d'infanzia lo rievocavano, - a cavallo, mentre seguiva una
delle loro cacciate ­ vestito da mattina, mentre passeggiava in un viale del loro
parco a Grandchamp, - vestito da sera, seduto alla loro tavola. Queste immagini
facevano esistere quell'uomo davanti a lui, in modo animale. La parentela delle loro
fisiologie diventava in tal modo come percettibile, come palpabile, e ciò gli dava
un'impressione di sé medesimo, nauseante, disgustosa, quasi un odio del suo
proprio corpo. Le somiglianze intime e nascoste che egli scopriva ad un tratto tra lui
e l'amante di sua madre - si spaventava di pensare queste parole - lo
sgomentavano. Perché non se n'era accorto? perché tutti intorno a lui, e il
marchese per primo, non avevano osservato quella identità di temperamenti, il
contrasto evidente del rampollo del Parigino borghese, distinto ma debolmente, con
la feudale discendenza dei Claviers? Landri era esile come Jaubourg, elegante come
lui, ma di un'eleganza minuzioso. e molto vicina a esser gretta in confronto alla
prestanza di quei signori di una robustezza marziale. Essi avevano tutti di belle
pupille chiare e turchine. Lui, invece, le aveva come Jaubourg, brune e cupe. A
distanza di tanti anni, gli pareva ancora di sentir dire alla madre: «Landri ha i miei
occhi». Perché? Per impedire che fossero riconosciuti gli occhi dell'altro. Ma egli li
aveva, quegli occhi, come pure i capelli castani, i baffi più chiari, quasi fulvi di
Jaubourg. Della madre aveva i lineamenti: il naso diritto, la bocca altera, il mento
con una fossetta. Queste analogie avevano permesso alla signora Claviers di
affermare che suo figlio era tutto il suo ritratto, - per chi non sapesse. Landri ora
sapeva, e rabbrividiva all'idea che i familiari di Grandchamp avessero riscontrato in
lui la somiglianza sicura. Egli se ne sentiva umiliato nel più intimo dell'a sua
persona. Si era piccato, durante tutta la sua gioventù, di non essere schiavo della
sua casta. Aveva trattato, se non di pregiudizio, per lo meno d'illusioni le
intransigenze del capo della casa de Claviers circa la nobiltà, e nel verificare
l'innesto della sua origine, quell'atavismo commisto in lui all'atavismo materno,
puramente aristocratico, provava uno strano sentimento di decadenza.
Quest'impressione era, molto illogica. Non aveva egli voluto, non voleva forse
sposare una donna anche meno aristocratica di un Carlo Jaubourg? Ma le reazioni
spontanee del nostro orgoglio sono esse governate dalla logica? All'inesprimibile
sentimento di una degradazione nativa si aggiungeva un altro sentimento, più
profondo, più generoso: la tenerezza e l'ammirazione che aveva sempre nutrite per
il signor de Claviers gli rendevano quasi insopportabile il pensiero che tra lui e
quell'uomo amorevole, leale, superiore, il sacro legame della discendenza fosse
rotto. Pur lottando contro il dispotismo di quel padre, era stato tanto orgoglioso che
egli fosse suo padre; e non era suo padre. Che dolore! Se per uno strappo
improvviso, che mettesse a nudo la radice stessa. del suo essere, egli avesse
versato sangue da tutte le fibre che attaccano l'anima al corpo, avrebbe provato la
stessa sensazione. Intanto camminava, camminava senza fermarsi, sicché alla fine
di quel pomeriggio si trovò lontanissimo, in fondo al quartiere di Ménilmontant,
oltrepassato il cimitero del Père-Lachaise. Il calare dell'ombra della sera lo avvertì
che il giorno finiva. Alzò gli occhi sopra un cartel1o, e vide che si trovava all'angolo
del boulevard Mortier e di via Saint-Fargeau. Guardò l'orologio: segnava quasi le
cinque. Il treno che egli doveva prendere partiva alle cinque e un quarto. Il suo
cameriere lo aspettava alla stazione dell'Est: aveva appena tempo di andarvi in
carrozza. A quale oscuro e sconvolgente impulso del suo cuore irrequieto obbedì,
lasciando quella stazione alla sua destra e dirigendosi verso la Senna, poi,
novamente, di là, in via Solferino? Nel tumulto delle sue sfrenate commozioni
un'immagine aveva incessantemente assediato la sua memoria: quella del
moribondo del quale gli pareva di sentire ancora le palme sudate errare sul suo
volto, del quale udiva, attraverso lo spazio, il respiro breve, la tosse straziante, la
voce rotta. Colui gli aveva inflitto un immenso dolore; ma quanto posto aveva
subito preso in mezzo alle sue ossessioni! Quella paternità peccaminosa, rivelata
così crudamente, lo sconvolgeva senza intenerirlo. Ma era nondimeno una
paternità. Al ricordo delle carezze di addio la sua carne si commoveva; egli si
sentiva pungere da un rammarico, partendo dalla città dove agonizzava
quell'infelice, senza aver chiesto delle sue ultime ore, senza aver tentato di
rivederlo forse. Aveva già varcato il ponte Royal, percorreva il lungo Senna d'Orsay,
svoltava nella via funesta. Questa volta alcuni uomini spazzavano davanti alla casa
la paglia ormai inutile, che non avrebbe più soffocato per nessuno il rumore troppo
assordante delle carrozze. Il cuore di Landri si serrò, poi batté a colpi precipitati
quando, entrato nel portone per sapere i particolari, il portinaio gli rispose, con
quell'aria compassata del popolano che dà una cattiva notizia e ne condivide
l'importanza:
- «Il signor Jaubourg è morto verso il tocco, quasi subito dopo che vossignoria lo
ha lasciato. Dicono che non abbia sofferto. Era addirittura fuor di sé. Aveva perduto
la testa. Pare impossibile! Un signore così intelligente!... Se vossignoria vuol salire
vi troverà il signor marchese de Claviers. »
- «Mio padre?..» disse il giovanotto. Non ci si libera mica, in pochi istanti, da una
consuetudine presa all'alba dei primi affetti. Egli si udì mandare questa
esclamazione, e ne fremette, mentre l'altro proseguiva:
- «Il signor marchese è arrivato mezz'ora fa: egli non sapeva nulla. Gli ho
annunziato io la disgrazia. Ne è rimasto come annientato. Non voleva neppur
crederci. «Se fossi venuto stamani,» diceva, «almeno lo avrei veduto, gli avrei dato
l'ultimo addio...» E' molto addolorato, e gli farà bene a vedere vossignoria...»
Questo chiacchierio di rimpianto ufficiale poteva continuare ancora, ma Landri non
lo ascoltava. Egli guardava l'ingresso della scala monumentale sotto la vòlta, e quei
larghi scalini di pietra che era costretto a salire come un condannato quelli del
patibolo. Quell'uomo che gli aveva annunziato la morte di Jaubourg li conosceva
troppo, il signor de Claviers e lui. La semi­familiarità del suo discorso lo provava. Se
non si fosse recato subito presso il marchese, in circostanze simili e sotto lo
sguardo osservatore di quel testimone in livrea, avrebbe commesso una viltà. Ne
avrebbe commessa una minore se avesse sfogato dianzi il suo dolore con
Valentina! Ma d'altra parte, avrebbe la forza di rivedere il signor de Claviers, in quel
momento e in quel luogo, specialmente se qualche sospetto avesse attraversato
quella fiducia per tanto tempo ingannata? Era un'ipotesi molto inverosimile, ma
Landri stesso non era stato illuminato da una rivelazione fulminea e assolutamente
inaspettata? Che cosa significava l'improvvisa presenza in quel luogo del castellano
di Grandchamp, dopo il telegramma da lui inviatogli che annunziava un
miglioramento nella condizione del malato? Il giovanotto si faceva questa domanda,
ultima ansietà oltre tutte le altre, pur salendo gli scalini. Come li avrebbe voluti
numerosi!... Era già sul pianerottolo. Sonò. Attraversò l'anticamera e la biblioteca.
Entrò nella camera in cui poche ore prima si era svolta lo. terribile scena. Sul letto
dove egli aveva lasciato Jaubourg ripiegato dallo spasimo e proferendo le
indimenticabili parole, giaceva una forma immobile, preparata per essere incassata.
Il morto, vestito da sera, con la cravatta bianca, i calzini di seta e gli scarpini
scollati, aveva ripreso quella maschera convenzionale che lo spasimo dell'agonia gli
aveva strappata negli ultimi momenti, - e dinanzi a chi! - L'epigramma della
signorina de Charlus era giustificato dalla presenza del Crocifisso tra quelle mani
che non si erano congiunte, neppure allora, per nessuna preghiera, nessun
pentimento. La testa fina e dolorosa, con gli occhi chiusi, la bocca stretta, la fronte
gialla e le guance di un pallore cereo, come spianate delle loro rughe, non rivelava
più nulla del mistero celato per tanti anni. Neppure il volto impassibile di Giuseppe,
il maggiordomo, che camminava in punta di piedi per la stanza, rivelava nulla dei
segreti che aveva potuto afferrare. Egli era intento a sorvegliare le disposizioni di
quella camera di malato, destinata a diventare il salotto delle ultime visite fatte dai
suoi nobili amici a Jaubourg-Saint-Germain prima di esser messo nella cassa. Pietro
Chaffin, il cui sguardo sarebbe stato molto penoso per Landri, non era più lì. Il figlio
avrebbe potuto credere di aver sognato anche lui, avrebbe potuto dubitare che la
sua vista e il suo udito fossero stati ingannati da un'allucinazione, che egli non
avesse mai veduto quello che aveva veduto né udito quello che aveva udito, se non
fosse stato invaso da un gran tremito nello scorgere un'altra forma umana
inginocchiata al capezzale del letto, e viva. Era il marchese de Claviers, in atto
commovente, nel suo dolore sincero e nella sua fede semplice. Egli pregava, con
tutta la forza del suo vecchio cuore cristiano, per il suo amico, - per colui che
credeva suo amico. Era tanto assorto, che rimase alcuni istanti senza accorgersi
della presenza di suo figlio, - di colui che credeva suo figlio. E questi, uno dei due
benemeriti di tale generosa illusione, rimaneva annientato da un turbamento vicino
al rimorso, come se si fosse reso complice dell' insulto inflitto segretamente a
quell'uomo altero, tacendoglielo. Finalmente il marchese alzò la testa e mostrò il
suo volto imponente, dove le lacrime avevano lasciato la loro traccia. Fu in piedi, in
tutta la sua alta statura, e avvolse con un ultimo sguardo il morto, sul quale fece
con la mano il segno della croce. ­ Che gesto, fatto da lui a quell'altro! - Quando le
sue dita leali toccarono la fronte, Landri avrebbe voluto gridare. Il signor de
Claviers vide il giovanotto, e con un altro gesto, non meno patetico, gli circondò la
spalla col braccio, per appoggiarsi a lui in quell'ora amara. Essi passarono così nello
studio, dove l'amico tradito cominciò a parlar sottovoce, con quel rispetto pieno di
commozione che anche i più indifferenti rivelano in presenza della morte. In lui,
non era un atteggiamento. Egli si rimproverava di avere, il dì prima e quella stessa
mattina, sacrificato alla sua passione per la caccia l'ultima visita al moribondo.
- «E' stato il tuo telegramma che mi ha fatto venire,» diceva. «Ho indovinato che
non mi telegrafavi la verità... da che cosa? Da un'inezia. Cominciava così: «Non
v'impensierite.» Io ho pensato: «Il mio povero Landri è turbato. Egli pensa prima di
tutto al dolore del suo vecchio babbo. Jaubourg sta peggio.» E poi, non ero
contento di me... Mi rimproveravo di essermi divertito troppo ieri, ed anche
stamani, galoppando su quel buon cavallo. E quasi una colpa, alla mia età, amar
tanto la vita!... Insomma, Charlus e Bressieux prendevano a Clermont il treno delle
tre. lo li avevo accompagnati fino alla stazione, e son salito in treno con loro.
Troppo tardi!... Avrei voluto parlargli ancora una volta!... Tu l'hai veduto? Ti ha
riconosciuto? Che cosa ti ha detto?...»
- «Era già fuori di sé,» rispose Landri distogliendo lo sguardo dal marchese. Aveva
creduto, quel pomeriggio, di toccare il fondo del dolore. Non aveva preveduto quel
colloquio, né quelle confidenze, che ora per lui avevano un significato acutissimo.
Ognuna aggiungeva un capitolo alla storia sinistra dell'inganno. Il figlio dell'amante
vi ritrovava tutto: la sicurezza imprevidente - ma tanto alta - di quell'uomo; la
franchezza stessa con la quale, affidato il proprio onore alla moglie e all'amico, non
aveva dubitato; le astuzie di quella moglie, e le seduzioni di quell'amico, e financo
la spiegazione, se non la scusa, della colpa. Quella vita di parata e fastosa, in cui l'
Emigrato» aveva inghiottito la sua ricchezza perché lo splendore del nome dei
Claviers-Grandchamp non fosse menomato, egli non aveva potuto condurla che
circondato di oziosi. L'amore è la grande occupazione di quegli ambienti di lusso, di
fasto e di piacere. La signora de Claviers era molto bella; di più, era romantica. La
rude e forte poesia del carattere del marchese non aveva appagato in lei un
sentimentalismo al quale aveva corrisposto maggiormente un'indole più complessa,
più scaltra, forse più corrotta. E Landri era nato da quest'adulterio deplorevole. Ma
peccato che un uomo di una tempra d'animo così bella e rara fosse stato vilmente
ingannato, in casa propria!
- «Dunque,» egli soggiungeva, «è proprio vero che non si è accorto di morire?..
Ah, Landri, Dio ci liberi dal finire così, senza aver fatto i nostri doveri religiosi! Io
non temo che una morte: la morte improvvisa. Eppure Jaubourg non l'aveva
meritata. Ma, Florimondo aveva purtroppo ragione: egli non era religioso!...
Comunque, se ci fossi stato io, avrei fatto chiamare un prete. Giuseppe non ha
osato di trasgredire gli ordini; io non ci avrei badato, e chi sa che Dio non gli avesse
concesso la grazia di tornare in sé per un momento!.. Ma Dio è il gentiluomo del
cielo, come diceva non so chi.... e immagino che l'ampiezza della sua indulgenza
oltrepassi i nostri poveri cervelli. Egli perdona molto a chi è stato sempre sincero e
buono, e Carlo era tanto buono! Quante volte tua madre mi narrò atti di carità
nascosta, parole delicate di lui! E non lo vedeva molto, di buon occhio... Caro
Landri, come mi consola la tua presenza!... Capisco, sei tornato per me. Volevi aver
notizie, per finire di prepararmi, all’occorrenza. Lo so, Carlo e te non eravate
sempre d'accordo; eppure ti assicuro che ti voleva molto bene. Ma era di un'altra
generazione, e non stava volentieri coi nuovi venuti. Mi fanno sentire più
vecchio...» mi diceva. Ed io gli rispondevo: «Io, invece, mi sento più giovane...»
Non si sapeva consolare di avere più di trent'anni. Egli era stato tanto bello, tanto
elegante, tanto apprezzato! E questo non lo aveva insuperbito. Mi pare ancora di
vederlo, nel '73, tu non eri ancora nato, quando feci la sua conoscenza. Fu
all'Eliseo, dal povero maresciallo. Bei tempi! Si speravano tante cose che non si
sono effettuate, e si speravano allegramente, troppo allegramente forse. Troppo
allegramente...» ripeté; e soggiunse: Ed ecco...»
Accennava la porta con la mano, che indi si portò sugli occhi. Poi, scotendo la testa
virilmente come per non lasciarsi vincere dalle tristezze di quei ricordi:
- «Io ritorno a Grandchamp col treno delle dieci. Tu prendi quello delle nove. Le
nostre stazioni sono vicine. Vieni con me: pranzeremo insieme. Camminiamo un
poco per rimetterci, vuoi?.. Quante volte san venuto a prendere Carlo a quest'ora,
quando il caso mi conduceva da queste parti!... Non più tardi dell'altro mercoledì, in
cui mi parlò di quel progetto di matrimonio con la piccola Charlus. In questo stesso
punto mi disse: «Debbo farvi una proposta.» Si tratta di Landri...» Basta! Giuseppe
mi farà sapere l'ora esatta del trasporto. Ciò dipenderà dai suoi cugini che sono
lontani. Tu chiederai un permesso. Voglio averti con me.»
- «Non so se l'otterrò,» rispose Landri. La prospettiva di quel nuovo tormento, di
quel convoglio seguito così, fra gli sguardi di tante persone che certo sapevano
tutto, lo aveva fatto sussultare. Aveva per io meno un pretesto per sottrarvisi. «Il
nuovo colonnello non è condiscendente. Inoltre, sapete che è di sinistra, e poco
ben disposto con noialtri...»
- «Quando ti deciderai a sbatacchiar l'uscio in faccia a cotesta gente? » disse il
signor de Claviers. E scendeva la scala precedendo il figliuolo, di modo che non
poté vedere quale eccesso di amarezza si dipingeva sul volto del suo interlocutore
mentre egli insisteva: Sto tranquillo perché so che essi stessi ti ci costringeranno, e
forse fra non molto. In treno, mentre venivo a Parigi, Bressieux mi ha fatto vedere
un giornale dove si tratta di fare gl'inventari nella regione di Saint-Mihiel. Che cosa
farà Landri se vi si trova immischiato?..» mi ha chiesto. - «Quello che fareste voi»
gli ho risposto. Confesso che sarei lieto di vederti ritirare con un atto simile. Del
resto, sarebbe tempo che un vero gentiluomo dicesse una parola che non è stata
detta. Vi sono stati, fra i dimissionari che hanno protestato contro le indegne
requisizioni, parecchi ufficiali della nobiltà: hanno addotto la loro coscienza, i loro
principi religiosi. La coscienza? Questa parola mi piace poco, perché ha troppo
servito da cartellino solenne all'anarchia. I principi religiosi? E meglio; è un appello
ad una disciplina che non piega ai capricci della gente. Ma per un nobile v'è un altro
dovere: quello di non prevaricare. E commetterebbe una prevaricazione chi agisse
contro la volontà degli avi dai quali discende, di quei morti che, in vita, servirono
una Francia cattolica. Noialtri loro rampolli, abbiamo verso di essi il dovere di
servire la medesima. La Francia senza la Chiesa non è più la Francia di cui fanno
parte le nostre case. Servire questa Francia, per un nobile significa rinunziare alla
propria nobiltà. Queste abdicazioni sono il suicidio dell'onore, di quell'onore che un
gran vescovo chiamava la custodia della giustizia, il magnifico supplemento delle
leggi. Ecco quello che vorrei sentir proclamare in faccia a cotesti ragazzacci da un
Claviers-Grandchamp.»
Adesso erano per la strada. Il marchese guardava il suo preteso figliuolo coi suoi
penetranti occhi celesti, che nessuna lacrima più non opacava. Tale professione di
fede quasi feudale, fatta su quella porta, dinanzi al figlio del tradimento, dal
gentiluomo così profondamente oltraggiato, e che lo ignorava, era il massimo della
tragedia, di quella tragedia interna che la vita produce con lo scherzo dei suoi
segreti contrasti. L'arrivo d'uno dei loro amici del Circolo, venuto per iscriversi da
Jaubourg e che si trattenne un momento sul marciapiede per scambiare con essi
poche parole di condoglianza, permise a Landri di non rispondere. Tre ore dopo,
quando finalmente si trovò solo nello scompartimento del treno di Saint-Mihiel, egli
era molto spossato, affranto da quella mortale giornata, la più crudele della sua
vita. Poco prima, durante e dopo il pranzo, il signor de Claviers aveva detto molte
altre parole la cui incosciente crudeltà aveva torturato il giovanotto. Nondimeno,
cullato dal movimento del vagone nel cui frastuono monotono egli rievocava sillabe
distinte, gli tornavano incessantemente alla memoria le dichiarazioni udite per la
scala, quelle parole sugli inventari. Esse racchiudevano le sue malinconie che
precedettero la terribile crisi, e il dramma che già usciva da quella crisi stessa.
- «Che cosa è mutato nella mia condizione, per ciò che concerne gl'inventari?» si
chiedeva. «Ignoravo forse come egli la pensasse su questo punto, e che non
muterebbe?.. Eppure, sì, una differenza c'è. Quando non sapevo quello che ho
saputo, la sua tesi sul dovere del nobile aveva ancora un significato per me: ora
non lo ha più. lo non sono un Claviers-Grandchamp; non sono un nobile. Quello che
ha valore per essi non ha valore per il figlio di un Jaubourg. Mi ha parlato
d'onore!... D'onore? A me?.. Ma è appunto quello ch'io debbo desiderare, di essere
immischiato in uno di questi fatti, di dover eseguire un ordine contrario a tutte le
sue idee, e di agire come avevo già risoluto di agire!... Mi maledirà? Tanto meglio!
Tanto meglio!... Io non potrei più sopportare colloqui come quello di stasera. Mi
tradirei. Non so neppure come ho fatto a frenarmi oggi. Lo amo troppo. Chi non lo
amerebbe? È tanto degno di essere amato!...» La personalità fisica e morale del
marchese gli si affacciò alla mente con quella lucidezza e quella profondità nella
lontananza che producono le lunghe intimità della famiglia. Bello; spiritoso,
generoso, amorevole, divertente, gran signore e alla mano, l'«Emigrato» possedeva
la dignità e il fascino, ed aveva subìto il vile oltraggio! Cotesta infamia strappava un
sussulto di ribellione al figlio dell'altro. «Come è stato possibile tradire costui?
Preferirgli, chi ?... Ah, madre mia!» Landri era solo adesso, e poteva dare libero
sfogo alle commozioni che lo soffocavano. Sdraiato sui guanciali di quel vagone,
pianse alfine, e lungamente. Tutte le lacrime che non aveva versate nella giornata,
ora le spargeva: quelle che aveva frenate dinanzi a Valentina con un eroico sforzo
di volontà; quelle che si era proibito di mostrare alla indifferente curiosità dei
passanti durante la sua folle passeggiata per Parigi; quelle che non si era lasciato
sfuggire quando parlava col signor de Claviers, a due passi dal letto del morto, poi
a tavola nella trattoria. Mentre il suo cuore si calmava, accadeva in lui una
reazione. Per la prima volta da che il moribondo aveva cominciato a parlargli,
tentava di dubitare: Eppure è mia madre...» singhiozzava. «E ho potuto credere
subito questo, di lei? Subito, senza fare indagini, senza avere una prova!...»
Indagini? Non occorrono, no, per credere quello che è lì, evidente, davanti agli
occhi. Prove? Ma un fatto costituisce in sé stesso una prova, e il morente era stato
questo fatto, questa prova. Il suo volto, i gesti, la voce, le parole di lui tornavano
alla memoria di Landri. Con la stessa chiarezza con cui vedeva i guanciali di quel
volgare scompartimento svolgere il loro panno bigio, la lampada del palco rifulgere,
il paesaggio notturno sfilare dinanzi ai cristalli, egli aveva veduto un padre morire,
dando un addio disperato al figlio. Aveva veduto l'antico amante d'una donna,
allucinato dal ricordo di cotesta donna. Le grida di quel morente non erano state
una testimonianza, bensì una realtà indiscutibile, innegabile, il fatto stesso,
l'indistruttibile fatto. Un altro fatto vi aggiungeva la sua forza orribilmente
accusatrice. Landri aveva sempre sentito dire ch'egli era nato prima del tempo, di
otto mesi. Egli scorgeva il dramma intimo che questa menzogna rappresentava. Era
nato nel mese di aprile. Era stato concepito nel mese di agosto, in una di quelle
villeggiature estive troppo propizie ai convegni lontani e che hanno inflitto a tante
innamorate si pavidi e vergognosi ritorni al letto coniugale. Queste immagini lo
sconvolgevano, poi altri particolari lo riafferravano, e questo fra gli altri: «il figlio
avrà tutto, tutto...» aveva detto il malato; e interpellando i suoi nemici immaginari:
«Voi non lo impedirete. Ho trovato il mezzo.»
Questa frase significava dunque che, nel testamento, Jaubourg aveva lasciato a
Landri tutto il suo patrimonio? Quell'uomo cosi prudente, cosi inteso a celare la sua
paternità, che si era perfino proibito di baciare il suo figliuolo, avrebbe smentito
ponderatamente tutta la sua vita con un atto simile? Qual mezzo aveva escogitato?
Certo una donazione fatta sotto il nome di terze persone. Rifiuterò,» pensò il
giovanotto, saprò trovare un mezzo, anch'io, per non aver quel denaro. E' già
abbastanza ch'io sia costretto di partecipare per forza al loro delitto, è già
abbastanza d'infliggere ad un uomo che amo, che venero, quest'affronto di tutti i
giorni, di tutte le ore: ch'io gli rubi il suo nome, il suo affetto!... È questo il
contraccolpo che rende tanto colpevoli certi tradimenti. Essi ricadono troppo
gravemente su degli innocenti. Poiché, infine, io sono innocente di questa colpa, ed
ecco che mi ferisce dopo trent'anni!...» E mentre i nomi delle stazioni si
succedevano nella notte, interrompendo coi loro gridi indifferenti quell'interno
lamento: - Chàlons... Vitry... Bar­le-Duc... - «Come mi credevo infelice,» proseguiva
Landri mentalmente, «quando passavo di qui ieri l'altro! E vorrei tornare a quella
notte!... Si direbbe che avevo il presentimento del disastro verso il quale andavo,
quando cercavo di concentrare tutti i miei pensieri intorno a queste due idee:
Valentina e l'Esercito, l'Esercito e Valentina. Non prevedevo però di rimanere cosi
presto con questo solo motivo per vivere. Ora davvero potrei dirle: «Voi e il mio
mestiere, il mio mestiere e voi.» A lei, almeno, sono legato, fino da oggi, per
sempre. Abbiamo scambiato le nostre promesse. Anche se fossimo già marito e
moglie non saremmo maggiormente impegnati, l'uno rispetto all'altra. L'Esercito è il
mio rifugio. Se ne uscissi, ora, dove andrei?...»
Il Rifugio! - Questa parola in cui si riassumeva l'unico beneficio che egli poteva
ricevere dalla vita nell'ora presente, tornò alle labbra dell' infelice quando, alla fine
di quella lunga notte, sulle cinque del mattino, dai cristalli del vagone vide SaintMihiel che ergeva, sopra un cielo vagamente stellato, la massa scura e nebulosa
delle sue case. Esse si stringevano intorno all'antica abbazia nel cui battistero si
vedono due fanciullini che si baloccano con due teste di morto, capolavoro nel
quale Ligier-Richier ha riassunto, con un semplice simbolo, tutto l'umano destino.
La luce dei lampioni rischiarava appena l'acqua della Meuse, serpeggiante in
quell'ombra umida. Quando il giovanotto scese dal treno, la banchina della stazione
era sinistramente deserta. Sinistramente deserte erano pure le strade dove s'inoltrò
il misero veicolo sconquassato ch'egli trovò alla stazione. Ma quelle case chiuse gli
davano il senso di sicurtà appartata che proviamo tornando, dopo una violentissima
scossa morale, in un luogo dove ormai abbiamo contratto abitudini quotidiane.
Mentre la vettura girava da via del Bastione, Landri riconobbe il muro del giardino
nel quale tre anni prima parlò del suo amore alla signora Olier. La sua anima,
spossata dall'eccesso del dolore, si meravigliò di gustare una specie di tregua nel
dolore rivedendo quelle strade dove trascinò tanti sogni d'amore e disimpegnò tanti
doveri di soldato. L'aveva dunque indovinato. Egli potrebbe vivere, - aspramente,
amaramente, ma vivere, - attaccandosi, aggrappandosi a questi due ultimi principi
di speranza e di attività che la sorte gli lasciava. E quando ebbe indossato il vestito
da militare, aspettò con un'impazienza, non lieta, certo, ma molto virile, l'ora di
andare a riprendere le sue occupazioni giornaliere. Benché la notte non avesse
affatto riposato, camminava di passo svelto quando si diresse verso il quartiere. Pur
non provando più quel senso che aveva chiamato, nel suo colloquio con Valentina,
la gioia dell'uniforme, - la parola gioia non avrebbe più alcun significato per lui, per
molto tempo, - ne sentiva tuttavia il saldo coraggio. Egli guardò l'alta porta, con
una esaltazione singolare nei suoi occhi cerchiati dalle lacrime e dall' insonnia:
- «Anche questo mi rimane,» diss'egli adoprando esattamente la stessa formula
del dì prima, quando aveva lasciato la sua cara amica di via di Monsieur; e, come
ansioso di riafferrare il contatto con quella vita, dura sì, ma virile e sana, affrettò il
passo per entrar più presto nel cortile. Sonavano le otto. Il vento freddo,
quell'aspra brezza del Nord-Est che spazza incessantemente gli altipiani tra la
Meuse e la Moselle, sbatteva i camiciotti di tela bianchi - degli uomini intenti a
strigliare i cavalli davanti alle porte delle scuderie. I sottufficiali li sorvegliavano,
corruscanti e attillati nella tunica. In un angolo, alla porta della cucina, alcuni
soldati sbucciavano delle patate, sotto una tettoia; altri passavano, recandosi a
squadre a qualche altra faccenda. Tutto rivelava l'attività energica e regolata che fa
di una caserma ben tenuta una nobilissima cosa umana. Landri, lì, non era più,
come a Grandchamp, l'erede isolato di un signore da parata, signore egli pure. Era
il luogotenente de Claviers, al quale obbedivano, ma che obbediva. Ricordiamo che
egli aveva chiamato una gioia anche questa impressione. In qual modo egli
esercitasse la sua parte di autorità, lo sguardo degli uomini che lo salutavano col
gesto regolamentare, con la mano aperta alla tesa del berretto, sarebbe bastato a
rivelarlo. Anche egli li guardava con quegli occhi premurosi e benevoli del capo che
si cura di ogni particolare. Ne scòrse uno il cui pallore un po' sofferente denotava
che usciva da qualche malattia.
- «Avete già ripreso servizio, Teilhard?»
- «Da ieri, signor luogotenente.»
- «Ma siete guarito bene della bronchite?»
- «Guarito benissimo, signor luogotenente.»
- «E vostro padre? Avete passato da lui la vostra licenza?»
- «Sì, signor luogotenente. Volevo anzi venire a trovarvi per dirvi che il suo
commercio si è alquanto rimesso; egli spera di alleggerire un poco il suo debito nel
mese venturo.»
- «Scrivetegli che non c'è furia, bravo Teilhard,» rispose affettuosamente Landri,
rimandando il dragone con un cenno. Egli vedeva avvicinarsi il capitano Despois, il
marito dell'amica della signora Olier.
- «Parlavate col frutto del vostro miracolo?» disse allegramente Despois al suo
ufficiale.
«Sì, sì... E' un vero miracolo. D'uno zuccone come quell'animale, aver fatto un buon
soldato!... Riprendetevela con voi stesso se vi affido i casi disperati. Ho profittato
della vostra assenza per darvi Baudoin che continua a andar male. Ve lo
raccomando in modo particolare.»
- «Me ne occuperò subito,» disse Landri. «L'ammansirò io.» E appena il capitano fu
andato via: «Fatemi sellare Pantera,» disse al sottufficiale, che aspetta va alla porta
della cavallerizza con molti uomini e parecchi cavalli, «e chiamatemi Baudoin.»
Dieci minuti dopo arrivava, sellata, con un semplice morso che già rodeva
nervosamente, la cavalla richiesta, tenuta per la briglia da un giovanotto di aspetto
selvaggio, con gli occhi nerissimi sul volto olivastro. Soltanto dal modo col quale
portava il chepì s'indovinava il fannullone insolente, e dal gesto brusco col quale vi
portò la mano per salutar l'ufficiale, la sorda ribellione, il bruto pronto a cantare e a
pensare il sozzo ritornello. Non bisogna cessare di citarlo ai beati ottimisti che non
vogliono riconoscere le ferocie celate sotto i miraggi umanitari del socialismo, questi prodromi di un Terrore che sarà peggio dell'altro, essendo più sistematico - e
più ignobile, perché opera di una razza più degenerata:
Se si ostinan, questi cani,
A ridurci degli eroi,
Contro loro, oggi o domani,
Spareremo tutti noi.
La graziosa cavalla, guidata da quell'uomo col viso di malvivente dei sobborghi,
faceva con lui un aperto contrasto per l'eleganza aristocratica di tutta la sua
struttura. Era quasi un puro sangue. Aveva la coda rialzata, le reni brevi e svelte, la
spalla lunga, due gambe di cervo, la testa piccola. Era al reggimento da cinque
giorni. Il maniscalco, per adornarla in vista della vendita, l'aveva tosata da caccia. Il
pelame delle gambe e quello che oltrepassava i quartieri della sella, era di color
baio scuro. Il rimanente del corpo, recentemente tosato, pareva di color bigio ferrò.
Appena entrata nel recinto, essa raspò impazientemente il suolo col piede.
- «Ebbene, montatela, Baudoin,» disse l'ufficiale, per vedere se è più buona del
primo giorno. L'avevo riserbata per un buon cavaliere... e so che voi siete tale.»
Baudoin, senza mostrarsi sensibile a questo complimento, inforcò Pantera, che si
mosse rapida, col trotto frenato della bestia che si contiene. Visibilmente, essa non
obbediva né ai colpi di tallone né alla tensione delle redini. Fece così quattro volte il
giro del circuito, voltando la testa da una parte e dall'altra, facendo dei piccoli
tentativi per uscire appena arrivava presso la porta chiusa, stupenda a vedersi in
quel vasto spazio vuoto, dove sembrava errasse quasi in libertà.
- «Non è restìa,» disse Landri. Proviamo a metterla di galoppo.. Non vuole?... Un
po' di scudiscio.»
Pantera non si degnò nemmeno, nonostante tutti gli sforzi di Baudoin, di prendere
il trotto.
Il sottufficiale, che teneva in mano lo scudiscio, cominciò a correre facendolo
vedere alla bestia. Invece di prendere il galoppo, la cavalla spaventandosi, eseguì
una serie di salti violenti, che sbalzarono di sella il cavaliere. Questi volle risalire. La
cavalla, sicura ormai della propria difesa, riprese il trotto, per ricominciare a saltare
a un nuovo cenno di scudiscio. Nuova caduta dell'uomo. Egli risalì. Terza caduta.
Questa volta era stato scagliato contro il muro assai impetuosamente. L'ira lo aveva
fatto diventar verde. Gli sfuggì una brutale esclamazione, e in tono selvaggio disse:
- «Non rimonto più. Non voglio rimontare. Ne ho abbastanza di farmi rompere le
ossa perché gli ufficiali abbiano i cavalli bene addestrati.»
Egli guardava il luogotenente, con occhio bieco, con le mani in tasca, tutto
imbrattato di schiuma e senza scuotersi, senza neppur raccattare il chepì, senza
inseguire la cavalla che aveva ripreso il passo e poi si era fermata. Essa morsicava
con la punta dei denti un gran palo ritto e bucato, destinato a sostenere la sbarra
del salto.
- «Ebbene!» disse Landri con dolcezza, e come se non avesse udito quel grido
d'insubordinazione. «Monterò io. Voi la riprenderete dopo.»
Fece aggiustare le staffe alla sua lunghezza e balzò in groppa all'animale che mise
prima al trotto, poi al galoppo. La cavalla tentò di buttarlo giù con dei salti ancor
più disordinati di quelli che le erano riusciti così bene poco prima. Ma Landri era
stato messo in sella a sei anni dal signor de Claviers, ed anche lui era della scuola
di coloro che non sono per il divorzio, come diceva allegramente il marchese. Egli
tenne duro. Pantera, degna del suo nome, tentò un'altra resistenza. Cominciò a
galoppare, poi fece una brusca giravolta. Landri tenne sempre duro. Altri salti. Altra
giravolta. Il cavaliere non cadeva. Stanca di dibattersi, la giumenta trotta, galoppa,
comincia ad obbedire alla gamba, obbedisce alla mano.
- «Riprendetela, Baudoin,» disse l'ufficiale saltando a terra. Non ha rotto le ossa a
me, non le romperà neppure a voi.»
Il dragone arrossì. Egli guardò il luogotenente che stava a guardarlo in faccia,
calmo, freddo. Quella suggestione, coadiuvata dall'amor proprio, agì sul ribelle, il
quale rimontò in sella, e la seduta finì senza incidenti. L'animale, domato, si
comportò bene col suo nuovo cavaliere come col precedente.
- «Ora», disse Landri al sottufficiale, fate entrar gli altri».
- «Hai avuto fortuna», diceva il sottufficiale a Baudoin, pochi momenti dopo. Con
un altro, ne buscavi di sicuro...»
- «E anche l'altro, forse...» rispose Baudoin, con dileggio. Ma quello lì: è vero, me
l'ha fatta».
- «Non ho perduto la mia mattinata,» pensava Landri uscendo dalla cavallerizza.
Ed entrò, per aspettar l'ora delle classi a piedi, in una saletta che serviva di
biblioteca e di luogo di riunione agli ufficiali. Quella stanza era semplicemente
mobiliata di un divano, poche poltrone, e una tavola grande, il tutto coperto di
panno ruvido, turchino a quadri rossi. Alcune assi cariche di libri guarnivano due
pareti. Su quelle rimaste libere si vedevano delle incisioni, di cui talune
rappresentavano le origini del 32° dragoni. Vi era, prima di tutto, un cavalier de
Lévis, con la data del 1703, col tricorno e la tunica bianca con rovesce e guarnizioni
rosse. Un altro cavalier de Lévis, vestito in modo quasi identico, portava questa
iscrizione: 1724. Poi si vedevano due cavalieri del Reale Normandia, con le date
1768, 1784. Essi indossavano una tunica celeste con rovesce colar amaranto, e
avevano al cappello la coccarda bianca. Un soldato del 19° cavalleria, in abito
celeste alla francese, con uno spennacchio tricolore al berretto, inaugurava i tempi
moderni. Era del 1792. Bastò che gli occhi di Landri incontrassero quelle incisioni,
perché la calma relativa di quest'ultima ora céssasse ad un tratto. La vista di quelle
uniformi dell'antico regime aveva evocato in lui la scena di due giorni prima: il
signor de Claviers che gli additava il tenente generale, e la sua esclamazione sulle
uniformi e gli eroismi fulgidi dei tempi andati. Nel pensare al marchese, si ricordò di
nuovo dell'uscita del vecchio gentiluomo, il dì precedente, riguardo agl'inventari,
mentre il ricordo del quadro di Parrocel ravvivava in lui il sentimento dell'odiosa
menzogna della sua nascita. L'associazione di queste diverse idee ne produsse una
nuova che, penetratagli nella mente, non poteva più uscirne, come il fatto atroce al
quale si collegava. Non era nella coscienza del figlio adulterino di un ragionamento
elaborato in lui, a sua insaputa, da dodici ore in poi.
- «Ma ho io il diritto, fin da ora, portando un nome che non è mio, e sapendolo, di
agire con questo nome come se fosse mio?..»
Sulla tavola vi era un giornale. Il giovanotto lo prese, macchinalmente, e per
consuetudine cercò la rubrica delle «cose militari». Un'altra mandata d'immagini lo
invase. Se gl' inventari di Hugueville-en-Plaine e di Montmartin avevano luogo; ed
egli dovesse dirigerne uno fino alla infrazione di una chiesa, il racconto verrebbe
certamente pubblicato sotto quella stessa rubrica, stampato con quegli stessi
caratteri. Il suo nome comparirebbe lì, in testa a un paragrafo che riferirebbe il suo
atto. Il suo nome? Un nome è un'eredità, una proprietà personale e collettiva
insieme. Esso appartiene a colui che lo porta, a coloro che lo hanno portato o che
lo porteranno. Tutti sono solidali in quello. Landri aveva reagito contro questa
solidarietà durante tutta la sua giovinezza, fino a ieri l'altro, quando proclamava
davanti alla signora Olier e davanti al marchese il diritto per gli eredi di un gran
nome di vivere la loro vita personale. Pareva ­ anche lui lo aveva creduto a tutta
prima - che la lugubre scoperta del segreto della sua nascita avesse finito di
spezzare, tra i Claviers-Grandchamp e lui, quella catena, già lesa, di una solidarietà
detestata. E così sarebbe di fatto, se egli avesse lasciato il loro nome, se, avendo
riconosciuto che non era della loro famiglia, avesse cessato di chiamarsi come loro.
