LA DEA MADRINA

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LA DEA MADRINA
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LA DEA MADRINA
di Robert Hültner
Traduzione di
Paola Del Zoppo
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Robert Hültner, La dea madrina
Titolo originale: Die Godin
The translation of this work was supported by a grant from the Goethe–Institut
which is funded by the German Ministry of Foreign Affairs
Copyright © Vito von Eichborn GmbH & Co. Verlag KG, Frankfurt am Main, 1997
Copyright © btb Verlag, Random House GmbH, München, 1999
Copyright © Del Vecchio Editore, 2010
Grafica e impaginazione: Dario Lucarini
Editing: Michele Piroli, Vittoria Rosati Tarulli
Redazione: Vittoria Rosati Tarulli
Fotografia di copertina: Giorgio Vianini
www.delvecchioeditore.it
www.myspace.com/delvecchioeditore
ISBN: 978–88–6110–023–7
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c o l l a n a > n o i r
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Wegmacher era pronto a raccontare ancora una volta di come un
tempo il cielo fosse caduto su Sarzhofen, di come per questo Alois
Eglinger avesse trovato la morte, e di come la disgrazia fosse piombata su quelli di Aichinger, ma non gli fu permesso.
– È passato davvero un sacco di tempo, Wegmacher, – disse l’oste,
senza guardare il vecchio, e mise un boccale di birra sotto la spina.
Landthaler sputò sul pavimento e riprese le carte che Reither aveva
servito. – Quello che dico anch’io, – disse spalleggiando l’oste. – Lasciaci in pace con ’sta storia, una buona volta. La conoscono tutti.
Il vecchio Wegmacher, però, non stette a sentire. Testardo, ripeté le
parole con cui cominciano tutte le storie di campagna: – Gente, non
vi sto prendendo in giro…
Il rituale, in realtà, prevede che gli ascoltatori dimostrino a gran voce
le loro perplessità rispetto a questa frase, e che il narratore debba ripetere le sue rassicurazioni. Ma per quanto si possa essere curiosi di
ascoltare la storia, anche al ripetersi delle rassicurazioni non può essere dato apertamente tanto credito al narratore: – Ma va’! Tu e le tue
vecchie fandonie!
Tutto questo si ripete un paio di volte. Ma raggiunge il limite quando
il narratore non può far altro che relegarsi al ruolo di sapiente offeso,
al quale non giova comunicare a degli indegni la propria saggezza.
Ma a quel punto con un magnanimo: – Allora parla, in nome del cielo,
– questo pericolo viene scongiurato.
Invece i tre uomini, che in quella notte d’agosto si erano incontrati
a Sarzhofen, alla locanda di Nauferger per giocare a carte, non avevano intenzione di giocare a nessun gioco diverso da quello appena
preparato da Reither mischiando le carte.
Stadler lanciò uno sguardo esasperato al soffitto annerito dal fumo.
– Nessuno dice che stai mentendo, Michl, – tuonò, – ma adesso la-
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sciaci in pace. Giochiamo a carte.
– Questo è certo, che non vi sto prendendo in giro… – ripeté il custode. Si stropicciava le dita e guardava nel vuoto.
Le mascelle di Landthaler si serrarono. – Si gioca seriamente, capito? – sollecitò gli altri, con tono perfettamente controllato. – Se ne
becco uno che bara!
– Ovviamente. – Reither fece un’espressione innocente e diede al
suo vicino un lieve calcio con la punta del piede. – Chi dà carte?
– … È successo nell’anno quarto, quando…
– Chiudi il becco, Wegmacher! – urlò Landthaler.
– … nell’anno quarto, quando la Roccia del diavolo nella foresta di
Schatzberger cominciò improvvisamente a trasudare…
Anche Reither si girò arrabbiato. – Stiamo giocando! Non senti?
Non farci perdere la pazienza o diventiamo cattivi!
– … cominciò a trasudare all’improvviso, e quando…
La mano aperta di Landthaler piombò rumorosamente sul tavolo. Si
alzò, andò alla panca vicino al camino e si fermò davanti al vecchio a
gambe larghe. La sua mano chiusa a pugno dondolava minacciosa.
Wegmacher si ritrasse impaurito.
Senza dire una parola Landthaler tornò al tavolo.
