1 Beppe Bartolucci - 2 IL CRITICO MILITANTE COME VEGGENTE

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1 Beppe Bartolucci - 2 IL CRITICO MILITANTE COME VEGGENTE
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Beppe Bartolucci - 2
IL CRITICO MILITANTE COME VEGGENTE IN STATO DI GRAZIA
Se l’avanguardia si realizza in un eterno presente, nel sogno o illusione di un
perpetuo ringiovanimento, nella promessa ossessivamente reiterata del Nuovo, lui è
stato la più straordinaria incarnazione dello spirito, del carattere stesso
dell’avanguardia, in senso forte, ontologico-etologico. Massimo profeta e banditore
della sperimentazione teatrale tra gli anni ’60 e gli anni ’80, di fronte all’esaurirsi
della spinta innovativa, mise se stesso al centro della scena: da mago burattinaio a
burattino principe.
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di Marco Palladini
Il testo che segue è stato scritto oltre dieci anni fa, quasi di getto, poco dopo la morte di
Bartolucci. Fu pubblicato sulla rivista Produzione & Cultura (n. 2-3, marzo/giugno 1997) e, poi,
parzialmente ripreso nella mia intervista sul teatro d’avanguardia, uscita a cura di Simona
Cigliana su L’illuminista (n. 2-3, autunno/inverno 2000). Lo ripropongo integralmente adesso online come testimonianza di memoria partecipe e di vicinanza appassionata e anche perché, con
l’imminente pubblicazione del volume dei Testi critici,1964-1987, a cura di Valentina Valentini e
Giancarlo Mancini, si realizza finalmente l’auspicio che facevo, in fondo a questo intervento,
affinché si potesse rapidamente editare un’antologia dei suoi scritti più importanti. In realtà, c’è
voluta un’intera decade per arrivare a questo libro. Bisogna allora ringraziare sentitamente i
curatori, se la cruciale opera critica di Bartolucci potrà trovare, in futuro, nuova attenzione ed
interesse da parte di giovani studiosi e teatranti e se non rimarrà confinata ai ricordi oramai
ingialliti di noi vecchi amici.
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Capita sovente, di questi tempi, di imbattersi in convegni che rilanciano l’angoscioso interrogativo:
«Che fine ha fatto la critica militante?». O di sentire periodicamente annunciata, in teatro o in
letteratura, l’arrivo di una “nuova avanguardia”. È allora che, con un po’ di tristezza, penso che per
me la critica militante e, financo, l’avanguardia come critica sono morte, anche fisicamente, il 22
settembre 1996, il giorno in cui si è spento a Roma, a 73 anni, Giuseppe Bartolucci. Colui che, per
circa trent’anni, in veste di teorico, giornalista, organizzatore e promotore fecondissimo, dirigente
di istituzioni teatrali, ha incarnato con inesausta radicalità l’idea stessa di avanguardia scenica in
Italia. Beppe, così lo chiamavamo noi amici e sodali, era stato in verità costretto a ritirarsi dalle
barricate della militanza critica che tanto gli piacevano sette anni prima, quando nell’estate dell’89,
reduce da una ennesima scorribanda, era stato colpito da un ictus. L’“insulto cerebrale”, ricordo,
che aveva fatto evaporare di colpo l’energia luciferina che sosteneva la sua attività e lo aveva
addolcito, reso sempre più simile a un roseo e paffuto vecchio bambino. Gli era svanita negli anni
’90 la stessa voglia di andare a teatro, e si capiva: lui non era stato uno spettatore, sia pure
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specializzato, normale; era stato un protagonista, uno che il teatro d’avanguardia lo aveva
inventato, trasfigurato, predetto, manipolato con folgoranti intuizioni e, talora, insopportabili
faziosità, con estremistico istinto visionario e prepotenze anche irritanti.