Questa aperta rottura era impossibile. Anche se Landri non avesse amato il
marchese troppo profondamente per recargli un colpo simile, la memoria di sua
madre gli proibiva di disonorarla. Ma allora, tenendosi il nome dei Claviers, aveva
un debito verso di loro? Non era più libero? Quando leggessero, in quel giornale e
in altri, che un Claviers-Grandchamp aveva osato di compiere un atto
assolutamente contrario alle tradizioni della loro casa, che cosa gli direbbe la
propria coscienza? Che aveva fatto il suo dovere? No, poiché non era affatto per
un'idea di dovere che aveva risoluto, qualora, di eseguire un ordine da lui stesso
qualificato ripugnante. I suoi compagni avevano troppo spesso discusso davanti a
lui la questione dei limiti della disciplina, che alcuni governanti insensati e criminali
hanno fatto gratuitamente sorgere in questi ultimi anni. Vi aveva riflettuto troppo
anche lui per non sapere che l'obbedienza passiva è una locuzione inventata dai
nemici di quella grande scuola di degna energia, che è l'esercito. Egli aveva
meditato la saggia e giusta formula di conferma dell'ufficiale, che esclude ogni
ordine degradante: «Gli obbedirete in tutto quello che vi comanderà per il bene del
servizio e per l'esecuzione dei regolamenti militari.» Egli sapeva che questo
problema della sottomissione alle requisizioni civili, tal quale è posto, nei recenti
moti religiosi, è tra quelli che formano dramma nelle coscienze più rette. Ottimi
soldati l'hanno risoluto in un modo; ottimi soldati l'hanno risoluto in un altro. E’ un
delitto del governo, diciamolo pure, quello di mettere tante persone di cuore in
simili alternative, - delitto contro la coloro che non sono entrati nell'esercito per
compiere simili faccende, - delitto contro la patria, privata così di alcuni dei suoi
migliori capi. Landri, come abbiamo già veduto, aveva risoluto questo problema in
un modo tutto perso­nale. Egli si era detto: «Obbedire, significa rimanere in
servizio. Rifiutare di obbedire, significa dare le dimissioni. Io voglio servire, quindi
obbedirò.» Ma ecco che un elemento nuovo era sopraggiunto: l'evidenza di una
fellonia commessa verso il lignaggio dei Claviers, e di cui la sua stessa esistenza lo
rendeva complice. La colpa di sua madre lo aveva introdotto. in quel lignaggio. Che
cosa diventavano le convenienze della sua vita personale, al confronto di tale
usurpazione? Non lo impegnava essa con l'onore, - poiché gli rimaneva tuttavia un
onore, checché avesse detto nei primi sussulti della rivelazione - a non far mai un
atto che quel lignaggio, incarnato oggi nel marchese, potesse rimproverargli dal
suo punto di vista? La conclusione era imperativa. In una circostanza della sua vita
militare così pubblica, così certamente chiassosa come l'obbedienza ad una
requisizione contro una chiesa, non la propria opinione egli doveva seguire, ma
quella del capo della casa nella quale egli occupava un posto usurpato.
Quest'obbligo indiscutibile s'impose improvvisamente a Landri con una forza
assoluta, e, per la prima volta, egli indietreggiò mentalmente dinanzi alla
prospettiva di un avvenimento che lo metterebbe nella necessità di decidersi contro
la volontà in sì chiaro modo espressa del marchese de Claviers, o di sacrificare
quella vita di soldato, che in quel momento egli amava più che mai. Tutto il suo
pensiero si sforzò di respingere la probabilità di quel dolore. Non poteva più
sopportarne l'idea.
- «Sono pazzo. Se impiegano i dragoni in uno di questi inventari, manderanno più
d'un plotone. Il comando sarà dunque affidato a un capitano. Io sarò in seconda.
Se vi è una porta da abbattere, e non vi saranno operai civili, dovrà dar l'ordine il
capitano, non io.»
Egli faceva fra sé questo discorso, percorrendo in lungo e in largo il cortile,
mentre, sotto la sua sorveglianza, gl'istruttori facevano esercitare le reclute. E a
quale persona incomberebbe questa responsabilità, se l'ipotesi ammessa da Landri
si verificasse? In assenza del capitano comandante dello squadrone, al capitano in
seconda, che era appunto quel Despois col quale aveva scambiato la mattina un sì
cordiale saluto. Landri si ricordò allora della lettera scritta dalla moglie di
quell'ufficiale, e che la signora Olier gli aveva data. Egli aveva letto quella lettera
sul momento, - ma senza leggerla. Non ne sapeva altro che la frase di Valentina:
«Essa dice molto bene quello che io vi direi molto male...» Ma allora, il capitano
Despois, se gli fosse assegnata una requisizione, rifiuterebbe di sottomettervisi?
Come già era accaduto altrove, il comando passerebbe dunque al suo ufficiale
subalterno, nella persona di Landri?... Questa era adesso l'apprensione del
giovanotto di faccia ad una inconsistenza relegata tuttora nel dominio della
probabilità e che egli aveva finora considerata con tanta decisione. Abbreviò il
tempo degli esercizi per tornare a casa più presto e leggere attentamente la lettera
della signora Despois. Gli tremavano un poco le mani nello spiegare il foglio, tutto
sgualcito per essere stato nelle sue tasche mentr'egli si agitava nel dolore sul
guanciale dello scompartimento del treno. Vi trovò, sulla fine, dopo il racconto di un
colloquio veramente commovente tra il capitano e sua moglie, queste righe che,
pur diminuendo una delle cause della sua ansietà, ne accrescevano un'altra,
purtroppo!
- «...Mio marito è dunque risoluto, » scriveva Giulia Despois. Egli ha chiuso il nostro
colloquio ripetendomi la stupenda dichiarazione del povero capitano Magniez:
«Preferirei esser fucilato che commettere un sacrilegio.» Se ci accadrà questa
disgrazia, ci troveremo poveri, amica mia. L'educazione dei nostri tre figli sarà
compromessa. Eppure non ho potuto far altro che dirgli: «Hai ragione. Noi siamo
sposi cristiani; abbiamo fondato una famiglia cristiana. Sia fatta la volontà di Dio!»
E vedrete di che cosa è capace il mio caro Despois! Il suo unico pensiero è per i
suoi ufficiali. Egli non vuole che si rinnovi l'eccidio di Saint-Servan. Mi ha detto
anche: «Se mi chiedono degli zappatori per atterrare le porte della chiesa, rifiuto.
Non lascio alle autorità civili il tempo di telegrafare per avere altri ordini. Faccio
rimontare tutti i miei uomini a cavallo e torno a Saint-Mihiel. Così sarò sicuro di
essere punito io solo.» Vedete, Valentina, quali tristi momenti attraversiamo, e
come è giusto che ciò sia la nostra unica preoccupazione I In tutte le famiglie di
ufficiali non si pensa ad altro. E non si parlerebbe d'altro, se non sapessimo che
oggidì anche un semplice attendente può essere un delatore ascoltato dall'alto. Noi
ci chiediamo tutti: «Quando si faranno questi due inventari e chi ne avrà il
comando? Vi saranno degli incidenti?...» Dio voglia che ci siamo preoccupati invano
e che le cose vadano, come sono andate in tanti luoghi, tranquillamente!
Comunque, io metto in iscritto le parole di mio marito perché i miei figliuoli le
abbiano un giorno, quando né lui né io ci saremo più. Vedranno così quello che
valeva il loro babbo, e come la loro mamma lo abbia compreso...»
Landri lesse e rilesse quest'ultima frase. La generosa risoluzione del capitano gli
permetteva di non temer di nulla, se il capitano Despois era al comando. Ma il
resto? Come non istituire un confronto tra quella semplice compagna di un bravo
ufficiale, così devota al marito, così altera di stimar lo, di ammirarlo - e un'altra
donna? Fra quei figliuoli che non troverebbero, nell'umile focolare, se non occasioni
di rispetto - e un altro figliuolo? perché la madre sua non aveva compreso colui che
le aveva dato il suo nome? perché lo aveva tradito? perché da questo tradimento
era nato un figlio? E perché questo figlio, che aveva ignorato tale obbrobrio per
tanti anni, non lo aveva ignorato sempre? Da quali casi dipende il nostro destino!
Se il treno di Clermont, il dì prima, fosse arrivato a Parigi con un'ora di ritardo,
certamente Landri avrebbe trovato il malato di via Solferino fuori di sé, il dottore
non lo avrebbe lasciato entrare, ed egli non avrebbe saputo nulla. Così non sarebbe
stato ridotto a subire quell'agonia interna che ogni cosa rinnovava; e quando
finirebbe? Ah, mai, mai!...
- «Io mi creo degli scrupoli assurdi,» diceva fra sé, ventiquattr'ore dopo. Era nel
pomeriggio, e passeggiava a cavallo lungo la Meuse. Aveva ricevuto un telegramma
del marchese con cui gli annunziava che il trasporto di Jaubourg aveva luogo il
domani, venerdì, alle nove; Landri aveva risposto telegraficamente che non poteva
andarvi. Aveva capito che cosa significava la scelta di quell'ora mattutina, come
pure una nota, letta nei giornali, che il defunto aveva desiderato un trasporto
semplicissimo, senza inviti, senza fiori né corone. Questa determinazione di
postumo raccoglimento evitava i commenti sulla presenza del signor de ClaviersGrandchamp dietro il feretro dell'amante di sua moglie. Landri vi aveva scòrto una
nuova traccia del sinistro segreto. Sarebbe stato egualmente irritato di funerali
pomposi! Questa irritazione si rivelava con un ritorno alla cieca e quasi selvaggia
ribellione dei primi istanti. Tale sentimento dava il suo colore cupo alle riflessioni
che egli faceva di nuovo sulla possibilità della sua partecipazione effettiva ad uno
degli inventari, unico oggetto, come aveva detto la signora Despois, delle tacite
preoccupazioni di tutti gli ufficiali della guarnigione. Tre suoi compagni, che si
fidavano di lui, come lui si fidava di loro, gliene avevano parlato, in confidenza, la
mattina. Egli aveva evitato di rispondere, e se lo rimproverava amaramente: «Sì,
assurdi!... Rispetto a lui,» egli continuava a non poter nominare in cuor suo il
signor de Claviers, e neppure l'altro, del resto: «Rispetto a lui, non posso essere in
nessun dovere. Il solo fatto che respiro è un insulto così atroce, che non ho nulla
da aggiungervi. Tutto quello che posso fare, è di sopprimere ogni contatto tra noi.
Domani egli seguirà quel convoglio. Io non vi sarò. Non ci vedranno camminare
l'uno accanto all'altro. Bisogna che, d'ora innanzi, sia così nella vita. Il mio impulso
d'ieri era quello buono, quello savio. Meglio così, se mi delegheranno al comando
per la spedizione a Hugueville o a Montmartin! Meglio così, se dovrò forzare una di
quelle chiese! Quello sarà il disastro. Il nome de Claviers-Grandchamp sarà forse
disonorato perché un soldato avrà mandato innanzi a tutto la disciplina? Anche
questa è una tesi che si sostiene. La prova è che Despois ha esitato, lui, che pure è
un cristiano osservante. Valentina, che è religiosa, ma che sa che cos'è il nostro
mestiere, ne ammette l'idea!... Egli mi biasimerà, ma non potrà tuttavia
disprezzarmi veramente. E sarà finita, finita!... Ne soffrirà molto. Ed io non soffrirò
forse a non chiamarlo più babbo, a non vivere più con lui in quella intimità di cuore
che era così completa, - come lo sento!... - nonostante le nostre divergenze
d'idee?.. Oggi lo comprendo: quelle divergenze che mi meravigliavano, era la
stirpe. Egli ha ragione: la stirpe esiste. Io non avevo gli istinti di un vero nobile,
Non ho neppur quelli di un vero borghese. Com'è terribile questa parola a cui non
avevo mai badato: l'adulterio, e come è giusta! E’ l'estraneo nel focolare domestico.
E’ la stirpe falsata. E’ la creazione di un'anima ibrida come la mia. Ecco il segreto
delle inconseguenze della mia indole, di quelle contraddizioni che non sapevo
spiegare, il motivo per cui non ho mai amato nessuna delle donne della mia casta
col più profondo dell'essere mio; il motivo per cui, anche oggi, non riesco a
semplificarmi in una volontà netta. Vi riuscirò. Le mie relazioni con lui sono
impossibili. Questo è il fatto al quale debbo attenermi, semplicemente,
assolutamente. Venga pure l'occasione di scavare l'abisso: io lo scaverò!... »
Questo secondo ragionamento corrispondeva troppo alla verità della situazione,
perché non trionfasse nella mente del giovanotto. Nondimeno egli conservava, in
fondo all'animo, con la speranza, quasi la certezza che non avrebbe dovuto
conformarvi la propria condotta. Non occorre aver nelle vene un sangue carico di
eredità contraddittorie per subire incoerenze di questo genere. Basta volere un
bene immenso ad una persona dalla quale si ritiene necessario separarci per
sempre. Perciò egli ebbe un'impressione molto penosa incontrando, nel tornare da
quella passeggiata e in una delle strade di città, il suo colonnello, a piedi, colui al
quale non piacevano «i nomi rimbombanti». Era figlio di un modesto funzionario,
riuscito, per un insieme di energia e di astuzia, buon ufficiale con idee radicalmente
false, nel quale fermentavano quelle strane ire anticlericali e antinobiliari di cui è
fatta la sincerità giacobina. Lo sguardo di quel capo, dal quale si sentiva detestato,
freddò Landri per la gioia ironica e crudele che conteneva. Egli non s'ingannò.
L'ipotesi, considerata fino allora soltanto idealmente, si effettuava, prendeva corpo.
Il volto del superiore ostile esprimeva l'odio soddisfatto di chi sa, con certezza, che
il proprio nemico è minacciato da una disgrazia. La questione degli inventari stava
per esser risoluta, e lui, Landri, doveva avervi qualche parte. Cinque minuti dopo,
questo presentimento era mutato in certezza. Quando scese da cavallo, il suo
attendente gli consegnò un biglietto del capitano Despois, nel quale lo pregava di
andar da lui per un affare urgente di servizio.
- «Ci siamo,» pensò Landri. «Tocca a noi.»
Egli trovò l'ufficiale devoto, del quale conosceva per mezzo di una confidenza così
intima i più segreti pensieri, intento a scrivere, nel modesto salotto che gli serviva
di studio. Despois era un uomo di quarantacinque anni, altissimo, con la faccia
ossuta e abbronzata, i capelli già quasi bianchi e perduti sulle tempie per l'uso
dell'elmo, i baffi rossi, gli occhi verdastri e chiari. Quegli occhi erano, velati da una
tristezza tale, che Landri questa volta s'ingannò.
- «Il comando è stato affidato a lui,» pensò. Si ricordava della lettera che aveva
letta, e il suo cuore s'impietosì per quel padre di famiglia che si preparava
evidentemente a sacrificare il suo avvenire militare alla propria fede.
Fino dalle prime parole comprese come egli stesso ispirasse una eguale pietà a
quell'ottimo uomo che gli disse, porgendogli due fogli di carta il cui formato ufficiale
ne denotava la provenienza:
- «Volete legger questo, caro Claviers?»
Il primo di quei due documenti aveva per intestazione: «Ordine generale
concernente il concorso che la truppa deve prestare all'esecuzione degl'inventari dei
beni delle chiese,» e il secondo: Istruzione complementare per il luogotenente
comandante il 1° ed il 2° plotone del 3°squadrone del 32° dragoni, destinato a
coadiuvare l'azione della polizia e della gendarmeria durante le operazioni degli
inventari dei beni della chiesa di Hugueville-en-Plaine.» L'Ordine generale» indicava
che i due inventari si farebbero il venerdì, 16 novembre, alle nove della mattina. L'
«Istruzione complementare» precisava che la missione dell'ufficiale spedito a
Hugueville consisteva in questi tre punti: «Stabilire dei cordoni sulle diverse strade
che conducevano alla chiesa, conforme alle indicazioni del disegno annesso,» poi
«sostenere l'azione della polizia e della gendarmeria per mantenere l'ordine,
sciogliere gli aggruppamenti, assicurare all'occorrenza lo sgombro della chiesa»;
insomma, «permettere al funzionario della registrazione di compiere il suo dovere
d'ufficio». Per quanto Landri dovesse essere preparato, dalle sue riflessioni della
settimana scorsa e di quel pomeriggio, alla possibilità di tale avvenimento, nel
leggere quelle righe impallidì. Tuttavia non esitò un momento, e rispose:
- «Ho inteso, capitano, obbedirò.»
- «Avete letto bene?» soggiunse Despois; e indicando col dito una delle frasi del
primo foglio: «...Sei zappatori muniti degli arnesi necessari per effettuare, in
mancanza di operai civili, le distruzioni cui potrebbe esser necessario procedere...
In mancanza di operai civili,» ripeté. «Bisognerà dunque che vi assicuriate che non
si trovano operai civili;» e insistette: «che non si trovano.» Certamente egli
prevedeva il caso in cui il luogotenente rifiutasse di eseguire la requisizione del
commissario, e si preparava, all'occorrenza, a ricorrere dinanzi al consiglio di
guerra.
- «Me ne assicurerò, capitano.» E con voce ferma: Spero che non giungeremo a
questo, ma, se occorre, i miei zappatori faranno il loro dovere.»
Sulla faccia impassibile del cattolico Despois neppure un muscolo si contrasse. Se
Landri non avesse saputo ciò che ègli pensava, avrebbe potuto credere che il
carattere particolarmente doloroso di simile spedizione lasciava indifferente quel
vecchio soldato che cominciò a dargli degli ordini circostanziati
sull'approvvigionamento degli uomini. Solo quando si alzò, dopo mezz'ora di quel
colloquio esclusivamente professionale, egli si lasciò sfuggire parole che provavano
quali palpiti avessero scosso il suo cuore, sotto la tunica sen.za insegne
cavalleresche. Era per lui una fortuna insperata di non esser delegato al comando
in quella occasione; ma incapace di egoismo, non pensava al proprio interesse. Il
suo sguardo si era ancor più oscurato, da che l'altro gli aveva fatto quella,
dichiarazione che non lasciava ombra di dubbio. Nell'accompagnare il visitatore alla
porta, lo fece fermare dinanzi alla mediocre incisione di un quadro popolare: Le
ultime cartucce. Il povero capitano Despois non era un collezionista del gusto di un
Altona, né un amatore d'arte come un Bressieux. Era qualche cosa di più alto nella
scala della cultura umana: un buon soldato. Tutto il martirio dell'Esercito, di
quell'Esercito spinto da politici indegni a sì dure tragedie di coscienza, fremeva
nell'accento col quale, mostrando al suo luogotenente quella brutta riproduzione
della scena di un disastro, ma di un disastro eroico e in faccia al nemico, gli disse
semplicemente il verso celebre:
«Felice chi morrà fra quelle feste!...»
VI.
IL TESTAMENTO.
Mancava poco alle otto del mattino, il giorno dopo, quando Landri e i suoi dragoni
sbucarono in vista di Hugueville-en-Plaine, così chiamato per distinguerlo da
Hugueville-en-Montagne. E un grosso borgo, distante tre leghe da Saint-Mihiel sulla
carta e a volo d'uccello, L'intreccio delle strade in quel contrafforte dell'Argonne
trasforma quei dodici chilometri in diciassette. Un bosco immenso si stende davanti
al villaggio, dalla parte dell'Est, di modo che i sessanta uomini del drappello
avevano potuto avvicinarsi senza esser veduti. Era di nuovo un cielo autunnale, di
un turchino scialbo, tutto velato di vapori tenuissimi, come quello del lunedì
precedente, quando l'innamorato di Valentina Olier scendeva dall'automobile alla
porta di Saint-François-Xavier per andar di nascosto dalla sua amica. Stretto nel
cappotto nero, con l'elmo in testa, l'ufficiale che guidava i suoi due plotoni da due
ore, dapprima traverso boschetti di olmi e di tremule, e, a mano a mano che erano
saliti, traverso macchie di querce e di faggi, si ricordava con dolorosa malinconia
quel tempo che, pur essendo così prossimo, - quattro volte ventiquattr'ore, - gli
pareva remoto! Aveva vissuto più in quei quattro giorni, che nei ventinove anni
della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua giovinezza. La marcia si era
effettuata in un silenzio che dava prova del poco entusiasmo dei cavalieri per la
spedizione a cui partecipavano. Perfino l'anarchico Baudoin, ancor sotto
l'impressione della lezione del dì prima, non aveva tentato di addottrinare i suoi
compagni. Essi andavano a quattro a quattro, ravvolti, per causa del freddo
pungente di quel crudo paese, nei grandi mantelli turchini sui quali riluceva la
canna delle carabine. Gli zappatori si distinguevano dai picconi appesi all'arco della
sella. Un altro luogotenente chiudeva la marcia. Non si udiva che il rumore degli
zoccoli dei cavalli sul suolo duro, e il tintinnio delle sciabole contro gli sproni. Quel
rumore non sarebbe bastato tuttavia ad annunziare il loro arrivo. Gli abitanti di
Hugueville-en-Plaine e dei villaggi vicini ne erano stati senza dubbio avvertiti dalla
rapida e inesplicabile propagazione delle notizie in campagna, di cui il più
stupefacente esempio fu quella .grande paura contagiosa nell'estate del 1789,
divulgata in pochi giorni da un'estremità all'altra della. Francia. Nel dialetto del
centro la chiamano ancora: «la gran pauraccia...»
- «Guarda,» disse Landri fra i denti, «siamo aspettati.»
Circa trecento persone spiavano, infatti, all'ingresso della Via Grande, e si diedero
a correre verso il centro del villaggio gridando: «Ecco i dragoni!... Ecco i dragoni!..
» Era la retroguardia di una folla ammassata intorno alla chiesa sulla piazza il cui
disegno era annesso alla «Istruzione complementare.» Più di milledugento
contadini e contadine erano lì, che opponevano una barriera vivente ai cavalli. I
cavalieri impiegarono più di un quarto d'ora per giungere nella piazza, facendosi
largo fra i dimostranti con tutti i riguardi che erano stati loro espressamente
raccomandati. Più che altro avevano da fare per frenare i cavalli, turbati da tutta
quella gente in procinto di salmodiare con le sue mille voci il noto cantico:
«Vogliamo Dio!...» Occorse un altro quarto d'ora per eseguire davanti alla chiesa
un'operazione simile e per stabilire i cordoni ordinati. Verso le atto e mezzo, la
piazzetta aveva l’aspetto di una vera tappa di guerra: i cavalli erano riuniti in
mezzo, tenuti dai loro uomini. Ciascuno ne aveva due da badare. Gli altri
formavano cordone all'ingresso delle vie. Dietro di loro si vedeva il brulichio delle
teste ansiose dei contadini. Gli scalini che salivano verso la chiesa, posta sopra una
specie di piattaforma, erano affollati di donne inginocchiate, le quali, con voce
altissima, avevano cominciata a recitare le litanie della Madonna. Vi era alcun che di
straziante e di grottesca insieme, di sinistramente brutale e d'insulso, in quella
spiegamento di forze militari per frenare la possibile resistenza di tante umili
creature, che gettavano nella placida aria di quella bella mattina i religiosi appelli:
«Rifugio dei peccatori... Consolatrice degli afflitti.... Salute degl'infermi...» E la folla
rispondeva, di fondo ai viuzzi sbarrati dai dragoni: Pregate per noi...»
- «Ci fanno fare una brutta azione,» disse sottovoce, a Landri, Vigouroux, l'altro
luogotenente che era andata a mettersi accanto al compagno. Entrambi, dopo aver
disposto i loro uomini, camminavano avanti e indietro nello spazio rimasta libero.
«Il boccone è un po' duro a inghiottirsi.»
- «Non c'è rimedio: bisogna proprio mandarlo giù,» rispose Landri.
- «E siete voi che parlate così, Claviers?» osservò Vigouroux con visibile stupore.
- «Un soldato non conosce che la consegna,» soggiunse l'altro, seccamente.
- «Io non vi biasimerò davvero!...» disse Vigouroux. Mi torna utile, sapete, che la
pensiate in tal modo.»
Essi continuarono a camminare l'uno accanto all'altro senza più parlare. Landri era
sincero nell'affermare al suo compagno, come al suo capitano il dì prima, la propria
volontà d'andar fin in fondo. Egli si suggestionava da sé medesimo con dichiarazioni
le quali non impedivano che avesse, fin dal giorno precedente, un solo pensiero, e
non era quello della consegna. Contraddizione troppo naturale di un cuore così
ferito: a mano a mano che s'avvicinava al momento in cui poteva esser chiamato a
fare il gesto definitivo dopo il quale sarebbe in rotta o con l'esercito o col signor de
Claviers, l'immagine di quell'uomo che gli aveva sempre voluto bene come suo
figlio, e per il quale anch'egli nutriva tanta tenerezza, lo perseguitava, sempre più
netta, sempre più commovente. Quel fantasma era lì, tra Vigouroux e lui, e lo
guardava, e gli diceva, con i suoi chiari occhi turchini, la parola dell'assassinato al
proprio carnefice: «Anche tu, figlio mio!...» A tale implorazione Landri non cedeva,
non voleva cedere. Per esorcizzarla, aveva parlato in tal modo a Vigouroux. - Del
resto, non pareva che le cose dovessero prendere una piega molto tragica, a
giudicare dalle disposizioni di quella folla, evidentemente conformi ad una parola
d'ordine data dal curato. Quei contadini erano proteste viventi; non erano dei
ribelli. Ma tutto mutò all'arrivo di una carrozza preceduta dai gendarmi, dalla quale
scesero tre individui: uno in uniforme ricamata d'argento, l'altro cinto alla vita da
una sciarpa, il terzo in soprabito. Erano il sottoprefetto, il commissario speciale e
l'agente dell'ufficio del registro. Appena ebbero messo piede in terra, ai responsori
delle litanie tenne dietro un grido formidabile di: «Abbasso i ladri!... » che fece
uscir fuori da una casa attigua alla chiesa un quarto individuo, il curato di
Hugueville in persona. Era un bel vecchio, a capo scoperto nonostante il freddo.
Altri due preti lo accompagnavano. Egli si avanzò fino alla porta della sua chiesa, di
cui, in coscienza, non credeva di poter consegnare le chiavi. Era pallidissimo.
Anch'egli si assumeva una grande responsabilità. Poteva esser versato del sangue.
Alzò le vecchie braccia che avevano presentato tante volte l'ostensorio al suo
gregge, e che ora imploravano, più che non comandavano, il rispetto della sua
volontà. Quel gesto fu subito compreso, tanta era grande l'autorità spiegata col
solo aspetto da quell'ascetico apostolo. Il clamore insultante non si ripeté, e in tutta
quella folla si fece un gran silenzio, mentre i nuovi venuti salivano gli scalini in
mezzo alle dorme che si allontanavano da loro con orrore evidente. L'abate Valentin
- così si chiamava il curato - andò loro incontro, e allora s'impegnò, fra il prete
divenuto rosso in viso e i funzionari, un colloquio le cui parole non giungevano agli
astanti. Ne afferravano però l'espressione mimica: il curato scoteva la sua testa
venerabile di cui il vento sollevava i canuti capelli, come chi oppone ad una
insistenza stringente un categorico rifiuto; il sotto prefetto pareva quasi
supplichevole; il commissario minaccioso, e l'agente dell'ufficio del registro tirava
fuori le carte. Finalmente l'abate Valentin si ritirò, e i tre funzionari, dopo essersi
consultati, scesero gli scalini.
Allora la folla, interpretando quell'uscita come una vittoria del prete, acclamò il
nome di lui e intonò il cantico:
«Son cristiano, e me ne vanto...»
- «Credo che sia finito,» disse Vigouroux, «e che noi non abbiamo più che fare
qui.»
- «Comincia ora, invece,» rispose Landri.
«Sono andati a cercar l'operaio.»
Passò mezz'ora durante la quale la folla cessò di cantare per abbandonarsi ad un
tumulto di conversazioni vivaci. Il continuo ripetersi di questa parola: «un
magnano» attestava che l'ufficiale aveva còlto nel segno. Finalmente i tre
funzionari ricomparvero, seguiti da un uomo livido dalla paura, che era il tamburino
pubblico di Hugueville, col tamburo a tracolla. Fu accolto da un'urlata, il cui scoppio
clamoroso s'interruppe ad un tratto per dar luogo ad una ansiosa curiosità. Il
commissario, invece di salire gli scalini della chiesa, come dianzi, fendeva il cordone
dei soldati e si avanzava verso Landri:
- «Non ho trovato operai in Hugueville, luogotenente,» diceva, «per abbattere
quella porta. Per farla più liscia, sono tutti usciti dalle botteghe. Il loro curato li ha
fanatizzati. Vengo a chiedervi di darmi mano. Ecco la mia requisizione.»
In ciò dire porse al luogotenente una carta che questi percorse con gli occhi. Gli
spettatori del doloroso episodio - uno di più nella dolorosa storia della più delittuosa
delle guerre religiose - videro soltanto l'elmo inclinato su quel foglio che la brezza
ognor più forte pareva volesse strappare dalla mano che lo teneva.
- «Ho condotto il tamburino per le intimazioni,» soggiunse il commissario.
- «Benissimo,» disse Landri con la voce strozzata dalla commozione. «Le faccia
pure!»
Con la stessa voce sorda diè l'ordine ai sei zappatori di prendere i picconi e di
seguirlo. Cominciò a salire la scalinata, mentre i tre rulli del tamburo annunziavano
imminente l'esecuzione. Furono seguiti da alcuni minuti di tragica attesa. Landri, in
piedi ora sul terrapieno, si era fermato e taceva. Nel salire gli scalini egli aveva
alzato gli occhi al grande orologio che era sulla porta della chiesa. Segnava poco
meno delle nove. In quel momento il marchese de Claviers era in via Solferino:
stavano per portar via il feretro di colui che egli piangeva come un amico, come un
fratello; le lacrime gli rigavano il volto generoso; il suo gran cuore era straziato dal
dolore. Tale visione era sorta dinanzi all'ufficiale con una acuità che lo aveva
fermato all'improvviso. Avrebbe egli, il figlio del Giuda, fatto sanguinare quel cuore
con un'altra ferita?
- «Ebbene, luogotenente?» diceva il commissario, «credo che sia giunto il
momento.»
- «No,» rispose Landri strappandosi al suo pensiero, e con voce ferma, questa
volta, «no,» soggiunse, «rifiuto.»
- «Rifiutate ?..» disse il sottoprefetto avanzandosi. Ma avete riflettuto bene alle
conseguenze, signore... all'articolo 234 del Codice penale?...»
- «Rifiuto,» ripeté il giovanotto; e facendo il saluto militare ai tre funzionari che
rimanevano immobili dalla sorpresa, scese lesto lesto quella scalinata che aveva
salita tanto lentamente, seguito dagli zappatori. «A cavallo!» gridò quando fu in
fondo; e quasi subito: «Per quattro, avanti!» Cinque minuti dopo non vi era più un
solo dragone nella piazza, ma bensì una folla entusiasta che inseguiva i funzionari, i
quali stavano per raggiungere la loro carrozza, con le grida di: «Viva l'esercito! Viva
il luogotenente!...»
- «Non ci capisco nulla,» disse il commissario, quando la carrozza cominciò a
muoversi. Credevo che quell'ufficiale obbedisse. Non aveva trovato nulla da ridire,
come fanno di solito, sul testo della requisizione...»
- «Ed io pensavo come voi,» rispose l'agente del registro. Dicevo fra me: «Non
torneremo certo in questo luogo,» e ne ero alquanto soddisfatto! Senza l'intervento
del curato, quei bestioni ci avrebbero fatto qualche brutto tiro. »
- «Sapete come si chiama il luogotenente?» domandò il sottoprefetto.
- «Aspettate,» disse il commissario, che sfogliò le sue carte, De ClaviersGrandchamp.»
- «E' un nobile!» esclamò il sottoprefetto. «Ora capisco. Evidentemente egli aveva
una gran voglia di eseguire la consegna, e poi, all'ultimo momento, se n'è pentito.
Perché? Ve lo dirò io, ma prima sentite una storiella...» Egli era un vecchio
parigino, che narrava volentieri degli aneddoti. Vi era, sotto l'Impero, un giornalista
dell'opposizione che scriveva articoli violentissimi in un giornale rosso. Un bel giorno
si viene a scoprire che ne scriveva, sotto un falso nome, alcuni egualmente violenti
in un giornale del governo. Non mi rimane che morire!...» egli gemeva, e parlava di
bruciarsi le cervella... «Baie!» gli disse uno dei suoi amici, «basterà che tu muti
caffè.» Non aveva. torto. Tutto si accomoda nella vita, finché si può mutar caffè. I
nobili, invece, non possono. Ecco perché il vostro ufficiale ha agito così. Egli ha
pensato senza dubbio che sarebbe guardato di malocchio al Circolo. Questo
dipende dall'avere un caffè troppo elegante.»
Mentre gli allegri servitori di un regime in cui, infatti, hanno mutato molti caffè,
ridevano spensieratamente della bottata del sottoprefetto filosofo, quella breve
tragedia, alla quale non mancava neppure la dovuta ironia, finiva con la dispersione
degli attori. I manifestanti si precipitavano dentro la chiesa, finalmente riaperta, e il
passo dei cavalli, unito al tintinnio delle sciabole, risuonava in lontananza nei boschi
ingialliti che separano Hugueville da Saint-Mihiel. La marcia diventava più allegra. Il
sole, completamente libero, riscaldava l'aria, e brillava sul metallo degli elmi e le
groppe lucide degli animali che, fiutando la scuderia, fremevano d'impazienza. Dati
i suoi ordini, Landri si era messo alla testa della colonna, con un'aria così cupa, che
tutti gli uomini, per quanto fossero indifferenti alla crisi morale che aveva dovuto
attraversare il loro capo, ne rimanevano impressionati. Vigouroux poi aveva ragioni
più positive del commissario per meravigliasi di un voltafaccia che smentiva
assolutamente i discorsi scambiati pochi momenti prima. Anche a lui la fisionomia
del compagno imponeva troppo, perché osasse di parlargli. Cavalcava in coda,
segretamente soddisfatto, mal suo grado, al pensiero che il paragrafo 9 del capitolo
II della quinta parte dell'Annuario militare avrebbe subìto una piccola
modificazione. Egli avanza va di un grado sulla lista di anzianità dei tenenti di
cavalleria. Ma l'innocente desiderio di avere un po' più presto un terzo gallone al
chepì non impedisce la rettitudine del cuore, ed egli era sincerissimo nello stringere
la mano a Landri, quando si ritrovarono insieme, alla fine della tappa, nel cortile del
quartiere.
- «Vi ringrazio, Claviers,» gli disse.» Se non ci aveste comandato di tornare a
cavallo, il sottoprefetto telegrafava, mi passavano il comando, ed io non so se avrei
avuto il vostro coraggio, di cui mi congratulo con voi.»
- «Non ci si congratula con un ufficiale di avere spezzato la propria spada,» rispose
l'altro con un'asprezza che lasciò il bravo Vigouroux sconcertato.
- «Se egli crede questo,» pensava guardando Landri allontanarsi dalla caserma col
passo rapido di un uomo che vuole esser solo, «perché ha fatto ciò che ha fatto?...
Va a mala pena alla messa, ama la vita militare, non ha opinioni politiche. E
inconcepibile!... Deve esservi qualche donna qui sotto. Ecco! Indovino! Pareva che
fosse molto innamorato, qui, della mogliettina del povero Olier, che è una vera
bigotta. Ella vuol farsi sposare, caspita! E a Parigi. Avrà saputo la cosa dalla sua
amica Giulia Despois, ed avrà imposto al mio povero Claviers i patti del mercato.
Senza dubbio, tenente Vigouroux, quello che v'è di meglio per noialtri, è la bella
donna che costa poco.»
Dopo questo afa risma di saviezza pratica, quest'altro filosofo, più innocuo, si
diresse verso la mensa, lui, non meno frettolosamente. Aveva corso otto ore a
cavallo, ed era di quei fortunati mortali a cui la commozione mette appetito. Il
secondo giudizio di un giovanotto onestissimo, ma volgarissimo, completava quello
del gioviale sottoprefetto. E così che i drammi acuti della nostra vita si svolgono
nelle intelligenze negative di testimoni che sanno le cose a mezzo. Vi sono per altro
casi in cui quegli che soffre preferisce che tali esse siano: per lo meno gli
assicurano il segreto, e Landri aveva appunto bisogno del segreto, della
incomprensione! Ma chi avrebbe potuto indovinare il vero motivo d'un
cambiamento di volontà di cui egli stesso rimaneva confuso, quell'irresistibile e
appassionato impulso di cuore verso il più generoso degli uomini? Ed ora, seduto, o
meglio, annientato sopra una poltrona del suo appartamento, egli aspettava. Come
se avesse già dato le dimissioni, invece di fare il rapporto regolamentare al suo
capitano, egli aveva scritto un biglietto al colonnello per dirgli il modo com'era finito
il suo mandato. Sotto qual forma sarebbe colpito? Che importa! Messo fuori di
attività, riformato, destituito, - tutti sinonimi, per lui, di una sola frase, quella che
aveva risposto tanto amaramente alla calda e insulsa stretta di mano di Vigouroux:
aveva spezzato la sua spada. Egli non apparteneva più all'esercito se non per subire
gli estremi rigori di una disciplina coscientemente violata. I rigori si annunziarono
con una lettera che gli arrivò quasi subito in risposta alla sua e che gl'ingiungeva di
mettersi agli arresti di rigore, aspettando che fosse presa: una decisione circa le
sanzioni legali che lo concernevano». Sotto queste righe minacciose il colonnello
aveva firmato il suo nome. Charbonnier. Il rabbioso gancio del C e l'energia del
paraffo attestavano come l'ufficiale plebeo, investito dalla gerarchia del diritto di
punire l'ufficiale aristocratico, non praticasse affatto la prescrizione del regolamento
sul servizio interno: «La calma del superiore denota che egli, nel punire, non è
animato che dal bene del servizio e dal sentimento del proprio dovere». Che
importava tale inezia a Landri? Dopo aver letto quel laconico ed imperioso
messaggio, guardò l'orologio del caminetto, come aveva guardato il quadrante
dell'orologio sulla facciata della chiesa, a Hugueville. Le lancette segnavano il tocco.
Il suo pensiero si rivolse alla. lugubre cerimonia, alle esequie del suo vero padre, la
cui immagine improvvisamente evocata aveva determinato quel brusco
contraccolpo nella sua risoluzione. Era finita da un pezzo. Il signor de Claviers era
partito di nuovo per Grandchamp. Il morto era adagiato nella, tomba sulla quale gli
operai avrebbero murato, in serata, la lapide.
- «Questo foglio è la mia pietra sepolcrale», pensò il giovanotto gettando lungi, da
sé la lettera del colonnello, è la pietra sepolcrale del soldato.» La coincidenza tra
quel funerale e l'avvenimento che poneva fine alla sua vita di ufficiale, gli straziava
l'anima. «Almeno», soggiunse, prima ch' io sia sottoposto al consiglio di guerra,
starò solo!...» Si guardò intorno, per abbandonarsi al proprio risentimento nella
sicurezza della prigionia. Quante ore aveva passate, da tre anni, in quel salottostudio, a leggere, a scrivere, - e a pensare a Valentina! Andò a prendere, nella
cassetta della scrivania, un astuccio che racchiudeva un ritratto, il solo che avesse
di lei. Era una semplice testa tagliata da un gruppo fatto in campagna da un
dilettante fotografo. Per isolarla dagli altri, l'innamorato aveva dovuto tagliare, dalle
parti, le ali del largo cappello da giardino che ella portava. Ma lo sguardo puro e
fine, il mezzo sorriso, il portamento un po' inclinato del grazioso volto, - ah, era
proprio lei! Egli contemplò a lungo quei lineamenti che aveva veduti animati,
illuminati dall'amore, sui quali le sue labbra avevano bevuto lacrime scottanti, e
disse ad alta voce:
- «Ho sacrificato l'altra cosa. Ma lei non la sacrificherò.»