– Questo l’ha capito, – fece Reither soddisfatto.
L’oste sospirò sollevato, prese la brocca piena e la portò al tavolo.
– Lo sapete, no, com’è. Non ci sente più bene, – disse, provando a
mettere pace.
– Ci sente benissimo, non farti prendere in giro, – rispose rabbioso
Landthaler.
– Certo, – confermò Stadler, – ma non capisce più niente.
– Che malattia sarà mai? – L’oste scosse la testa. – Sente e vede, ma
non capisce più.
– È una malattia che viene anche a te ogni tanto, – commentò maligno Stadler. L’oste scoppiò a ridere.
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– Ma solo quando mi fai segnare per sei mesi, non paghi e chiedi ancora mezza pinta!
– E per questo andrai in paradiso, Nauferger. Non ti basta?
– Certo, come no, e dovrò ringraziare te, Stadler.
– Infatti. Beato chi dà da bere agli assetati, dicono le Sacre Scritture.
– Adesso gioca! – interruppe spazientito Landthaler. Stadler rifletté
un momento, prese una carta e la tirò sul tavolo.
– Eccotela.
Landthaler guardò con gli occhi semichiusi le carte che aveva in
mano e rifletté anche lui. Sembrava concentrato.
– … Non vi sto mentendo! – blaterava il vecchio.
Il viso del contadino si fece rosso acceso. Si alzò con violenza. La
sua sedia si rovesciò sul pavimento.
– Wegmacher! – urlò completamente fuori controllo. L’oste osservava preoccupato.
– Datti una calmata, Landthaler, – fece Stadler calmo. – Perché te la
prendi tanto?
– Perché me la prendo? – ansimò Landthaler. – Perché non ne posso
più di sentire le storie inventate del custode, ecco perché.
– E allora non stare a sentire! Basta! Di solito non hai niente contro
le storie, o no?
Landthaler sgranò gli occhi. Lo stava fulminando con lo sguardo.
Sulle tempie gli comparve un’intrecciata linea scura che si allungava
come un verme. – Che… che vuoi dire con questo? – chiese aspro.
Stadler assunse un’espressione innocente. – Niente, proprio niente.
Solo che ogni tanto anche tu racconti storie.
– Landthaler! Stadler! Smettetela subito! – L’oste aveva buttato di
lato lo straccio per pulire il bancone, si avvicinò in fretta al tavolo e
provò a separare i due. Un pugno massiccio, in realtà destinato a Stadler, lo prese alla spalla. Indietreggiò barcollando.
La porta della locanda sbatté rumorosamente.
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– Smettetela! – sbottò l’oste.
– Lo dico anch’io. – Il sergente Kaneder avanzò lentamente fino al
centro della stanza, si mise a posto con un dito gli occhiali sul naso e
si grattò il collo sudato e arrossato sotto il colletto. Landthaler si raddrizzò controvoglia.
Il poliziotto si rivolse a lui brusco: – Perché vi siete di nuovo azzuffati? – Il contadino tacque, punto sul vivo. Lentamente alzò la
mano alla testa e si scostò dalla fronte un ciuffo ingrigito. Kaneder si
girò e lanciò uno sguardo interrogativo a Stadler, che si strinse nelle
spalle.
– Niente, – fece lui, e si schiarì la voce. – Io… io gli ho solo detto
che è strano che ogni volta che mischia lui, poi gli càpiti sempre il re
di cuori.
Reither annuì sollevato.
– Non è vero niente, – mormorò Landthaler.
Kaneder capì al volo. – Allora facciamo così: è ora di chiudere e la
prossima volta che becco una testa di legno a picchiarsi con qualcuno,
gli faccio vedere io. Ci siamo capiti? – E alzò la voce: – Allora? Mi
avete capito?
I due piantagrane annuirono controvoglia. Reither prese le carte, si
alzò e mise il pacchetto sopra un mucchio vicino al bancone. – E anche
oggi siamo stati bene! – fece serio, e prese la giacca.
Anche Landthaler si alzò per andarsene. Reither era già sulla soglia.
Senza dire una parola i contadini lasciarono la locanda.
Il sergente si rivolse all’oste.
– E i tuoi strani ospiti? Sono già tornati?