Bartolucci d’altronde era fatto così: prendere o lasciare. Lui medesimo procedeva per simpatie o
antipatie immediate e definitive, suscitando con ciò risentimenti e anche odî profondi. La sua
sulfurea umoralità – nato in provincia di Pesaro, era un marchigiano venato di effervescenza
romagnola – non impediva tuttavia di vedere quanto Beppe fosse, comunque, sempre
intellettualmente e moralmente onesto e, sia nel bene sia nel male, autentico. Chi scrive era,
generazionalmente, un “figlio” di Bartolucci e gli deve gratitudine, con tanti altri che magari
l’hanno scordato, per l’interesse, apertura e fiducia dimostrati verso l’allora giovane chroniqueur
teatrale ed esordiente poeta. Eppure più di una volta i nostri contrasti furono vivacissimi. Mi
rammento di una edizione del Festival Opera Prima di Narni a metà anni ’80. Non mi era piaciuto
affatto il modo in cui aveva trattato una compagnia che avendo vinto l’anno precedente, contro la
sua volontà, gli era “in gran dispitto”. Denunciai la cosa durante un convegno sulle “politiche della
scena”, attaccandolo personalmente e chiamandolo, mi pare, «dispotico padroncino del teatro
sperimentale». Beppe si infuriò e mi ingiunse di dimettermi dalla giuria del premio. Gli replicai che
l’avrei fatto all’istante. Ci ritrovammo, non so come, un’oretta dopo su un pulmino in viaggio verso
il casale che possedevano, presso Todi, Memè Perlini e Antonello Aglioti. Io sedevo in fondo, in
disparte. A un certo punto, Bartolucci si spostò e venne a sedermi accanto, rimanendo in silenzio.
Ero in tensione, colmo di sdegno e di rabbia, anche risibili e infantili. Ruppi quel lungo momento
compulsivo, dicendogli di non preoccuparsi, che appena arrivati gli avrei scritto un biglietto di
formali dimissioni. La sua risposta mi annientò, facendomi sentire un completo imbecille. Beppe
mi chiese scusa, assicurandomi di aver detto cose che non pensava, mi chiese di rimanere perché
stavamo tutti e due dalla stessa parte e facendomi capire che mi stimava anche per la mia
indipendenza di giudizio. Perché a Beppe, comunque, piacevano le personalità forti, spregiudicate,
testarde come lo era lui, e non i farisei, gli ipocriti lecchini del potere, le pallemosce. Ho raccontato
questo per far capire che Bartolucci era un passionale e spesso un manicheo, ma anche una persona
di raggiante umanità, capace di gesti e di parole che ti spiazzavano e ti potevano pure commuovere.
A Bartolucci “papà” e banditore di almeno tre generazioni avanguardiste tra gli anni ’60 e gli ’80,
uno dei rimproveri che più frequentemente venivano mossi era di “divorare le proprie creature”.
Ossia dopo avere portato alla ribalta un gruppo o un artista, di abbandonarlo abbastanza
rapidamente al proprio destino, non aiutandolo a crescere e a maturare, per correre invece, subito,
“nevroticamente” alla scoperta di altri talenti, veri o presunti. Mi sembra un’accusa priva di senso.
Se l’avanguardia si realizza in un eterno presente, nel sogno o illusione di un perpetuo
ringiovanimento, nella promessa ossessivamente reiterata del Nuovo, Bartolucci critico è stato la
più straordinaria incarnazione dello spirito, del carattere stesso dell’avanguardia, in senso forte,
ontologico-etologico. All’altezza della metà anni ’70 e per tutti gli ’80 l’essere avanguardia di
Bartolucci prese una dinamica raffinatamente vorticosa. Ad ogni stagione, lanciava nuove parole
d’ordine, nuovi slogans critici; ad ogni stagione estraeva, come conigli, dal suo cappello di
prestigiatore della critica nuove formazioni, nuovi ensemble teatrali. Io pure, confesso, facevo
fatica a seguirlo. Beppe si muoveva sempre più freneticamente come se, inconsciamente, sentisse
che il suo tempo stava per scadere. Nell’orgia dell’attualità, accadeva che lui corresse più veloce
dell’atto, di ciò che era “in atto” e che quindi gli venisse letteralmente a mancare la “materia
prima”. Senza indugi si inventava allora tenzoni fra critici, crossover interdisciplinari, annetteva al
suo poiein operativo nuovi territori come quello del teatrodanza, sempre moltiplicando rassegne,
incontri & scontri.