Come per rinnovare il solenne impegno che ora li univa, egli impresse un bacio su
quel pezzetto di cartone dove rifulgeva un riflesso di quella grazia, per lui unica, e,
sedutosi alla scrivania, cominciò a scrivere alla signora Olier una lettera che le
narrasse l'episodio così decisivo della mattina, - o meglio che tentasse di narrarlo.
Egli s'interrompeva incessantemente per scegliere fra i suoi pensieri; come gli era
penosa quella sorveglianza delle proprie frasi! La completa effusione con chi ci è
caro è naturale e necessaria! E il respiro stesso dell'anima. Finita quella lettera, egli
prese un foglio per scriverne un'altra. Non era giusta che il marchese venisse a
sapere dai giornali l'episodio dell'inventario di Hugueville; Landri era in obbligo,
verso sé medesimo e verso il marchese, di condursi rispetto a lui esattamente come
se la terribile rivelazione non fosse accaduta. Ma qual nome dargli? Per tre volte il
giovanotto intinse la penna nell'inchiostro, e per tre volte tornò a posarla. La sua
mano si ribellava a tracciare le due sillabe tanto affettuose. Finalmente, con una
specie di sacro orrore, scrisse; Padre mio...» Rapidamente, senza cercar le parole, narrava soltanto i fatti, - riempì quattro pagine della sua calligrafia alta e nervosa, e
firmò, come il solito: «Il vostro rispettoso e affezionato figlio...»
- «Ne ho il diritto,» pensò chiudendo la busta, che suggellò con un sigillo con le
armi dei Claviers. L'ho pagato abbastanza caro.»
Dopo avere scritto e spedito quelle lettere, Landri si meravigliò di provare una
specie di pace, affranta e cupa, ma tuttavia una pace. Quanto l'aveva temuta,
quella svolta del suo destino, quell'ora in cui non potrebbe più servire, in cui
ritornerebbe, per usare le sue parole, «un ozioso e un essere inutile...un uomo
ricco col più autentico stemma sulle sue carrozze... un emigrato all'interno!...»
Quell'ora era testè sonata, ed egli era quasi calmo. La disgrazia accaduta ha per lo
meno questo beneficio: il tumulto delle idee sollevato dall'incertezza cade dinanzi al
fatto compiuto, e avviene in noi come un improvviso silenzio che dà all'anima
un'illusione di riposo. Certamente Landri era molto triste all'idea di aver preso
parte, per l'ultima volta, alla vita del reggimento. Ma almeno sapeva che era
l'ultima volta. Il patimento della sua indecisione era finito. Durante quelle lunghe
giornate di ritiro forzato, potrebbe applicare le forze della sua mente al proposito
del suo nuovo avvenire, e domandarsi se, sì o no, quell'avvenire era possibile. Sì,
era possibile, - meno agevole, meno conforme alle aspirazioni della sua giovinezza,
che se fosse rimasto soldato e avesse sposato Valentina; ma poiché Valentina gli
rimaneva, nulla era perduto. Fino da quel pomeriggio di reclusione, per non
abbandonarsi allo scoramento, tentò di assorbire il suo pensiero nel proponimento
di quella vita in due nella quale ritroverebbe, se non la felicità, almeno un
lenimento alla scottante piaga aperta per sempre nel suo cuore. Egli cercò nella sua
libreria qualche libro concernente le diverse province francesi, allo scopo di
studiarvi alcune condizioni necessarie all'impianto di un'azienda agricola. Era ciò
che intravedeva: ritirarsi in un vasto possesso, lontano da Parigi, sfruttando una
larga impresa rurale. Prima del calar della sera, alla calma interna succedeva di
nuovo la tempesta delle idee. Landri era stato, da anni e anni, un ufficiale troppo
zelante per non sentire ora un rimorso, destinato ad aumentare a mano a mano
che egli rifletteva di aver ceduto, la mattina, in tutta quella faccenda degl'inventari,
a motivi completamente estranei all'ordine militare. Egli aveva trasformato un atto
di servizio in un episodio della propria vita individuale e sentimentale. Dal punto di
vista militare, questa era una colpa diversamente grave della mancanza di
disciplina. Un simile rimorso egli non lo avrebbe provato se avesse avuto, per
rifiutare di eseguire l'ordine ricevuto, i motivi di un Despois, l'inclinazione della
legge militare dinanzi alla legge religiosa, considerata come primordiale e
imprescrittibile. Lui, Landri, era stato trascinato. Non aveva neppure agito secondo
il ragionamento fattosi fino dal primo giorno, quello di un debito da pagare ai
Claviers-Grandchamp. Ma poi, poteva dire di aver agito? Lo avevano fatto agire, nel
senso letterale della parola. La personalità del marchese lo aveva suggestionato da
lontano. A questo rimorso di aver consultato in un caso simile non già la sua
coscienza ma soltanto la sua tenerezza e la sua devozione per quell'uomo, si
aggiungeva un terrore: quello che siffatta suggestione lo trovasse di nuovo debole
nel secondo assalto che avrebbe da subire. Egli non supponeva che con la sua
eredità di figlio dell'amore avrebbe, per difendere la sua passione, ben altra
energia. La sorgente della forza in lui non era nella ragione, era nel cuore. Egli non
doveva saperlo che alla prova. Quello che sapeva, era che con tutti gli imperiosi
motivi di frapporre qualche cosa d'irreparabile tra lui e il signor de Claviers, gli si
era offerta l'occasione, e non l'aveva afferrata. Non aveva potuto. I motivi
rimanevano gli stessi. Quella tenerezza dalla quale si era lasciato dominare nel
momento di compiere l'atto liberatore, era una tenerezza ferita e avvelenata; lo
aveva reso incapace d'infliggere una certa sofferenza a quell'uomo; lo rendeva
incapace di vivere vicino a lui quotidianamente, come stava per esservi chiamato
ora che era libero. Se lo ripeteva in cuor suo: astrazion fatta dall'impegno d'onore
contratto verso la signora Olier, perdere quella seconda occasione di rottura col
marchese equivarrebbe a condannarsi in avvenire ad una serie infinita di scene
dolorose nelle quali il suo segreto sarebbe scoperto. Il signor de Claviers si
accorgerebbe che egli era completamente mutato, se ne impensierirebbe,
cercherebbe... Landri lo diceva fra sé e sé. E concludeva che, ad ogni costo,
bisognava annunziasse al più presto possibile il suo fidanzamento al marchese. E
poi dubitava che gli mancasse il coraggio di fare questa dichiarazione, ricordandosi
come era stato debole, manchevole, anzi, su quella piattaforma della chiesa di
Hugueville, dov'era salito così determinato. Egli si domandava allora se non fosse
meglio profittare degli arresti per scrivere. Il colonnello Charbonnier non si
smoverebbe certo dal suo rigore consueto per permettere che egli ricevesse una
sola visita, neppur quella di suo padre. Per conseguenza, se il signor de Claviers
fosse avvisato per lettera della promessa di matrimonio scambiata tra Landri e
Valentina, non potrebbe dal canto suo esprimere la propria disapprovazione se non
per lettera. L'ufficiale era troppo virile, nonostante i contraccolpi di una sensibilità
vicinissima ad essere morbosa, e rispettava troppo il sentimento che nutriva per
Valentina perché non gli ripugnasse quel procedimento codardo. La spiegazione
doveva accadere, e sarebbe verbale, da uomo a uomo: avverrebbe la prima volta
che egli si troverebbe a quattr'occhi col marchese, e, per tagliar corto ad uno stato
d'interno oscillamento che lo umiliava troppo, disse a sé stesso, a voce alta:
- «Sì, la prima volta. Me ne do la parola d'onore.»
Il venerdì sera Landri aveva fatto questo giuramento, la cui chiarezza gli procurò di
nuovo un po' di calma. Il sabato lo passò con un turbamento sempre assai febbrile
dei suoi pensieri, ma in cui la risoluzione presa metteva almeno un punto fisso. La
domenica recò tre piccoli fatti nuovi sotto forma di tre lettere: una del marchese,
una di Valentina, una del notaro Métivier. Quella del signor de Claviers, brevissima:
era di due pagine sole. Il vecchio signore non scriveva molto. Egli si rallegrava
caldamente con Landri in nome di tutti i Claviers­Grandchamp passati, presenti e
futuri». E finiva: «Tu metterai all'apice della gioia e dell'orgoglio il tuo vecchio
padre parlando ai giudici come egli ti ha suggerito.» Quali colpi di pugnale erano
per Landri tali parole!... E quali colpi parimente di pugnale furono altresì le frasi
nelle quali la solitaria di via di Monsieur aveva messo pertanto tutta la sua
tenerezza!
Essa parlava, a colui che considerava come suo fidanzato, della gioia che l'incidente
di Hugueville aveva dovuto cagionare a suo padre. Non aveva dunque indovinato
tutta la verità? Il giovanotto intravide questa nuova tortura: i tentativi che la buona
donna farebbe, quando fossero uniti, per riavvicinarlo al marchese, e il proprio
sforzo per resistere a quella pressione senza scoprirsi. Ah, non aveva finito di
soffrire!... La lettera del notaro era un biglietto brevissimo anche quello, ma
conteneva una riga troppo enigmatica perché Landri non se ne impensierisse, nelle
circostanze in cui si dibatteva. Il notaro Métivier si scusava di rispondere un po'
tardi, avendo voluto prima istituire una piccola inchiesta. Aggiungeva che la
presenza di Landri a Parigi non era affatto necessaria e che, per causa
dell'«incidente inatteso che gli era noto», quel deplorevole affare era in via di
pronto e definitivo accomodamento. Quale incidente? Chaffin era veramente
infedele, come il suo antico allievo intuiva, e come aveva dichiarato Jaubourg in
punto di morte? Lo avevano scoperto, e avevano così trovato il mezzo di annientare
le sue mene? Aveva confessato? Oppure... Già, lo ricordiamo, Landri aveva tremato
all' idea che Jaubourg avesse fatto testamento in suo favore. Ma no, ne sarebbe già
stato avvisato ufficialmente. Il meglio, in un dubbio simile, era di provocare subito,
con Métivier, una spiegazione su quell'oscura frase della sua lettera. Questa
soluzione era la più semplice e la più savia. Tale è lo stato di tensione emotiva, di
ansiosa attesa della sventura in cui ci piombano taluni colpi troppo violenti: Landri
non ebbe coraggio di attenervisi. Se non si trattava di un legato Jaubourg,
l'«incidente inatteso» lo lasciava in fondo indifferente. Nel caso contrario, egli lo
saprebbe sempre troppo presto. Infatti, la giornata del lunedì non doveva passare
senza che egli fosse informato, e si trovasse di fronte ad un altro caso di coscienza,
forse più crudele di quelli dei giorni precedenti. Il tragico produce il tragico, per una
legge che forma la segreta moralità di questa troppo veridica storia della vita
privata. E’ raro che non sia la conseguenza di uno di quegli errori profondi la cui
espiazione oltrepassa colui che l'ha commesso. E una delle forme di quella
trasmissione del peccato della quale è stato detto con tanta verità che nulla ci
ferisce più giustamente, e che «tuttavia, senza questo mistero, che è il più
incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi medesimi».
Landri era dunque solo nel suo salotto, il pomeriggio di quel lunedì,
apparentemente intento a leggere, ma in verità assorto in una di quelle meditazioni
di malinconia come ne aveva subite tante nella scorsa settimana, come ne
subirebbe ancora per tanto tempo, lo sentiva: per mesi e anni! Il rumore del
campanello che annunziava una visita lo scosse da quell'accasciamento. «Vengono
a notificarmi l'ordine d'informare,» pensò. «Meglio così!» Sentì il domestico che
andava a aprire la porta; e subito gli giunse all'orecchio una voce che lo fece
sussultare. Quell'accento imperioso, quel tono dominatore era il signor de Claviers
che lottava contro la consegna.
- «Ma io sono il padre!...» diceva. «Vi ripeto che sono il padre!... Un padre ha
diritto di vedere il proprio figliuolo, mi pare, e lo vedrò. Del resto, eccolo...» Landri
era infatti uscito dal salotto, molto turbato da quell'arrivo. Egli conosceva troppo
bene 1'indomito carattere del marchese, per non saper che questi respingerebbe
l'attendente, con le sue mani rimaste così robuste, piuttosto che andarsene. «Ah,
finalmente ti vedo, caro, figlio mio!» Aveva preso il giovanotto tra le braccia, e lo
stringeva al petto, ripetendo appassionatamente: « Figlio mio!... Finalmente posso
ripeterti a voce quello che ti ho scritto male e brevemente!... La penna ed io siamo
un po' scorrucciati da che gli occhi non mi dicono più il vero. Ho i miei anni. Non nel
cuore, veh! E questo cuore ha balzato di gioia e d'orgoglio quando ho letto la tua
lettera. Sì, sono felice. Sì, sono orgoglioso... Sarei accorso subito, sabato; ma
dovetti andare da Métivier per delle noie, - te lo racconterò, ­ e anche ieri, benché
fosse domenica. Stamani leggo in un giornale che si parla di metterti agli arresti in
fortezza. «Non prima ch'io lo abbia abbracciato,» ho detto fra me e me; ed ho fatto
come l'altro giorno per andare a trovare il povero Carlo: ho preso il treno. Ripartirò
stanotte e arriverò in tempo per l'appuntamento che ho con Métivier. Poiché non è
ancora finita quella storia. Figurati... Ma ne parleremo poi... Ora parliamo di te. Stai
bene? Ch'io ti guardi. Sei un po' dimagrito e impallidito.»
- «Perché non esco più,» spiegò il giovanotto. «Sono agli arresti di rigore.»
- «Spero di non aggravare con la mia presenza la tua punizione, eh?.. Se occorre,
andrò a chiedere il permesso al colonnello... quantunque, dopo quello che mi hai
detto...»
- «È inutile,» rispose vivamente Landri, e soggiunse: «Non possono più farmi
nulla.» Queste parole avevano sulle sue labbra un significato fin troppo giusto. Lo
sgomento che gli aveva dato la brusca apparizione del marchese si era subito
mutato in un dolore inesprimibile, il medesimo che provò con tanta veemenza
quando s'incontrarono nella camera mortuaria di Jaubourg. I movimenti del signor
de Claviers, il suo sguardo, la sua voce, il suo respiro lo sconvolgevano; e l'altro,
che si accorgeva benissimo di questo turbamento, ma che lo attribuiva al dolore
della carriera spezzata, gli diceva:
- «Tu sei triste, mentre speravo di trovarti veramente lieto di venir via dopo un bel
gesto simile, che ti avevo quasi chiesto, ricordi?.. Ricordi anche quante volte ti
avevo detto, fin l'altro giorno, nella foresta, che non potevi rimaner con quella
gente? Ad uno ad uno, essi scacceranno dalle file tutti gli uomini di cuore. Questi
detestabili successori di Danton e di Carnot, i quali sentivano almeno il patriottismo,
vogliono una guardia nazionale fatta di spie. Landri, alza il capo. Sii orgoglioso dello
schiaffo che tu hai dato loro. Prepareremo insieme la tua difesa, che sarà un
manifesto. Noi faremo vedere a quei repubblicani, i quali credono di averci
sterminati, che vi sono ancora dei realisti. Discuteremo di nuovo un processo che
dura da più di cent'anni, e che dobbiamo difendere infaticabilmente: quello
dell'esercito di Condé. Noi proclameremo che la patria non è più come la vorrebbe
la loro sciocca teoria delle maggioranze; che la legge non è ciò che viene decretato
dalla metà, più uno, dei rappresentanti di queste metà più uno. Nella parola patria
è la parola padre, - patria, pater. - La patria è la Francia quale l'hanno fatta i nostri
padri, o non è nulla. La legge, è la tradizione quale ce l'hanno lasciata da
mantenere, o non è nulla. Diremo che, anche nel 1906, non riconosciamo il 1789,
noi che non abbiamo mai ammesso la notte del 4 agosto, noi che siamo dei
gentiluomini, e che un gentiluomo non eseguisce certi ordini. Tu mi lascerai
scegliere il tuo avvocato e imbeccarlo bene. Un manifesto, Landri, io voglio un
manifesto, e tale che ne susciti anche altri!... Orsù! Raccontami tutto. I giornali
sono pieni di menzogne. Hanno detto che esitasti, che salisti con gli zappatori gli
scalini della chiesa... Come è andata?..»
- «Come hanno detto,» rispose il giovanotto.
- Esitasti?...» soggiunse il marchese; e guardando Landri con una tenerezza infinita
nei suoi occhi chiari: «Comprendo il tuo pallore, adesso. Il sacrificio è stato forte.
Poiché è un sacrificio che tu ci hai fatto, che tu mi hai fatto,» proseguì, senza
supporre quanto esatta fosse tale affermazione. L'«Emigrato» aveva parlato con
tutta la passione di un partigiano il quale, non potendo esser realista che col
pensiero, vi si abbandona con tutte le sue forze. Ora cedeva il posto al padre.
«Grazie». E stringeva le mani del figlio. «Ma non t'illudere», proseguiva, «è pure
per la Francia che tu lo hai fatto, questo sacrificio. Ricordi? Anche l'altro giorno ti
dicevo che ti comprendevo troppo, che anch'io avevo sentito, in gioventù, la voce
tentatrice: non si serve il governo, si serve la Francia. Uno dei nostri principi lo
disse al processo del traditore Bazaine: v'era la Francia!... E la ragione per cui ti
lasciai entrare a Saint­Cyr. Del resto, portare la spada non è mai derogare. Segui
soltanto la logica della tua propria idea, e raggiungerai la mia, perché la verità è
una sola. Che cosa volesti indossando l'uniforme? Servire il tuo paese. Qual servizio
potevi rendergli che fosse più completo, più efficace di questo: mantenere intatto
agli occhi di tutti il tipo del soldato cavaliere? Il Cavaliere, vedi, è la regola ideale,
rimasta permanente sotto forme nuove e che si ritrova in queste parole: la
bandiera, l'onore militare, il bene del servizio. E la rivoluzione perseguita il Cavaliere
oggidì col suo odio, sotto la divisa del soldato, come prima lo perseguitò sotto il
vestito delle guardie del corpo o dei cavalleggeri. Essa ha inventato contro di lui
quella mostruosa formula, un esercito nazionale, che significa: non più esercito,
una plebe armata di fucili, di picconi e di cannoni. Ebbene, rifiutando di andar
contro una chiesa, tu hai affermato una volta di più questo tipo del Cavaliere. Nei
tempi andati si presentava loro, il giorno della nomina, una spada in forma di croce.
Stupendo simbolo dei nostri antenati, la forza regolata dalla fede, cioè dalla
giustizia e dalla misericordia! La Croce è questo: una giustizia che ha pietà. Tu hai
proclamato altamente che il Cavaliere e il Soldato sono uno solo. Tu sei stato
l'Esempio. E il dovere militare. Tu e coloro che hanno agito precedentemente come
te, mantenendo il principio, avete ritardato l'ora in cui la Francia non avrà più
esercito. Tu sai quale importanza io do a questo mantenimento di principi. Ora
comprendi come occorra qualche volta sacrificare la propria vita per serbare intatto
il germe dell'avvenire, per salvare l'onore. E quello che facevano gli antichi quando
andavano via dalle loro città portando seco i propri Dei. Mi è sempre piaciuto
questo simbolo, che è già cristiano nel suo paganesimo. Ho l'idea che d'ora innanzi
t'intenderai meglio col tuo vecchio padre. E poi, tu mi aiuterai a invecchiare. Sai
bene che non mi sono mai lagnato; non ho voluto importi le esigenze del mio
egoismo; ma perché non dovrei confessartelo? Grandchamp mi è sembrato talvolta
molto vuoto, come pure il palazzo del Faubourg-Saint-Honoré. Gli amici se ne
vanno gli uni dietro agli altri. Guarda il povero Carlo... Alla mia età siamo stanchi di
veder morire e di sopravvivere. Tu mi aiuterai ad esorcizzare questi dèmoni neri.
Non ci lasceremo più... Ma che c'è?...»
- «C'è,» rispose il giovanotto «che non posso sopportare di sentirvi parlare così!...»
Egli aveva fatto un gesto per interrompere il marchese, e si lasciava sfuggire un
grido di dolore del quale aveva almeno una spiegazione da dare, che non era tutta
quella vera. Ad ogni costo aveva dovuto interrompere effusioni che gli facevano
troppo male, e dichiarazioni d'idee di un'ironia involontaria ma atroce, rivolte a lui,
al figlio della colpa, al gentiluomo per impostura. Aveva avuto bisogno di finirla!
«Sì,» insistette, «non posso. Voi non vorrete condurre con me la vita in comune di
cui mi avete parlato finora, quando v'avrò detto ciò che debbo dirvi. L'altro giorno...
durante il nostro colloquio nella foresta, al quale appunto avete fatto allusione... vi
parlai di un matrimonio. Questo matrimonio accadrà... Da martedì scorso sono
fidanzato...»
- «Fidanzato?!... » esclamò il marchese. Landri, non mi dire che è con quella tale
signora Olier...»
- «Sì, con la signora Olier. Le ho chiesto la sua mano, e me l'ha concessa. Ci siamo
scambiati la parola. Essa sarà mia moglie. »
- «Le hai chiesto la sua mano?... » ripeté il signor de Claviers. Dopo quel
colloquio.... quando sapevi...»
- «Che mi rifiutereste il vostro consenso?
«Sì,» disse il giovanotto.
- «E la signora Olier sa che te l'ho rifiutato?»
- «Non le ho detto che ve ne avevo parlato.»
- «Ed essa ha accettato di fidanzarsi a te, senza preoccuparsi di ciò che farei io, il
padre?»
- «Essa ha avuto fede in me,» rispose Landri. Poteva egli forse esprimere in quali
condizioni di supremo dolore, quasi di agonia, Valentina e lui avevano legato i loro
destini? Eppure gli era penoso che il signor de Claviers la giudicasse male, la
credesse una intrigante. Egli conosceva il suo modo di pensare. Aveva ancora nelle
orecchie queste parole: «Bisogna che ella sia purissima, e delicatissima.... Essa non
vorrà che tu la sposi contro la volontà di tuo padre... Se non avesse avuto questa
altezza d'idee, tu non l'avresti amata » Ed egli supplicava: «Vi prego di non parlar
mi di lei. Dato ciò che essa è ora per me, non debbo permettere che nessuno
pronunzi davanti a me una parola che possa ferirla. Neppur voi...»
- «Comincia tu a non riferirmi di lei azioni che non sono degne della donna che
l'avevo creduta, secondo quello che mi avevi detto. lo non ti parlo di lei; non la
conosco; ti parlo del suo modo di procedere verso la nostra famiglia. Sarà ella o no
della nostra famiglia, se tu la sposi? Sono o non sono io, il capo di questa famiglia?
Ho io o non ho il diritto di difendere il nome dei Claviers-Grandchamp?...» Egli si
era alzato e camminava verso il figliuolo, con le braccia incrociate, con un'ondata di
sangue sul suo vecchio volto, quel sangue del quale rivendicava i diritti in faccia a
tale interlocutore! «E mi hai fatto questo, nel momento in cui io perdevo il mio più
caro amico, quando sapevi che stavo per soffrir tanto!... Chi è mai quella donna,
perché ti abbia così traviato il cuore?... Ma chi può essere ella, se non una donna
che va in traccia di titoli e di ricchezza, essendosi prefissa ciò che si è prefissa,
d'imporsi a noi, e a me prima di tutto, ch'io voglia o no, con la forza del fatto
compiuto?... Ebbene, il fatto non si compirà! Questo matrimonio non si farà. lo, tuo
padre, non voglio che si faccia; intendi, Landri? Non voglio».
Il giovanotto aveva subìto cotesto formidabile assalto senza risponder nulla. Egli
fremeva nell'udire pronunziare quel giudizio su Valentina. Ma il signor de Claviers
era la sola persona al mondo contro la quale egli non potesse difendere la donna
che amava. Dove avrebbe preso il diritto di alzar la voce contro di lui, se anche ne
avesse avuto la forza? E per tentare tuttavia d'interrompere quello sdegno che non
prevedeva dove avrebbe potuto condurlo, data la violenza istintiva di quell'uomo,
egli disse soltanto, o meglio gemette:
- «Non la difenderò contro di voi. Dalla mia bocca non uscirà neppure una parola
che manchi del rispetto che vi debbo. Ma appunto per questo ricordatevi che ella è
una donna e che io l'amo».
- «Essa ha pur dimenticato ch'io son tuo padre!...» soggiunse l'irascibile marchese.
Ma non aveva mentito quando, poc'anzi, aveva detto, con un accento di devozione
nella voce, la parola: un cavaliere. Il senso leggendario di questa vecchia parola,
profanato dall'abuso, rimaneva per lui una verità vivente. Basta che il giovanotto gli
rivolgesse quell'appello, perché egli interrompesse la requisitoria contro un'assente.
Sedette di nuovo, e appoggiati i gomiti alla scrivania, con la fronte tra le mani,
riprese, dopo un silenzio in cui l'ira aveva dato luogo alla tristezza:
- «Dunque, tu mi manderai delle rispettose intimazioni, tu? a me»?
- «Sarà pur necessario», rispose Landri, «se non mi date il vostro consenso». Se
egli si abbandonava alla commozione di cui lo riempiva quel lamento, tanto
affettuoso nella sua virile semplicità, era perduto. La piaga riaperta della sua
sensibilità per la sola presenza di quell'uomo, gli provava ancora una volta la
necessità di un'energica rottura. Egli gli voleva troppo bene, lo venerava troppo per
poter vivere presso di lui nella menzogna.
- «Mi manderai delle intimazioni»? ripeté il marchese, riafferrato dall'impetuosità
sua. «Ebbene! Mandale, poiché non acconsentirò mai! No. Mai!... Qui non si tratta
mica di un capriccio... lo sai bene. Si tratta di ciò che è stato la ragion d'essere di
tutta la mia vita. In quanto all'autorità in nome della quale io ti proibisco, capisci? ti
proibisco questo matrimonio, tu puoi sfidarla e violarla, poiché le detestabili leggi
d'oggigiorno te lo permettono; ma, se l'osi, farai peggio che se tu avessi l'altro
giorno spezzato la porta della chiesa di Hugueville: oltraggerai tuo padre. Ecco
tutto!... Voglio, credere», proseguì dopo un nuovo silenzio, durante il quale aveva
visibilmente tentato di dominarsi, «che tu rifletterai. Hai esitato anche a Hugueville,
e poi il sangue dei Claviers ha trionfato in te su quel morbo d'idee moderne da cui
vedo purtroppo quanto sei infetto. Questo matrimonio fuori del tuo grado, è
sempre la ribellione contro i pregiudizi. Se i nostri non avessero avuto questi
pregiudizi da quasi novecento anni, tu ed io non saremmo dei
Claviers­Grandchamp. Se vuoi, per debolezza, per aberrazione, cessare di condurti
come uno di loro, un codice infame non mi permette di impedirtelo; ma, sappilo, io
morirò disperato!... Nulla! Non gliene importa nulla!...» proseguì alzandosi e
camminando per la stanza. «Non risponde!... Quando ti vedo così, muto, chiuso,
insensibile al mio dolore, non credo ai miei occhi. Ma rispondimi, dunque. Parlami.
Chiedimi tempo, almeno, acciocché io non me ne vada dopo questa orribile parola,
questa minaccia contro tuo padre. poiché mi hai minacciato. Mi hai detto: Sarà
necessario!... Sarà necessario!...» Via, Landri, dimmi che riprovi coteste parole, di'
che ti ho scosso...»
- «Mi straziate il cuore,» rispose il giovanotto. «Ma ho dato la mia parola, e la
manterrò. Sposerò la signora Olier.»
- «Ed io,» disse il signor de Claviers completamente esasperato da quella resistenza
frenata, ti do la mia parola che, se lo fai, non ti guarderò più. Basta!» proseguì
imperiosamente. «E' un'ora che ti dimostro tutta la tenerezza, tutto l'amore che ho
per te nell'anima, ed anche tutto il mio dolore, e tu mi sfidi. Dio solo sa che non ero
venuto qui con l'idea di parlarti come ho fatto. Ma non avrai sfidato impunemente
la maestà paterna!» Ed era vero che in quel momento emanava da lui una maestà,
quella dei padri di altri tempi, che, giustizieri privati, condannavano i propri figli agli
arresti e talvolta alla galera (2). «Tu mi chiederai perdono, capisci, di quello che hai
osato dirmi, o non ti guarderò più. E per darti prova che questa mia volontà di
separarmi da te, se non obbedisci, è definitiva, comincerò, appena tornato a Parigi,
domani subito, a sistemare i nostri interessi. Métivier ed io in questi giorni siamo
occupati a riordinare gli affari che l'imprevidenza di Chaffin aveva condotti a mal
punto. Ne profitterò per renderti la tua procura e tutto il tuo patrimonio,
risparmiandoti così di chiedermelo.»
- «Io?» esclamò Landri... «non credete mica...?» I nomi di Chaffin e di Métivier gli
avevano ad un tratto ricordato, la catastrofe finanziaria la cui imminenza l'aveva
spaventato tanto. Egli aveva pregato il notaro di conservare scrupolosamente il
segreto, ed era sicuro che il suo passo presso, di lui era ignorato dal marchese.
Impossibile, dunque, che fosse interpretato come un procedimento suggeritogli da
Valentina per tornare in possesso dei suoi capitali. Pure, se Métivier avesse
mancato alla discrezione professionale? Se quest'ultima piccola frase significasse
cotesto dubbio?
- «Io non credo nulla,» interruppe il signor de Claviers, «se non che, una volta
avviati su certe strade, non v'è più limite...» Poi, dando prova così che voleva
rimaner giusto anche in quella condanna del figlio ribelle: «Ma siccome non sei
ancora a questo punto, e potrebbero invece venirti degli scrupoli, giacché ti ho
parlato delle mie spese, sappi che i miei impicci son finiti in grazia dell'affetto di un
amico. Carlo Jaubourg non aveva altro che dei parenti lontani, e dei quali non era
soddisfatto. Egli mi ha lasciato per testamento tutto il suo patrimonio. Ero venuto a
darti anche questa notizia,» soggiunse sospirando «e a leggerti i termini di quel suo
testamento. Non v'è nulla di più alto, di più delicato, come sentimento. Io ho
accettato, prima di tutto perché è denaro guadagnato onestamente: il padre di
Carlo era la probità personificata; - poi, perché non pregiudicavo nessuno: i suoi
cugini sono ricchi, ed egli non aveva nulla a che fare con loro; - finalmente perché
gli volevo bene, quanto me ne voleva lui. Sono rare, nella vita, le affezioni chè non
deludono. Del resto non occorre che ti dica che, anche senza questa eredità, il tuo
patrimonio personale era intatto. Darò ordine a Métivier di mettersi in
corrispondenza con te per regolar quest'affare. In quanto a me, il giorno in cui
vorrai ritrovare un padre, ne conosci. il patto. Addio.»
Landri lo aveva ascoltato con un inesplicabile miscuglio di terrore e di ribellione,
terrore di lasciare scorgere l'eccesso del suo turbamento, ribellione contro l'infamia
di cui egli era il testimone forzatamente muto. Era dunque quello il mezzo trovato
da Jaubourg per lasciare tutto il suo patrimonio al figliuolo? E lui, il figliuolo,
permetterebbe che quel denaro fosse accettato così, con quella gratitudine piena di
commozione e di fiducia, dal gentiluomo altero e di una magnifica integrità morale?
Diventerebbe egli complice, tacendo quello che sapeva, di quel supremo
tradimento?... poiché quella generosità menzognera metteva forse all'apice
l'oltraggio. Egli aveva un grido di protesta sulle labbra, e non lo emetteva. V'era
qualche cosa di più atroce che non avvertire quell'onesto uomo gabbato: ed era,
per il figlio di sua moglie, dirgli quello che era stata sua moglie. Il signor de Claviers
era andato verso l'uscio. Pareva che aspettasse una parola, un gesto, uno sguardo,
e Landri rimaneva in piedi, in silenzio, con gli occhi bassi. Il marchese fece un
movimento per tornare addietro. Poi, vedendo la immobilità persistente del
giovanotto, corrugò le folte sopracciglia e le sue pupille si oscurarono. Egli ripeté:
- «Addio. Tu sai che ti dico addio.»
- «Addio,» disse Landri, senza alzare le palpebre, mentre che, alzando le forti
spalle, l'altro usciva dalla stanza per non cedere alla nuova onda di sdegno che
sollevava il suo gran cuore.
VII.
....SALVO L'ONORE.
Erano scorse quattro settimane da che il giovanotto aveva sentito allontanarsi
nell'anticamera del suo alloggio il passo irritato del capo della casa de ClaviersGrandchamp, senza che egli lo richiamasse per gridargli la verità, per impedire
quella mostruosa ingiustizia: i debiti delle sue imprudenti ma generose e
cavalleresche prodigalità, pagati col denaro dell'amante di sua moglie! Landri si
ritrovava, dopo ventinove giorni, al medesimo posto ed alla medesima ora, in
mezzo ai medesimi oggetti familiari fra cui aveva passato gli arresti. Ora egli era
libero. Il giorno precedente era stato condannato dal consiglio di guerra di Chàlons
a quindici giorni di prigione, con cinque voti contro due, col beneficio della. legge di
dilazione. Tornato da Chàlons a Saint-Mihiel, aveva trovato a casa un comunicato
ufficiale nel quale era detto che per deliberazione presidenziale, in data di quel
giorno, il luogotenente de Claviers-Grandchamp era destituito per rimozione dall'
impiego». Quel foglio di carta era la vera pietra sepolcrale del soldato, assai più del
biglietto del colonnello ricevuto al ritorno della spedizione di Hugueville. Landri
l'aveva sgualcito e gettato via, senza più occuparsene. Seduto sulla stessa poltrona
e nello stesso atteggiamento del marchese l'ultimo giorno che lo aveva veduto, con
la testa tra le mani, era tutto intento a leggere e rileggere un telegramma, mentre
il suo cameriere e la sua ordinanza camminavano per le stanze ingombre di bauli.
Landri tornava a Parigi col treno della notte. Quel telegramma nel quale si
assorbiva così, era firmato dal maggiordomo del signor de Claviers. Era la risposta
alla sola lettera che egli aveva scritta al marchese dopo il loro colloquio. E
gliel'aveva scritta all'uscire dal consiglio di guerra, per annunziargli la sentenza. Vi
aveva fatto un'allusione prudente, ma chiarissima, al suo progetto di matrimonio, e
indicato che si proponeva di recarsi a Parigi, salvo che «suo padre» - egli
continuava a chiamarlo così ­ non vi trovasse obiezioni. Landri leggeva e rileggeva il
telegramma che gli accusava ricevuta di quella lettera: «Il signor marchese,
costretto a partire per Grandchamp, mi dice di telegrafare al signor conte, in
risposta alla sua lettera, che lo aspetta domani in via del Faubourg-Saint-Honoré. GARNIER.» Che il signor de Claviers non avesse rinunziato al suo rigore, quella
missiva, così volontariamente impersonale e in circostanze simili, lo provava
abbastanza.
- «Tuttavia, vuol vedermi!...» pensava Landri. Questo abboccamento sarà di nuovo
molto penoso. Ma ho l'obbligo verso lui di non sottrarmici.»
Appena ricevuto il telegramma, egli aveva impiegato tutte le energie dell'animo
suo a considerare quell' incontro sotto il solo aspetto che non aveva cessato di
studiare in quel mese di solitudine quasi assoluta. Egli aveva passato tutto quel
mese a definire il proprio dovere, concludendo sempre questa doppia necessità:
silenzio e separazione, separazione e silenzio. Non aveva avuto, durante quelle
lunghe ore di meditazione, un momento di dubbio; e neppure aveva cessato un
istante di soffrire, al pensiero di quel testamento, dell'abominevole abuso di fiducia
commesso in pro suo dal suo vero padre e di cui egli doveva esser complice, sotto
pena di commettere un delitto viepiù abominevole spezzando il cuore dell'uomo più
leale e disonorando la propria madre. Il rimorso di quella partecipazione ineluttabile
alla peggiore delle menzogne diventava la forma del suo dolore. Tutte le volte che
gli era tornata in mente, in quelle quattro settimane, la rivelazione fulminea, aveva
pensato al procedimento cui il morto ricorse per lasciargli il suo patrimonio, e aveva
fremuto di ribellione inane. Nessun incidente lo distrasse da questa ossessione: né
gli interrogatori dell'inchiesta istituita contro lui, né le sedute col suo avvocato, né
la comparizione dinanzi ai giudici, né le manifestazioni provocate dal suo atto. Gli
erano arrivate centinaia di testimonianze di simpatia da tutta la Francia, provenienti
da ufficiali superiori e da colleghi, e anche da soldati semplici. Aveva ricevuto anche
una quantità di lettere e di cartoline postali piene d'ignobili ingiurie. Era segno che
il marchese de Claviers aveva ragione: se il gesto di rifiuto dinanzi alla porta della
chiesa da svaligiare esasperava i nemici dell'esercito, era segno che corrispondeva
veramente a un bisogno profondo della coscienza militare. Purtroppo non era che
un gesto, una simulazione! L'ufficiale aveva obbedito a un sentimento che nessuno
dei suoi ammiratori o offensori poteva neppur supporre. Elogi e biasimi non erano
giunti fino a lui, come pure le altre impressioni del mondo esteriore. Soltanto le
lettere della signora Olier avevano trovato il segreto di comunicargli un po' della
loro tenerezza. Egli ne aveva ricevute giornalmente. Certo, la cara donna
comprendeva di averlo ferito, il primo giorno, parlandogli del signor de Claviers. In
quei lunghi colloqui con la penna in mano, essa non ricordava più neppure il
marchese. «Ha saputo dell'eredità,» ne aveva concluso Landri, «ed ha compreso.»
Non sbagliava. La signora Privat, andata a Parigi per le esequie di Jaubourg, aveva
fatto una visita a Valentina. Essa le aveva narrato, con l'asprezza di una parente
diseredata, del testamento del cugino:
- «Vi ricordate quello che vi avevo detto della sua passione per la signora de
Claviers? Oggi lascia tutto il suo al signor de Claviers. Privat, che non vuol vedere il
male in nessuna cosa, crede che questa sia la prova più sicura che non vi sia mai
stato nulla. Convenite, mia cara, che ciò è molto sospetto.»
La signora Olier non aveva risposto, ma il suo cuore si era stretto di compassione.
Le era sembrato di rivedere Landri nel loro ultimo colloquio, ora affranto ora
esasperato dalla sofferenza, ed essa aveva penetrato la terribile verità. Il suo
affetto si era fatto più tenero, più carezzevole attraverso la distanza; e in quel
pomeriggio che precedeva il suo ritorno a Parigi, chino su quel telegramma
enigmatico, sicuro presagio di nuove lotte, l'ufficiale condannato evocava, per
dominare il suo turbamento, l'immagine della sua unica amica, la fidanzata e la
consolatrice.
- «Domani la rivedrò,» diceva fra sé. «Potrò serbare il segreto che l'onore
m'impone, ma essa leggerà in me, mi compiangerà. Essa mi ama!... Egli mi
chiederà di rinunziarvi. Ho avuto la forza contro il primo assalto: sono sicuro di
averne ancor più contro il secondo. Ma sarà proprio di questo che vorrà parlarmi?..
E di che potrebbe essere?..» .
Già, in questa domanda che Landri faceva a sé stesso, o meglio che si sbozzava in
lui a suo dispetto, un'altra ipotesi era coinvolta. Se era vero che la signora Olier
avesse sentito parlare delle assiduità di Jaubourg presso la signora de Claviers, - e
di questo egli non dubitava, ­ altri ne avevano sentito parlare, altri ne parlavano.