– Intende il notaio di Monaco? Quello è in camera sua già da un
pezzo, – rispose. – È successo qualcosa?
Kaneder scosse la testa irritato.
– E Wegmacher? – chiese più gentilmente. – Non deve andare a
casa? È tardi.
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Il vecchio contadino non si mosse.
– Niente storielle oggi, Wegmacher?
Il sergente non aspettò la risposta del vecchio che fissava il vuoto,
si grattò di nuovo dietro il collo e salutò.
Il vecchio taceva ancora quando più tardi l’oste lo accompagnò alla
porta. Con passo incerto si allontanò dal raggio luminoso della locanda, in cui si distinguevano un’infinità di zanzare, e sparì nel buio.
Da lontano, dagli stagni vicino al fiume gracidavano le rane.
L’oste girò la chiave e spense la luce. Cominciò a spogliarsi già
mentre saliva le scale per andare in camera, poi scoprì il letto, si lasciò cadere sul materasso e pensò ancora un po’ alla storia che il vecchio avrebbe voluto raccontare. E si addormentò.
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Quando la ragazza, in quel tardo pomeriggio di agosto del 1904, con
il viso bianco come il latte, andò nella stalla dalla Reither e le indicò
il secchio vuoto, la contadina capì subito che era successo qualcosa di
grave.
Il pozzo della casa era ormai definitivamente secco, e il secchio lanciato nel vuoto era piombato rumorosamente sulle pietre.
Presto si seccarono anche i pozzi di Wengen e Oberroth. La conduttura di piombo installata solo da pochi anni, che avrebbe dovuto portare l’acqua dalla fonte di Elskirch fino ai borghi sul fiume, e da cui
ultimamente scorreva solo un rivolo color ruggine, non forniva più
una goccia da settimane. Anche Gruber si era arreso e aveva lasciato
liberi dai finimenti i cani che azionavano la pompa.
Quando dal terreno della fonte di Hunger, nella foresta di Wolfspeuntner, venne fuori una melma paludosa, subito assalita da nugoli
di zanzare, i contadini furono presi da vero terrore. Dai loro antenati,
infatti, sapevano che se in quella fossa, in tempi normali sempre secca, spuntava l’acqua, la siccità sarebbe stata ancora più difficile da superare.
Alla fine si seccò anche il rio di Burgstaller, e il mulino di Höllgraben dovette essere fermato. I contadini cercarono padre Prosper e gli
chiesero di celebrare l’orazione della pioggia. Subito tornarono a galla
i vecchi dissensi tra la Confraternita della buona morte e l’Unione dei
giovani, e si discusse sulla parrocchia in cui tenere l’orazione. La discussione fu però subito smorzata, perché tutti dovettero ammettere
che solo santa Elisabetta poteva fare qualcosa, e quindi il luogo più
adatto era l’antica chiesa di Elskirch.
La navata gotica era strapiena di gente quando il padre agostiniano,
accorso dal chiostro di Sarzhofen, cominciò a recitare l’antica orazione per la pioggia. Ma l’organo, il cui rivestimento di legno si era
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atrofizzato nei lunghi giorni di siccità, non emise alcun suono. Sulla
via del ritorno i pellegrini, allo stremo delle forze, incrociarono i sentieri degli acquaioli. Battendo i loro cavalli ansimanti, coperti di polvere fin sopra la pancia, erano per via praticamente giorno e notte, per
portare ai poderi l’acqua salvifica.
Le preghiere rimasero inascoltate. Gli orti dei contadini, un tempo
rigogliosi, seccarono. Il fogliame degli alberi da frutta perse lucentezza. I prati bruciarono. L’erba si fece stopposa, si sfogliò, le capre
affamate setacciavano il terreno sassoso in cerca di germogli. Quelli
che una volta erano campi in fiore divennero terreni grigi di polvere.
Già a metà agosto si dovette far ricorso alle riserve di fieno per dar da
magiare al bestiame. Ma per il pastore di Aschpoint non si poneva più
il problema di cosa sarebbe successo in inverno. Lui negò di essere
ubriaco, disse invece che, distrutto dalla stanchezza, si era addormentato nel suo carro quando il suo gregge aveva fatto irruzione nei
prati inzuppati dal ruscello. Le bestie erano morte miseramente. Il pastore era stato cacciato dal podere a bastonate.