Ciò che più di tutto mi pareva entusiasmante era il suo entusiasmo, la sua apertura a 360 gradi
verso ogni giovane artista o aspirante tale, purché nel segno della sperimentazione e del rifiuto
della convenzione. Ricordo che una volta mi trascinò con sé, sulla sua Renault 4 (una macchina da
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ragazzo), in un paesino dell’Umbria a vedere un gruppo di ventenni che avevano da poco iniziato a
fare teatro. Giunti sul posto ci rendemmo conto che non disponevano neppure di uno spaziocantina. La rappresentazione si svolse nel salotto semisvuotato della casa di uno di loro. Noi due
eravamo gli unici spettatori. Io ero imbarazzato, tanto più che lo spettacolino era un nulla
pseudosperimentale con tanta buona volontà. Al termine, non sapevo cosa dire. Fortunatamente
parlò Beppe, che fu prodigo di incoraggiamenti e di misurati consigli, interrogando e chiedendo e
informandosi sul perché e il per come. Ecco, lui sì che faceva, con energia e generosità
inimmaginabili, militanza critica. Ossia era la vera critica militante: con le sue camicie di flanella a
quadrettoni, i suoi maglioni sformati, i suoi pantaloni lisi di fustagno o di velluto, Bartolucci nel
flusso delle sue ininterrotte epifanie mi appariva il prototipo unico e inimitabile dell’intellettuale
organico del teatro di ricerca, sempre presente con disciplina di autentico soldato sul campo di
battaglia. E mentre tanti lucravano, qualcuno anche arricchendosi o scalando posti di potere, lui
andava avanti per pura fede, realmente disinteressato, faticando persino alla fine a mettere assieme
una pensione.
Sul finire degli anni ’80, poco prima della sua uscita di scena, Beppe realizzò un’ulteriore svolta da
nessuno, ch’io sappia, sufficientemente notata o sottolineata. La movimentazione neo e post
avanguardistica era agli sgoccioli, il quasi stagionale ricambio di gruppi e compagnie era
pressocché bloccato, la sponda della critica complice pareva rifluire altrove, l’interesse dei media e
delle istituzioni decresceva a vista d’occhio: in tale congiuntura, ove i segnali di esaurimento di
un’epoca teatrale erano più che palesi, Bartolucci fece l’ultima, estrema, tanto spregiudicata quanto
coerente, mossa del cavallo. Mise se stesso al centro della scena. Se l’avanguardia scenica, la sua
energia alternativa s’erano dissolte, resisteva e persisteva imperterrita l’avanguardia come
coscienza critica, testimoniata e incarnata da Giuseppe Bartolucci. Se fino allora nelle sue innumeri
iniziative egli era stato il mago burattinaio, ora diventava il burattino principe. Negli eventi che
inesausto progettava, ormai i gruppi e gli spettacoli, sempre più irrilevanti, diventavano il mero
contorno della sua presenza come assoluto protagonista, della sua parousía come santone e profeta,
come memoria attante e vivente della intramontabile necessità dell’avanguardia. Insomma, il
Bartolucci postremo si offrì come corpo sacrificale sull’altare dell’assenza dell’avanguardia proprio
per ribadirne la sua immanenza, il suo permanente valore. La parabola di questo chiaro rito
sacrificale si compì con la malattia che lo mise fuori scena, coincidendo temporalmente con una
data, il 1989, di macroscopiche risonanze simbolico-politiche. Si chiudeva anche traumaticamente
un’era e al posto dell’ingombrante, scomoda sagoma di Bartolucci subentrava un autentico “vuoto
teatrale” (titolo di un suo libro del ’71).