Nel primo sussulto della rivelazione, questo era stato il pensiero immediato del
figlio. Ricordiamo come, avviatosi al Circolo di via Scribe dopo la scena di via
Solferino, egli fosse fuggito soltanto per aver veduto un socio del Circolo stesso
oltrepassarne la soglia, in modo ansioso e selvaggio, con lo spavento di un
colpevole dinanzi a un testimone della sua vergogna. Il testamento di Carlo
Jaubourg aveva dovuto risvegliare tutte le chiacchiere, scatenare di nuovo la
malevolenza assopita. Chi sa se il marchese non avesse ricevuto delle lettere
anonime, se il dubbio non si fosse risvegliato in lui? Un particolare, più di ogni altro,
aveva meraviglialo Landri, fra gl'incidenti di quelle quattro settimane. Ed ora,
meditando sul senso. recondito di quel telegramma, tornò a pensarvi e vi diè subito
una solenne importanza. perché il signor de Claviers non aveva dato alcun seguito
ad mio dei proponimenti esaminati nel loro colloquio: la scelta di un avvocato? Il
motivo che lo rendeva implacabile circa il matrimonio con Valentina era il rispetto, il
culto, l'idolatria del suo nome; questo stesso motivo non avrebbe dovuto farlo
perseverare nella sua idea iniziale? L'erede di quel nome era tradotto dinanzi a un
consiglio di guerra; era un fatto pubblico, che non aveva nulla di comune con il loro
dissenso privato. perché «l'Emigrato» non aveva ambito che l'incolpato fosse difeso
­ era stata la sua prima parola - sul terreno del principio al quale egli dedicava la
sua vita: l'onore del gentiluomo? Non era necessario, per questo, di entrare in
comunicazione col figlio: bastava che avesse mandato al giovanotto un difensore
«bene imbeccato» secondo quell'altra sua parola. Non lo aveva fatto. Perché?
Landri aveva dovuto rivolgersi al notaro Métivier, che gli aveva mandato uno dei
suoi parenti, un legale distinto, ma puramente professionale. Il marchese e
quell'avvocato non si erano veduti. Perché?.. Ciò significava forse che era
sopraggiunto qualche avvenimento? Quale? Forse il temuto sospetto? Oppure l'ira
dell'autorità paterna offesa bastava a spiegare codesta astensione? Landri provò un
bisogno tale di crederlo, che andò a prendere, fra i libri già incassati, l'opera in cui
era raccolta e racchiusa l'essenza delle idee del marchese: la Storia e genealogia
della casa de Claviers-Grandchamp. Il solo titolo lo fece sussultare, ma si ricordava
di avervi letto una nota che gli occorreva di rintracciare ad ogni costo. Quando
l'ebbe trovata, ne sillabò sottovoce ad una ad una tutte le parole. Egli voleva
trovarvi una spiegazione sul contegno del feudale urtato in una delle sue più intime
convinzioni. Era il frammento di un'arringa tenuta nel 1783 dall'eloquente Duveyrier
dinanzi al Parlamento di Parigi. Il signor de Claviers -aveva citato quel passo a
proposito della severità di uno dei suoi antenati per un figliuolo, un cadetto, con un
commento entusiastico, e sottolineandone le ultime righe come per appropriarsele.
Duveyrier sosteneva in quella difesa la denunzia di un padre in tribunale contro la
propria figlia. «…Si può,» diceva, «si può considerare senza affliggersi quale
immenso spazio di tempo ci separa da coloro che ci hanno trasmesso le nostre
leggi? Per quali gradi di infiacchimento abbiamo sostituito a quella energia
dell'anima, alla forza della vera virtù, una sensibilità fittizia che si spaventa del
minimo sforzo; non più quella sensibilità sana, inseparabile dall'umanità, che
compiange il colpevole punendo il delitto, ma questa flessibilità del carattere,
questa mollezza di cuore, che ci fa acquistare con la nostra 'indulgenza l'indulgenza
altrui e che noi chiamiamo sensibilità per legittimare la nostra debolezza, per
nobilitarla magari, se fosse possibile!.. Negli ultimi tempi della Repubblica, al
momento in cui la discordia introduceva la depravazione, Aula Fulvio abbandona
Roma per seguire Catilina. Suo padre lo richiama. Quel cittadino ribelle alla patria è
tuttavia un figlio rispettoso. Egli obbedisce, e viene a subire la condanna di morte
emanata da suo padre. I nostri avi ammiravano questo esempio di sublime virtù.
Noi lo crediamo severo. I nostri nipoti lo giudicheranno barbaro. Noi cominciamo a
meravigliaci che un padre eserciti il diritto che gli dà la legge di vendicare il suo
onore tradito, la sua autorità sprezzata. Finiremo col ritirargli questo diritto.
Dall'impossibilità di punire i figli nascerà il disprezzo verso il padre,
l'insubordinazione, la ribellione e l'anarchia universale.»
- «Ecco il suo più profondo modo di pensare,» concluse Landri richiudendo il
grosso volume. «Questo basta perché la mia resistenza lo abbia esasperato ed egli
non abbia voluto occuparsi di me finché non mi sia piegato. Dove avevo la testa?
Egli desidera di vedermi domani per gli affari stessi di cui mi ha fatto scrivere da
Métivier. perché mai vado a supporre che vi siano ragioni misteriose per separare i
nostri interessi? Mi ha dichiarato proprio qui tale risoluzione. Ciò prova quale idea
egli abbia della mia colpa a suo riguardo. Per lui, è un delitto. Io dovrei rallegrarmi
di questo rigore delle sue convinzioni!...»
Siffatta spiegazione era plausibilissima, ma non calmò la vaga inquietudine in cui il
telegramma aveva gettato Landri. Ed ecco perché. Il notaro Métivier gli aveva
mandato, una quindicina di giorni prima, molte carte da firmare, accompagnandole
da una epistola abbastanza lunga, più personale. In essa diceva che egli approvava
molto, quella divisione dei patrimoni tra padre e figlio, e che vi vedeva un ottimo
segno per l'avvenire. Aggiungeva che il signor de Claviers aveva affidato, per suo
consiglio, la liquidazione dei suoi debiti ad un suo antico scrivano, un certo signor
Cauvet, avvocato, che si occupava specialmente di faccende notarili. Questo Cauvet
aveva scoperto quasi subito una grave irregolarità. Chaffin era stato mandato via.
«Forse il signor marchese,» osservava il prudente Métivier, è stato un po' duro.
Quantunque la frode fosse probabile, non era addirittura sicura.»
- «Dunque avevo ragione,» aveva pensato Landri sul momento; «anche Chaffin
tradiva!…» E si era attenuto a questo. Nelle sue odierne riflessioni, le cose
assumevano un altro aspetto. Quella violenza nell'impulso era certo una
particolarità del carattere del signor de Claviers. Non v'era bisogno di altre ragioni,
per spiegarlo, che la scoperta di codesta infedeltà. Ma le conseguenze? Landri si
ricordava che il figlio dell'amministratore scacciato così era Pietro Chaffin, il dottore
che assisté Jaubourg agonizzante. Se quel giovanotto avesse ripetuto al proprio
padre ciò che senza dubbio aveva udito? ... Se per vendicarsi questi ripetesse a sua
volta il segreto?.. Se lo avesse scritto all'interessato?... «No,» rispose Landri a sé
medesimo, «Chaffin ha potuto esser tentato dal denaro che gli passava dalle mani,
e diventare un ladro; ma non è un mostro. Pietro è un dottore; ve ne sono ancora,
e molti, che serbano il segreto professionale. Nulla è potuto accadere da questo
lato, né da nessun altro. Il nostro abboccamento dell'ultima volta spiega tutto!»
Nonostante questi ragionamenti, il ritorno a Parigi, in tali condizioni e dopo quel
telegramma, dava al giovanotto un invincibile sentimento di apprensione. - «Son
così turbato perché sono stato troppo chiuso in casa,» disse fra sé, ed uscì, per
tentare di vincere col moto quello snervamento.
Egli impiegò la fine di quel pomeriggio in visite di addio, le quali però non gli
dettero quella calma di cui dopo tante scosse aveva un bisogno quasi fisico.
Avrebbe potuto misurare il grado del mutamento operatosi in lui in poche
settimane, da questo piccolo fatto: durante le sue ultime passeggiate da un capo
all'altro della città che era stata la sua ultima guarnigione, non provò un attimo la
nostalgia del mestiere che aveva tanto amato. Una preoccupazione fugava tutto,
del genere di quella che aveva subita dinanzi al telegramma e che aveva voluta
scuotere: sapere se la notizia dell' infame testamento era giunta all'orecchio dei
suoi compagni e che cosa ne pensavano.
Landri aveva saputo vagamente, per l'addietro, senza prendervi interessamento,
come il comandante Privat fosse un cugino lontano di Jaubourg. Appena fu fuori se
ne ricordò. Quell'ufficiale aveva ottenuto il riposo l'inverno precedente. Costui era
rimasto di certo in corrispondenza con qualche compagno d'armi. Aveva egli scritto
loro quella notizia, e con quali commenti? Se aveva scritto, quale era stato il
giudizio di tanti cuori retti e semplici, di cui conosceva l'intransigente lealtà, circa
l'accettazione del signor de Claviers?
Siffatta idea non era di quelle che ne permettono altre. Invano i quadri di attività
militare; sparsi dovunque per le vie di Saint-Mihiel, si moltiplicavano intorno al
tenente scacciato dal servizio come per rappresentargli i sogni della sua giovinezza,
ormai andati in fumo. Egli non vi badava. Poté così passare, senza che la
disperazione lo soffocasse, dinanzi alla porta del quartiere, che fino a pochi giorni
addietro varcava con la ferma volontà di serbare l'uniforme. Incontrò, senza sentirsi
straziare il cuore, diversi soldati del suo antico plotone, guidati dal suo successore,
il quale cavalcava appunto Pantera, fattasi in quelle poche settimane una docile e
intelligente cavalcatura da militari. Riconobbe il profilo insolente e beffardo di
Baudoin, il viso già meno aperto di Teilhard, evidentemente ripreso da correnti
anarchiche. E’ una delle più amare tristezze che un capo possa provare: vedere
falsarsi in altre mani l'utensile vivente che aveva, sperato di formare e che già
cominciava a piegarsi. Landri ne fu appena appena turbato. Invece sentì un intenso
sollievo nell'osservare che né Despois né Vigouroux, i due primi ufficiali ai quali fece
visita, avevano il minimo sospetto del lascito fatto ai Claviers dal cugino di Privat.
Egli ebbe perfino il coraggio di nominare l'antico comandante tanto all'uno che
all'altro: visibilmente, essi non pensavano a lui da mesi e mesi; avevano altri
pensieri in testa, che entrambi sfogarono ciascuno a modo proprio.
- «...Eccovi perduto per l'esercito,» gli disse Despois. «Peccato, un ufficiale così
buono!... Quello che io rimprovero più di tutto agli sciagurati che ci governano, è di
non comprendere come, fra noi specialmente, un uomo non si sostituisca. Un
uomo? Quando ne abbiamo uno che è disposto a servire, si deve far di tutto per
conservarlo. Un uomo, in guerra, ne vale dieci, venti, trenta, cento; ne vale mille.
Sembra quasi che nei nostri tiranni vi sia uno spirito di vertigine che li spinge a
eliminare dall'esercito le persone di cuore, cioè i legittimisti, coloro dai quali la
Repubblica ha poco da temere. L'ufficiale che si rifiuta, come voi, di sfondare la
porta di una cappella, è l'ufficiale che non cospira, perché ha degli scrupoli; e questi
insensati non lo comprendono!... Io pure,» aveva. soggiunto, me ne andrò, e
presto. Non credo di poter resistere. Ieri ci facevano andare contro le chiese,
domani saremo chiamati, a andar contro gli scioperanti. Questa seconda faccenda
non spetta al soldato più della prima. L'esercito può essere impiegato, per
eccezione, ad assicurare l'esecuzione delle leggi; ma ciò dev'essere un'eccezione.
La sua ragione di esistere è la guerra, e non la polizia. I nostri politicanti hanno in
orrore la guerra, maschia e santa scuola dell'eroismo! Essi hanno il gusto ignobile
delle smargiassate per le strade. Per esempio, corre voce che saremo mandati,
questa settimana, a rimetter l'ordine nelle ferriere di Apremont!... Fateci invece una
politica di pace all'interno, signori, e di altera dignità all'estero!... Addio, Claviers. Mi
auguro che ci ritroviamo, dove indovinate, a botta a botta caricando il nemico. Ma
avremo ancora dei soldati per seguirci?.. Ho torto. Non abbiamo il diritto di
disperare, così vicini a Vaucouleurs. Che volete? Il vostro vecchio capitano ha il
cuore straziato nel vedervi partire.»
- «...Ebbene, vi hanno riformato, mio bravo Claviers!» fu la prima esclamazione di
Vigouroux. «Brutti...» e il luogotenente dei dragoni, che apparteneva alla grande
tradizione dei Kléber e dei Cambronne, scagliò un termine da corpo di guardia
all'indirizzo dei persecutori del suo compagno. «Sapete che ho corso rischio di
buscare altrettanto?... Perché? Per avere scambiato due o tre frasi con voi quando
scendemmo da cavallo al ritorno da Hugueville. Ma non ci sono riusciti. Quello
stesso pomeriggio il colonnello mi chiamò: «È vero che vi siete congratulato in
pubblico col signor de Claviers?» mi domandò. «Ho parlato, è vero, con Claviers,»
risposi, «ma testa testa, fuori di servizio; e se qualcuno dice di aver assistito come
terzo al nostro colloquio, mentisce.» Charbonnier esitò un momento. Quantunque
abbia le idee che sapete, è un buon diavolo. E poi, Vigouroux, Charbonnier, sono
due nomi che risuonano nello stesso modo, mentre invece Claviers-Grandchamp...
Insomma!... «Vada anche per questa volta», mi disse «ma siate meno ciarliero,
giovanotto. Potreste capitare in un colonnello diverso da me.» Non aggiunse altro.
Ma vedete, ci avevano già fatto la spia di quei due momenti di colloquio. È una
cosa che avvelena la vita, Claviers, trovarsi in mezzo a spie. Non mi fa più pro la
cucina della mensa, che per l'appunto quest'anno non era troppo cattiva. Io non so
mangiare senza parlare, e nessuno a tavola osa più parlare. Se tutti i buoni come
voi, i solidali, quelli di cui ci si poteva fidare, spariscono, che accadrà di noi?...
Comunque, Charbonnier e i suoi sbirri diranno quel che vorranno: io mi congratulo
di nuovo con voi, e vi do il diritto di dire dovunque che Vigouroux vi ha gridato due
volte bravo.»
Dunque, Privat non aveva scritto nulla! Ecco tutto il significato che ebbero, per
colui che fu il loro collega, i discorsi dei due ufficiali, l'uno d'una distinzione innata,
l'altro semplice, entrambi egualmente innamorati del servizio, e feriti al vivo del loro
onore militare con procedimenti meschini. Più tardi Landri doveva rievocare spesso
lo sguardo mestamente chiaro di Despois nel suo viso solcato, e la smorfia di vera
nausea - se è lecito dirlo - del rosso Vigouroux. In quel momento non v'era posto
nel suo cuore per sentimenti di questo genere. Le altre sue visite avvennero nelle
medesime alternative di curiosità dolorosa e d'una certa calma, momentanea però!
L'attesa dell'abboccamento col signor de Claviers - il terzo da che Landri sapeva
quello che sapeva - gli dava un'ansia febbrile che andava aumentando a mano a
mano che il tempo passava, avvicinandolo al momento in cui si troverebbe di faccia
a quell'uomo. Di nuovo, come nella marcia a capo dei suoi dragoni verso
Hugueville-en-Plaine, egli tornava a non vedere che lui, lui solo sulla banchina della
stazione dove pochi dei suoi amici ebbero il coraggio di andare a dirgli addio, ­ lui solo nel compartimento del treno dove cercava ostinatamente, cullato dal rumore
monotono, di figurarsi le parole che udrebbe e quelle che risponderebbe, - lui solo,
infine, a Parigi, dove soltanto a ritrovarsi in via del Faubourg­Saint-Honoré, dinanzi
all'ingresso del loro palazzo, provò un rinnovamento della sua sofferenza. Non
aveva più varcato quella porta dal giorno in cui, sceso di treno, era andato lì, a
vestirsi prima di recarsi da Valentina per chiederle la sua mano: era la vigilia della
morte di Carlo Jaubourg. Tutto diceva che le consuetudini di quella casa signorile
rimanevano come erano sempre state. Il vecchio portiere lo salutò di sulla soglia
della sua stanza, con la solita fisionomia deferente e familiare. Gli uomini di
scuderia lanciavano col solito gesto i secchi d'acqua nelle casse e sulle ruote
sollevate delle carrozze. Garnier, il maggiordomo, che canuto com'era sembrava
una figura del settecènto, al solito suono di campana che annunziava il suo arrivo,
lo ricevette in cima alla scala col solito cerimoniale.
- «Il signor marchese sta bene?» domandò Landri. E il suo cuore provò un gran
sollievo, come il giorno prima, presso Despois e presso Vigouroux, quando il
cameriere gli ebbe risposto:
- «Sì, signor conte, benissimo. Il signor marchese andò ieri a Grandchamp a caccia
con alcune persone.»
- «Egli è a caccia?..» pensò il giovanotto. «Ciò significa che non v'è nulla di
straordinario. Senza dubbio avevo indovinato: vuol parlarmi per questioni
d'interessi.» E ad alta voce: «Gli farete domandare se può ricevermi verso le dieci.»
Anche questo carattere piuttosto cerimonioso non era una novità nelle relazioni tra
padre e figliuolo. Se la cortesia convenzionale, che è di tradizione nelle famiglie
antiche, apparisce come un intoppo in certi momenti, in altri si rivela come
singolarmente benefica. Essa assicura una copertina, molto necessaria quando si
soffre. Nessuno, in casa, supponeva che tra il marchese e Landri si preparasse una
di quelle scene che segnano una data solenne in due vite. Ma Landri stesso
supponeva forse verso quale spiegazione andava, quando, all'ora indicata, scese
dalle sue stanze per entrare nella biblioteca dove il signor de Claviers gli aveva
fatto dire che lo aspettava? Quella stanza alta e vasta dava sul giardino, gaio e
fresco d'estate, severamente nudo e brullo in quella cupa mattina di dicembre. Tale
addobbo di lutto si addiceva benissimo alle parole che stavano per essere ivi
scambiate. Il marchese era in piedi davanti all'enorme caminetto, voltando le spalle
al fuoco, la cui fiamma chiara lambiva un tronco d'albero. Era una delle piccole
manie del vecchio signore quel riscaldamento all'antica. Dinanzi al caminetto
monumentale, e nonostante il vestito moderno, in quel momento egli era più che
mai un «ritratto antico». Soltanto, era il ritratto di un uomo che attraversa un'ora di
tremendo martirio. Il capocaccia della foresta di Hez, di cui Landri aveva ammirato
tanto la robusta e diritta figura nel gruppo dei cacciatori intenti a guardar la
cuccagna, dimostrava cinquant'anni appena, nonostante i sessantacinque che gli
dava l'albero genealogico dei Claviers-Grandchamp: il capo di famiglia che in quel
momento aspettava l'erede del suo nome nella vasta sala dalle pareti coperte di
legno intagliato e di libri, era un vecchio. Il colorito rosso, con macchie livide, le
palpebre appassite, le rughe della fronte, dicevano le lunghe insonnie di quelle
quattro settimane. Al lampo gaio dei profondi occhi celesti era succeduto un ardore
scottante dello sguardo, nel quale s'indovinava il supplizio intimo, - in quel
momento! Poiché, - e l'orgoglio conservato dalla fisionomia lo annunziava
abbastanza - il gentiluomo non si era arreso, e dinanzi a qualunque altro testimone
avrebbe saputo nascondere la sua ferita. Quale ferita? Landri non ebbe bisogno
d'interrogarlo per saperlo. Quello che aveva previsto era accaduto. Il signor de
Claviers supponeva la verità. Fino a qual punto? Avvertito da quali indizi? Il giovane
raccolse istintivamente tutte le sue forze per affrontare senza debolezza un
colloquio nel quale il suo segreto poteva sfuggirgli. Egli stava per constatare ancora
una volta la superiorità della razza, e qual vigoroso, qual saldo genio essa dà ai suoi
rappresentanti autentici. Il signor de Claviers era molto affettuoso e sensibile, ma
soprattutto era virile. Il carattere, in lui, era nutrito e penetrato di quei principi di
cui parlava con un tale fervore, che talvolta stonava perfino nel suo ambiente, anzi,
lì specialmente. Egli doveva, nei momenti di crisi suprema, manifestare
quell'energia della forte determinazione che schiva l'equivoco, e che ha l'implacabile
decisione del coltello anatomico. Neppur lui sapeva esattamente quello che il suo
figliuolo ­ di nome - conosceva di una condizione che egli stesso non aveva mai
presentita prima di averne la prova fulminante e indiscutibile. Egli aveva il diritto di
supporre che il giovanotto ignorasse tutto. Questo sarebbe bastato a giustificare,
per un animo più debole, la tentazione di tacere, alla quale Landri non si sarebbe di
certo sottratto. Per il marchese, un dovere dominava tutto: quello di salvare, nel
naufragio di tutte le sue fiducie, di tutti i suoi affetti, quanto poteva ancor salvare
dell'onore dei Claviers-Grandchamp. Egli era il depositario di questo nome, e
avrebbe imposto all'intruso la sua volontà, giustificata, del resto, senza
preoccuparsi d'altro che di quell'onore. Perciò, quando il giovanotto, appena entrato
nella stanza, cominciò a parlargli alludendo al loro ultimo abboccamento, egli lo
interruppe subito.
- «Non vi ho fatto venire,» gli disse - e questa soppressione del tu assumeva nella
sua bocca un rigore singolare: mai Landri lo aveva sentito rivolgersi a lui così,
neppure nelle sue più grandi severità, - «non vi ho fatto venire per riprendere una
discussione che d'ora innanzi non ha più importanza, e non ha neppure ragion
d'essere. Da che non ci siamo veduti, è.sopravvenuto qualche cosa di nuovo, che
muterà per sempre e completamente le nostre relazioni. Ho creduto un dovere
verso me stesso e verso voi di parteciparvelo. Preparatevi a ricevere un colpo
dolorosissimo, come l'ho ricevuto io, coraggiosamente».
- «Sono pronto ad accettare tutto da voi, padre mio», rispose Landri, «sicuro che
agirete sempre per quello che crederete il mio bene».
Questa frase ambigua era un ultimo sforzo per dissimulare - a che pro ora? quello che aveva saputo anche lui. A queste due parole «padre mio» il marchese,
per forte che fosse, non poté fare a meno di chiudere per un attimo le palpebre.
Tuttavia la sua voce ampia e profonda non esitava per proseguire:
- «Prima di tutto leggete quelle due lettere; poi parleremo...».
Aveva accennato a Landri, col dito steso, una busta aperta posata sulla scrivania.
Il giovanotto vide, nell'aprirla, che conteneva infatti due lettere. Una era scritta a
macchina, e diceva così: «Il signor marchese, de Claviers­Grandchamp ignora senza
dubbio i motivi per i quali uno dei suoi amici (?), morto recentemente, lo ha istituito
suo erede universale. Il documento seguente lo informerà. Se il signor marchese
non rimanesse persuaso, abbiamo altri documenti da fornirgli». E questa denunzia
era firmata: «Un ammiratore della Casa de Claviers-Grandchamp!» L'altra lettera...
Ah, soltanto a riconoscerne la calligrafia Landri sentì che il suo cuore stava per
cessar di battere! La carta, un po' ingiallita, esalava ancora un vago e soave
effluvio, l'aroma attenuato, svaporato del profumo prediletto di Genoveffa de
Claviers, lo stesso che avvolse i baci dai quali nacque il figlio che ora spiegava quel
foglio con un tremito tale, che lo strappò nel mezzo. Era un biglietto d'amore,
scritto liberamente nella sicurtà pericolosa che finisce col dare anche ai più prudenti
una lunga relazione. Le prime tre parole: «Mio amato Carlo», il «tu» che veniva in
seguito, alcune notizie date al padre del «nostro caro piccolo Landri», ed altre frasi
ancora, non meno esplicite, non avrebbero permesso il dubbio ai più ostinati. A chi
era stata sottratta quella lettera? All'amante, dopo che l'aveva ricevuta? Oppure
due mani scellerate l'avevano intercettata, mani che la folle innamorata aveva
credute fedeli? perché sarebbero stati tanti anni senza servirsi di quella terribile
arma, e perché la tiravano fuori oggi che i due complici erano protetti per sempre
dalla tomba contro la vendetta del marito oltraggiato? Che il testamento il quale
istituiva il signor de Claviers erede universale avesse determinato quella vile
denunzia, l'altro biglietto non avrebbe neppure avuto bisogno di dichiararlo con
quell'oltraggiante cinismo. Ciò era evidente. La causa importava poco. L'effetto era
stato raggiunto, completo come poteva desiderare il più implacabile rancore. Landri
rimaneva annichilito dinanzi a colui di cui portava il nome per colpa della morta che
con le sue dita appassionate aveva follemente tracciato quelle righe. Quando
finalmente osò di alzare gli occhi, vide che il marchese gli accennava il fuoco acceso
nel caminetto. Egli vi gettò i due pezzi di carta pieni dell'orribile significato. Un
momento dopo, alcune pellicole carbonizzate, che si torcevano sul fuoco,
attestavano che quelle lettere erano esistite. Senza dubbio il volto del giovanotto
aveva espresso in quella scena muta una straordinaria intensità di sofferenza,
poiché il signor de Claviers non poté fare a meno, anche in quel momento, di
averne pietà, e gli disse:
- «Non potevo compiere il dovere che m'incombe senza il vostro aiuto e senza
avervi avvertito.»
- «Non vi rimproverate nulla, signore,» disse Landri. «Queste lettere non mi hanno
appreso nulla di nuovo. Sapevo tutto.»
Un'onda di sangue salì al volto del vecchio, manifestando quali sentimenti
appassionati suscitasse in lui tale risposta. I suoi occhi celesti mandarono lampi, e
le sue vecchie consuetudini di linguaggio gli tornarono alle labbra in questa
esplosione: Sapevi tutto?... » esclamò. Ed hai taciuto?... Sapevi tutto, e la tua
coscienza non ti ha detto: «Quest'uomo che mi ha educato, che mi ha amato come
il più tenero padre, fu tradito nel suo onore di sposo. Oggi è tradito nella sua
probità! Egli accetta con fiducia questo lascito abominevole! Ne è riconoscente! Se
ne servirà per pagare i debiti e per svincolare il suo patrimonio! Il suo patrimonio!»
ripeté. «Ad ogni costo io debbo impedire che questo accada!...» Tu sapevi tutto, e
l'altro giorno mi lasciasti partire senza mandare il grido di cui mi eri debitore!... Sì,
me ne eri debitore per quello che ti ho dato del mio cuore per tanti anni, per quello
che ti davo ancora pochi momenti fa. Stavo per chiederti scusa di non aver potuto
tacerti la vergognosa verità!... E anche tu mi tradivi! Ti eri reso complice del
supremo affronto! Ah, sciagurato, sei proprio sangue loro, il figlio del...»
S'interruppe. Anche nello scoppio del suo furore la sua grande anima indietreggia
va dinanzi a simile barbarismo: insultare una madre, sia pure indegna, in presenza
di un figlio! Ma l'eccesso era troppo forte per passare così. I suoi pugni chiusi si
aprirono e si richiusero convulsamente. Egli afferrò il primo oggetto che gli capitò,
un tagliacarte di metallo dorato che era sulla tavola, accanto a una rivista rimasta
intonsa. Il marchese piegò in due quella lama che si spezzò come vetro. Poi,
tornato in sé stesso per la frenesia di quell'atto, interpellò Landri con un accento in
cui ruggiva ancora la tempesta:
- «Ma spiegatevi, sciagurato. Spiegate il vostro silenzio. Perché avete taciuto?... »
- «Perché vi amavo,» disse Landri, «e perché si trattava di mia madre.»
Grido straziante, di un'umanità semplice e pungente, quale può scaturire da un
cuore quando è toccato nel suo più intimo recesso! Il signor de Claviers aveva
voluto bene per troppo tempo e troppo profondamente al giovanotto, quell'affetto
era ancora troppo mescolato all'orrore che gl'ispirava la sua esistenza, perché non
ne avesse le viscere straziate. Fece un movimento che subito represse, e, come se
si rimproverasse quella debolezza, il suo volto si oscurò ancora per domandare,:
- «Da chi sapeste la cosa?»
«In via Solferino, martedì. Ah, non mi costringete a rivivere quell'orribile scena!...»
- «Te lo disse lui?..» ruggì il signor de Claviers. «A te? A te?.. Egli osò...?»
- «E' morto...» rispose, o meglio implorò il giovanotto. La generosità innata trionfò
di nuovo nel cuore del gentiluomo che si portò la mano sugli occhi, quella stessa
mano con la quale aveva fatto, sulle spoglie del falso amico, il gran gesto del
perdono. I sussulti irrefrenabili della sua passione facevano senza dubbio paura a
lui stesso. Quel colloquio, che egli aveva voluto, lo sconvolgeva troppo
profondamente. Si raccolse alcuni istanti, e quando riprese a parlare il suo tono era
mutato. Ora pronunziava le parole con una specie di freddezza altera, frettolosa e
dura, che faceva sentire maggiormente forse al suo interlocutore tutto l'irreparabile
della loro condizione.
- «E' inutile prolungare un abboccamento penoso a voi quanto a me. Ascoltatemi, vi
prego, senza interrompermi. lo continuo, nella mia qualità di capo della famiglia de
Claviers, e poiché voi ne portate il nome, a considerarmi come se avessi di fronte a
voi doveri e diritti. Il mio dovere è di trattarvi ufficialmente come se foste mio
figlio». Le sue palpebre si abbassarono di nuovo sulle pupille, mentr'egli diceva
queste parole. Non mancherò a questo dovere. Il mio diritto è di esigere che voi vi
conformiate alle mie decisioni, per tutto ciò che concerne la difesa dell'onore della
mia casa. Quest'onore è minacciato. Siffatte infamie ne sono il segnale». Accennò
con la mano il posto sul banco dove poco prima era la busta. Ce la vedeva sempre.
Esse provano che la gente ha chiacchierato e che chiacchiera. Tanto voi che io
conosciamo abbastanza il mondo per sapere che la sua leggerezza oltrepassa la sua
ferocia. Sappiamo altresì che il mondo, nonostante tutto, ha le sue giustizie. Non
v'è nessuno, nessuno dico, che possa sinceramente supporre che Goffredo de
Claviers-Grandchamp abbia accettato un'eredità sapendola infame. Dunque, se egli
la tiene, significa che non crede che questa eredità sia infame; significa che è
persuaso che sua moglie sia stata calunniata. lo voglio, capite? voglio che si dica,
voglio che si pensi che la signora de Claviers è stata calunniata. Per conseguenza
non rinunzierò a questa eredità dopo che l'ho pubblicamente accettata. Non occorre
ch'io vi dica che questo denaro mi fa orrore e che non ne terrò punto; è denaro
vostro; voglio che lo abbiate tutto. Ma questa restituzione accadrà tra me e voi.
Disgraziatamente ho già dato degli ordini, che non posso revocare senza suscitar
dicerie, all'uomo di Métivier a Cauvet, il successore dello sciagurato Chaffin. Questa
restituzione non avverrà dunque che fra qualche tempo. D'altra parte questo tempo
mi è necessario per porre ad effetto i miei propositi. Ecco un primo. punto regolato
tra noi, non è vero?»
- «Spetta a voi di comandare,» rispose Landri, «e a me di obbedire».
- «Vengo al secondo punto. Noi non possiamo più, non dico vivere insieme, ma
vederci. Bisogna che ci separiamo, e per sempre, rimanendo fedeli al programma
che vi ho tracciato.
Il motivo palese deve esser di quelli che la nostra società possa ammettere senza
indagare più oltre. E questo motivo è già pronto: il matrimonio disparato che
volevate fare e che farete. Un mese fa io non potevo neppure tollerarne l'idea, ve
lo dimostrai. Oggi...» Scosse la testa e fissò su Landri uno sguardo che dava un
significato evidente a queste parole: Mi è penosissimo che la famiglia che voi
fonderete porti il nome della mia. A questo, io non ci posso far nulla. Il loro Codice
non mi permetterebbe di far riconoscere quello che è. Del resto, non ho il diritto di
esigere che non seguiate la vostra strada. Non posso impedirvi di esistere. Dunque
voi sposerete, ufficialmente contro la mia volontà. Mi darete la vostra parola di non
abitare nella medesima città dove io vivo, di non presentare vostra moglie nel
nostro ceto. Non voglio incontrarvi, né incontrarla. Aspettate...» disse
imperiosamente, mentre Landri stava per rispondere. Se non avessi la certezza, ve
lo ripeto, che la gente chiacchiera, le cose andrebbero da sé; voi uscireste di casa
stamani per non tornarvi mai più. Ma la gente chiacchiera, e siccome né voi né io
abbiamo confidato a chicchessia i nostri due colloqui, quello di Hez e quello di
Saint-Mihiel, l'annunzio improvviso di questo matrimonio in questo momento
passerebbe per un pretesto. Quantunque dicano ch'io sono un uomo di altri tempi,
l'idea dei matrimoni disparati si è talmente indebolita in questi ultimi anni, che
potrebbero dire, che direbbero: «Ha afferrato quest'occasione, ma v'è qualche altra
cosa.» Voi lasciate l'esercito in condizioni che hanno attratto tutte le simpatie
intorno a voi, a noi, debbo dire; poiché nessuna potenza umana può fare che noi
non siamo solidali. E’ naturale ch'io prenda questo momento per ricevere, per
circondarvi di gente. Riceverò. Riceveremo insieme. Avrò la forza di contenermi
così, e l'avrete anche voi. Questa forza durerà quanto potremo, ma bisogna che, il
giorno in cui scoppierà la notizia del vostro matrimonio e della nostra rottura, tutti
coloro che ci avvicinano dicano: «Povero Claviers! Voleva tanto bene al suo
figliuolo!..» Son sicuro che vi sarà chi dirà: «Che commedia!... » Ma la vanità non
deve esistere quando si pensa all'onore, e il solo modo per me di difendere quello
della signora de Claviers è di far vista di crederci. Su questo, siamo veramente
solidali, di una solidarietà che non è menzogna. Ella è stata, ella rimane mia moglie,
ed ella è vostra madre.»
- «Vi ripeto che vi obbedirò in tutto,» disse il giovanotto.
- «Mi rimangono due punti da toccare,» soggiunse il marchese. Ho riflettuto molto,
in questi ultimi tempi, al carattere della persona che sposerete. Voi l'amate. Sì,
dovete amarla molto, per avermi parlato come mi parlaste, quando ci vedemmo a
Saint-Mihiel. Vedete, io non disconosco il vostro affetto verso me. Sarete forse
tentato di aprirle il vostro cuore. Se ella non merita di essere amata come l'amate,
non lo fate; e non lo fate neppure se ella lo merita. Vi chiedo la vostra parola che
ella non saprà mai da voi questo vergognoso segreto.»
- «Ve la darei, e subito...» rispose Landri. Poi, sottovoce, tanto temeva un altro
scatto di quel furore che sentiva sempre agitarsi: .Ma se pur mi lasciassi andare a
raccontarle tutta la verità... credo... che non le direi nulla di nuovo...»
- Le hai già parlato?» esclamò il signor de Claviers minaccioso. Confessalo!... Ah, se
hai fatto questo...»
- Non l'ho fatto,» protestò Landri; e con le lacrime agli occhi: «Ve ne prego, non
crediate mai ch' io abbia potuto agire diversamente da quello che mi avete
insegnato per tutta la vostra vita, che m'insegnate anche in questo momento. Vi
dirò tutto, poi mi giudicherete.» E cominciò a riferirgli del primo indizio, di quella
improvvisa implorazione di non salire dal malato di via Solferino, tornando da Parigi
a Grandchamp, e come, dopo la visita di Jaubourg e la rivelazione, egli avesse
detto fra sé: «La signora Olier sa tutto». Narrò con quale ansia fosse arrivato da lei,
e l'orrore che aveva avuto di parlare, e il silenzio di lei dinanzi al suo dolore, e
questo dolore, e il loro fidanzamento in quell'istante di suprema commozione; - poi
la lettera che aveva ricevuto da lei subito dopo l'affare di Hugueville, e le altre in
cui essa non aveva più fatto alcuna allusione al signor de Claviers, il quale ascoltava
tale confessione cori una fisionomia immobile dove tuttavia passava una specie di
meravoglia. Mai Landri, quando egli lo credeva suo figlio, gli aveva parlato così a
cuore aperto. Mai egli aveva osato mostrare a suo padre quella sensibilità
affascinante e fremente, sfrenata e delicata, vulnerabile e affettuosa. Egli si svelava
in tutta la verità della sua natura fine e tenera, nel momento in cui il marchese e lui
scambiavano le parole dell'ultima spiegazione. Che potrebbero dirsi d'ora innanzi? Il
signor de Claviers sentiva questo al di sopra di tutto il resto. Il suo antico affetto
per quel ragazzo si commoveva di nuovo, e più lo invadeva, più egli vi s'irrigidiva
contro. E poi, in tutto quel racconto, intravedeva l'animo squisito di Valentina, e
provava un'amarezza indicibile al ricordo di un altro fidanzamento, il suo,
quarant'anni addietro, così fiero, raggiante, per giungere… a che cosa? a quella
dolorosa inquisizione intorno a una vergogna!
- «Avete ragione,» disse finalmente, «è troppo evidente: ella sa tutto. In qual
modo?» I suoi lineamenti rivelarono l'angoscia, mentre soggiunse: «Da un mese io
cozzo contro questa domanda, senza riuscire neppure a intravedere la risposta: Chi ha potuto rubare quelle lettere?... Abbiamo altri documenti da fornire!» Egli
ripeté dolorosamente le parole del delatore. «Altri documenti?... Sono forse gli
eredi? ho chiesto tra me e me. Per vendicarsi di questo lascito?... Ma io li vidi al
trasporto. Vi era un ufficiale a riposo, un certo signor Privat, che mi parlò di voi.
Non potrò mai credere a tanta ipocrisia. Essi sapevano del testamento, e tennero
un contegno ammirabile. No. Il colpo non viene da loro. Da un servo, forse? A che
scopo? Per fare un ricatto? Si smascheri dunque, e gli pagherò quanto vorrà quelle
altre lettere!... No. Un servo non avrebbe trovato l'abominevole ironia della firma:
un ammiratore della Casa de Claviers-Grandchamp. In questo ignobile insulto v'è
forse qualche cosa del Circolo, la bassa invidia contro coloro che non convengono
con le vigliaccherie di questi tempi.» Mandò un altro ruggito: «Se potessi sapere
chi!... » E scotendo il capo: «Non si tratta di me, lo ripeto, ma dell'onore della
signora de Claviers, e l'ultima promessa che volevo esigere da voi è che cerchiate
quello che io non posso cercare: la mano di dove parte il colpo. Bisogna trovarla ad
ogni costo, per impedire che si torni da capo.»
- «Non avete sospettato di nessuno?» domandò Landri. Chaffin che avete
scacciato...»
- «Chaffin? Avevo ricevuto la lettera dieci giorni prima, quando lo mandai via. No.
Chaffin è un ladro; non ha voluto mai che denaro; egli avrebbe tentato di venderci
quelle lettere. Non ci perdiamo in supposizioni vane quanto i miei lamenti. Forse,
interrogando la signora Olier potreste saper qualche cosa ?... Troppo, forse...»
Seguì un silenzio. «No. Neppur questo è possibile...» A quale atroce idea
rispondeva quel: «no,» e poi la frase: «Ma se fosse?..» che aggiunse, per
concludere: «Ora sapete le mie volontà...»
- «Alle quali mi conformerò,» disse il giovanotto. Aveva compreso l'iniquo e atroce
sospetto sorto all' improvviso nell'animo del marito crudelmente tradito, e lo
compiangeva viepiù. «Ve lo prometto.»
- «Bene,» concluse il signor de Claviers, «accetto la vostra parola. Io vi scriverò
ogni giorno le mie istruzioni per quello che desidero da voi. È inutile ormai che ci
troviamo a quattr'occhi, salvo che non abbiate da darmi qualche informazione
sull'inchiesta che farete. Allora avvertitemi subito. Dimenticavo dirvi che stamani ho
invitato i Charlus e Bressieux. Siate qui a mezzogiorno e un quarto. Andate.»