La luce giallo limone del giorno nuovo rese evidente che, ancora,
non c’era da aspettarsi la pioggia. In poco tempo il caldo appiccicoso
calò di nuovo sul paese, che a mezzogiorno, affogato nell’aria bollente, era immobile sotto un sole cocente. Ogni tanto un soffio di vento
caldo si infilava tra il grano arido e lo piegava, sradicandolo dal terriccio friabile, senza incontrare alcuna resistenza.
Solo il modesto mercato di Sarzhofen, posto su una piccola altura ai
piedi della via del chiostro, aveva ancora acqua. I giardini rigogliosi
dei pendii che scendevano verso l’Inn, irrigati da una deviazione del
ruscello del chiostro, resistevano alla calura.
Ma anche qui gli uomini soffrivano sotto il sole e nella polvere che
la terra circostante aveva gettato sul mercato. Gli anziani respiravano
affannosamente tra le labbra secche.
Era mezzogiorno. La gente che attraversava la piazza senza alberi
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del centro del paese si muoveva con lentezza. Non c’era un soffio
d’aria. Silenzio. I richiami cadevano sordi, l’intonaco delle pareti delle
case si spaccava con schiocchi come di rami secchi. L’oste della locanda Da Nauferger, in un momento di esasperazione, aprì la porticina
della pendola, il cui ticchettio aveva cominciato a dargli sui nervi, e
fermò l’orologio.
Nel tardo pomeriggio il paese e le colline sembravano riposare serenamente. Calarono le ombre. Non era ancora scesa la notte della domenica, che la terra cominciò a sprigionare vapore. L’acciottolato color piombo luccicava, e verso mezzanotte dall’Inn si alzarono nuvolette viola di nebbia. Si fece più freddo all’improvviso.
Quando gli ultimi clienti di Nauferger presero la via di casa, arrivati
al centro della piazza, guardarono sopra le loro teste e assaporarono
ubriachi l’aria della sera. Il cielo notturno sopra di loro, diversamente
dalle altre notti, era di freddo granito luccicante. I passi si persero nel
silenzio. I grilli frinivano senza convinzione. Il paese cadde addormentato.
Nessuno vide, poco tempo dopo, una luce silenziosa avvicinarsi velocemente alle cime delle colline. Seguì un tuono lontano, dal suono
morbido. Poi silenzio totale. Poi di nuovo la luce fioca lampeggiò, e
di nuovo, ma adesso più ravvicinato, si avvertì un tuono, esitante, insicuro, che suonò come un rullio di tronchi abbattuti.
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Poi non ci fu più il giorno. Il sole lottò da qualche parte dietro l’orizzonte a est, emettendo una luce giallastra e malata e si spense al crepuscolo. Sulla linea del fiume, strato su strato, blocchi di nuvole si
erano accatastati ad altezze vertiginose, quasi a formare una parete di
umidità. La parete cresceva continuamente e rimaneva immobile come
un’onda statica.
In pochi secondi l’immagine esplose. Chicchi di grandine grossi
come uova si abbatterono sui tetti e sui rivestimenti, saltando via con
gran rumore o perforandoli. Enormi alberi a foglia larga si piegarono
sotto la tempesta e si spezzarono sopraffatti, gli abeti rossi si strapparono con le loro radici piatte dal terreno, i fienili rovinarono, tavola su
tavola, o andarono in frantumi, rotolando come una moltitudine di
dadi sui campi. Attraverso il disegno creato dal ghiaccio che piombava sulla terra si intravedevano i lampi. Lo scampanio della parrocchia gemeva nel tumulto, finché l’uragano non si insinuò sotto il tetto
distrutto del campanile, ne divelse la punta e fece precipitare a terra
tegole, travi e pezzi interi di muro. Minacciose cigolavano le legature
delle stalle nei poderi all’aperto. La stalla dei Wegmacher–Gütl, costruita a favore di vento, crollò su se stessa seppellendo tutto ciò che
si trovava sotto di lei.
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Indice
La dea madrina
pag.
7
Postfazione
pag. 281
Note
pag. 283
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c o l l a n a > L ’ i t a l i a n a
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Tivoli (Roma)