Il gesto simbolico-sacrificale finale di Beppe, era stato peraltro preparato nel corso degli anni ’80
dal suo progressivo abbandono della scrittura. Nato addirittura negli anni ’50 come romanziere, era
stato critico teatrale dei quotidiani L’Avanti! e Stasera, direttore di riviste seminali come La
scrittura scenica e Teatroltre, collaboratore di tante pubblicazioni tra cui Drama Review, Alfabeta,
Scena, Proposta, Frigidaire, autore di una decina di volumi saggistici tra i quali Teatro-corpo,
teatro-immagine, II Living Theatre, La politica del nuovo, La scuola romana, Il gesto teatrale,
Paesaggio metropolitano. La scrittura come luogo di riflessione teorico-critica e di emanazione
polemica aveva, insomma, avuto per lui un’importanza primaria. Si era intrecciata con la sua
discesa in campo come scopritore di talenti e stimolatore-organizzatore di eventi, generando una
sterminata serie di concetti e definizioni e etichette che contrassegnarono le varie stagioni
dell’avanguardia italica: dalla scrittura scenica al teatro-immagine, dal teatro delle cantine alla
performance art, dal teatro analitico-esistenziale alla post-avanguardia, dalla nuova spettacolarità ai
paesaggi metropolitani, dagli scenari urbani-tecnologici alla ripresa del mito, dalla nuova sensibilità
al ritorno all’opera e alle “opere prime”, etc. L’ingegno modellistico e perennemente sovreccitato
di Bartolucci era alimentato dalla continua ansia di «nuove energie e nuove esperienze» che
avevano bisogno, affermava, «di critici illuminati e non sapienti, di critici in stato di grazia e non in
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stato di ragione». Il critico illuminato e in stato di grazia era naturalmente lui, e questo indiretto
autoritratto ci fa capire la sua idea eccentrica, particolarissima di un “essere critico” veggente,
sensitivo, percettivamente mesmerico, capace di cogliere per pura intuizione i segnali del (divenire)
nuovo e di assecondarli, da un lato transcodificandoli al pubblico e dall’altro chiarendoli a loro
stessi. Tale torsione verso il critico illuminato, e dunque santo, guru, stalker invasato, aveva sempre
meno bisogno della scrittura come attività di analisi, selezione e elaborazione, e sempre più di una
“scrittura del corpo”, di una auto-disseminazione per apparizione e per esaltazione, per
combattimento e per competizione. Il farsi corpo-guida quasi in sostituzione dell’avanguardia
esausta retrocesse la scrittura a pratica secondaria relativa a schede di presentazione di spettacoli,
introduzioni a convegni, messa a punto di progetti, etc. Questa fisica, concreta e carismatica
personificazione dell’avanguardia, la sua sovraesposizione pubblica alla fine, in verità, distrussero
il critico. Me ne resi conto quando nella primavera dell’89, pochi mesi prima che si ammalasse, ci
incontrammo in uno dei luoghi dannunziani di Roma, presso il caffè che si affaccia lungo la
passeggiata fra Trinità dei Monti e Villa Medici. Beppe voleva che collaborassi con lui alla
realizzazione di una grande mostra di impianto storico-antologico sulla ricerca teatrale a partire
dagli anni ’60. Parlando gli dissi che mi mettevo a sua disposizione, ma aggiunsi con franchezza
che avrei preferito che invece di disperdersi in mille iniziative, egli si dedicasse alla stesura di un
libro-compendio definitivo su quei trent’anni cruciali di teatro. Solo tu, il critico militante per
antonomasia, puoi scriverlo, provai a insistere. Lui, scuotendo il capo, mi rispose paternamente e
un po’ malinconicamente che anche volendo, ormai non aveva più le energie per una impresa
intellettuale di quella portata, si sentiva stanco, e anzi soggiunse che da un po’ di tempo non
riusciva più a pensare il nuovo, a vedere in anticipo le tendenze in arrivo. Ormai, mi fece capire
Beppe con lucido presentimento, io ho fatto la mia parte, sto per chiudere i conti; ormai, disse,
tocca a voi giovani. E credo che si riferisse alla covata di giovane arrembante critica che egli
aveva, in qualche modo, tenuto a battesimo: Lorenzo Mango, Valentina Valentini, Carlo Infante,
Dario Evola; e forse un po’, bontà sua, anche al sottoscritto.