- «Avrò la forza di mantenerla, questa parola?» chiedeva Landri fra sé, scendendo
all'ora fissata nel salottino dove il marchese riceveva i suoi invitati quando dava una
colazione. Per giungervi dovette attraversare una sfilata di stanze magnifiche. In
lontananza udiva gli scoppi di quel riso alto, congiunto alle impressioni della sua
infanzia e della sua giovinezza. L'uomo che poc'anzi, a vicenda stoico e disperato,
freddo e impetuoso, accusava, ordinava, gemeva, dubitava, in un tal impeto di
dolore e di sdegno, era quello stesso che lo accolse con queste parole, dette con
voce allegra, mostrandogli gli amici annunziati:
- «Ebbene, vi fate aspettare, signor eroe?... Non ne avete il diritto, voi che non
siete di stile moderno. Ma dopo quello che avete fatto, avete credito per qualche
tempo. Non è vero, signorina Maria?..»
- «Me ne fido!...» esclamò Maria de Charlus ridendo e mostrando i suoi eburnei
denti. «Ecco, voi mi canzonate, signor de Claviers! Ma io mi vendicherò parlando
l'argot; e ciò non m'impedirà di riprendere il francese della vostra vecchia Francia
per ripetere a vostro figlio che tutti e tutte siamo orgogliosi di lui.»
- «Molto orgogliosi,» ripeté Charlus. «Fa sempre piacere di veder compiere una
bella azione. Ma quando colui che la compie appartiene alla classe elevata, il
piacere è doppio.»
- «Infatti,» disse Bressieux stringendo anche lui la mano a Landri. «Non ci siamo
molto assuefatti...»
- «Perché le persone della classe elevata pensano troppo alla mangiatoia,»
soggiunse Maria guardando il signor della Roccantica con quella allegra insolenza
che le era solita.
- «Più che altro perché le persone della classe elevata non sono elevate come
bisognerebbe,» disse il marchese. Ci vuol così poco ad essere del proprio partito,
sempÌicemente; e nessuno lo è. Io non vedo che persone le quali, col pretesto
d'idee larghe e liberali, danno ragione ai loro nemici. Landri è stato del suo partito,
ecco, senza frasi, senza ostentazione. Racconterai loro, mio caro, come andò, e
come quei bravi contadini vi acclamassero, tu e i tuoi dragoni, quando tornaste
indietro in barba al sottoprefetto scandalizzato... Ma la colazione è pronta. Mi
permettete di offrirvi il braccio, signorina? Lardin ha promesso di farsi onore, e
stapperemo, per bere alla salute di questo bravo giovane, un «musigny»
stravecchio... Poiché beviamo ancora, e del Borgogna, noialtri; come pure
mangiamo, e con grande appetito, in questa vecchia Francia di cui vi beffate. E:
bellina, la nuova! Tutta a base di acque minerali e d'igiene...»
I camerieri in livrea avanzavano le seggiole ai convitati intorno alla tavola il cui
legno cupo non aveva tovaglia, secondo la vecchia moda delle colazioni alla
francese. Il vasto giardino circondava di un'atmosfera di pace quasi campagnola
quel salotto da pranzo, che il padrone di casa animava con la sua cordialità. Per chi
lo avesse osservato da vicino, l'ardore della sua allegria comunicativa contrastava
troppo con la nervosità delle sue pupille e la stanchezza della sua fisionomia. Ma
era sostenuto dall'orgoglio del suo onore da difendere, e, prevenendo egli stesso
ogni osservazione di questo genere, - egli che non aveva mai mentito, - diceva:
- «Avevo bisogno che Landri tornasse. Ecco la mia unica medicina, lo dissi anche a
Louvet quando appunto mi parlò di cure, a proposito di quelle due o tre vertigini di
cui vi dissi l'altro giorno, caro Charlus. Soltanto, mi pare che questo giovanotto non
sia abbastanza lieto di rivederci. Vedrete che rimpiangerà l'esercito!...»
E, per non apparire inferiore al tragico eroismo di quella commedia, Landri, al quale
venivano servite in quel momento delle uova alla Claviers, una delle mille e una
invenzioni del sapiente cuoco, disse, ridendo anche lui:
- «Non rimpiangerò di sicuro la cucina della mensa. E' vero che Lardin ha superato
sé medesimo per festeggiare la mia riforma.»
Intanto si portava la forchetta alle labbra con l'espressione deferente di un ghiotto
per il quale mangiare è cosa solenne, e si attirò questa esclamazione di Bressieux:
- «Ne convenite dunque! La tavola è quella che inganna meno; e quando un
capolavoro di Lardin viene servito in uno chantilly di questa finezza,» soggiunse
accennando il suo piatto, senza che si potesse indovinare dal suo batter d'occhi se
cedeva al gusto per l'oggetto o se distillava una segreta ironia, «si può dire, a
dispetto della famosa sentenza, che si prova ancora la gioia di vivere!... »
VIII.
SOPRA UNA TRACCIA.
Landri aveva ben compreso: quelle frasi sfuggite al signor de Claviers e tosto
interrotte, quel «troppo, forse...» e quel «ma se fosse?...» significavano che,
almeno per un attimo, quell'uomo, per l'addietro estraneo a tutte le gretterie del
sospetto, aveva ammesso questa sinistra ipotesi: La signora Olier denunziatrice
della signora de Claviers. Idea folle perfino dal lato materiale! Come avrebbe potuto
Valentina procurarsi quel biglietto? - E più folle ancora dal lato morale. Quell'idea
attribuiva gratuitamente ad una giovane, senza il minimo indizio, il più vile calcolo:
separare per sempre Landri da colui che lo aveva creduto suo figlio. E a quale
scopo? Per sposarlo più liberamente?.. Ipotesi insostenibile. Oh, come la ferita
doveva essere stata profonda perché il magnanimo gran signore fosse giunto, e
così presto, a tali mutamenti nel suo carattere! Uscendo dal palazzo di via del
Faubourg-Saint-Honoré, alla fine di quella colazione che gli lasciava l'impressione di
un incubo vissuto, Landri si ricordava queste parole fra le tante altre, e la
insinuazione insultante per la sua Valentina. Egli non vi trovava che una ragione di
più per desiderare di sapere chi aveva commesso quel doppio delitto nell'ordine
privato, impunibile per la legge, ma veramente feroce: il furto di una
corrispondenza, aggravato da siffatta denunzia. In quel colloquio di una tensione
quasi inumana, egli aveva veduto distintamente che soltanto siffatta scoperta
solleverebbe un poco l'angoscia che soffocava il marchese. Anch'egli comprendeva
quanto fosse necessaria la distruzione di quegli «altri documenti», come aveva
detto l'anonimo in uno stile da incartamento giudiziario freddamente crudele.
Quelle altre lettere serbate rimanevano come una minaccia troppo terribile per
l'onore della morta che il marito tradito voleva generosamente salvare. Il figlio
doveva dunque mettere tutto il suo amar proprio in quest'opera di salvataggio.
L'innamorato di Valentina aveva anche a cuore di non lasciar passare neppur
l'ombra del dubbio sulla donna che avrebbe sposata, e che il signor de Claviers non
conoscerebbe mai. La sola idea che egli avesse potuto pensar così di lei, sia pure in
un momento di sofferenza, bastava ad eccitare viepiù nel giovanotto il bisogno di
veder chiaro in quelle sozze tenebre. Ma qual traccia seguire, e dietro quali indizi?
Egli si faceva questa domanda, libero alfine da quella repressione contro natura alla
quale lo aveva condannato ­ condannandovisi anche lui per un punto d'onore
degno di altri tempi - l'uomo che egli aveva chiamato per tanto tempo «l'Emigrato».
Landri andava da Valentina per chiedere ai soavi occhi di lei; al suo caro sorriso,
alla sua amata presenza, la forza di sopportar questa prova, di cui egli non poteva
precisare la fine. L'avrebbe interrogata, come il signor de Claviers non aveva
temuto di consigliargli? Per saper che cosa? che i parenti di sere dati le avevano
detto del testamento di Jaubourg, e che essa ne aveva dedotto una conclusione
troppo evidente per una persona bene informata? E che lo fosse, Landri lo sapeva
fin troppo. Nelle lunghe meditazioni solitarie delle sue settimane di arresti a SaintMihiel, era pervenuto a ricostruire tutta la storia e a comprendere il motivo per cui i
Privat gli avevano sempre dimostrato una freddezza di cui egli si era accorto
solamente dopo. Sì, a che pro tentare di saperne di più? Se la lettera anonima
proveniva dai Privat, Valentina lo ignorava; e a che cosa gioverebbe iniziarla a simili
turpitudini? I veri innamorati hanno un rispetto, pieno di commozione e di estasi,
per quel fiore di delicatezza e d'illusione che è il fascino puro dell'anima femminile,
quando essa non è stata ferita troppo giovane dalle pungenti realtà della vita.
Questo solo sentimento avrebbe impedito a Landri d'interrogare la sua amica,
anche se egli non avesse provato come uno spasimo di orrore al pensiero di
accusare sua madre dinanzi a lei. Il silenzio è la pietosa carità del figlio al quale è
interdetta la venerazione. E poi, se anche avesse voluto parlare, la giovane gli
avrebbe fermato sulle labbra le parole oltraggiose. Appena ebbe varcato la soglia
del salottino di via di Monsieur, dov'ella lo aspettava, nello sguardo col quale lo
accolse, egli sentì anche in lei quel timore di una spiegazione troppo dolorosa.
Come poteva insozzare con una confidenza ripulsiva il gaudio del rivedersi,
trovandola così come la trovava, giovane, fine, bella, nella sua acconciatura sempre
nera, - ma nella quale s'indovinava già la prossima fine del lutto? Valentina aveva
un vestito di crespo della Cina e di trine, la cui morbidezza si addiceva alla grazia
piuttosto delicata di tutta la sua persona. Intorno al collo il tenue fulgore d'un filo di
perle; un mazzolino di violette le adornava il seno, e tra i soffici riccioli dei capelli
passava una legatura di tulle nero. La collana, i fiori, il visibile desiderio di piacere
che da va una freschezza di petalo di rosa alle sue guance delicate e aggiungeva
lucentezza ai suoi occhi e fascino al suo sorriso, segnavano il rinascimento della
donna. Essa aveva il figliuolo accanto a sé, e con mano febbrile gli accarezzava i
capelli, colar d'oro pallido come i suoi. Essa lo spinse dolcemente verso Landri,
quando questi entrò, come per dare un simbolo all'unione che sognava, in cui nulla
fosse sacrificato della felicità del figlio, in cui questi rimarrebbe sempre tra lei e il
suo nuovo padre, e frattanto diceva:
- «Dài un bacio al signor de Claviers, Lodovico, e digli che tu e la mamma avete
pregato tanto per lui, mentre era ingiustamente in prigione...»
- «E' vero,» disse il fanciullo, sono tanto contento che ne siate uscito. Non vi ci
metteranno più, vero?..» soggiunse, timoroso.
- «No,» rispose Landri, che accarezzò i riccioli biondi mentre la madre diceva:
- «Ti ho trattenuto qui solamente perché volevi vedere il signor de Claviers. Ora
che lo hai veduto, vai a fare le lezioni... Egli vi vuol bene,» soggiunse quando la
porta si fu richiusa dietro il bambino, e ciò mi è caro!...» Poi, prendendo la mano
del giovanotto tra le sue: «Sì, ho pregato tanto per voi, ma prima della prigione,
perché faceste quello che avete fatto, e di cui vado altera, altera!...» ripeté.
Quando lessi nei giornali il racconto dei fatti di Hugueville, fui tanto orgogliosa di
voi!...»
- «Ed io,» diss'egli, «provo tanta dolcezza nel trovarmi di nuovo qui!» Era vero che
l'affettuosa accoglienza di quella donna appassionatamente cara, dopo le scene
mortali della mattina, che tenevano dietro, anche quelle, a tante commozioni aspre,
corrosive, gli faceva l'effetto della frescura divina dell'oasi nell'intervallo di una
faticosa marcia sulla sabbia scottante del deserto; era una festa del cuore, quasi
troppo inebriante, fino a credere che il contrasto non fosse vero, che l'incanto fosse
un'illusione e stesse per svanire. «Sì,» soggiunse, «tanta dolcezza. Poiché, vedete,
non ho più altri che voi al mondo.. »
- «Avete parlato al signor de Claviers dei vostri propositi?» essa domandò. «Non mi
avete mai scritto nulla di questo.» Essa dava alla frase di Landri una sola parte del
suo senso, non volendo avere indovinato l'altra. Per quanto il suo intuito fosse
perspicace, non aveva ancora scoperto tutta la estensione del dramma in cui il suo
amico tanto amato si dibatteva. Aveva compreso che era figliuolo di Jaubourg e che
egli lo sapeva, ma ignorava che lo sapesse anche il marchese.
- «Gliene ho parlato.»
- «Ed ha rifiutato il suo consenso!»
«Sì.»
- «Landri,» diss'ella dopo un silenzio, «ora sapete che vi amo, e quanto. Allorché
risposi alla vostra domanda, cinque settimane or sono, lo feci senza illusioni. Ero
certa che il signor de Claviers non avrebbe approvato mai il nostro matrimonio. Non
ci badai, perché vidi, credetti di vedere che davvero voi non potevate più vivere
senza me, ed anche perché io vi amavo. Non cercate in quello che vi dico ciò che
non v'è. Vi amo sempre lo stesso. Io sono e sarò sempre pronta a darvi la mia vita.
Ma se voi doveste incontrare difficoltà troppo gravi o sostenere lotte troppo
penose, voglio che vi sappiate libero. Io vi aspetterò un anno, due anni, dieci anni
se occorre, venti, sempre...» Insistette: «sempre».
- «Dopo quello che ci siamo detti il signor de Claviers ed io,» rispose Landri, che vi
sposi o no, tutto è troncato tra noi.»
Valentina lo guardava, mentre egli pronunziava questa frase con un accento tanto
triste, che ella sussultò. Landri impallidì un poco, comprendendo che ella aveva
compreso, e, nel medesimo slancio di compassione dell'altra volta, ella lo attirò a
sé, stringendogli il braccio contro il proprio cuore con un gesto appassionato. E
tutta fremente:
- «Cercherò di scancellare anche questo,» disse. Fu lui, ora, che dovette far finta di
non aver capito tutto ciò che significava quella protesta d'amore, e soggiunse:
- «Non gli è bastato di rifiutare. Vuole che, una volta ammogliato, non resti più a
Parigi».
- «Ripeterò con Ruth» diss'ella: «dove andrete voi, andrò io, dove starete voi, starò
io».
- «Anche se vado via non solamente da Parigi, - ma fuori di Francia ?...»
- «Anche fuori di Francia.» Un piccolissimo segno rivelava l'eccesso della
commozione da cui era invasa: il punto centrale delle sue pupille si era dilatato
tanto, che i suoi occhi celesti apparivano quasi neri; e avvolgendo, accarezzando,
stringendo Landri con quel cupo sguardo appassionato, essa gli diceva: «Non
sapete quanta tenerezza ho accumulata per voi nel mio cuore durante questi tre
anni in cui, per non perdervi, vi ho tenuto celato tutto quello che sentivo. Il mio
amore si è tanto approfondito in me, che mi farebbe tremare, se voi non foste voi,
se io non fossi sicura che non vorrete mai altro se non il mio dovere, che non mi
chiederete mai di vivere in condizioni in cui mio figlio non fosse educato come deve
esserlo per rimanere, anche lontano dal proprio paese, un figlio della Francia.» Essa
ripeté: «Lontano dal proprio paese!...» E, timidamente: «Il signor de Claviers lo
esige davvero?...»
- «Egli non esige nulla,» rispose Landri.
- «Ma voi credete che questo sia il solo modo di riconciliarlo un poco con l'idea del
nostro matrimonio?» domandò Valentina; e siccome egli inclinava il capo: «Allora
non bisognerà esitare,» soggiunse. «Non sapete neppur voi quanto mi avete
insegnato ad amarlo pur senza conoscerlo, quanto gli sono riconoscente del potere
che ha avuto su voi, delle tracce della sua magnifica sensibilità che ritrovo nella
vostra. Quando vi risposi sì, quel giorno, ebbi tuttavia un rimorso di prendervi a
quel dovere e a quella tenerezza. Mi dite che non è così, che tutto è troncato tra lui
e voi. Questo mi toglie un rimorso, e tuttavia mi dà un gran dispiacere per voi.
Pensate almeno che separarsi non significa obliarsi. Si può conservare l'uno
dell'altro un'immagine alla quale non si ha nulla da rimproverare. lo vorrei che tra il
signor de Claviers e voi fosse così, e che, pensando a voi, egli sentisse che lo avete
amato, che lo amate sempre, come merita, e che tra voi due non si frappone che
una cosa: la Vita.»
Gli alberi dell'angusto giardino oltre la porta a vetri erano desolati come quelli i cui
rami si spogliavano oltre gli alti cristalli della sala da pranzo, in via del FaubourgSaint-Honoré. Il cielo plumbeo di quella giornata d'inverno era minaccioso. Le frasi
della giovane, poco approfondite, delicatamente incerte, affermavano per altro, col
solo riserbo del loro sottinteso, il medesimo orribile e indistruttibile fatto che dianzi
aveva tanto gravato sul cuore di Landri durante la dolorosa colazione di parata. Ma
Valentina aveva avuto di nuovo la doppia miracolosa vista dell'amore. Ella si era
rivolta in quel cuore malato al solo sentimento che potesse aiutarlo ad attraversare
il periodo straziante che precedeva la rottura ufficiale col marchese. Landri non
poteva attinger forza che dal desiderio ardente di provare a quell'uomo un affetto
che mai fu più vivo. A quella voce di amica pietosa e di tenera consigliera, l'anima
di Landri, che la tenerezza suggestionava tanto facilmente, era tornata a volere
davvero, e, lasciando la via di Monsieur, egli provava, nella sua disgrazia, quella
specie di calma interna che dà un proponimento saldissimo quando è fondato sopra
la coraggiosa accettazione delle più ostili circostanze e sui più profondi sentimenti
del nostro essere. Sì, per quanto crudele fosse la parte di dissimulazione impostagli
dal signor de Claviers, egli avrebbe la forza di sostenerla. Per quanto difficile fosse
la scoperta del delatore anonimo, egli vi si accanirebbe. Poteva ben offrire, a quella
nobile e grande vittima della menzogna dalla quale era nato, questa riparazione.
Gliela darebbe prima di partire, e forse un'altra ancora. Quando aveva parlato a
Valentina di quel proponimento di andare a stabilirsi molto lungi dalla Francia,
aveva detto uno dei suoi pensieri più costantemente accarezzati in quelle ultime
settimane, pensiero che aveva ritrovato in un certo sguardo del marchese. Aveva
intraveduto in un esilio all'ovest degli Stati Uniti, o meglio del Canadà, (sarebbe
sempre la patria) una possibilità di deporre, sottraendosi ai commenti, quel nome di
Claviers che non era suo. Con quale commozione l'aveva sentita rispondergli:
«Anche fuori di Francia!...» E questa certezza rafforzava il suo coraggio.
Ne ebbe bisogno, di questo rinforzo, per sopportare il pranzo della sera che
dovette fare al Circolo di via Scribe, a solo a solo col signor de Claviers. Questi gli
aveva fatto pervenire tale ordine, com'era convenuto, sotto forma di un semplice
biglietto in cui era tracciata soltanto una riga: «Alle otto, pranzo al Circolo.» Ne
ebbe bisogno, e anche più, l'indomani per accettare di sedersi alle dieci accanto al
marchese nel palco dell'Opéra, che era stato quello della signora de Claviers. Carlo
Jaubourg aveva passato là tante serate a contemplar la sua amante troneggiare in
tutto lo splendore della sua mondana regalità! V'era qualche cosa di quell'adulterio
che fluttuava nelle tappezzerie del palco, conservate per devozione dal castellano di
Grandchamp. E quanto coraggio gli occorse poi tutti i giorni seguenti, per figurare
di pasto in pasto, di ricevimento in ricevimento, accanto a quel compagno che
davanti ai testimoni lo trattava con la calda e ampia cordialità di prima! Poi, appena
salito nell'automobile per l'andata o per il ritorno, non più una parola, non più uno
sguardo; e sotto quella maschera solcata e invecchiata di ventiquattr'ore in
ventiquattr'ore v'era l'impronta dell'altero dolore che non si lagnerà né perdonerà
mai. Quante volte, durante quei ritorni, Landri fu tentato di domandargli: «Siete
contento di me?..» Contento? Non era una parola da dire tra loro!... Riuscirebbe
egli a dirne un'altra, a poter affermare: «Io so il nome di colui che scrisse la lettera
infame. Ecco qui gli altri documenti di cui vi aveva minacciato...»? Tra gl'istanti che
egli passava così, in quell'atteggiamento straziante di una simulazione condivisa
rispetto alla gente, e le ore che aveva preso la soave consuetudine di passare nel
pomeriggio presso la consolatrice di via di Monsieur, il suo unico pensiero era
questo: trovare una traccia e seguirla. Ma quale? Ma come?
- «Procediamo dai fatti positivi,» aveva detto fra sé fin dal primo giorno. Ora, quali
erano questi «fatti positivi»? Che l'invio della lettera della signora de Claviers al
marito di lei si collegava col testamento di Jaubourg. Che cosa aveva potuto
sperare il mandatario? Che il signor de Claviers rinunziasse a quel patrimonio. A chi
avrebbe profittato tale rinunzia? Agli eredi naturali. Era dunque logico di cercare da
quella parte, escludendo subito Privato Landri lo conosceva troppo per ammettere
un momento che quell'ufficiale, ricco di suo e anche da parte della moglie, avesse
commesso un'azione così vile. E poi, per chi? I Privat non avevano figliuoli. Alcune
indagini fatte precedentemente lo convinsero che anche gli altri tre eredi non erano
sospettabili. Uno era un ricco commerciante di via del Sentier, a Parigi; il secondo,
un proprietario di vigne considerevoli presso. Lectoure, donde i Jaubourg sono
originari; il terzo, un distinto magistrato che copriva l'ufficio di procuratore generale
in una delle corti d'appello del Nord. V'era un' intera lezione di filosofia sociale in
quel quadro di parentela di Carlo Jaubourg. Lui, era stato il borghese elegante che
passa per aristocratico. Aveva a sua insaputa soddisfatto, nella sua relazione con
una gran dama, quel bisogno di nobilitarsi che è l'istinto naturale, e, se ben diretto,
legittimo e utile, dei più ragguardevoli rappresentanti delle classi medie. Per Landri,
le condizioni dei parenti del morto rappresentavano semplicemente una garanzia
che nessuno di essi era il delatore cercato. Questi primi «fatti positivi» non
permettevano nessuna ipotesi. - Un altro «fatto positivo» era il furto di quella
lettera d'amore scritta dalla signora de Claviers. Una lettera viene rubata al
mittente o al destinatario. La marchesa era morta da quindici anni. Era possibile, sì,
che quella lettera fosse stata rubata quindici anni prima, e che il ladro fosse rimasto
tutto quel tempo senza servirsene, ma era molto improbabile.
Ora, quando si fa una ricerca di tal genere, è regola di ammettere l'improbabile
solamente dopo avere esaminato tutto ciò che è probabile. Ragionevolmente, si
doveva dunque ammettere che la lettera fosse stata presa a Jaubourg. Ma che
l'uomo prudente, attento, il quale aveva fatto tanto per celare la sua paternità, non
avesse distrutto pagine così terribilmente accusatrici, era una contraddizione!
Spiegabile, per altro, con la foga di un amore che doveva essere stato molto
grande. Non vi aveva egli forse dedicato tutta la sua vita? Appunto perché sapeva il
pericolo di conservare tale corrispondenza, l'amante della signora de Claviers
avrebbe dovuto moltiplicare le precauzioni. Quella lettera, e le altre di cui parlava
l'anonimo, non potevano dunque essere state rubate che da persona iniziata a tutte
le sue consuetudini, e in un momento in cui egli non poteva sorvegliare. Il furto
doveva essere stato commesso o durante la malattia, o subito dopo la morte. Che
cosa significavano quelle parole: gli altri documenti»? Evidentemente alludevano al
resto della corrispondenza.
Ma perché aver mandato, e già da alcune settimane, quella sola lettera, senza
accompagnarla con una chiesta di denaro? Era un enigma; il quale però non
impediva il «fatto positivo» di esistere. Questo fatto esigeva che un'inchiesta ben
condotta cominciasse da un colloquio con Giuseppe, il servitore di fiducia di cui
Jaubourg aveva detto nella sua agonia: «Puoi crederlo, lui. Egli è fidato, molto
fidato.» Landri non lo aveva mal più riveduto da quando, nella camera del morto, il
marchese, inginocchiato, pregava a piè del letto. Egli rivide col pensiero l'uomo in
cravatta bianca, che si occupava degli ultimi preparativi, quella faccia impassibile di
testimone prudente, di complice muto. Giuseppe era stato trent'anni al servizio del
suo padrone. Egli aveva certamente penetrato il mistero della relazione di Jaubourg
con la signora de Claviers; egli sapeva il segreto della nascita di Landri. Il
giovanotto si ricordava la singolarità del suo sguardo, quando si recò da lui, la
vigilia della morte, al castello di Grandchamp. E poi, il servitore non era forse lì, ad
aiutare il dottore Pietro Chaffin quando il malato proferiva nel delirio tante parole
crudelmente rivelatrici? Tale idea rendeva tanto penoso un abboccamento con
costui, che Landri dapprima indietreggiò.
- «E' una viltà,» disse subito fra sé. «Se non supero una sofferenza di questo
genere per lui, di che cosa sono capace?...»
Deliberato a questo interrogatorio, la più elementare abilità gl'imponeva di
procedervi di sorpresa. Egli ignorava un piccolo particolare che doveva facilitargli il
suo compito: il signor de Claviers aveva avuto orrore, come è facile immaginare, di
rimetter piede nell'appartamento di Jaubourg. Risoluto a rendere l'abominevole
eredità, e non volendo fare una vendita che avrebbe richiamato l'attenzione altrui,
aveva affidato la custodia del quartiere, fino a nuov'ordine, al vecchio
maggiordomo. Quando Landri andò in via Solferino per chieder l'indirizzo di questi,
il portiere rispose: Ma egli è su, signor conte,» e lo disse in modo tanto
meraviglialo, che provò al giovanotto quanto fosse delicato il passo a cui si
accingeva. Le minime imprudenze rischiavano di provocare una curiosità troppo
pericolosa. Perciò tutte le energie del suo essere erano tese a rendere la sua
fisionomia impenetrabile, mentre egli aspettava il maggiordomo nella biblioteca,
dove una vecchia, accorsa alla scampanellata, lo aveva introdotto. Era la «Sposa»
del «signor Giuseppe» che quando viveva Jaubourg disimpegnava nella casa
l'ufficio di guardaroba. I coniugi avevano una figlia, la signorina Amelia, che
l'indulgente padrone aveva concesso loro di tener seco. Come collegare all'idea di
una trama sì infamemente ordita il capo di quella famiglia di piccoli borghesi
assetati di rispettabilità? La signora di Giuseppe aveva una dignità da matrona, di
cui fece pompa nell'aprire le finestre, mentre spiegava il rumore di un pianoforte,
che era quello della signorina Amelia. Lo abbiamo portato qui,» diceva, perché non
lasciamo mai l'appartamento a cagione di tutti questi gingilli.» Il padre della
pianista sopraggiunse, mesto e deferente, premuroso e curioso. Il cambiamento del
signor de Claviers dopo la morte del suo padrone non era sfuggito a quel sagace
osservatore. Egli ne aveva indovinato la causa segreta, ma non riusciva a capire
quale indizio avesse improvvisamente illuminato una credulità ingannata per sì
lungo tempo. Quando si trovò in presenza di Landri, quel desiderio di sapere diè
alle sue pupille, di solito senza espressione, una tale acutezza che ripugnò al
giovanotto, sempre meno però d'una circostanza macabra e comica insieme:
Giuseppe era in lutto grave; egli indossava un vestito che era stato del suo
padrone. Le pieghe del giacchetto e dei calzoni, di taglio inglese come si addiceva
ad un uomo del genere di Jaubourg, avevano conservato le linee del corpo del
primo possessore, il carattere dei suoi movimenti. Questa evocazione era resa
ridicola dall'involontaria imitazione che il servitore faceva del padrone, il quale
aveva evidentemente esercitato su lui un ipnotismo. Egli era sincero nel
rimpiangerlo, e la sua voce manifestò un vero dolore quando disse a Landri:
- «Ah, signor conte, lo avevo detto, io, a vossignoria a Grandchamp, che il povero
signore non sarebbe andato avanti due giorni!... Che buon padrone!... Vossignoria
sa che ci ha lasciato, a mia moglie e a me, una rendita vitalizia di tremila franchi
l'anno, e una dote di diecimila franchi per Amelia. Potrò così ritirarmi in un piccolo
possesso che avevo già comprato al mio paese coi miei risparmi. La gente mi dice:
«Vivrete felicissimo, signor Giuseppe.» Ebbene! signor conte, non è vero; averlo
visto morire come l'ho visto io, mi amareggia ogni cosa.»
- «Giacché gli eravate affezionato,» rispose Landri, studiando, su quel volto invaso
dallo stupore, l'effetto delle sue parole, mi aiuterete in una indagine che, del resto,
riguarda anche voi. Sono sparite alcune carte, delle lettere alle quali il signor
Jaubourg dava una grande importanza. Intendiamoci, Giuseppe, io non vi accuso.
Sono venuto soltanto a domandarvi: «È possibile che qualcuno sia entrato in casa
mentre il signor Jaubourg era malato, ed abbia preso queste carte?..»
- «No, signor conte», rispose vivamente il servitore, «non è possibile.» Il lampo che
gli passò negli occhi rivelava uno spavento sincero. Non per sé aveva paura. Egli
non entrava affatto in quella faccenda. Ma chi, allora, come aveva detto gemendo il
signor de Claviers, chi?... E Giuseppe continuava: «Il padrone, per principio, non
serbava nessuna carta. Spesso gli ho sentito dire: «Dopo la mia morte, non
avranno bisogno di classificare nulla. Io distruggo tutto». Nondimeno aveva
conservato un pacchetto di lettere. Ecco come lo so. La mattina del giorno in cui mi
mandò a Grandchamp, era il lunedì, egli si sentiva malissimo. Volle che lo aiutassi
ad alzarsi, nonostante la proibizione del dottore. Aprì la cassaforte che aveva in
camera sua, e prese egli stesso due pacchi di carte che buttò sul fuoco. Non tornò
a letto finché non vide che erano ridotte in cenere. E siccome la chiave della
cassaforte la teneva! sempre seco...»
- «Ma nei giorni che precedettero. il lunedì, egli era a letto. La chiave dove la
teneva?…»
- «Nel mazzo delle chiavi, che stava nella cassetta del suo comodino.»
- «Non potrebbero essere entrati mentre egli sonnecchiava e voi non c'eravate?...»
- «Uno degli altri servitori, forse. Ma ne rispondo come di me medesimo. Li
sceglievo io.»
- «E il dottore»?, domandò Landri.
- «Il dottore Chaffin?» disse il maggiordomo. «Certo. Ma non crederei che avesse
fatto questo,» soggiunse, dopo alcuni, istanti di riflessione. «Se fosse suo padre,
non dico...»
- «Suo padre?» ripeté Landri. «Orsù, spiegate tutta la vostra idea.»
- «Non ho idee,» soggiunse Giuseppe, «ma so che il padrone non si fidava molto di
lui. »
- «E non è venuto durante la malattia?...»
- «Sì. Ora ricordo. Il sabato. Ma non vide il padrone, ed io ero al suo capezzale. Mi
fece chiamare per aver notizie recenti da portare al signor marchese.»
Dunque, l'immagine di Chaffin si trovava di nuovo collegata nel pensiero di Landri
alle scene misteriose che dovevano essere accadute intorno a quel letto di morte.
Chaffin si era aggirato intorno a quella camera di agonizzante, nelle ultime ore.
Chaffin era entrato in casa. Una volta sola, diceva il servitore. Che ne sapeva? Egli
stesso, nonostante le assidue cure che prodigava al moribondo, s'era pur
assentato! Chaffin poteva benissimo, avvertito della sua assenza, averne profittato
per entrare in camera con la complicità del dottore. Bastava che in quel momento il
malato avesse dormito; con l'aiuto della morfina, perché il furto delle lettere si
spiegasse. Non erano ancora scorsi dieci minuti da che il giovanotto aveva lasciato
Giuseppe, che la sua mente aveva già ricostruito i fatti in questa maniera. Siffatta
ricostruzione si appoggiava sopra una serie di supposizioni quasi fantastiche: - che
Chaffin conoscesse l'esistenza delle lettere della signora de Claviers, - che sapesse
dove Jaubourg le teneva chiuse, - che Pietro Chaffin fosse d'accordo col padre, che la cassaforte non avesse una serratura a combinazioni. Ma nulla pareva
fantastico a Landri dopo la terribile scena nella quale aveva saputo la verità sulla
propria nascita. Quando tutto ciò che forma certezza e fondamento in noi: tenero
affetto per la madre, deferente amore per il padre, orgoglio della nostra famiglia,
affermazione del nostro grado sociale, crolla ad un tratto, nessun annunzio di
qualsiasi avvenimento ci stupisce. Le cose più straordinarie ci sembrano inezie.
Cosicché, niuna di queste difficoltà lo fermava. Gli rimaneva per altro inesplicabile
l'interesse di Chaffin nel furto e nella conseguente denunzia. Poiché il suo antico
precettore aveva potuto commettere delle irregolarità nella gerenza del patrimonio
di un uomo come il marchese, egli lo giudicava uno scellerato capace delle peggiori
bassezze. Si ricordava del passo tentato l'ultima volta che egli si recò a
Grandchamp, e lo spiegava con uno dei suoi vili motivi: affrettare un disastro nel
quale le sue truffe passerebbero inosservate. Tutto ciò era vero i ma egli urtava
contro quest'altro fatto positivo», che la lettera denunzi atri ce, come aveva
affermato il signor de Claviers, era stata spedita molto prima che l'amministratore
disonesto venisse scacciato. Chaffin, mandandola, non aveva dunque potuto cedere
ad un desiderio di vendetta. Eppure non si agisce senza motivo, specialmente
quando l'azione avrà per conseguenza inevitabile la rovina totale di due vite.
Chaffin non aveva avuto nessun motivo, in quel momento, per commettere siffatta
infamia inutile e atroce. Bisognava cercare altrove.
- «Nessun motivo?» Si domandava il giovanotto qualche giorno dopo. Egli si era
esaurito in ipotesi e indagini, tutte più vane le une delle altre, fino a darsi il disturbo
di rintracciare e di avvicinare i diversi servitori che erano stati sotto Giuseppe, a
servizio del signor Jaubourg, per tornare ora all' ipotesi verso la quale, a dispetto di
tutte le obiezioni, lo attirava un invincibile istinto: «Io ignoro tutto di colui che
credevo di conoscere, e sul conto del quale m'ingannavo tanto. Non so neppure per
qual ragione è stato mandato via. Da chi posso informarmene? Da Métivier,
semplicemente. Del resto, avrò bisogno di lui per il mio matrimonio.» Landri e
Valentina ne avevano discusso quel giorno stesso la data. Fedeli al loro patto di
silenzio, né l'uno né l'altra avevano più parlato del signor de Claviers. Landri
continuava a non spiegare l'indugio delle denunzie che affretterebbero il desiderato
momento della loro unione; Valentina continuava a non interrogarlo. Egli prevedeva
tuttavia, da alcuni segni evidenti, - sguardi, accenti, gesti, - che anche l'eroico
marchese non sopporterebbe più a lungo le loro troppo dolorose relazioni, e
cominciava a fissare con la cara compagna della sua vita avvenire i particolari dei
loro proponimenti. In queste discussioni, Valentina si dimostrava come egli l'aveva
sempre conosciuta, finemente giudiziosa e di animo forte. L'idea di ritirarsi in un
vasto possesso si trasformava sempre più nel sogno dell'impresa di un «ranch »
all'Ovest del Canadà, al Manitoba o all'Alberta. Erano necessari grandi spostamenti
di fondi. Il motivo della visita a Métivier era dunque pronto. L'apprensione di
affrontare una persona perspicace è tanto crudele in certe crisi, che Landri andò più
volte in piazza della Maddalena senza poter salire nello studio. Finì, come accade
sempre agli immaginosi troppo sensibili, col trionfare di questa impressione
accorgendosi che era stata puramente suggestiva. Métivier lo accolse con la
semplicità di un notaro sopraccarico di lavoro, per il quale il pensare ad un cliente è
lo stesso che pensare ad atti ed a cifre. Della tragedia familiare in cui naufragavano
i Claviers-Grandchamp egli nulla supponeva. In compenso aveva sagacemente
sbrogliato tutto il filo della trama ordita da Chaffin e dai suoi complici, e quando,
dopo aver parlato di alcune formalità indispensabili alla sistemazione definitiva del
suo patrimonio materno, per giustificare la propria visita, Landri intavolò la
questione del suo antico precettore, Métivier esclamò:
- «Che cos'ha fatto? E semplicissimo. Egli si era messo d'accordo con le persone
dalle quali il signor marchese si faceva prestare del denaro, in modo di avere una
percentuale sui loro guadagni. Aspetto Altona proprio stamani. Se egli venisse
mentre siete qui voi, vedreste un bellissimo tipo dell'usuraio d'oggigiorno. E il
negoziante di antichità che vende un ritratto di Velasquez, un armadio di Baule, un
busto di Houdon per centomila franchi, per duecentomila franchi, e li ricompra per
cinquanta o sessanta. Il curioso è che i la vari di Velasquez, di Baule e di Houdon
sono autentici, e che, tenendoli, il cliente non farebbe un cattivo affare. Ciò
permette a messer Altona di spacciarsi come un collezionista, un dilettante, un
amatore d'arte. Questo individuo e la sua banda hanno saputo gl'impicci del signor
marchese de Claviers. Ci ho messo lo zampino anch'io. Avevo indicato al vostro
signor padre un certo Gruet, che credevo sicuro, e invece era di balla con loro! Essi
sapevano anche quello che. valevano. i tesori di Grandchamp. Ora vedete il colpo.
E' classico: spingere il marchese alla vendita accentrando i debiti. Chaffin doveva
avere la sua mediazione, trentamila, quarantamila, forse più. Egli aveva assunto
l'impegno di offrire al signor de Claviers quattro milioni in nome di Altana, per un
lotto catalogato nelle note del vostro libro di famiglia. Ed osò, infatti. Il signor
marchese è tanto buono, che mi diceva: «Egli ha creduto di rendermi un servigio.»,
Per fortuna gli furono aperti bene gli occhi, scoprendo le tracce di una più volgare
bricconata: due conti saldati due volte, per esempio: una volta al fornitore, e
un'altra a chi? Al signor Chaffin. Allora il signor de Claviers lo scacciò. Quando vi
scrissi che èra stato duro, Cauvet, l'avvocato che proposi per voi, non aveva ancora
trovato che uno solo di questi conti. lo dicevo fra me che pro­babilmente v'era un
errore. Si ha un bell'esser notari: si stenta a credere a certe commedie, e Chaffin
mi aveva finto a meravoglia quando lo interrogai, con la vostra lettera in mano!
Scacciarla così, equivaleva ad esporsi a non veder chiaro in molte cose. Infine,
trovo il bandolo della matassa. Come dico sempre a mio cugino Giacomo Molan,
l'autore drammatico, la vera commedia moderna si rappresenta qui da noi.»
- «Dunque,» interrogò Landri, dinanzi al quale Métivier aveva ricordato con
compiacenza una delle sue più brillanti parentele, quella di uno scrittore celebre del
quale era orgoglioso, dopo essersene alquanto vergognato per l'addietro, «voi
credete che Chaffin fosse interessato nel tiro Altona?»
- «Senza dubbio!» soggiunse il notaro. «Del resto,» uno dei suoi impiegati aveva
bussato alla porta e gli aveva consegnato un biglietto, «se mi permettete di farlo
passare, vedrete Altana in persona. E qui. Capirete l'individuo. Giudicherete se è
possibile che, volendo conseguire il fine, egli non accetti tutti i mezzi,» e facendo
con le dita il gesto di contar del denaro, «anche i più loschi.»
Landri non aveva bisogno di quell'incontro con l'antiquario strozzino per sapere a
che cosa attenersi circa il genere di trama ordita contro i quadri, gli arazzi, i mobili
del castello di Grandchamp. Anche, il ricordo del consiglio insinuatogli da Chaffin:
Richiedete il vostro patrimonio», doveva bastargli, senza quella visita a Métivier,
per comprendere che l'invio della lettera anonima fatto da quell'uomo poteva
spiegarsi semplicemente con un'idea di lucro. Nel momento in cui gli era piovuta
l'eredità di Jaubourg, il signor de Claviers era prigioniero del debito Altona, e non
ne sarebbe uscito che vendendo tutti i tesori del castello. Chaffin aveva avuto di
certo una delusione adeguata alla mediazione che perdeva. Egli conosceva il
carattere del suo padrone. Rivelargli la relazione di sua moglie col suo falso amico,
era rendergli inaccettabile quel denaro. Bastava che Chaffin avesse in mano le
lettere della signora de Claviers, e tutto si spiegava. Questa ricostruzione era meno
chimerica delle altre; ma su quante ipotesi si basava anche quella! Per un momento
parve a Landri certezza, salvo a respingerla, come la prima, nell'esaminarla.
Frattanto egli scambiava un saluto con messer Altona, - Come il notaro aveva
insolentemente chiamato il negoziante d'antichità. Bastava vederli, tutti e due uno
accanto all'altro, per comprendere che, dieci anni prima, egli lo avrebbe certamente
chiamato «ragazzo mio», e che, fra altri dieci anni, lo chiamerebbe «signor
barone». Altona aveva uno di quei volti esangui e appassiti una volta per sempre,
che non denunziano l'età. Era bruno, con baffi e pizzo tagliati in modo da dargli
l'aria d'uno di quei ritratti che rivendeva. I suoi occhi neri e vellutati, due macchie
su quel pallore, tradivano l'origine orientale, come pure lo strano miscuglio di
spigliatezza e di arroganza sparso su tutta la sua persona. Vestito troppo
accuratamente, con troppi gioielli, una raffinatezza esagerata, si capiva tuttavia che
un'ultima «inverniciatura» - parliamo il linguaggio dei truccatori al suo servizio ­ lo
ridurrebbe un' imitazione di gran signore riuscita passabilmente bene. Viceversa,
Métivier, quel notaro ragguardevole, stimato, sicuro del fatto suo, ma grasso, ma
grosso, reso apoplettico a cinquant'anni dall'occupazione sedentaria, dall'abuso
della tavola e,del sigaro, non sarebbe mai che un bravo borghese. Il caso che li
metteva insieme dinanzi all'erede di un grandissimo nome alla vigilia di scomparire,
faceva contenere nelle quattro pareti di quello studio ricoperto di carta Verde, un
vivace ristretto di storia contemporanea. Maxwell Altona - quantunque nato in
Germania aveva questo nome di battesimo inglese - non pareva punto turbato nel
trovarsi a faccia a faccia col figlio di un debitore che voleva strozzare, e quando
Métivier li ebbe nominati l'uno all'altro, egli disse placidamente, col suo più astuto
sguardo e il più incoraggiante sorriso:
- «Lietissimo dell'onore di esservi presentato, signor conte, tanto più che ho
seguito con vivo interessamento il vostro processo, ed ho molto ammirato il vostro
atto a Hugueville. Avete preso il congedo.» Qui il meteco si tradì con questo
germanismo. Chi è perfetto? «Ora vi occuperete senza dubbio del vostro bel
castello. Ne conosco le immense maraviglie...» A questo punto assunse una di
quelle espressioni d'indefinibile ironia che fluttuano talvolta sulle oscure facce di
questi mandragoloni internazionali. «Permettete ch'io vi proponga un'occasione
forse unica. Voi avete uno solo dei due arazzi di Gobelin dell'Ambasciata turca. E
l'entrata a Parigi, nel 1721, di Méhemet effendi, che doveva rallegrarsi col re della
sua incoronazione,» soggiunse, volgendosi a Métivier. Poi, tornando al possibile
acquirente: «So dov'è il secondo...»
- «Che tipo, eh?» diceva il notaro accompagnando Landri alla porta. «Gli è fallito un
affare, ne tenta subito un altro. Prima voleva svaligiarvi, ora vuoI darvi altra
mobilia. Affè mia, vi consiglio di veder l'arazzo. Sono sicuro che è vero. E la probità
di quel furfante: egli non inganna sulla merce. E Cauvet non avrà provvisione; ve lo
prometto.»
Una provvisione? Era possibile che Chaffin non avesse davvero esitato a
commettere il più orribile dei delitti privati, quella denunzia di una moglie morta al
marito, di un figlio illegittimo a un capo di famiglia, dopo tutti i benefizi ricevuti, e
solo per timore di perdere la sua «percentuale», come aveva detto Métivier, sui
quattro milioni? Era possibile? Comunque, l'obiezione formulata sul primo momento
dal signor de Claviers era caduta: il fatto che l'invio della lettera anonima avesse
preceduto il licenziamento di Chaffin non provava che costui non fosse colpevole. E
per incolparlo, quante inverosimiglianze, da capo! Prima di tutto, che egli fosse
stato in, possesso delle lettere della signora de Claviers! Ciò era inverosimile, sì, ma
non impossibile. Qui la complicità del figlio appariva di nuovo come condizione
necessaria. Tutte queste idee turbinavano nella mente di Landri, mentre tornava
dalla piazza della Maddalena, verso la via del Faubourg-Saint-Honoré. Esse si
fissarono subito in una risoluzione che lo fece dirigere bruscamente verso la piazza
della Concordia, poi, attraverso le Tuileries, verso la Senna; fu a Notre-Dame e
all'isola Saint­Louis. Quante volte aveva fatto quella strada, da bambino; per
andare, dalla casa paterna, al lungo Senna di Béthune, dove in quel tempo abitava
la famiglia Chaffin. Avendo accettato, lo ricordiamo, di abitare in casa dell'allievo, il
precettore lo conduceva spesso a passare alcune ore della domenica con i suoi, fra
la signora Chaffin, la loro figliuola Luisa e il loro figlio Pietro, a quel quarto piano dal
cui balcone si scorgeva lo stupendo orizzonte formato dalla Senna, l'abside di
Notre-Dame a destra, di faccia la cupola del Panteon e.quella del Val-da­Grace, a
sinistra i boschetti del Giardino delle Piante e la Salpètrière. Col tempo, gli Chaffin
erano scesi al terzo piano, poi al primo, senza lasciare il casamento che la vicinanza
dell'Hòtel­Dieu e del quartiere Latino rendeva comodo allo studente di medicina.
Luisa non si era maritata, e la signora Chaffin viveva ancora. Questi ricordi di una
vita apparentemente onesta protestavano nel cuore dell'antico allievo contro
l'oltraggiante indagine che si disponeva a fare. Egli andava a interrogare Pietro
Chaffin. Ma che? Il virtuoso abitante d'una vecchia casa di un lungo Senna
patriarcale aveva razzolato nel patrimonio del padrone. Vi fosse pure una
probabilità su mille, su diecimila, che egli avesse rubato egualmente le lettere della
signora de Claviers con la connivenza del figliuolo Pietro, tanto bastava perché
Landri cercasse a qualunque costo di saperlo.
- «Che cosa rischio?» diceva fra sé lungo il cammino. «Gli domando se, per quanto
egli sappia, nessuno entrò nella camera del malato tranne lui e i servitori. Se non vi
entrò nessuno, mi risponde no, semplicemente. Se vi entrò qualcuno, e se questi fu
suo padre, egli si turba. Basta un secondo, perché io lo veda. Questo sarà un
indizio sicuro, e allora agirò.»
Come? Con quali procedimenti? Egli non lo sapeva. Sapeva però che si avviava
verso un'altra prova, e che tutto il suo dolore delle scorse settimane si
rinnoverebbe nel rivedere il dottore per la prima volta dopo quel funesto martedì. Si
ricordava la fisionomia preoccupata che Pietro aveva nell'uscir dalla camera del
delirante, e l'insistenza con la quale aveva ripetuto: «E’ proprio pazzo.» Comunque,
essi erano sempre esposti ad incontrarsi. Se Landri voleva veramente rimanere
fedele al patto concluso col signor de Claviers e difendere la memoria di sua madre,
anche colpevole, contro quel testimone dell'agonia di Jaubourg, meglio era
rivederlo presto e comportarsi, rispetto a lui, come se il moribondo avesse fatto
davvero dei discorsi da pazzo, che non contavano. Vi era bensì una difficoltà di
altro genere. Pietro era figlio di un uomo che il marchese aveva mandato via per
indelicatezza. Sia pure. Ma Landri non gli faceva una visita personale. Egli andava a
chiedere un'informazione a un dottore che era stato pagato dal signor de Claviers,
poiché l'erede universale di Jaubourg aveva dovuto pagare tutti i debiti della
successione, compresa la nota delle spese occorse nell'ultima malattia. D'altra
parte, se Pietro non era complice di Chaffin, non sapeva certamente il motivo del
licenziamento del padre. Questi non lo aveva detto. In tal caso, l'indagine di Landri
non aveva nulla che potesse meravigliare il dottore. Nel caso contrario, perché aver
dei riguardi con una coppia di briganti?
Tutti i dolori hanno il proprio egoismo. Vi era un'altra ipotesi che il figlio della
signora de Claviers non vedeva: forse che Pietro Chaffin attraversava, dopo il
licenziamento del padre, una crisi eguale a quella che torturava il suo compagno
d'infanzia? Tra l'ignoranza e la complicità v'è posto per il dubbio. Diciamolo subito:
tale era il caso del dottore, impensierito fino allo spavento dal visibile cambiamento
osservato nel padre suo in quell'ultimo mese. Un pomeriggio di novembre Chaffin
era andato a casa tutto sconvolto. Egli aveva detto che il marchese lo prendeva per
il capro espiatorio delle sue pazzie; aveva imprecato contro l'ingratitudine di quel
gran signore al cui servizio aveva speso tutta la sua vita; aveva protestato che non
accetterebbe nulla, neppur la più modica pensione da quell'uomo; aveva, fin
proibito che pronunziassero il suo nome davanti a lui. Da allora, era in preda a una
malinconia le cui vere cause erano, da una parte, il terrore che suo figlio venisse a
sapere la vera causa delle sue disgrazie, da un'altra, il più violento, il più invincibile
rimorso. L'istinto di Landri aveva indovinato. Il delatore anonimo era lui. Esasperato
dal crollo improvviso delle sue speranze, quella perdita di una senseria che
completava la sua fortuna, e persuaso infatti che, appena avvertito, il signor de
Claviers rinunzierebbe alla eredità di Jaubourg, Chaffin era andato da Altona a
proporgli il mercato e chiedergli, non più l'uno, ma il due per cento dei quattro
milioni offerti per il lotto degli oggetti d'arte di Grandchamp. Egli s'impegnava, per
questa somma, a far tornare il marchese sulle trattative di vendita interrotte
improvvisamente dall'eredità. Altona, aveva accettato. Chaffin serbava una lettera
della signora de Claviers a Jaubourg, L'aveva aperta quand'era soltanto precettore,
circa diciotto anni fa. Trovatala fra la corrispondenza preparata sopra una tavola,
aveva ceduto alla curiosità di conoscere le vere relazioni intime dell'amico di casa,
con la marchesa. Era il momento in cui cominciava in lui il lavorio di corruzione a
cui abbiamo già accennato. Forse la scoperta dell'adulterio della madre del suo
allievo era stata il fermento più letale della sua decadenza morale. Egli non si era
servito di quel foglio, come avrebbe potuto fare, per imporre un ricatto fruttuoso:
non era ancora maturo per simile infamia. Nondimeno non aveva distrutto il
documento, per quella vaga attesa che è in tal uni caratteri, regolari nelle
apparenze ma corrotti nel fondo, la gestazione precedente il delitto. Egli l'aveva
anche completato, aggiungendovi - ed erano gli altri documenti» - tre biglietti di
Jaubourg, rubati, quelli, nello scrittoio della madre di Landri. I due amanti avevano,
in quel tempo, verificato con terrore la sparizione della lettera della signora de
Claviers. Avevano fatto, ciascuno per conto proprio, un'inchiesta segreta, e siccome
non era accaduto nulla di nulla, avevano attribuito la cosa a un disguido postale. La
marchesa non aveva notato il secondo furto, che l'avrebbe messa sulla traccia del
colpevole. Jaubourg aveva sempre dubitato di Chaffin. Era il senso del: «Chi è?»
pronunziato al suo letto di morte con tanta angoscia. Ecco chi era infatti l'antico
precettore: un malfattore cui non mancava che l'occasione tentatrice. L'attrattiva
dei quarantamila franchi era stata l'occasione. Aveva scritto egli stesso, con la sua
macchina da scrivere, quella lettera anonima, l'aveva messa in una busta con l'altra
lettera, la rivelatrice, e aveva spedito ogni cosa al marchese. Ma se un implacabile
desiderio di lucro, unito ad una crudele e bassa invidia verso il gran signore, lo
aveva spinto, in un'ora di smarrimento, a questa ignobile azione, fatto il colpo, la
sua coscienza di prima, quella del maestrucolo di virtù borghesi, era tornata a
parlare. Egli non poteva più scacciare questo incubo: il volto del signor de Claviers
come lo aveva veduto nei quindici giorni corsi tra il suo delitto e il suo
licenziamento, - così sciupato, così consumato dal dolore! La sua azione gli faceva
paura, tanto più che il risultato ambito - a qual prezzo! - non era raggiunto. Contro
ogni suo calcolo, il marchese continuava a pagare i debiti. Quadri, mobili, arazzi,
rimanevano a Grandchamp. Gli ottantamila franchi promessi da Altona non
sarebbero mai riscossi. Pochi sono gli scellerati che, dinanzi a un intrigo inutile,
conservano la placida filosofia dell'assassino leggendario, che trova un soldo solo in
tasca alla vittima e dice: «Cento di questi, fanno cinque franchi». La completa
inutilità della sua tremenda vigliaccheria non concedeva a Chaffin nemmeno lo
stordimento che gli avrebbe procurato il possesso di quel piccolo patrimonio il
quale, aggiunto al gruzzolo già accumulato, gli avrebbe costituito un ventimila
franchi di rendita. Tormentato dall'idea fissa, egli cominciava a presentare i sintomi
di quella vera psicosi acuta che crea, in un uomo di una certa educazione, il
rincrescimento continuo e dilaniante di una colpa irreparabile. Non poteva più
mangiare, né dormire, né leggere, né scrivere, né occuparsi, né star fermo.
Quell'eccitamento non era sfuggito allo sguardo del figlio. Il dottore aveva
cominciato, quasi automaticamente, ad osservare bene suo padre, ed aveva presto
notato che in lui quei fenomeni, così chiari per uno psichiatra, non derivavano da
nessun disordine fisico. La loro causa era tutta morale, - il dottore diceva cerebrale.
Sempre quasi automaticamente, egli aveva cercato questa causa.
Un indizio aveva svegliato il suo sospetto: gli era sembrato di osservare un certo
imbarazzo nei rapporti del professor Louvet con lui. Nella sua qualità di capo della
clinica, egli vedeva incessantemente il celebre maestro dell'Hòtel-Dieu. Gli pareva,
in quelle ultime settimane, che la stretta di mano del suo superiore fosse non dico
meno cordiale, ma meno espansiva, meno familiare, insomma che vi fosse «una
spina», ­ come avrebbero detto ambedue nel loro linguaggio di neurologi per
parlare di una lesione nella scorza cerebrale d'uno dei loro malati. - In qualsiasi
altra circostanza, Pietro non avrebbe certamente esitato d'interrogare il professore.
Non lo fece. Egli aveva riavvicinato questi due sintomi: cambiamento nei modi del
maestro a suo riguardo, cambiamento di suo padre. E ne aveva concluso, sempre
automaticamente, -una professione come la sua finisce col dare un metodo quasi
meccanico, un passo istintivo alla mente, - che il medesimo fatto ne era l'origine.
Quale fatto? La rottura di Chaffin col signor de Claviers, quel vecchio e
notevolissimo cliente del professore Louvet. Pietro conosceva bene il marchese, e,
se aveva contro lui l'antipatia di una specie contro un'altra, il suo fondo d'innata
giustizia lo costringeva a stimare le qualità di animo del gran signore. No, il
castellano di Grandchamp, che manteneva a sue spese delle trentine di vecchi
servitori, - anche due mesi fa l'amministratore se ne lagnava mentre era a tavola
con la famiglia, - non si era separato, senza gravi motivi, da un uomo che teneva in
casa sua da tanti anni. Quali motivi? Questa domanda perseguitava il dottore da
parecchi giorni con un'acuità tanto crescente, che gli era venuto il pensiero di
averne la risposta da Landri. Ne era stato impedito da varie ragioni. Ricordiamo che
le loro relazioni non erano mai state semplici. Era duro al plebeo di chiedere
all'uomo titolato se il proprio padre avesse commesso sbagli contro l'onore. Era
penoso anche al medico, che aveva sorpreso nel delirio di un'agonia il segreto di
una nascita colposa, di provocare, col figlio del cliente, un incontro sul quale
graverebbe questa impressione, tanto più che Pietro conosceva il testamento di
Jaubourg, e faceva al figlio dell'adulterio l'onore di pensare che l'accettazione di
quell'eredità del signor de Claviers gli fosse un supplizio. E’ facile dunque figurarsi
qual fosse la sua meravoglia quando, un pomeriggio, nella stanzetta ingombra di
fascicoli e di libri rilegati, dove studiava, gli fu consegnato dalla donna di servizio un
biglietto nel quale lesse: «Conte de Claviers-Grandchamp». La sorte, che ha certi
insegnamenti, metteva di fronte l'uno all'altro quei due uomini nati e cresciuti in
condizioni diverse, che subivano, all'insaputa l'uno dell'altro, quella medesima
universale prova della reversibilità, di cui un antico diceva un tempo: «Noi saremo
puniti o nella nostra persona o in quella dei nostri discendenti per gli errori che
avremo commessi in questo mondo». E’ il principio mistico e naturale, morale e
psicologico, che, rendendo solidali le persone di uno stesso sangue, fonda la
Famiglia e la Società. Il primo impulso di Pietro, tanto gli era insopportabile il
sentimento della possibile vergogna del padre, fu di rispondere: «Non ci sono»; il
secondo, di dire: «Fate entrare.» Appunto perché ignorava la vera ragione del
licenziamento dell'amministratore dei Claviers-Grandchamp, non voleva parere di
sottrarsi a un abboccamento col futuro capo di quella casa, e pensava:
- «Che cosa vuole da me? Viene per causa del testamento, senza dubbio. Mi
pregherà di non parlare di quello che ho udito e che ho potuto comprendere.
Costoro non capiscono che cos'è l'onore medico!... Che è mai, l'onore di un
borghese per un nobile?... Per un nobile»? - egli diè in una perfida risata. - «E per
un ufficiale d'idee quali quell'incompetente ha dimostrate nella sciocca faccenda
dell'inventario»!
Come si vede, il solito cattivo umore. era già tornato a quel giovanotto singolare
che la vita aveva sempre preso a rovescio, se così si può dire, per causa della sua
falsa condizione al margine d'una società dove egli non aveva mai avuto un posto
ben definito. Il risultato fu che, entrando in quella stanzetta il cui aspetto rivelava
un fervore professionale e intellettuale, Landri de Claviers incontrò, dietro gli
occhiali cerchiati d'oro del giovane scienziato, quello sguardo insospettito che gli
aveva sempre veduto. Con la barba rossa e la durezza dei suoi lineamenti, come
tagliati con l'ascia, che gli davano un tipo tartaro, il figlio di Chaffin aveva
effettivamente l'aria, in quel momento, di un pessimo uomo. Questa impressione
doveva dare, e diè infatti a Landri una durezza, quasi un'asprezza nel dire le prime
parole che stavano per trasformare subito quel colloquio in un breve e furioso
duello:
- «Non vi prenderò molto tempo,» cominciò, dopo che ebbero scambiato alcune
parole di cortesia. A cagione della loro antica intimità e della differenza della loro
rispettiva condizione, non sapevano mai come chiamarsi. Non si dicevano né
«signore» né il loro nome semplicemente. «Son venuto a compiere presso di voi
un'indagine delicatissima. Non vengo a fare una domanda all'uomo privato, bensì al
dottore che curò il signor Jaubourg.» Egli ebbe la forza di pronunziare queste due
sillabe senza distogliere gli occhi dall'altro, che non poté fare a meno di corrugare
le sopracciglia arruffate e di avere le labbra contratte quando rispose:
- «Sono a vostra disposizione nei limiti in cui questa domanda non urterà contro il
mio dovere di medico. Ne abbiamo uno, di silenzio assoluto, che voialtri non
supponete nemmeno,» proseguì con un'amarezza singolare: «Nec visa, nec audita,
nec intellecta, (3) è la vecchia formula del giuramento ippocratico. Ed è sempre
vera.»
- «Si tratta di una cosa semplicissima,» disse Landri. «Voi non ignorate che il signor
de Claviers è l'erede del signor Jaubourg. Noi abbiamo la prova che, negli ultimi
giorni della sua malattia, alcune carte importanti sono state tolte di casa sua.
Ebbene, vorrei avere la vostra parola».
- «Che non le ho prese?...» interruppe vivamente il dottore. «Non mi dite che siete
venuto a domandarmi questo,» proseguì con un sussulto d'ira. «Io non ve lo
permetterei.»
- «Avreste potuto lasciar mi finire la frase,» rispose Landri, più calmo, ma a mala
pena. Siccome ignorava assolutamente di quale tragedia interna, e analoga alla
sua, purtroppo! Pietro Chaffin era vittima, non poteva spiegarsi quello scatto
dinanzi alla sola idea di un sospetto d'improbità. Egli non aveva detto nulla che lo
giustificasse, e, reso egli pure sensibilissimo da tante sofferenze, non poteva
sopportare una risposta fatta su quel tono. «Questa frase la ricomincio. Vorrei
avere la vostra parola, non già che non avete preso quelle carte, ma
semplicemente che nessuno, per quanto sappiate, entrò nella camera del signor
Jaubourg durante la sua malattia, all'infuori, s'intende, delle persone di servizio, del
professor Louvet e di voi. Mi pare che non vi sia nulla in questo che possa urtare la
vostra suscettibilità. Si tratta d'impedire che i sospetti possano deviare. Voi
dovreste essere il primo a desiderarlo.»
- «Io non ho da rispondere ad una domanda di questo genere,» disse Pietro, il
quale non vedeva dove andasse a parare il suo interlocutore. Era vero che non
avrebbe avuto il diritto di offendersi di quella domanda, se non fosse stata
formulata in termini troppo imperativamente inquisitori. La conclusione, più che
altro, lo aveva urtato. Ma siccome Landri aveva ostentato di parlare con un accento
moderatissimo, quasi cerimonioso nella sua aridità, il dottore volle opporre a quella
freddezza una egual freddezza. Sarebbe stato umiliato di mostrarsi meno padrone
dei suoi nervi del giovane nobile, ed anche meno cortese, e soggiunse: «Non
ammetto che la parte di un dottore sia di esercitare una sorveglianza se non quella
professionale. Oso affermare che curai come meglio potei il signor Jaubourg, ed è
quanto i suoi eredi avevano il diritto di chiedermi. »
- «Non si tratta di sorveglianza», replicò Landri. «Voi mi costringete a precisare le
mie domande. È colpa vostra. Non avete introdotto nessuna persona estranea in
camera del malato? poiché, infine, voi avete ricevuto delle visite; lo so da
Giuseppe.»
- «Io?» fece il dottore. «Nessuna, tranne quella di mio padre...» Appena ebbe
pronunziato questa parola, egli esclamò Ah!...» come chi capisce all'improvviso.
Rimase un istante in silenzio, poi, dominandosi: «Ebbene!» soggiunse, sporgendo il
busto e avvicinandosi all'altro, col volto contratto, la voce ansiosa: «Io vi
contenterò. Vi do la mia parola d'onore che non ho introdotto nessuno in camera
del signor Jaubourg, capite? la mia parola d'onore; ed è quella di un galantuomo,
capite ancora?.. E ciò mi dà il diritto di rivolgervi a mia volta una domanda. Avete
un bel chiamarvi conte de Claviers-Grandchamp ed io Pietro Chaffin semplicemente,
non siamo più sotto l'antico regime; e non mi risulta che voi abbiate il privilegio di
venir qui, con la vostra autorità privata, a interrogarmi come un giudice istruttore.
Mi avete detto che sono state rubate delle carte al signor Jaubourg e mi avete
domandato se la persona che. io avevo ricevuta era o no entrata nella camera dove
si trovavano quelle carte rubate, vale a dire che dubitavate che quella persona le
avesse rubate; e questa persona era mio padre. Ora io vi domando: «Sì o no, voi
dubitate di mio padre?»
- «Vi dirò, come avete detto voi poc'anzi, ch'io non ho da rispondere, non avendo
nominato nessuno,» rispose Landri. La sua irritazione cadeva dinanzi a un'evidenza:
quella, cioè, di trovarsi in faccia, effettivamente, un vero galantuomo. Lo aveva
sentito dall'energia con la quale Pietro affermava il suo onore, dalla ribellione di
tutto il suo essere, e più che altro da quel grido di sorpresa sdegnosa. Ed ora una
strana e mesta simpatia si commoveva nel suo cuore. L'accento col quale il figlio
aveva parlato del proprio padre si ripercoteva in lui profondamente. Era stato come
un'eco improvvisa del suo lamento interno. Egli si accorgeva con vero sgomento
che, recatosi lì per verificare un sospetto, la sua visita ne risvegliava un altro, non
in lui, ma nella persona stessa sulla quale aveva fatto assegnamento per scoprire la
verità; e non poteva più impedire questo risveglio.
- «Non rispondere, equivale a rispondere,» disse Pietro Chaffin. «Dunque, mancano
delle carte in casa del signor Jaubourg, dei valori senza dubbio, e voi, e il signor de
Claviers insieme con voi, mi figuro, accusate mio padre del furto?»
- «Non manca nessun valore,» rispose Landri, e vi ripeto che non accusiamo
nessuno.»
- «Se non sono valori, le carte scomparse, saranno lettere,» soggiunse il dottore.
«E perché si rubano delle lettere? Per rivenderle, minacciando di renderle
pubbliche, per fare un ricatto.» Le sue consuetudini d'induzione funzionavano di
nuovo, e, in quell'istante di suprema angoscia, utilizzava quello che sapeva per
indovinare il resto. Erano state rubate delle lettere. Quali lettere? Quelle che
riguardavano la nascita del figlio di Jaubourg e della signora de Claviers. Temevano
un ricatto. Quale ricatto? Quello che permetteva il testamento. E ad alta voce,
fattosi da interrogato interrogatore, o per meglio dire, supplicante, tanto il dottore
fremeva di ansietà rivolgendo quest'appello al suo compagno d'infanzia, disse:
«Dianzi vi ho dato la mia parola... ora datemi la vostra, anche voi, che non avete
creduto che mio padre fosse capace di ciò!... Non rispondete. Dunque lo avete
creduto. Eppure voi e il signor de Claviers non siete cattivi!... Lo avete creduto?
Perché? Bisogna ch'io lo sappia. Bisogna ch'io sappia tutto, tutto, tutto, e prima di
ogni altra cosa la vera ragione per cui mio padre e il signor de Claviers si sono
separati. Io sono un uomo, Landri, e mi rivolgo a un altr'uomo: qual'è stata questa
ragione? Ditemela...»
- «Sapete bene ch'io non c'ero,» rispose Landri. «Non ho saputo nulla di positivo.»
- «Avete, sì o no, sentito parlare d'indelicatezze?»
- «Ho sentito parlare di dissesti,» disse Landri. «Ma quello di cui vi do la mia parola,
è che questa faccenda delle carte di Jaubourg, per cui ho voluto avere la vostra
testimonianza, non ha nulla di comune con i motivi che hanno potuto indurre il
signor de Claviers a privarsi dei servigi del signor Chaffin.»
Egli capiva benissimo, dicendo questa frase senza chiarezza, che la sete di sapere
da cui l'altro era divorato richiedeva una risposta molto diversa. Questa risposta,
però, egli non poteva darla né in un senso né in un altro. Aveva troppo sofferto nel
sapere la colpa di sua madre, perché la sua bocca articolasse le parole che
avrebbero appreso ad un figlio il delitto del proprio padre. L'onore gl'impediva di
prodigare dinieghi; e poi, a che pro? Nel far quella indagine egli non aveva potuto
indovinare come in Pietro esistesse anteriormente uno stato torbido il quale aveva
dato subito a siffatta indagine un significato troppo chiaro. Il risultato
assolutamente inatteso del loro colloquio gli faceva provare quell'impressione di un
destino inevitabile che aveva sentita spesso, dopo la sua visita al letto di morte del
suo vero padre, e ne rimaneva annientato. Questa impressione era condivisa dal
medico, oppure il disgraziato aveva paura di saperne ancora? La palese volontà del
suo interlocutore di eludere una domanda così crudelmente esplicita pareva
l'avesse affranto. Egli non interrogava più. Dopo alcuni istanti di un penoso silenzio,
Landri si alzò. L'altro non cercò di trattenerlo, e i due giovanotti si separarono
dandosi la mano, senza osar quasi di guardarsi. Quella stessa impressione della
Necessità, di una trama di avvenimenti tessuta da una volontà più forte della sua,
perseguitò Landri tutta la sera, che per fortuna poté passar solo, poiché il signor de
Claviers era andato a Grandchamp. La ritrovò, quella impressione, al risveglio,
sempre perseguitato dall'immagine di quel giovanotto, col quale si era baloccato da
fanciullo, e che rivedeva, come lo aveva lasciato, immobile e pallido sotto la morsa
di quest'atroce idea: «Mio padre è un ladro.» Come a Saint-Mihiel aveva detto fra
sè: «Se il treno di Clermont fosse arrivato in ritardo?» ora si diceva: «Se Louvet
non lo avesse messo in via Solferino per essergli utile?... - Se suo padre non fosse
andato a trovarlo lì, passando forse per caso!...» Ma esiste il caso nel mondo? La
piccolezza degli avvenimenti che avevano determinato, per Pietro come per lui, un
dolore così grande, confondeva Landri, tanto più che questo dolore era meritato da chi? Da coloro che avevano dato loro la vita. La visione del comune disastro in
cui il figlio dell'amministratore infedele, e lui, il figlio della moglie adultera, si
trovavano coinvolti, raggiunse il terrore quando verso le nove e mezzo il suo
cameriere gli consegnò una lettera la cui sola calligrafia lo fece sussultare. Egli si
preparava a recarsi. di nuovo da Giuseppe. Dopo la visita nel lungo Senna di
Béthune egli aveva cambiato ipotesi. Voleva parlare con i servi tori circa coloro che
Jaubourg frequentava singolarmente, ricordandosi le parole del signor de Claviers:
«V'è forse qualche cosa del Circolo...» Si vede che egli aveva affatto rinunziato ad
incolpare Chaffin. Ora quella lettera era proprio di Chaffin. Il cuore del giovanotto
batté strappando la busta, e ancor più leggendo queste righe: «Landri, il vostro
vecchio maestro vi supplica, in nome del passato,» di riceverlo subito. Vuol
chiedervi un servigio che gli salverà più che la vita, e può rendervene uno che
cancellerà molte cose.»
- «Fate entrare il signor Chaffin...» disse al cameriere; e quasi di un sol fiato: «Il
signor marchese è tornato da Grandchamp?»
- «Stanotte, signor conte,» rispose il servitore. E mentre costui andava a prendere
l'amministratore scacciato per introdurlo, Landri diceva fra sé:
- «Rendermi un servigio?.. Se fosse davvero lui il colpevole?.. Se riportasse le altre
lettere?.. Se potessi averle, e darle a lui stamani; fra pochi momenti?..»
E il solo pensiero dello sguardo del signor de Claviers che lo ringraziava, gli
scaldava il cuore.
IX.
SEPARAZIONE.
Chaffin era molto preoccupato, molto ansioso mentre seguiva il cameriere che
doveva guidar lo presso Landri. Lo sarebbe stato ancora di più, se avesse guardato
attraverso i cristalli della lunga galleria. invetriata che circondava il cortile del
palazzo. Le sue gambe, già tremanti, non lo avrebbero condotto più innanzi, ed egli
non avrebbe certamente varcato la soglia della stanza dove lo aspettava il suo
antico allievo. Nel momento stesso in cui si avviava così verso un colloquio per lui di
un'importanza decisiva, il portone di via del Faubourg-Saint-Honoré, quello dal
quale entravano i pedoni, si apriva ad uno squillo impaziente di campanello, e
Pietro appariva. Che il dottore arrivasse così subito dopo suo padre, era una
minaccia da far fermare il sangue nelle vene dell'amministratore infedele, date le
circostanze in cui padre e figlio si erano lasciati. Bisogna riferirle per dimostrare per
quali semplici vie l'implacabile Fato, del quale Landri, dapprima inconscio, poi
spaventato, era stato l'artefice, continuava l'opera sua. Che cos'è dunque questa
necessità, se non la logica interiore della vita, riassunta profondamente nelle parole
del poeta: «Noi siamo padroni del nostro primo atto, ma siamo schiavi del
secondo.» Questa forza che trae seco tutte le conseguenze del delitto, non va
disgiunta dal delitto. Noi potremmo non commettere il delitto; ma una volta
commesso, esso ci tiene. Le nostre stesse precauzioni non servono che ad
affrettare il castigo. Ci deriva egualmente dalle nostre prudenze e dalle nostre
imprudenze, dalle persone che ci amano e da quelle che ci odiano, ed anche da
quelle alle quali siamo indifferenti, tanto le nostre colpe svolgono i loro effetti dietro
una regola matematica. La visita di Landri a Pietro Chaffin, il dì prima, era stata un
risultato naturalissimo delle indelicatezze praticate dal gerente del patrimonio dei
Claviers, e quella visita aveva prodotto quest'altro risultato non meno naturale: il
dottore aveva interrogato suo padre. Il colloquio era seguito quasi immediatamente
a quello dei due giovani.
Quando Chaffin era tornato a casa, mezz'ora dopo che Landri ne era uscito, suo
figlio era andato ad aprire.
- «Ti aspettavo,» gli aveva detto. «Andiamo nel mio studio. Voglio parlarti subito.»
- «Che cosa accade?» aveva domandato Chaffin. Nel dire queste parole il suo
sguardo esprimeva più terrore che meravoglia. Tale singolarità non era sfuggita a
Pietro. Egli aveva sentito anche come risuonasse falso il riso del nuovo arrivato nel
soggiungere, ridicola allusione alle opinioni molto avanzate che il dottore
professava: «Non si tratterà mica di un complotto anarchico, spero? poiché io, lo
sai, radicale fin che si vuole, proprietario sempre...»
- «Landri de Claviers è uscito or ora di qui,» aveva risposto Pietro senza badare a
quella facezia. Aveva richiuso la porta della stanza con precauzione, e parlava
sottovoce. Egli non voleva che la madre e la sorella, certamente intente a rivedere
il bucato della settimana in una stanza attigua, supponessero che suo padre e lui
erano chiusi insieme: «Sì,» ripeté, «Landri de Claviers...» E guardava fisso
l'amministratore scacciato. Egli tentava di afferrare, su quella fisionomia oscura, un
turbamento che non si manifestò. Il ladro tornava a padroneggiarsi, e osava
replicare:
- «Si sarà vergognato del modo col quale si son condotti col suo vecchio precettore.
lo non li confondo, il signor de Claviers e lui. Landri è debole, e non osa sfidare
apertamente i pregiudizi di un ambiente che nondimeno apprezza nel suo giusto
valore. Hai veduto la sua assurda condotta nella faccenda degl'inventari? Egli non è
credente, adora l'esercito, e si lascia metter fuori!... E' una testa meschina, ma un
eccellente ragazzo...»
- «Landri non è venuto affatto a scusare né sé medesimo né suo padre,» disse il
dottore.
«È venuto ad accusarci...»
- «Noi ?..» esclamò Chaffin. «Di che cosa, dimmelo?..» Nonostante la sua
padronanza di sé, questa frase diretta lo aveva fatto sussultare. Fra le varie e
assillanti ipotesi della sua immaginazione torturata dalla fobia, una lo tormentava
più di tutte, da qualche giorno: egli aveva composto il biglietto anonimo, lo
ricordiamo, con la sua macchina da scrivere. Diverse persone in casa de Claviers
sapevano che l'avesse. Lì per lì aveva detto fra sé: «Baie! ce ne sono centinaia di
altre in Parigi,» e aveva tirato avanti. Di poi, viveva nell'angoscia che un'indagine
menasse il marchese a verificare se i caratteri della lettera denunziatrice
corrispondessero esattamente a quelli della sua macchina. Questo timore era
stravagante. Con quale autorità il signor de Claviers avrebbe potuto esigere un tal
confronto? Ma l'idea fissa ha per proprietà di non discernere più il possibile
dall'impossibile. E poi, c'era Pietro. Essere colpito da una insinuazione di questo
genere nell'affetto e nella stima del proprio figliuolo, rappresentava per il padre un
castigo peggiore che un mandato di comparizione. L'accusa di Landri posava su
questo? Pretendevano una prova? Ma allora, che cosa significava quel «noi»?
- «Te lo dico subito,» aveva soggiunto il dottore. E aveva ripetuto parola per parola
il colloquio avuto con l'antico allievo del padre, per venire alla tremenda ultima
domanda formulata da lui: «Avete, sì o no, sentito parlare d'indelicatezze?» e alla
risposta equivoca di Landri: «Ho sentito parlare di dissesti.» Nel fare questo
racconto, che gli era penosissimo di riferire a quel modo, gli occhi di Pietro
continuavano a scrutare la faccia dell'agente così formalmente accusato. Dovevano
apparirvi delle vive impressioni anche se fosse stato innocente, anzi, specialmente
se fosse stato innocente. L'annunzio della visita di Landri, e in quelle condizioni,
non poteva lasciare indifferente un uomo di cuore. V'era motivo di ribellarsi,
affliggersi, sgomentarsi, indignarsi. Se Chaffin avesse preveduto quella spiegazione
con suo figlio, forse avrebbe avuto l'abilità di adottare, infatti, la commedia del
turbamento. Ma còlto all'improvviso, doveva istintivamente fingere l'assoluta
impassibilità. E’ la difesa meno pericolosa per un colpevole scoperto; non dà
elemento alla indagine, ma appunto per questo fa supporre che vi sia la
padronanza di sé nell'individuo, un assoluto riserbo, la possibilità di un segreto.
Pietro lo intuì tanto fortemente, che alla fine di questa dolorosa confidenza, o
meglio di quest'interrogatorio a mala pena velato, mandò un grido, vero appello
all'onore di quel padre che lo ascoltava senza che la sua faccia impassibile
permettesse di leggervi uno solo dei suoi pensieri:
- «E tu non scatti, vedendo come io, tuo figlio, sia giunto a tanto, che abbia potuto
fare una domanda simile a quell'uomo, e che lui abbia rifiutato di rispondermi?…
Pare che tu non ti accorga nemmeno ch' io attraverso un'ora tremenda della mia
vita!... Non mi dire che non entri per nulla nella sparizione delle carte del signor
Jaubourg. Lo so. Non mi dire che l'indagine di Landri è il risultato dello sgomento di
lui e di suo padre. Lo so. So un'altra cosa, e la so per l'esperienza di molti anni: il
signor de Claviers e Landri, con tutti i loro difetti, coi loro pregiudizi, le loro
sciocchezze, i loro lati ridicoli, sono persone onestissime, incapaci di fare,
volontariamente, torto a chicchessia. Se essi hanno dubitato così di te, è perché
hanno creduto di averne il diritto. Bisogna che tu e il marchese abbiate rotto le
vostre relazioni per un motivo che io non conosco. E voglio saperlo. Sì; perché il
signor de Claviers, al quale rincresce tanto, come spesso ti lagnavi, di mandar via i
suoi impiegati, si è separato da te bruscamente, brutalmente? Ah,» concluse con
accento straziante, «se il motivo fosse stato quello che tu ci avevi detto, Landri non
sarebbe venuto qui, non mi avrebbe mai lasciato in questa incertezza, dopo aver
veduto quanto soffrivo e quello che pensavo!... Mai!...»