In realtà e com’era, del resto, assai facile prevedere, questo passaggio di testimone generazionale
non c’è stato, semplicemente perché l’eredità di Bartolucci – figura unica nella sua multiforme e
soverchiante personalità - era impossibile da raccogliere. E in verità, credo che nessuno di questi
pur valenti amici abbia mai pensato seriamente di poter prendere il suo posto. Anzi, la
normalizzazione estetica invalsa, tranne rare eccezioni (cito per tutte la Socìetas Raffaello Sanzio),
nella scena sperimentale degli anni ’90 ha, chi più chi meno, sospinto tutti loro lontano dalla critica
teatrale militante. Io che ero il meno “critico” di tutti, reputando per me tale funzione collaterale e
sostanzialmente accessoria, ho a mio modo applicato la lezione di Bartolucci, gettando
pasolinianamente “il mio corpo nella scena-agon”, facendomi autore, metteur-en-scène e performer
teatrale. Interpretando, mi illudo, con qualche fedeltà quel tratto del pensiero-azione critica di
Beppe che si materiava in un integrale way of life, in una pulsione totale dell’esser-ci come filosofia
di lotta artistica ed etico-cognitiva in prima persona e in prima linea.
Se dovessi però, infine, dire che cosa oggi resiste e persiste di Bartolucci, mi troverei in difficoltà.
Ritengo assai poco, quasi nulla. Ed è un vero scandalo. I giornali hanno liquidato la sua morte con
poche righe o insulsi articoletti di circostanza. Le istituzioni e mi riferisco, quanto meno, allo
Stabile di Torino, di cui Beppe fu condirettore negli anni ’70, e allo Stabile di Roma, di cui diresse
il settore teatro-scuola negli anni ’80, sono rimaste in impudente silenzio. Ai funerali eravamo
pochi intimi. Molti dei gruppi e degli artisti che scoprì e contribuì a lanciare, sembrano averlo
dimenticato. I teatranti più giovani, se interrogati, confessano in larga maggioranza di non sapere
chi sia. Il tempo di fine secolo-millennio corre via rapidissimo, pochi anni e tu sei cancellato senza
pietà dalla memoria collettiva. Eppure bisognerebbe ripubblicare qualcuno dei suoi ormai
introvabili libri, o fare un’antologia dei suoi scritti più significativi. Qualche accademico o
ricercatore potrebbe (e dovrebbe) opportunamente e con scientifica acribia rivisitarne l’amplissima
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attività (in buona parte, anche a me ignota), magari per meglio esplicare gli aspetti del suo
transitare dal modernismo avanguardistico fino al postmoderno, con una vorace assunzione di
sentieri di ricerca, senza mai avvertire quello schematico dualismo sostenuto da certi surciliosi
teorici (perché Beppe cavalcò sempre la praxis comunicativa dell’avanguardia e mai l’ideologia
dell’avanguardia). Spero che prima o poi qualcosa si faccia. In tale quadro di generale indifferenza
e rimozione, uniche lodevoli eccezioni di volontà di memoria appaiono i premi intitolati a
Bartolucci, che spiriti indipendenti incominciano a bandire (come quello, rivolto ai progetti di
scrittura scenica, indetto dalla compagnia del Metateatro diretta da Pippo Di Marca).
A chi si ritiene, in ogni caso, fortunato di aver potuto conoscere e frequentare Beppe, amandolo
anche per le sue umanissime e vitali contraddizioni, non resta da ultimo che meditare sul presente
attraverso alcune sue parole dettate nel 1984 (anno di disincanti post-orwelliani) e che mi risuonano
ora come un preveggente messaggio: «Questa terra senza miti o mitologie, senza discepoli e
iniziati, non ha centralità privilegiate, né marginalità forzate. È beneficamente il luogo del lavoro, è
altrettanto utilmente il luogo del massacro, dove competitività e isolamento, ordine e irregolarità si
danno la mano, adesso».
(ottobre 1996)