- «Io vi ho detto quel che è, a te, a tua madre e alla tua sorella,» aveva risposto
Chaffin in un tono che questa volta simulava la collera. Ora non poteva assumere
che quell'atteggiamento; ma tra quello scoppio improvviso e la sua ritenutezza di
poco prima, il contrasto era troppo forte. I simulatori di sentimenti mancano
sempre di qualche sfumatura nella loro imitazione del vero. Essi esagerano i
sintomi, o li falsano. Come gl'impostori che simulano un attacco di epilessia e
cadono con le mani in avanti per non farsi del male. Il vero epilettico, che è come
precipitato nella sua caduta, non ha tempo di prendere questa precauzione.
L'errore, qui, era l'improvviso passaggio dalla freddezza calcolata all'estremo furore,
senza transazione. Come mai Pietro, già in guardia, non se ne sarebbe accorto?
Quella protesta, troppo sottolineata nel suo sussulto troppo brusco, non era
sincera. «Sì,» aveva insistito tuttavia il disonesto, «ve l'ho detto; e mi pare
impossibile che tu, mio figlio, prenda contro di me le parti di quei gran signori che
conosci soltanto per averne sentito parlare. Io li conosco, invece, per aver subito
tante umiliazioni che vi ho sempre nascoste. Se non siamo della loro casta, non si
vale nulla, per loro. Non ci farebbero un torto materiale, per orgoglio; ma ad altri
torti non badano. Mi aspettavo di meglio da Landri. Ma vedo che vale quanto suo
padre. Sono mancate alcune carte dalla casa del loro Jaubourg, dei titoli di rendita,
senza dubbio? E pensano che le abbiamo rubate noi, dico noi, tu ed io. Deduco io
forse da questo che essi abbiano da rimproverarti qualche indelicatezza? No. E tu,
sì, di me! Pare impossibile!... Ma l'indelicatezza è di venir qui a insultarti, e insultare
tuo padre! E tu hai ascoltato quel signore? E mentre con la sua stessa indagine ti
dava prova della sua assoluta mancanza di perspicacia, tu lo interrogavi sul conto
mio?... Quante volte dovrò ripetertelo: il signor de Claviers non mi ha mandato via;
sono venuto via spontaneamente, e per il motivo che Landri ha riconosciuto: il
marchese accusava dei dissesti nei miei conti, mentre non vi erano dissesti che
nelle sue spese; le quali sono state pazze. Quello che Landri non ti ha detto, è che
l'ho avvertito io della imminente rovina del marchese per salvargli il suo patrimonio.
Domandagli se è vero. Vedremo se oserà negare il colloquio che avemmo a
Grandchamp nel quale gli diedi informazioni esatte. Te lo giuro sulla testa di tua
madre e di tua sorella: se mi avesse dato retta, non avrebbe perduto un soldo. Ed
ecco come mi ricompensa. Ma Landri non è mio figlio, e tu, Pietro, sei stato troppo
ingiusto con me, e troppo ingrato. Io ho vissuto e lavorato per voi, per te
specialmente. Ho voluto risparmiarti le miserie della lotta per la vita, che alla tua
età m'impensierivano. Tu eri intelligente e studioso. Ti ho tenuto a casa, perché tu
potessi studiare con comodo, prepararti agli esami di professore aggregato, mentre
i tuoi compagni si arrabattavano con la clientela; e tu hai obliato tutti questi
sacrifici!... Ah, è troppo crudele!...»
- «Ma appunto perché vivo dei tuoi benefici,» aveva risposto il dottore con asprezza
feroce, «io non voglio sopportare certe idee. E ammettiamo pure,» aveva
continuato ancor più duramente, «che queste idee sia crudele di averle. Il fatto sta
che le ho! Vuoi che te ne dica il motivo? L'indagine di Landri non c'entra per nulla.
Il cambiamento osservato in te queste ultime settimane me le ha fatte nascere. Da
che sei venuto via da Grandchamp sembri un altro. Lo vedo coi miei occhi. Ti vedo
soffrire; dimagrisci; non mangi; non dormi. Tu hai un tormento che non puoi
nascondere; anch'io sto per averne uno, - lo sento crescere e invadermi, - quello
del sospetto. Non voglio saperne. Si arriverebbe a una pazzia. in due. Siamo più
orgogliosi. Un padre e un figliuolo non debbono parlare due volte di simili cose. V'è
un mezzo per finirla. Oggi è troppo tardi,» aveva soggiunto guardando l'orologio,
«ma domani, alle undici, uscendo dall'ospedale, verrò a prenderti. Andremo insieme
in via del Faubourg-Saint­Honoré e chiederemo di parlare al marchese. Tu gli dirai,
o io, se lo preferisci, gli dirò delle voci che corrono. Ed è vero: Louvet ha cambiato
modi con me, da che non sei più dai Claviers. Queste voci sono giunte fino a noi.
Perciò siamo a pregarlo di porvi un termine dichiarando pubblicamente, e davanti a
me prima di tutto, che non ha nulla da rimproverarti nella tua gestione che sia
contro l'onore. Esigerò che egli mi scriva questa dichiarazione.»
- «Non farò mai questo passo!» aveva esclamato Chaffin, mentre un vero spavento
gli dilatava le pupille, che già vedevano il signor de Claviers. «Non lo farò!... Tu
parli di orgoglio, e non capisci che mi proponi un'umiliazione indefinibile, peggiore
di tutte le altre!...»
- «Quale?» aveva soggiunto vivamente il figliuolo. «Quale umiliazione vi è nel
presentarsi dinanzi a chi non ha nulla da rimproverarci e da cui si richiede la
riparazione di un'ingiustizia involontaria? Sì o no, Louvet, io, ­ e chi sa quanti altri
che io non conosco! - abbiamo potuto ricevere una cattiva impressione del tuo
dissenso col signor de Claviers, ed é una ingiustizia se questo dissenso è un
capriccio di lui? Sì o no, egli stesso ne. è l'autore, per l'eccesso di malumore di cui
tu dici che ha dato prova?…»
- «Penseranno quello che vorranno,» aveva interrotto Chaffin. «Io non salirò quelle
scale. Non andrò in casa sua, no, non vi andrò.»
- «E sia;» aveva risposto Pietro, «allora vi andrò solo.»
- «Non mi farai quest'affronto!» aveva supplicato il padre. «Tu non andrai. Te lo
proibisco. Umiliarti, è lo stesso che umiliar me. Noi siamo solidali su questo punto.
Mi obbedirai.»
- «Appunto per questa solidarietà non ti obbedirò,» aveva saggi unto il figlio. «Il
tuo onore, è il mio onore. Voglio sapere che il denaro del quale vivo è puro.
Domani alle undici sarò là. Spero che ci sarai anche tu. Ma se non ci sarai, entrerò
solo. Nulla al mondo, capisci, nulla m'impedirà di avere questa spiegazione col
signor de Claviers, salvo che...»
- «Salvo che?...» aveva interrogato Chaffin ansante. «Finisci.»
- «Salvo che tu non mi dica che sei uscito da casa loro per una ragione diversa e
tale...»
- «Io non posso mica inventarne una,» aveva risposto il padre.
- «Allora, non comprendo le tue obiezioni contro un passo di cui io ho bisogno,
ripeto, per troncare uno stato d'animo che mi è insopportabile.»
- «Ebbene,» aveva detto Chaffin dopo un silenzio «fai pure questo passo, giacché
non credi più in tuo padre; ma ricordati che non te lo perdonerò mai.»
Inetto e goffo sforzo della dignità paterna, al quale era mancato l'accento, il gesto,
lo sguardo, insomma, quella inimitabile e irresistibile verità di cui il figlio aveva
bisogno, lo aveva detto, come del pane e dell'acqua, dell'aria e della luce! Il padre
vi aveva ricorso, tuttavia, con un tentativo disperato, per impedire quella visita il cui
annunzio gli aveva messo il fuoco nelle vene. Che serata e che notte aveva passato
sotto la minaccia di quell'ora che ogni momento si avvicinava, in cui il padrone
indegnamente tradito e il figlio idolatrato sarebbero uno di faccia all'altro! Pietro
non aveva pranzato a casa per non trovarsi col padre. Questi lo sentì tornare verso
mezzanotte, e al rumore di quel passo a lui noto gli era venuta la tentazione di
alzarsi, di correr da lui, di confessargli tutto. Ma no. La frase terribile di Pietro gli
risuonava ancora negli orecchi: «Voglio sapere che il denaro del quale vivo è puro.»
Come informare il giovanotto, tanto rigido nella probità, che quel denaro non era
puro, che il piccolo patrimonio in grazia del quale egli continuava liberamente i suoi
studi senza quasi esercitare la professione, era, in parte, rubato? poiché uno dei
motivi che avevano indotto Chaffin al ladrocinio era il desiderio appassionato di
assicurare l'indipendenza degli studi a quel figlio Pietro, per vendetta della sua
semiservitù. Aveva aspirato a vederlo medico degli ospedali, professore alla Facoltà,
membro dell'Accademia di medicina, forse anche dell' Istituto. Siffatta esaltazione
del suo amore paterno era dipesa, nel segretario del marchese de Claviers, dallo
stesso rancore del suo destino fallito che lo animava di un odio implacabile contro il
suo nobile e fastoso padrone. Il fatto che sentimenti buonissimi possano esistere
contemporaneamente in uno stesso cuore con altri perversi, e che azioni delittuose,
ispirate da questi, possano essere giustificate da quelli, è un fatto di osservazione
spicciola, sconvolgente quanto indiscutibile. Esso spiega perché i grandi legislatori, i
quali furono altrettanto grandi psicologi, si sono sempre sforzati di punire gli atti in
sé stessi, senza ammettere la ricerca delle intenzioni. La decadenza della giustizia
civica comincia da questa ricerca che, nelle società sane, spetta alla religione. La
Chiesa può ancora trovare ragioni di perdonare i suoi delitti a uno Chaffin, quando i
tribunali umani, colpiti del suo caso, non hanno che da infliggergli il bagno penale.
- «Se egli lo sapesse,» aveva pensato il padre colpevole, in quella veglia di agonia,
«mi lascerebbe. Se ne andrebbe di casa. Anche sua madre e sua sorella vorrebbero
saperlo. Esse indovinerebbero la verità. Bisogna che Pietro la ignori ad ogni costo.
Ma come?...»
Allora, in quella mente già esaurita dal tormento della coscienza, un'idea aveva
cominciato a ingigantire. Si era veduto, lui medesimo, andare verso le nove, mentre
suo figlio sarebbe all'ospedale, a gettarsi ai piedi del marchese, supplicarlo di non
perderlo agii occhi di Pietro.
Il signor de Claviers era generoso; avrebbe pietà di lui; prometterebbe di non
parlare, e non parlerebbe. Ma comparire dinanzi al marito della signora de Claviers
dopo avergli dato vilmente quel colpo infame del messaggio anonimo, sgomentava
il traditore, che non ne poteva sopportare neppure 1'idea. Vi era, nel contegno
serbato da quell'uomo altero, da che aveva ricevuto la lettera della moglie che
attestava la relazione di lei con Jaubourg e 1'illegittimità del figlio, un mistero di cui
Chaffin si spaventava. Egli ne intuiva abissi di sofferénza sui quali gli riuscirebbe
troppo spaventoso sporgersi. La visita di Landri a Pietro aveva accresciuto ancora
questo senso di enigma. La inchiesta delle carte rubate a Jaubourg dimostrava che
il giovanotto sapeva della lettera anonima. Il signor de Claviers gliel'aveva fatta
vedere? Perché? Appunto perché Landri procedesse a tale inchiesta. E a quale
scopo, se non quello di scoprire il possessore degli «altri documenti»? Chaffin
ricordava questi termini della sua lettera, scritta nello spasimo nervoso che gli dava
l'appagamento di un lungo odio. Vi aveva messo, per eccesso di crudeltà, la
minaccia di un ricatto che non aveva mai avuto intenzione di effettuare. A quel
ricordo era sorta in lui una seconda idea; poiché quella minaccia aveva prodotto
tale effetto nei due uomini, egli possedeva un mezzo sicuro per ottenere da essi la
promessa del silenzio con suo figlio. Il marchese aveva affidato a Landri la ricerca
di quelle carte; dunque bisognava rivolgersi a Landri. L'idea di quel colloquio
riusciva penosissima al precettore degradato; tuttavia, non così insopportabile
come l'altra. Ma Landri piegherebbe sotto quella pressione? Non risponderebbe
invece: «Mi minacciate di uno scandalo? Sia. Noi vi sporgeremo querela.» No, non
bisognava correre questo rischio. Chaffin confidava in un procedimento più sicuro.
Credeva di conoscere il suo allievo di tanti anni fa; lo considerava debolissimo, ma
conosceva anche la lealtà di lui, i grandi tocchi del suo carattere. Era meglio
affrontarlo semplicemente, dirgli: «Fui io che scrissi quella sciagurata denunzia in
un momento di pazzia. Me ne pento. Ho gli altri documenti. Eccoli. Ve li do. Vi
chiedo in cambio di ottenere dal signor de Claviers che non dica a Pietro le vere
cause per cui mi ha scacciato.» L'accettazione di quella restituzione costituirebbe
per la generosità del giovanotto il più sacro impegno. Le strane contraddizioni della
natura umana sono tali, che Chaffin aveva provato, nel figurarsi questa scena di
una confessione, sia pure interessata, un vero sollievo, quasi la calma della
riabilitazione. Egli parlerebbe, confesserebbe quel delitto che lo soffocava. Presa
tale determinazione, la fretta di eseguirla era stata così febbrile, che egli uscì di
casa prima delle nove, appena suo figlio era andato all'ospedale. Non aveva
calcolato che in Pietro accadeva un lavorio mentale eguale al suo. Il dottore aveva
detto fra sé, lasciando il padre: «Domani egli avrà riflettuto. Si risolverà a venire
con me dal signor de Claviers, se non c'è nulla. Se c'è qualche cosa, confesserà».
Vedendo che Chaffin, la mattina, non gli parlava, e ricordandosi l'ardore della sua
protesta il dì prima, aveva riflettuto: «Il babbo ha trovato un mezzo. Quale?.. Se è
colpevole, ve n'è uno solo: andar laggiù a mia insaputa per supplicare il marchese
di risparmiarlo presso di me. Ma è possibile?..» Il dottore era risoluto a tutto, ora,
per finirla con quella tortura di un sospetto che già passava, con suo grande
spavento, dall'intermittenza all'idea fissa. Egli temeva troppo quella monomania
così ben definita da uno dei suoi colleghi degli antichi tempi: animi angor in una
cogitatione defixus atque inhaerens. Perciò, invece di andare all'ospedale, si era
appostato all'angolo di via dei Deux-Ponts e del lungo Senna di Béthune, aveva
veduto suo padre uscire, spiare intorno a sé come chi teme di esser sorvegliato, poi
dirigersi, di un passo apparentemente indifferente, verso il ponte Sully, ed ivi salire
in vettura. Anche Pietro aveva preso la prima carrozza che passava. Aveva dato una
moneta da cinque lire al cocchiere, ingiungendogli di andare al più presto possibile
in via di Aguesseau, sull'angolo di via del Faubourg-Saint-Honoré. Vi era arrivato,
infatti, a tempo, per vedere il veicolo di Chaffin fermarsi davanti alla. porta del
palazzo Claviers. Aveva aspettato alcuni istanti per sonare anche lui e interrogare il
portiere.
- «Mio padre è già dal signor marchese?» - «No, signor dottore,» aveva risposto
costui, «il signor Chaffin è venuto a trovare il signor conte.»
- «Ebbene, fatemi il favore di chiedere al signor marchese se può ricevermi,» aveva
detto Pietro dopo un istante di esitazione. Nello sguardo del portiere gli era
sembrato di discernere il medesimo impaccio che nelle pupille del professor Louvet
in quegli ultimi tempi. S'ingannava di poco. Naturalmente il magnanimo signor de
Claviers non aveva confidato a nessuno di coloro che lo circondavano i suoi crucci
contro il segretario; ma i servitori conoscevano la sua perfetta bontà, e si erano
figurati il motivo del brusco licenziamento di Chaffin, tanto più che non ignoravano
il suo quotidiano ladrocinio. Ufficialmente non erano avvertiti. Pietro ne aveva una
prova: la porta di Landri non era chiusa a suo padre, ed anche lui era ammesso dal
signor de Claviers. Il portiere aveva parlato nel portavoce che collegava la
portineria al palazzo. La risposta era tornata, affermativa. La campana aveva
sonato, annunziando il visitatore, e il dottore veniva introdotto presso il marchese
cinque minuti dopo che la porta di Landri aveva lasciato passare la figura umile e
supplichevole di Chaffin.
- «Forse non c'è nulla,» diceva fra sé il dottore, «giacché ci ricevono tutt'e due. Se
così fosse? Che peso di meno avrei sul cuore!... Insomma, ora lo saprò.»
Il gran signore presso il quale il figlio dell'intendente infedele, dello scellerato
denunziatore, osava quel tragico passo, si trovava nella vasta e severa biblioteca
dov'era avvenuta, quattordici giorni prima, una spiegazione non meno tragica:
quella con Landri. Seduto alla scrivania, questa volta egli disimpegnava una
faccenda molto strana per chi non conosceva le segrete risoluzioni del suo
pensiero: finiva di trascrivere, su dei fogli volanti che portavano una numerazione
già elevata, l'inventario di tutti i tesori artistici conservati nel castello di
Grandchamp. Aveva proceduto metodicamente, stanza per stanza, e in quel
momento egli era, come lo indicava la riga scritta in capo alla pagina,
all'appartamento della defunta marchesa, che aveva serbato per l'ultimo. E’ facile
capirne la ragione. Quel lavoro, cominciato da varie settimane, volgeva al suo
termine. La calligrafia del vecchio gentiluomo aveva sempre somigliato a lui stesso:
larga, spigliata e chiara, con un'aria del «grand siècle ». (4) Tuttavia un tremito in
alcune lettere attestava quanto gli fosse costato tracciare le righe di quella pagina.
Una cartella aperta sul banco conteneva dei documenti giustificativi. V'era anche il
libro della Genealogia della casa de Claviers-Grandchamp, col segnalibro messo alla
famosa appendice N. 44, di cui Altona, in addietro, aveva preso visione per fare la
sua offerta. L'ultimo del sangue di quei magnifici Claviers compilava l'atto di morte
della sua casa, in una forma scelta da lui stesso. Anche quella mattina egli aveva
provato commozioni solenni, il cui riflesso rendeva ancora più imponente il suo
nobile volto. La sua antica cortesia lo fece alzare per ricevere il figlio del tristo
amministratore. Con un gesto gli accennò una seggiola, - senza stendergli la mano,
piccolo particolare che Pietro interpretò subito nel senso dei suoi sospetti: il
marchese puniva in lui le colpe del padre. Quella visita sorprendeva infatti il signor
de Claviers, e molto penosamente, ma per un motivo assai diverso da quello che il
giovanotto si figurava; Pietro era stato il dottore di Jaubourg, aveva assistito a
quell'agonia durante la quale il malato aveva senza dubbio parlato. Quantunque il
signor de Claviers ignorasse le dotte teorie degli psichiatri moderni sull'«ecmnesia»
e l'«onirismo», aveva veduto morire. Sapeva quali confessioni l'ardore della febbre
strappa talvolta a bocche fino allora mute. Egli si spiegava così quella dichiarazione
di paternità fatta a Landri. Pietro Chaffin aveva forse assistito alla «orribile scena»
di cui il giovanotto aveva parlato? Era questa la ragione per la quale l'eroico uomo
aveva acconsentito a riceverlo. Non voleva aver l'aria di temere quell'incontro.
Un'altra sfumatura colpiva il dottore: l'alterazione veramente prodigiosa di quella
potente fisionomia. Il signor de Claviers era invecchiato in quelle poche settimane
quanto il suo antico segretario. Ma il suo era l'invecchiare di un uomo consunto dal
dolore, senza un rimorso, la disperazione a ciglio asciutto di colui che non ha nulla
da rimproverarsi nella sofferenza di cui muore; mentre invece Chaffin aveva
mostrato al figlio la faccia dello sciagurato con lo sguardo velato e cupo, cagione
della propria sciagura. Questo confronto s'istituì spontaneo nella mente del dottore,
mentre diceva:
- «Scusate se vi disturbo così di buon'ora, signor marchese; ma sarà per breve
tempo.»
- «Il tempo vostro è prezioso, dottore, e non il mio,» rispose il signor de Claviers,
padronissimo di sé, ormai. Egli cercava d'indovinare il movente di quella visita
inattesa. «Non sarà stato contento dell'onorario stabilito da Métivier?!...» pensò; e
l'altro continuava:
- «Non tenterò di esser diplomatico con voi, signor marchese: non potrei, e so che
non vi garberebbe. Andrò diritto allo scopo. Ecco dunque in poche parole, e
semplicemente, il motivo della mia visita. Voi avete mandato via mio padre dopo
averlo tenuto più di quindici anni al vostro servizio. Questa decisione è stata
brusca, e ha dato luogo a delle chiacchiere. Ho avuto anch'io la stessa impressione,
perché non so come sono andate le cose. Mio padre ha rifiutato di spiegarsi con me
su questo, chiaramente. O per dir meglio, si è spiegato, sì, ma in termini che non
mi hanno soddisfatto, e sono venuto a dirvi, sapendo le vostre idee, e quanto
teniate alto lo spirito della famiglia: - Io non posso sopportare che su mio padre
gravino dei sospetti, e tanto meno che io stesso dubiti di lui. Se vi siete lasciati per
motivi che non ledono in nulla il suo onore, come credo, come voglio credere, vi
chiedo di dichiararlo pubblicamente in due o tre circostanze che facciano cessar le
chiacchiere, specialmente dinanzi al professor Louvet, mio maestro. Vi chiedo di
dichiararlo anche a me. Se, invece...» E con accento straziante: «Voglio saperlo.»
Il signor de Claviers aveva ascoltato il giovanotto con un'espressione ognor più
triste nelle sue pupille oscurate. La somiglianza era troppo evidente tra il dolore di
quel figlio che dubitava del proprio padre, e la sofferenza di cui aveva veduto
Landri affranto, in quello stesso posto, per causa della colpa di sua madre, ­ quel
Landri che egli continuava ad amar tanto, quantunque si proibisse di amarlo! Egli
era troppo assolutamente, troppo veramente religioso per non riconoscere una
giustizia superiore in quel castigo rimandato, come dice la Sacra Scrittura, alla
seconda generazione. Quella veduta del mondo morale rispondeva completamente
alla sua veduta del mondo sociale. Egli era troppo umano per non compiangere
quel giovanotto del quale seguiva, fin dall'infanzia, la vita laboriosa e retta. D'altra
parte il suo sdegno contro Chaffin era troppo recente, troppo meritato. - E ignorava
l'infamia suprema del miserabile! - Egli non poteva conferirgli quel diploma di
onorabilità che il figlio esigeva. E poi, odiava la menzogna. Questi diversi sentimenti
passarono nella risposta che dette dopo aver impiegato a riflettere un tempo che
parve lungo al suo interlocutore.
- «Pietro,» disse finalmente, chiamandolo nel modo familiare che aveva avuto per
l'addietro con lui, «datemi la mano.» E accompagnava il gesto alla parola. «Voi
siete uh bravissimo uomo. L'ho sempre saputo, e l’ho sentito più profondamente
che mai mentre parlavate. Ma appunto perché siete un bravissimo uomo, come non
comprendete l'enormità del passo che fate presso di me? E dite che sapete le mie
idee? Orsù, mio caro, un figlio non giudica il proprio padre, non istituisce
un'inchiesta sul suo conto. Io non mi unirò, rispondendovi, a quello che considero
dal canto vostro come un deplorevole errore, un'aberrazione mentale. Se io avessi
parlato a qualcuno delle ragioni che ebbi per privarmi dei servigi del vostro signor
padre, ammetterei, a rigore, che veniste a chiedermi di spiegarmi circa i miei
discorsi. Ma non ne ho fatto parola. Il vostro signor padre mi ha lasciato perché
curava male i miei interessi. Ecco tutto. Ed è tutto quello che ho detto e che dirò di
lui, a voi come agli altri.» - «Curar male gl'interessi ha due significati, signor
marchese,» soggiunse nervosamente il dottore; e, dietro la protesta del signor de
Claviers: «Insisto, perché voi stesso me ne avete riconosciuto il diritto. Sì. Avete
detto che ammettereste la mia domanda se aveste parlato a qualcuno. Intendevate
con questo: a qualcuno di estraneo. Dimenticavate vostro figlio. Il signor conte de
Claviers venne da me, ieri, nel pomeriggio, a interrogarmi, in suo nome e nel
vostro, circa certe carte che sono state rubate, a quanto pare, in casa del signor
Carlo Jaubourg. Egli accusava mio padre di questo furto, con la mia complicità; ma
dovette persuadersi che s'ingannava. Nondimeno tale sospetto mi dava il diritto di
sapere a qual titolo egli avesse soltanto potuto concepirlo. Non poteva essere che
dietro ciò che voi gli avevate detto. Egli era agli arresti quando accadde la cosa, ed
ha opposto questo alibi alla mia investigazione. Non mi rimaneva che rivolgermi a
voi. Ripetetemi quello che gli avete detto di mio padre. E forse ingiusto di
chiedervelo?»
- «Mio figlio è un altro me stesso...» rispose il signor de Claviers. Nel sapere, in
modo ancor vago, la scena del giorno precedente tra i due giovanotti, era stato
tocco nel punto più doloroso della sua sensibilità. Per quali indizi Landri si era
indotto a provocare una spiegazione che rischiava di esser tanto pericolosa? Essa
poteva svegliare sospetti sull'importanza e sull'indole delle carte rubate in casa
Jaubourg. Per sostenere fino all'ultimo la sua parte di padre perfettamente
d'accordo con la propria creatura, il marchese non doveva fare alcuna domanda su
questo argomento, né sembrare di contraddire il giovanotto. Ma questa notizia lo
aveva tutto sconvolto, e con voce fremente insistette: «Non avrete, spero, la
pretesa che vi informi dei miei colloqui a quattr'occhi con Landri? Non avrete
neppur quella ch'io vi conduca dal mio nuovo amministratore, e vi inizi alle mie
entrate ed alle mie uscite? Badate, è appunto questo che vi permettete di
chiedermi! Ve ne scuso, a cagione del movente che vi spinge. Ma basta.» Si era
alzato, con le sopracciglia corrugate, lo sguardo altero, costringendo così il suo
interlocutore a fare altrettanto, e aveva premuto il campanello elettrico che aveva
sul banco. «Vi ho detto che il signor Chaffin ha curato male i miei interessi. In che
cosa? Come? Questo riguarda lui e me, noi due soli. Non vi dirò altro. Dunque è
inutile che prolunghiamo una discussione che non ha più senso. Voi avete i vostri
malati, ed io,» mostrava il banco, «debbo finire questo lavoro urgente. Garnier,»
soggiunse mentre il maggiordomo che aveva chiamato col campanello entrava nella
stanza, «accompagnate il signor Pietro Chaffin. Dottore, ho l'onore di salutarvi.»
- «No. Non resterò a questo punto,» diceva fra sé Pietro, obbedendo tuttavia alla
straordinaria autorità che emanava il gentiluomo quando era in certi stati
d'irritazione concentrata. E rivoltosi al servitore: «Debbo andare a prender mio
padre dal signor conte; mi fate il piacere di condurmici?…» Mentre si avviava,
dietro al maggiordomo, lungo la galleria a cristalli dove un quarto d'ora prima era
passato suo padre, un'altra persona si dirigeva, per un altro corridoio, che era
interno, verso quella stessa stanza dove Landri parlava con Chaffin. Era il marchese
de Claviers. Egli voleva sapere, e subito, le ragioni per cui Landri era andato al
lungo Senna di Béthune, e se finalmente il giovanotto intravedeva davvero un
mezzo di penetrare il mistero di quella denunzia anonima che da tanti giorni era
l'oggetto costante della sua ansietà. Cosicché si trovò a bussare ad una porta del
salottino da fumo del giovanotto, quasi nello stesso momento in cui Pietro entrava
dall'altra. Per poco quella doppia apparizione simultanea, che pareva premeditata,
non strappò un grido ai due che erano nella stanza, tra i quali si era svolta una
scena ancor più angosciosa di quella da cui uscivano il marchese e Pietro, e alla
quale il loro arrivo dava un terribile svolgimento. Nel momento stesso in cui
entrarono, Chaffin era seduto ad una scrivania; egli posava una penna con la quale
aveva finito di scrivere, sopra una busta posta davanti a lui, il seguente indirizzo:
«Al signor marchese de Claviers-Grandchamp.» Si alzava. La vista del figliuolo lo
fece ricadere sulla seggiola, e quella del marchese lo fece rialzar subito. Si
allontanò, indietreggiando, così sgomento dal terrore, che le gambe gli si
piegarono, e dovette appoggiarsi alla parete. Il signor de Claviers, meravigliato
della presenza del suo antico segretario e del dottore che aveva lasciato da poco,
guardò in faccia tutt'e due, ed anche Landri. Allora, rivoltosi a questi:
- «Debbo parlarti», gli disse, «quando avrai finito con questi signori...» In quel
momento vide la busta rimasta sulla scrivania, e leggendovi il suo nome, la prese e
l'aprì. Chaffin non aveva avuto il tempo di chiuderla, circostanza che rendeva più
evidente la eguaglianza tra quel momento ed un altro, quello in cui il marito tradito
aveva costretto il figlio adulterino a leggere la prova dell'onta comune. Codesta
busta conteneva, le tre lettere di Jaubourg alla signora de Claviers, già rubate dal
precettore, e, sopra un foglio staccato, queste poche righe, della sua calligrafia,
tracciate sotto la dettatura di Landri: «Lo sciagurato che, in un'ora di smarrimento,
mandò una lettera anonima al signor marchese de Claviers-Grandchamp, gli
restituisce gli altri documenti di cui parlava quella lettera, e, chiedendogli perdono,
si raccomanda alla sua generosità per non disonorarlo agli occhi del proprio figlio.»
Il marchese lesse questo biglietto. Riconobbe sugli altri fogli la calligrafia odiata
dell'amante di sua moglie, dell'amico traditore. Guardò Chaffin e disse: «Siete stato
voi, dunque?..» Poi fece due passi verso di lui con un viso così terribile, che il
disgraziato - meritava davvero questo nome, in quel momento! - cadde in ginocchio
esclamando: «Perdono»! Il dottore si era precipitato tra suo padre e il signor de
Claviers, che si fermò, lottando visibilmente contro sé stesso per non farsi giustizia
di sua mano. Alfine, additando la porta, comandò: «Uscite! Ma uscite dunque!...»
con un accento così minaccioso, che l'antico segretario si trascinò, sempre in
ginocchio, verso la porta. Le sue dita tremanti stentarono ad aprirla. Finalmente
fuggì, mentre Landri diceva a Pietro spaventato, e che ora non aveva più bisogno di
nessuno per sapere la verità sul padre suo:
- «Seguitelo. Non lo lasciate solo.»
- «Avete paura che si uccida?..» disse il signor de Claviers quando la porta si fu
richiusa dietro i due uomini. «Ve lo avrà dato ad intendere!» proseguì con un
amaro sorriso. «Non lui, ma suo figlio occorrerebbe sorvegliare. I codardi vivono.
Le persone animose sono quelle che pensano al suicidio davanti al disonore. E chi
non crede in Dio!... Per quel giovanotto, vorrei essermi dominato. Non ho potuto...
Ma no. E meglio così», soggiunse con una selvaggia energia nella quale ricompariva
il duro atavismo di una stirpe guerriera. «Abbiamo troppa paura di soffrire e di far
soffrire. Il dolore dei figli è il riscatto dei padri, in questo mondo e nell'altro.
Bisogna sapere espiare le colpe che non abbiamo commesse, poiché si usufruisce di
virtù che non abbiamo avute.» Aveva parlato come a sé medesimo, e pareva che
avesse dimenticato la presenza di Landri che, ora muto, stava a vederlo camminar
per la stanza. Il biglietto di Chaffin e le tre lettere di Jaubourg erano sempre sulla
scrivania dove egli le aveva posate, camminando, verso il traditore. Il giovanotto
temeva che all'uscire da quella meditazione appassionata, la vista di quei fogli
acuisse vie più la ferita che faceva sanguinare quel nobile cuore. Fu dunque
meravigliato della calma con la quale, tornato in sé e scorgendo infatti quelle carte,
il signor de Claviers gli disse, additandogliele: «Fate come l'altra volta.» E tornò a
camminare mentre le prove di quel terribile segreto si consumavano. Finalmente,
fermandosi davanti a Landri, gli disse:
- «Bene. Benissimo. Voi avete mantenuto la vostra promessa, e mi avete tolto un
peso orribile, Ora abbiamo il diritto di credere che tutte le lettere sono distrutte. Gli
Chaffin non parleranno: non possono parlare. L'onore è salvo per merito vostro.
Bene, lo ripeto, e ve ne ringrazio...»
- «Mi ringraziate?.. Ah, signore!... » rispose Landri; e soffocando dalla commozione:
«Se credete davvero che io abbia almeno tentato di soddisfarvi, permettetemi
d'implorare da voi una grazia, quella di affrettare la fine della penosa simulazione
d'intimità che voi mi avete imposta, e che avete avuto ragione di impormi. Questa
vita in società, in mezzo agl'indifferenti, con tutto ciò che ho qui», e si batté il
petto, «mi è troppo crudele. Non ne ho più la forza. Avete veduto che non mi ci
sono sottratto. Oso dire che nessuno avrà indovinato quello che ho sentito In
queste ultime settimane. Ma ora sono completamente esaurito. Non ne posso
più!...»
- «Ed io», disse il marchese, «credete forse che non sia fiaccato?... Avete ragione.
La prova ha durato abbastanza. Il mondo non potrà più supporre che ci siamo
separati con un pretesto. Il vostro matrimonio basterà per spiegare tutto. L'autore
di quell'infame lettera anonima è smascherato e disarmato. Non abbiamo più nulla
da temere. Possiamo finirla. Ecco dunque le mie volontà,» soggiunse dopo una
nuova pausa: «Mi scriverete una lettera ch'io possa mostrare. In quella mi
annunzierete la vostra intenzione di sposare, nonostante il mio divieto, la signora
Olier, e d'impiegare i mezzi legali che il Codice mette a vostra disposizione. Io li
ignoro. Voi li specificherete. Lascerete oggi stesso il palazzo, e mi farete sapere il
vostro indirizzo acciocché io possa, se vi fosse urgenza, comunicare con voi
speditamente. Non prevedo questo caso, però. Métìvier deve, per ordine mio, aver
realizzato il patrimonio che vi perviene da vostra madre. S'intende che vi sarà
aggiunta anche la parte da essa lasciatami per testamento. Vi chiedo di depositare,
fino a nuovo ordine, questo denaro alla Banca di Francia. Mi sarà così più facile di
versare a vostro conto, senza intermediari, un altro patrimonio che sapete e che
accettate. Ne avete preso l'impegno. Finalmente vi chiedo di non rimanere a Parigi,
almeno fino a quando io resterò in vita. E non sarà per molto tempo.»
- «Vi ripeterò quello che vi dissi il primo giorno,» rispose Landri: «non ho che da
obbedirvi. In quanto all'ultimo punto, mi propongo, non soltanto di non abitar più a
Parigi, ma di lasciare la Francia, di andare a intraprendere al Canadà una
speculazione agricola. Quando tornai da Saint-Mihiel mi diceste, ricordo le vostre
parole testuali: «Mi è orribile pensare che la famiglia che state per fondare porti il
nome della mia». Ciò non sarebbe meno orribile per me, sapendo ormai che questo
nome non è mio. In Francia non posso cambiare nome, senza che sia indagata la
causa di simile risoluzione. Espatriando, e per esercitare un mestiere nuovo in un
paese assolutamente nuovo, io sfuggirò a tutti i commenti. Mi propongo di
prendere uno dei nomi appartenuti alla famiglia di mia madre e che non è stato
ripreso da più di cent'anni. Voi parlavate dimezzi legali. Se ne esistono perché il
titolo di marchese de Claviers-Grandchamp passi, dopo di voi, a qualcuno dei vostri
giovani parenti, io mi ci presterò, sotto qualunque forma vorrete.»
- «Tu faresti questo?…» esclamò il signor de Claviers. Il tremito di una commozione
più forte di tutte le sue risoluzioni gli strozzava la voce in gola. «Tu cambieresti
nome?.. Ma lei, ma quella donna...»
- «La signora Olier?» interruppe Landri. «Le ho detto il mio proponimento, ed ella vi
si è sottomessa anticipatamente, senza chiedermi spiegazioni.»
- «Sì», soggiunse il marchese con una esaltazione crescente. «E’ la verità. E’ il
rimedio...» Di nuovo, non poteva più dominarsi e le parole gli sfuggivano con i
pensieri: «Lo avevo veduto subito. Ma non potevo proporlo io. Adottare un altro
figlio? che non sia te? Mai!... Ah!...» proseguì con passione, «posso dirti, come
quella vedova del medio evo: tu mi sei stato sottratto. No, non avrò nessun altro
figlio. I Claviers-Grandchamp morranno in me. Io sarò stato l'ultimo del nome,
come sono l'ultimo della stirpe. E’ quello che essi avrebbero voluto, se avessero
potuto prevedere. La nostra casa finirà, come ha vissuto, nobilmente.
Cooperandovi, tu hai cancellato l'oltraggio. Per causa tua, posso perdonare.
Bisogna fare il nostro dovere fino in fondo,» riprese dopo un silenzio durante il
quale Landri aspettò, sperò un altra frase, un gesto, una stretta, un amplesso. Ma il
vecchio signore giudicava senza dubbio di aver parlato troppo, come pure senza
dubbio aveva paura di sé medesimo, di quell'ondata di tenerezza che gli scaturiva
dall'anima, sommergendo tutto. Sicché concluse bruscamente: «Andate al vostro
destino: io vado al mio. Addio.»
- «Addio...» rispose Landri. Il marchese esitò ancora un secondo. Aveva la mano
sulla maniglia dell'uscio. L'aprì e scomparve, senza essersi voltato. Camminava del
passo appesantito che aveva da che l'orribile scoperta lo colpì nella sua superba
vitalità, con la testa piegata, il dorso un po' curvo. Quando si trovò solo nella sua
biblioteca, il suo esaurimento era così completo, che si lasciò cadere sulla prima
poltrona a portata di mano, e rimase così, indefinitamente, a guardare che cosa?
un ritratto di Landri bambino, che aveva in quella stanza, da molti anni. Tutto un
passato di amore paterno palpitava nel suo cuore, ed egli pensava che in quello
stesso momento il giovanotto, oggetto della sua appassionata tenerezza, si
preparava a andarsene per sempre. Tuttavia quando uscì da quella feroce
immobilità non si avviò verso le stanze dove Landri era certamente ancora. No. Egli
riprese, sulla scrivania, il grosso volume dove aveva scritto la storia della famiglia.
Lo aprì alla pagina dell'albero genealogico. Dovette spiegare il foglio grande sul
quale erano scritti, gli uni accanto o sotto agli altri, più di duecento nomi. I due
primi in testa: «Goffredo e Aldo», portavano, al di sotto, questa data: 1060. Gli
occhi celesti del Goffredo IX del 1906 abbracciarono con uno sguardo ardente quel
quadro che era come il cimitero ideale di tutti i suoi morti. Quando richiuse il libro,
egli era calmo. La sua mano tracciò, senza il menomo tremito questa volta, le righe
di un biglietto che rappresentava senza dubbio un episodio decisivo in una
risoluzione incrollabile, poiché lo rilesse due volte prima di sigillarlo e farvi
1'indirizzo.
- «L'automobile è nel cortile?» domandò a Garnier, venuto ad una nuova chiamata
di campanello. «Che Augusto porti subito questo biglietto al signor conte de
Bressieux. Se il signor de Bressieux è in casa, lo conduca qui. Altrimenti, lasci il
biglietto.» E rimasto solo: «Se qualcuno può riafferrare l'affare della vendita della
mobilia di Grandchamp con Altona,» pensava, «è lui. Altona dava quattro milioni
solamente per gli oggetti enumerati alla tavola n. 44. Aggiungendovi il rimanente,
né darà anche cinque.» E riordinava le carte preparate sulla scrivania, le quali non
erano altro che un inventario fatto da lui di questo rimanente: le stoviglie antiche,
le porcellane di Sassonia, le armi, i libri, le statue del parco, tutta la mobilia privata,
i gioielli. «Quell'infame denaro sarà restituito. Intanto, aspettando Bressieux,
scriverò a Charlus per annunziargli il matrimonio. Povera Maria! Essa amava Landri.
E una fortuna però che egli non l'abbia corrisposta, perché avrei dovuto impedire
quell'unione. Ne avrei avuto la forza?.. Si ha la forza di tutta, quando si tratta
dell'onore del nome. E tutti i nomi si reggono. I Claviers non avrebbero fatto, per
mio mezzo, l'oltraggio agli Charlus di guastare il loro sangue.» La visione
improvvisamente evocata del tradimento gli rendeva la sua energia, ed egli
cominciò a scrivere al padre di Maria quella lettera che giustificherebbe, agli occhi
del mondo il corruccio col suo preteso figliuolo; e questo nuovo sussulto di
risentimento sospendeva, per un istante, il suo sgomento di quella separazione.
X.
EPILOGO.
Sui primi del mese di marzo dell'anno 1907, alcuni dei convitati che avevano preso
parte pochi mesi prima all'ultimo pranzo di caccia che dovesse mai dare il
castellano di Grandchamp, si trovavano riuniti, dopo colazione, in uno dei salottini
del palazzo Charlus. Erano Florimondo Charlus e sua figlia Maria, la quale aveva
fatto gli onori di quella colazione, in assenza di sua madre sempre sofferente, ai
coniugi Sicard e a Luigi de Bressieux. Al momento di servire il caffè, era giunto il
piccolo de Travers, l'amico troppo intimo della piccola signora de Sicard, e l'alter
ego del minuscolo marito di lei. Ci ricordiamo del perfido giuoco di parole sulla
figura e sul nome dei rappresentanti di quella «coppia in tre»: «i Tre Mezzi.»
Elzearo de Travers, col suo naso roseo al vento, i baffi biondi per aria, gli occhioni
celesti a fior di testa, rappresentava il perfetto tipo dello spacciatore di pettegolezzi,
che corre di circolo in circolo, di salotto in salotto, con un: «Sapete che c'è di
nuovo?...» seguito di solito dal più insignificante racconto. Quel pomeriggio non
aveva mancato alla sua consuetudine:
- «Indovinate chi incontrai ieri sera, sulle mosse di partire per l'Inghilterra, alla
stazione del Nord dove ero andato a accompagnare lady Semley, che mi pregò di
farvi i suoi saluti?» Si era voltato verso Simona de Sicard, che gli sorrise. «Goffredo
de Claviers, che va laggiù a comprare dei cavalli.»
- «Non è dunque abbastanza rovinato?» disse Sicard. «Si dice che dopo l'eredità di
Jaubourg, la Vendita dei quadri e dei mobili di Grandchamp, abbia ancora dieci
milioni da pagare.»
- «Voi lo dovete sapere, signor de Bressieux,» disse con insolenza Maria de Charlus,
rivolgendosi al sensale mondano che ella odiava ancor più. Nella sua qualità di figlia
d'un nobile, e molto altera del suo grado, essa aveva, nonostante tutto il suo
modernismo, una costante irritazione contro coloro della sua casta che derogavano
socialmente o moralmente, e poi, tutte le persone che da vicino o da lontano si
connettevano al recentissimo matrimonio di Landri con la signora Olier le erano
insoffribili. Ora correva la voce, giustificata del resto, che, senza la mediazione dello
scaltro signore della Roccantica, il marchese de Claviers non avrebbe potuto
restituire al figlio il patrimonio materno. Maria. ne deduceva, con l'immaginazione
calunniatrice di una rivale, che di certo, se quella restituzione fosse stata ritardata,
la intrigante borghese avrebbe voluto anch'ella ritardare la cerimonia fino al
completo regolamento dei conti. E pensava che Landri sarebbe stato illuminato da
quel brutto modo di procedere, e così quel matrimonio non sarebbe avvenuto insomma tutte le follie di una gelosia esasperata. Bressieux ne faceva le spese.
- «Io?» diss'egli senza arrabbiarsi. Non era suscettibile che in certe ore, e teneva
troppo dalla parte degli Charlus per non piegar bandiera. dinanzi alla spiritosa
Maria: «Infatti, ho avuto la fortuna d'impedire al buon Goffredo di esser troppo
derubato nella vendita delle maraviglie di Grandchamp. Seguendo i miei consigli, ha
avuto sei milioni di tutto. Maxwell Altona gliene offriva quattro; lui voleva chiederne
cinque.
Soltanto gli arazzi valevano più di un milione e ottocento mila franchi. Quei dieci
milioni di debiti sono una leggenda! Se volete che vi dica la mia opinione, egli ha
sistemato tutto, e gli rimane ancora più di ottantamila franchi di rendita. Certo, il
colpo è stato forte...»
- «Pare che Landri, consigliato da quella. donna, abbia richiesto perfino gl'interessi
degli interessi...» disse la signora Sicard.
- «Non crederò mai questo di lui!» esclamò vivamente Maria de Charlus. «In
quanto a lei, non ò di buona stampa davvero. Troverà difficoltà a farsi ricevere.»
- «Ma non tenterà nemmeno,» soggiunse Bressieux. «Goffredo mi ha annunziato
che gli sposi vanno a stabilirsi in America.»
- «Ah! Landri ci fa il tiro del ranch!» disse dando in una risata il piccolo Sicard. «La
conosciamo, questa. Fra un anno li vedrete tornare a Paris-les-Bains, dove si vive
così bene, anche con la Repubblica. Egli ci presenterà sua moglie, e noi la
riceveremo, e faremo bene. Per dirla schietta, quel buon Claviers non ha avuto un
briciolo di senso comune in tutta questa faccenda. No, via... non si vive contro
corrente a cotesto modo.»
- «Preferireste che vivesse contro il suo nome?» interruppe Charlus. Anche per lui il
matrimonio di Landri era stato una delusione troppo amara. «In parola d'onore,»
proseguì, «io mi meraviglio che la condotta di Claviers, giusta, savia, legittima,
abbia potuto incontrare delle critiche. E per giunta, fra nostri pari!... Ma tutto ormai
immiserisce. Andate a pranzo fuori, poco importa dove. Le persone d'oggigiorno
non sanno neppur più il posto che hanno a tavola. Claviers ha dato davvero con ciò
un magnifico esempio...»
- «Sono anch'io di questa opinione,» disse Bressieux. «Se non difendiamo i nostri
nomi, che cosa difenderemo?..» Poi, con la sua ironia rientrata: «Evidentemente
Goffredo guasta la piazza. Ma state tranquillo, Sicard. La borsa dei titoli non è
vicina ad esser chiusa, - neppur nella vostra felice Repubblica, per dire come avete
detto.»
- «Ciò non impedisce,» osservò Elzearo de Travers, venendo in aiuto del marito di
Simona, «che abbiamo perduto una bella cacciata. E quale cacciata! Come era
ordinata!... »
- «E che tavola!» disse Sicard.
- «Io,» insistette Simona, «sono tuttavia dalla parte degl'innamorati. Se fossi stata
il signor de Claviers, prima avrei brontolato un poco, e poi avrei dato una di quelle
feste come sapeva darle lui.»
- «Sentite, mia cara,» soggiunse Charlus esasperato, «quando voi e Giovanni
parlate così, io mi domando se non vi sarebbe da augurarsi un altro '93, per
rendervi a tutti i sentimenti di quello che siete e di quello che dovreste essere.»
- «Ah,» esclamò la signora Sicard ridendo, «siete come la nostra vecchia zia
Prosny, che tutte le sere vaticinava la ghigliottina!...»
- «Io so,» interruppe Maria de Charlus, «che tu le rispondevi: «Voi sperate la
nobile» ascesa, ma avrete il recinto!...» Recinto o ascesa, è sempre sangue che
scorre, e io do ragione al vecchio Claviers; cerchiamo che sia del sangue puro, e
quello dei suoi nipoti non sarà tale. Egli ha tentato tutto per impedirlo, e ha fatto
bene. La sua è nobiltà vera, e non accattata.»
Dopo questa conclusione dell'«aristocratica emancipata», la conversazione mutò,
poiché Bressieux, per tagliar corto a quei discorsi pericolosi, aveva domandato a
Simona: «Avete sentito il nuovo dramma al teatro dei Francesi?» Correva voce di
un progetto di matrimonio del fratello di Sicard con una signorina Mosè, e il
mordace individuo si pentiva quasi di aver ceduto al piacere di ficcare il suo dente
velenoso nell'amar proprio del più felice dei «Tre Mezzi». La senseria riscossa nel
secondo affare Altona - duecentomila franchi, poiché gli Chaffin dell'alta società
costano più caro degli altri, ­ lo aveva rimesso a galla per qualche tempo. Ma chi
sa? La futura coppia Sicard-Mosè avrebbe forse bisogno di consigli per metter su
casa!... Perciò volle rimediare, con la giovane signora, il torto che si era fatto
presso il marito col suo epigramma. Del resto, lo tentava senza brio. Per quanto ciò
possa sembrare contraddittorio, la disgrazia di Goffredo de Claviers lo rattristava, nonostante i duecentomila franchi guadagnati così presto. Egli li aveva avuti,
facendo effettivamente sborsare a messer Altona un milione di più. Poi, siccome
accanto all'antiquario v'era in lui un uomo di stirpe elevata, aveva ammirato il
contegno del castellano di Grandchamp in una sventura di cui egli era forse il solo
che potesse comprendere tutta la segreta estensione. Anche l'attacco diretto di
Giovanni de Sicard contro il cavalleresco marchese gli aveva strappato quella frase,
e mentre ora gli altri discutevano sugli attori di via di Richelieu, egli era col pensiero
altrove.
- «Claviers va in Inghilterra?» diceva fra sé. Per comprare dei cavalli?... Via! Avrà
voluto rivedere Landri un'altra volta. Quanto gli voleva bene!... Non mi leveranno
mai dalla testa che egli sia stato ben informato da quel Chaffin, a cui quest'infamia
non avrebbe portato fortuna, poiché so da Altona che ha avuto un attacco di
paralisi. Meno male! Altrimenti quel mariuolo avrebbe voluto una percentuale,
avendo avuto per primo l'idea dell'affare!... Il
Gli osservatori del tipo di Bressieux, questi negozianti mascherati, che hanno come
mezzo di guadagnarsi il pane - o di guadagnarsi il lusso - lo studio dei caratteri
delle loro vittime o dei loro concorrenti, possiedono veramente un dono
straordinario di diagnostica. Nello stesso momento in cui questi commenti, non
troppo profondi né troppo benevoli, non troppo insulsi e neppur troppo malevoli, una vera conversazione di amici d'alto grado, - si scambiavano in casa Charlus,
provando per lo meno come l'eroico contegno del marchese fosse ben riuscito,
un'altra scena, a molte leghe di distanza, segnava la vera conclusione di questa
storia. Siffatto svolgimento aveva per teatro - quale antitesi! - una camera di
albergo a Liverpool, in quella città delle rive della Mersey, l'enorme deposito del
commercio inglese, una delle estremità di un'immensa via piena di navi mercantili e
di velieri, il cui ultimo termine sarebbe Boston e Nuova York! Città di docks e di
stazioni, di fumo e di celerità, tutta ansante di UI lavoro mondiale, con le sue
costruzioni di mattoni e di pietre ineguali e caotiche, erette in fretta, sulle quali le
più belle giornate non spiegano che un cielo vagamente turchino, carico di vapori.
Ed era appunto un cielo scialbo che Landri e Valentina scorgevano dal largo
balcone a vetri d'un salottino privato dell'albergo dove erano scesi il giorno prima.
Aspettavano l'istante di recarsi nel battello che li condurrebbe in sei giorni a Nuova
York, donde si recherebbero a Montréal, quindi a Ottawa, per stabilirvisi. Il piccolo
Lodovico era voluto salire col suo precettore a bordo del bastimento, che i due
sposi - erano maritati da dieci giorni - potevano vedere ancorato alla sponda, a
pochi passi dall'albergo. Il mostruoso bastimento si chiamava la Cambria, il nome
latino del paese di Galles. Era di trentaduemilacinquecento tonnellate, aveva una
forza di settantamila cavalli, settecentonovanta piedi di lunghezza, ottantotto di
larghezza. Il suo corpo smisurato si ergeva cupo sull'acqua grigiastra del fiume
rigonfio dal fremito della area. Un palazzo galleggiante, forato da innumerevoli
finestre, e da cui uscivano i tubi di quattro enormi camini, staccava il suo candore
al di sopra della linea a fior d'acqua. Alcune locomotive fischiavano. Alcuni
carrozzoni di tranvai passavano lungo i loro fili elettrici, scricchiolando. Tra l'albergo
e la sponda i viaggiatori andavano avanti e indietro, dando ordini, sorvegliando i
loro bagagli, sollecitando i facchini. Valentina aveva mandato avanti la sua
cameriera, di modo che non rimaneva più neppure un involtino in quel salotto
vuoto, la cui mobilia di magogano cupo accentuava la mesta volgarità. Com'erano
lontani, ella dal piccolo santuario intimo di via di Monsieur, Landri dalle
magnificenze di Grandchamp e di via del Faubourg-Saint-Honoré! Quel contrasto
era l'immagine anticipata dell'esilio che Landri aveva voluto, e che ella aveva
accettato. La malinconia delle cose intorno a loro aumentava l'ambascia che
opprimeva il giovane. Egli pensava al signor de Claviers e diceva a sua moglie:
- «Vedi bene che non si è fatto vivo. Se avesse voluto scrivermi, mi avrebbe scritto
a Londra. Ha saputo tutte le mie tappe, giorno per giorno, ora per ora, e neppure
una parola, neppure un cenno per farmi intendere che mi serba un po' del suo
antico affetto!... »
- «Te lo serba tutto,» rispondeva Valentina. Essa aveva preso la mano del marito e
gliela stringeva soavemente come per trasfondere la pietà di cui era piena, in
quell'uomo al quale aveva dato tutta la sua vita. Ella lo vedeva sanguinare di una
ferita così profonda, anche nella sua felicità, che lo amava per questo di un amore
più profondo, più appassionato. «C'è un'ora e mezzo prima della partenza,»
soggiunse. «Aspettiamo.»
- «Aspettare?...» proseguì Landri. «Non faccio altro, da quel tremendo momento in
cui oltrepassò la porta senza guardarmi, senza voltarsi. Dovevo andare a cercarlo in
casa sua, tentare di rivederlo...»
- «Dio mio!» essa esclamò. Speriamo ch'io non ti abbia consigliato male
suggerendoti di scrivergli soltanto!... Ero tanto convinta che bisognava lasciarlo
tornare da sé!... Ma io spererò fino all'ultimo istante. Vedrai che avrai una lettera,
una parola, qualche cosa…»
Tacquero, attenti ai più lievi rumori della scala sulla quale risuonavano i passi
frettolosi dei locatari di quell'albergo, abitato a mo' di stazione tra un diretto
dell'Oceano, come la Cambria, e un treno battello, - uno speciale, come lo
chiamano in Inghilterra - che corrono incessantemente da Liverpool a Londra e da
Londra a Liverpool. A ciascun rumore, Landri provava un fremito che la mano di
Valentina calmava con una stretta più affettuosa. Il passante non si fermava
davanti alla porta, e le immagini di quei due mesi affluivano alla mente del giovane,
per raddoppiare in lui il bisogno di un altro addio dall'uomo che, mentalmente, egli
chiamava sempre suo padre. Si rivedeva all'uscire dal palazzo di via del FaubourgSaint­Honoré, dopo il loro ultimo e crudele colloquio, alla ricerca di un quartiere
mobiliato dove abitare per qualche settimana. Rievocava i giorni che erano seguiti,
e la sua strana vita a Parigi, quando si occupava dei preparativi del matrimonio e
della partenza, evitando le strade e le persone conosciute. Alcuni episodi si
staccavano più netti: - le visite di Métivier, una specialmente in cui il notaro,
guardandolo con i suoi occhi inquisitori nonostante la discrezione professionale, gli
aveva parlato della vendita di Grandchamp, - un incontro casuale con Pietro
Chaffin, in cui questi si voltò da un'altra parte, vittima innocente della vergogna
paterna, - un altro con Altana, in cui il futuro barone lo salutò con una scappellata
da gentiluomo a gentiluomo, familiare, quasi protettrice! Si rivedeva quando
ricevette una busta raccomandata con la calligrafia del marchese, nella quale si
trovava una ricevuta della somma di circa tre milioni versata a suo conto alla Banca
di Francia. Era il patrimonio di Jaubourg. E sentiva ancora il palpito di cuore che
aveva avuto per andare, dopo averci pensato molto, da un prete della chiesa di
Saint-François-Xavier, che era il confessore della signora Olier. Qual nuovo
contrasto con la mattina in cui, slanciandosi dall'automobile, saliva gli scalini di
quella stessa chiesa per sviare l'attenzione dello chauffeur! Questa volta vi entrava
turbato da preoccupazioni più gravi di quelle intese a proteggere il segreto delle
sue visite in via di Monsieur! Egli andava a pregare il sacerdote di essere suo
intermediario per un dono anonimo che voleva fare di quel denaro alla «Società di
soccorso ai feriti militari delle forze di terra e di mare». Quale orgoglio aveva avuto
e quale speranza quando aveva potuto, una settimana dopo, effettuato questo
difficile proponimento, mandare lui stesso al signor de Claviers, con una lettera
raccomandata come la sua, i documenti che provavano quel versamento! Quella
Croce Rossa Francese era pur sempre l'esercito. Che dispiacere che il marchese non
gli avesse risposto! Non aveva risposto neppure a un 'altra lettera con la quale
Landri gli annunziava il matrimonio e la data della sua partenza. E poi egli si
rivedeva anche, in una cappella di quella stessa chiesa di Saint­François-Xavier,
inginocchiato davanti all'altare con Valentina, non avendo a lato altro che i due
testimoni della giovane, parenti di lei venuti di provincia, e i suoi due testimoni: il
capitano Despois e il luogotenente Vigouroux. Si rivedeva finalmente mentre
scriveva al marchese de Claviers un'ultima lettera in cui gli comunicava i particolari
del suo viaggio, la data del suo arrivo a Londra, la durata del suo soggiorno colà,
l'indirizzo del suo albergo, la data del suo arrivo a Liverpool, l'indirizzo di quest'altro
albergo, il giorno e l'ora della partenza del battello, e gli diceva anche il nome
adottato, fra gli antichi titoli dei Candale: Saint-Clet. Quando aveva firmato così:
Signor de Saint-Clet e consorte, sul registro dell'albergo di Londra, per la prima
volta, quale singolare commozione aveva provata, mista di sollievo e di dolore! E
aveva pensato, sempre invaso dall' idea fissa di colui del quale per tanto tempo si
era creduto figliuolo: «La parola di addio rifiutata a Landri de Claviers che non era
un Claviers, non la rifiuterà all'altro, a Landri di Saint-Clet, che, da parte di madre,
è un vero Saint-Clet». Vano ragionamento! Quel supremo sacrificio non aveva vinto
l'inestinguibile rancore. E nell'eccesso di sofferenza cagionatogli da quel silenzio
ormai definitivo, Landri guardava Valentina, che guardava lui. Ella era esilissima,
giovanissima col suo vestito da viaggio. Quale dedizione si leggeva nelle sue pupille
profonde! La sua grazia fragile pareva chiedesse protezione! Attirandola a sé, egli la
baciò a lungo, sentendo che poteva ancora vivere tuttavia, per lei e con lei.
Singolare enigma della memoria! Mentre le sue labbra si appoggiavano su quelle
della cara sposa, si ricordò una frase pronunziata dal signor de Claviers su quegli
esiliati che se ne andavano dalla loro città, «recando seco i loro Dei». Egli riudiva
col pensiero la voce alta e chiara dell'Emigrato» che diceva queste parole nel suo
appartamento di Saint-Mihiel... A un tratto, ­ era illusione? - gli parve di udir
davvero quella voce che parlava nel corridoio.
- «Senti?» disse, stringendo il braccio di Valentina. Qualcuno viene... E lui!...»
- «È lui!» ripeté ella, ansiosa; e mentre bussavano: «Ti lascio solo... E' meglio...» E
dalla soglia della stanza attigua, voltandosi, con una mano sul cuore per
comprimerne i palpiti: «Te lo avevo detto, io, di sperare...»
Ella era appena uscita dalla stanza quando la porta si aprì, e, dietro a un cameriere
dell'albergo, comparve la figura del marchese de Claviers. Più invecchiato ancora in
quei due mesi, col volto più mesto, più rugoso, egli era più che mai il Signore,
l'uomo di un grande lignaggio, il quale, dovunque va, è un Padrone. Egli era molto
commosso, in quel momento in cui faceva un passo così apparentemente contrario
al suo recente contegno, e trovava il mezzo di conservare in tutta la sua persona
quella specie di bontà altera che gli era propria. Quando vide Landri, senza poter
proferir una parola gli stese le braccia. Il giovanotto rispose a quel gesto che
rivelava tanta tenerezza, e si abbracciarono entrambi, come se fossero sempre in
quelle ore in cui, attraversando insieme la foresta di Hez, si credevano dello stesso
sangue, i ram polli della stessa antica origine, padre e figlio che possono dissentire
nelle idee, ma che sono legati da una catena indissolubile come la loro propria
persona. Padre e figlio? Non avevano cessato di esserlo col cuore, e in quel
momento di slancio appassionato, dopo che, per tanti giorni, si erano nascosti il
loro scambievole affetto, essi non ascoltavano più altro che il cuore.
- «Ah,» diceva il signor de Claviers, tu non sei partito! Sono arrivato in tempo... No.
Non potevo lasciarti andar via così... Non potevo. Ti avevo scritto. Avevo preparato
un telegramma. Non ho mandato nulla. Avevo bisogno di vederti un'altra volta, di
udir la tua voce, di parlarti. Ho resistito fino all'ultimo. Sapevo che avrei sofferto
molto nel perderti di nuovo!... E poi, quando ho veduto avvicinare l'ora dell'ultimo
treno per l'Inghilterra, dopo il quale sarebbe stato troppo tardi, non ho resistito.
Sono passato dal tuo albergo a Londra, pensando che potevi aver ritardato la
partenza. Finalmente, eccomi, sono con te. Sei stato mirabile! Anche quest'ultima
azione, quel patrimonio che non hai voluto tenere!.. Ti avrò almeno ripetuto che ti
ringrazio. Ti avrò detto che non ho mai cessato di amarti...»
- «Io vi debbo ringraziare,» rispondeva Landri, di aver compreso l'appello delle mie
lettere. E' vero: era molto straziante andarmene così lontano senza avervi riveduto.
Avrei sopportato questa sofferenza come le altre, senza ribellarmi. Ma questa credo
che non l'avevo meritata. Vi ho sempre amato tanto, anch'io vi ho venerato
tanto...»
- «Tu non ne avevi meritata nessuna, delle sofferenze;» interruppe vivamente il
marchese. Poi, abbandonandosi sopra una poltrona, e in un atteggiamento di
sgomento infinito: «nessuna,» ripetè, «ed hai avuto il diritto di giudicarmi molto
crudele.»
- «Io?» esclamò il giovane. «Non lo dite. Non lo pensate.»
- «Lo penso,» rispose il signor de Claviers. «Ti sentii così infelice quando ci
separammo!.. Tu eri lì, lo vedevo, pieno di affetto per me, ansioso di una mia
parola. Non la dissi, perché, anch' io, comprendilo, ti volevo troppo bene. Se ti
avessi parlato allora, non avrei più avuto la forza di andare in fondo a quello che
dovevo. Bisognava che quel denaro fosse restituito. Bisognava vendere tutte le
reliquie di Grandchamp. Bisognava mettere, fra te e me, agli occhi del mondo,
l'irreparabile, senza che il mondo indovinasse nulla. Avevo bisogno di soffocare
questa paternità che non mi riesce di distruggere. La tua anima l'ho fatta io,
tuttavia!... Se non fossi stato l'erede dei Claviers-Grandchamp, il depositario del
nome, il rappresentante della stirpe, avrei taciuto, per amor tuo, quando ebbi
quella lettera anonima. Se fossi. stato solo in causa, avrei sopportato l'oltraggio, e
tu non avresti mai saputo che io lo sapevo. Per via di loro, della loro casa, ho
dovuto agire come ho agito. Ma ho potuto indovinare il tuo dolore dal mio. Io
avevo i miei morti per sostenermi, mentre tu...»
- «Io avevo voi», rispose Landri. «Avevo il vostro esempio. Voi dite che avete fatto
l'anima mia. E più vero di quanto sappiate; io stesso non mi conoscevo, non
sapevo, come l'ho saputo in questo dolore, fino a qual punto pensassi come voi
sulle cose profonde. Vi. ricordate di quel colloquio, dopo la cacciata, l'ultimo
pomeriggio intimo che passammo insieme, in cui mi parlavate di quei legami
indistruttibili, di quella infrangibile unità tra noi e coloro dai quali si discende? Ed io
discutevo con voi. Rivendicavo il diritto dell' individuo di vivere la propria vita, di
cercare la propria felicità. Ma quando seppi il segreto della mia nascita, sentii
quanto avevate ragione. Il vostro diritto di esigere da me, che tuttavia non ero
colpevole personalmente, una riparazione, mi apparve evidentissimo! Evidentissimo
anche il mio dovere di darvi questa soddisfazione, intera, completa, totale! Sentii
che il fondo del fondo dell'uomo è lì, in quella solidarietà tra il suo presente ed un
passato che era suo prima che egli stesso esistesse. Sentii quello che valeva la
nobiltà. Tutte le vostre idee, contro le quali mi ero tanto dibattuto, si rivelarono a
me nella loro verità vivente, e ne feci la regola di queste azioni delle quali mi
approvate. Quando mi diceste: «Per causa tua posso perdonare», versaste un gran
balsamo sulla mia ferita. Provai allora, anche nel mio martirio, una calma della
coscienza che non mi ha più lasciato. Ecco quello che mi ha sostenuto».
- «Ah, figlio mio!...» soggiunse il marchese. «Sì, posso chiamarti mio figlio!... Tu
parli di balsamo sulla ferita! E la mia, chi l'ha dunque un poco addolcita, se non
tu?.. I tuoi pensieri, i tuoi atti, le tue risoluzioni, tutto ho stimato in te, e tutto mi ha
aiutato, provandomi che almeno i miei sforzi di tanti anni per inculcarti delle
convinzioni, per fare di te un uomo, non erano andati perduti. Io pure in questa
sofferenza ho capito molte cose. Tu mi dici che ti sei a lungo dibattuto contro le
mie idee? Perchè nella prosperità erano mescolate ad elementi meno puri. Sì, ho
ceduto a troppe tentazioni; sono stato troppo altero del mio nome; ho amato
troppo la vita. Tu hai potuto credere che vi fosse più orgoglio che riflessione, e più
impulso che ragionamento, in alcuni principi di cui hai misurato, alla prova, la vera
forza, che hanno in sé. Io non ne ho tratto, quando ero felice, l'insegnamento che
avrei dovuto trame. Non ho veduto abbastanza, nel grado in cui la Provvidenza mi
aveva messo, il bene da fare. Per questo dovevo esser colpito, e senza dubbio
anche i miei in me. In una razza che dura da secoli, sono state commesse molte
colpe, alle quali occorre una espiazione. lo ho interpretato in questo senso questa
grande sventura, e l'ho accettata. L'ho offerta a Dio, e, te l'ho detto, ho perdonato.
Ed ora,» soggiunse con un accento d'infinita tristezza, «bisogna ch'io gli offra la mia
vecchiaia solitaria. Come sarà solitaria, senza te!..» E ripeté: «Senza te!...» Poi, in
preda ad una crescente commozione: «Eppure, se volessimo?.. Mi dicevi di adottare
un figlio, quel giorno?.. Vi sono state famiglie vicine a estinguersi che si sono in tal
modo prolungate. lo faccio un sogno. Se ti adottassi, Landri?.. Allora non mi
lasceresti. Il mondo, che non ha saputo nulla, ignorerebbe questo passo, corso tra
me e te. Direbbero: «Claviers è matto. Non meritava il conto di far tanto chiasso,
per poi cedere.» Che m'importa ?.. Ti avrei... Tu mi chiuderesti gli occhi...»
- «No,» rispose il giovane, con una fermezza singolare. «Non è possibile. Si adotta
un estraneo, un parente, ma non me!... » E abbassando gli occhi, il figlio della
colpa ripeté: «Non me!... In questo momento è la vostra tenerezza che si
commuove, che parla; non è il vostro pensiero; non sono le vostre, oso dire le
nostre convinzioni. Oggi io vi rappresento una persona che voi amate e che state
per perdere. Domani, dopo domani, se cedessimo, quello che tornerei a
rappresentarvi vi farebbe orrore, farebbe orrore anche a me. Non vi acconsentirei.
Potrei prendere qualunque nome, tranne quello, il nome rubato. Non lo riprenderei
mai, neppur da voi.» E dolorosamente: Del resto, se anche vi avessi diritto, non
saprei come vivere in Francia, ora che ho lasciato il mio mestiere. Voi dite che non
avete veduto abbastanza, nel vostro grado, il bene da fare? Perché, effettivamente,
a cagione di quello stesso grado, eravate condannato alla inazione. E poi, quando
avevate la mia età, un Claviers poteva sperare di veder stabilito in Francia un
regime in cui potesse esplicare le sue proprie energie. Questa speranza, oggi,
sarebbe folle. Ed io, ho bisogno di agire. Lavorerò, spiegherò tutte le mie facoltà.
Dove vado, in un paese vergine, ricomincerò la mia vita, fonderò una famiglia,
senza trovare quell'ostracismo che mi era così duro quando mi credevo quello che
non ero. Anche questo m'impedirebbe di accettare, quand'anche non vi fosse quella
menzogna che neppur voi sopportereste. Mi rimetto in voi, nel capo di famiglia che
ho sempre conosciuto assoluto, intransigente, ostile a tutti i compromessi...»
- «Hai ragione,» disse il signor de Claviers con voce spezzata. Lo spirito è forte, e il
cuore è debole!... Diciamoci dunque addio, Landri. Nulla m'impedirà, se mi manchi
troppo, e se vivo, di venire a raggiungerti dove sarai. E se non vivo!...» Scosse la
vecchia testa con un gesto di suprema stanchezza. Poi, fermamente come Landri
dianzi: «Sì,» soggiunse, «bisogna saper essere l'ultimo del lignaggio, chiudere la
lista degnamente. Hai ragione,» ripeté, «troppa ragione!... Avrò consumato la mia
esistenza in una lunga attesa, sempre delusa: il Re tornato, la Rivoluzione
soggiogata, le nostre Case restaurate, la Chiesa trionfante, la Francia riabilitata e
tornata alle sue tradizioni, i suoi confini naturali, il suo posto in Europa, - quanti
sogni! E nulla è accaduto, nulla, nulla, nulla. Sarò stato un vinto. Avrò difeso delle
tombe. Me lo dicevi tanto giustamente. E, per finire, questa tragedia, in cui
naufraga la mia ultima speranza!... No, non posso adottarti, è vero. I
Claviers­Grandchamp moriranno con me, è meglio così. Moriranno, come le une
dopo le altre muoiono tutte le grandi famiglie di Francia. Noi ce ne andiamo, come
se n'è andata questa vecchia monarchia che ci aveva fatti, e che avevamo fatta noi.
Ma lo stemma non avrà avuto macchia. Saprò finir bene. Ed ora,» soggiunse dopo
un silenzio, con l'accento di un uomo che ha preso la sua decisione, virilmente, e
non gemerà più: «lasciamoci. A che ora parte il vapore?..»
- «Alle quattro e mezzo,» disse Landri.
- «Fra poco sono le quattro,» disse il marchese. «Tu devi andare a bordo. Addio!»
Prese di nuovo il giovane tra le braccia e lo strinse a sé con una forza straordinaria,
ma senza una lacrima. Poi parve esitasse un istante. Una inesprimibile tenerezza gli
rifulse negli occhi, e disse, quasi sottovoce:
- «Non vorrei andar via senza aver veduto tua moglie.»
- «Vado a chiamarla,» rispose il marito di Valentina, quasi sottovoce anche lui,
tanto era commosso da quell'ultima prova di un affetto del quale si era creduto
privato per sempre. Misurarne la profondità equivaleva a misurare l'abisso di dolore
in cui quell'uomo era sceso, e in cui si preparava a finir bene, come aveva detto
con sublime semplicità. Quando Landri ricomparve, tenendo la mano di Valentina,
non poté articolare una parola per presentarla. Ella era pallida e tremante, e
guardava col suo bello sguardo leale, come per dire: «Leggete in me,» il gran
signore da lei sconosciuto fino allora nel suo aspetto fisico, ma del quale sapeva
tutta l'anima. Anche lui la contemplò alcuni istanti senza parlare. Come non
avrebbe subito il fascino di quella creatura così fine e così fiera, di cui ogni
lineamento, ogni gesto, ogni sospiro, rivelava una sensibilità ardente e delicata,
amorosa e pura? Come non avrebbe provato altresì, in sua presenza, il
ravvivamento dell'intima e insanabile piaga? Come non l'avrebbe paragonata a
un'altra donna?.. Ma no. Quegli occhi lì non potevano mentire. La graziosa e
fremente donna le cui pupille celesti si alzavano su lui con tanto fervore e tanta
trasparenza, sarebbe per colui che l'aveva scelta la compagna fedele, l'amica di
tutte le ore, la donna che indovina e consola tutte le pene, che sostiene tutti i
generosi sforzi. Poteva lasciar Landri partire con lei, senza apprensioni: ella
saprebbe aiutarlo in quella eroica ricostruzione di un focolare che in mezzo a tante
rovine stava per tentare. Fu il pensiero che il vecchio espresse ad alta voce,
incapace in quel momento solenne di pronunziare frasi convenzionali, e non
potendo dirne altre che sarebbero state troppo vere:
- «Ho voluto salutarvi, signora, prima della vostra partenza. Il passato è il passato.
lo non vedo più in voi che la moglie dell'uomo che amo più di tutto al mondo. Ho
voluto sapere in quali mani aveva posto la sua felicità, Ora lo so, ed è per me una
grande gioia, l'ultima della mia vita. Ne andrò debitore a voi.»
- «Ed io,» ella rispose «non dimenticherò mai questo momento. Avremmo sentito
troppo la mancanza della vostra benedizione. Voi ce l'avete portata. E’ questa pure
una grande gioia di cui avevo bisogno quanto Landri.»
Essa aveva preso tra le sue mani la mano del marchese, e con un impulso di
deferenza filiale stava per portarsela alle labbra. Egli l'attirò a sé, e le diè un bacio
sulla fronte, bacio di rispetto, di tenerezza, di benedizione, - com'ella aveva detto. Ebbe poi un ultimo sguardo per Landri, un gesto di amicizia, e uscì dalla stanza
dove i due giovani rimasero l'uno accanto all'altra, commossi nel più profondo
dell'essere per la dolorosa ed alta umanità contenuta in quell'addio, disperato, ma
senza un lamento.
- «Che cosa grande è un gran cuore!» disse finalmente Valentina.
- «Tu comprendi ora quanto mi sia stato penoso lottare contro il suo potere in altri
tempi?» disse Landri. «E pensare che non lo vedrò più in questo mondo, forse!... »
- «Sarà a vederti partire,» essa rispose.
Tre quarti d'ora dopo, infatti, quando la Cambria cominciò a muoversi, e mentre
Valentina e Landri, appoggiati al parapetto posteriore del bastimento, guardavano
pigiarsi sulla sponda, già lontana, la folla di coloro che erano andati a salutare i
passeggeri, poterono vedere che all'estremità di quella sponda un uomo si teneva
in disparte, col volto proteso nella loro direzione, e in quella figura altera
riconobbero il marchese. Si era messo lì, per vedere un'ultima volta Landri e per
esser veduto da lui. A quella distanza, e in quel crepuscolo nebbioso, era
impossibile distinguere i suoi lineamenti. Il vento marino agitava, intorno a lui che
rimaneva immobile, di una immobilità quasi fantastica, la stoffa cupa del suo
mantello da viaggio, e quantunque la sua Valentina fosse lì, che respirava, che
viveva, che lo amava, Landri sentì, a quello spettacolo, insinuarsi nell'anima sua il
freddo della morte. Quell'ultimo dei Claviers-Grandchamp, in piedi, nella solitudine,
in quella sera nebbiosa, su quella terra inglese, che guardava andar via il suo unico
affetto sacrificato in onore del suo nome, era veramente l'«Emigrato,» colui che
non è più né del suo paese né del tempo che corre. Il dramma intimo di cui quella
sosta del vecchio gentiluomo francese sulle assi della spiaggia di Liverpool era il
supremo episodio, si ampliava, si fondeva in un simbolo più ampio e, più patetico.
Dietro a quel fantasma di un vivente sorgevano i fantasmi di tutti i suoi avi. L'erede
di tanti signori, la cui stirpe si spengerebbe con lui, incarnò per un istante,
all'occhio di Landri stesso, la malinconia di una casta vinta. E' che cos'era, anche
lui, se non un «Emigrato»? Non andava forse egli pure a tentare al di là delle onde
una vita che avrebbe dovuto - con la sua ricchezza, col nome che per legge gli
spettava - trascorrere nella sua terra natale, tranquillo e felice? Egli aveva
sacrificato questo destino, così invidiabile agli occhi di tante persone, per che cosa?
Per un principio, come gli antichi emigrati. E per sostenere questo principio egli
abbandonava la patria, onde non portare un nome che non era suo, e salvare
frattanto la memoria di sua madre. Un'altra frase pronunziata dal signor de Claviers
nella loro discussione di Saint-Mihiel, dopo il suo rifiuto di coadiuvare l'inventario,
gli tornò alla mente: «Qualche volta bisogna sacrificare la propria vita per serbare
intatto il germe dell'avvenire». Landri ne sentiva tutta la forza, e sentiva quale
riserva di onore rappresenta un vero aristocratico come quello la cui forma svaniva
laggiù, sempre più lontana. Riportando il pensiero al suo paese, egli si diè a
riflettere con molta malinconia che la Francia non sa più che fare di quegli
esemplari di una selezione fine e superiore. Essa li annienta con la persecuzione; li
degrada con l'ozio; li rovina con le sue leggi sull'eredità. Tutto il suo sforzo si
accanisce a distruggere le condizioni in cui altri potrebbero ingrandire. La Cambria
stava per uscir dalla Mersey. Il gran flusso del largo ondeggiava in pieghe immense
intorno al corpo potente del piroscafo. I lumi dei fanali foravano con luci più dure la
nebbia più fitta. Intorno all'esiliato risuonava una lingua straniera, quella dei rivali
secolari che hanno saputo serbare tutto del passato per meglio dominare il
presente, e l'ufficiale dimissionario mescolava la pietà per la Francia, che forse non
abiterebbe mai più, a quella che provava per il vecchio gentiluomo verso il quale
nutrirebbe sempre la tenerezza di un figlio; egli aguzzava invano gli occhi per
rivedere ancora una volta, attraverso lo spazio, l'altera e immobile figura
scomparsa, laggiù, nel buio, - senza dubbio per sempre!
FINE
Note
(1) «E' un errore il credere che ognuno dei Re di Francia abbia portato dei rospi; e
quello che ne è stato scritto, lo hanno inventato i nemici dell'onore francese, per
deriderli di provenire dalla Palude Meotide, dove abbondano quei sozzi animali...»
(2) MERLIN, Repertorio di giurisprudenza. Autorità paterna, sezione III, §. 1:
«Basset cita una sentenza emanata da un padre, d'accordo con la famiglia, contro il
proprio figlio. Lo dichiarò indegno di successione e lo condannò alla galera per
vent'anni. Il procuratore generale del Parlamento di Grenoble si appellò da questa
sentenza, e con decreto del 19 settembre 1663 il figlio fu condannato alla galera a
vita».
(3) «Un dottore non deve mai dire né quello che ha veduto, né quello che ha udito,
né quello che ha compreso.»
(4) È così chiamata, in Francia, l'epoca di Luigi XIV. (N. d. T.)