fALLACIE ESEGEtIChE

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fALLACIE ESEGEtIChE
D.A. Carson
fallacie
esegetiche
Edizioni GBU
Indice
Abbreviazioni
Prefazione alla seconda edizione
Introduzione
1. 2. 3. 4. 5. Fallacie linguistiche
Fallacie grammaticali
Fallacie logiche
Fallacie dovute ai presupposti
e fallacie di ordine storico
Riflessioni conclusive
Indice degli autori
Indice degli argomenti
Indice delle citazioni bibliche
Dizionarietto
IX
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Introduzione
Concentrarsi sulle fallacie1 esegetiche o di altro genere sembra
un po’ come concentrarsi sul peccato: coloro che sono colpevoli potrebbero prenderne atto in maniera riluttante e fermarsi a esaminare i loro errori solo superficialmente; ma in questo
modo di procedere non c’è nulla di redentivo. Tuttavia, quando certi tipi di peccato sono comuni e (ancor peggio) spesso
non riconosciuti da coloro che li commettono, una loro descrizione dettagliata potrebbe avere l’effetto salutare non solo di
incoraggiare un profondo esame personale ma anche di fornire un incentivo a seguire strade migliori. Spero che nel parlare
di ciò che non si deve fare in esegesi possiamo desiderare tutti più ardentemente di interpretare la Parola di Dio in maniera
corretta. Se mi concentro sull’aspetto negativo della questione
lo faccio nella speranza che i lettori potranno in tal modo avere un vantaggio maggiore dall’istruzione positiva che gli arriva
dai testi e dalle predicazioni.
Prima di procedere con lo studio vorrei evitare le domande fuorvianti che possono nascere in seguito, indicando fin da
ora l’importanza di questo studio e i pericoli che gli sono intrinseci e riconoscendo con franchezza le molte limitazioni che
gli ho imposto.
L’importanza di questo studio
Questo studio è importante perché le fallacie esegetiche sono
purtroppo frequenti anche fra di noi che abbiamo la grazia e la
1. Il termine fallacia qui è utilizzato come termine che indica un’argomentazione che nonostante un’apparente forza logica è errata, vale a dire
presenta un difetto che compromette il valore dimostrativo dell’argomentazione.
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fallacie esegetiche
responsabilità da parte di Dio di proclamare fedelmente la sua
Parola. Commettere un errore nell’interpretazione di un’opera di Shakespeare, non ricostruire fedelmente i versi di un brano di Spenser, sono cose che difficilmente avranno delle implicazioni eterne; ma non possiamo accettare alla leggera una simile trascuratezza nell’interpretazione della Scrittura. Abbiamo a che fare con i pensieri di Dio: siamo obbligati a fare il più
grande sforzo per comprenderli correttamente e spiegarli chiaramente. Stando così le cose, è ancor più scandaloso trovare
sui pulpiti evangelici, dove le Scritture sono ufficialmente riverite, frequenti e inescusabili trascuratezze nella loro esposizione. Tutti noi, naturalmente, commetteremo i nostri errori esegetici: sono dolorosamente consapevole di alcuni dei miei che
con il passare degli anni sono venuti a galla grazie a letture più
ampie o a colleghi attenti che mi amano abbastanza da correggermi. Ma la situazione è tragica quando il predicatore o l’insegnante è assolutamente non consapevole delle assurdità che
proferisce e del danno che fa alla chiesa di Dio. Né dall’altro
lato dobbiamo essere soddisfatti nel puntare il dito verso altri
gruppi le cui capacità sono inferiori alle nostre: dobbiamo iniziare dalla pulizia in casa nostra.
L’essenza di ogni pensiero critico, nel senso migliore di questa abusata espressione, sta nel fornire una giustificazione delle opinioni che si possiedono. Un’interpretazione critica della
Scrittura è quella che esibisce una giustificazione adeguata dal
punto di vista lessicale, grammaticale, culturale, teologico, storico, geografico o di qualche altro genere2. In altre parole, l’esegesi critica nel senso in cui uso il termine è l’esegesi che esibisce dei buoni motivi per le scelte che compie e per le posizioni che adotta. L’esegesi critica si oppone alle semplici opinioni
personali, agli appelli ciechi a un’autorità (quella dell’interprete o di qualcun altro), alle interpretazioni arbitrarie e alle opinioni speculative. Ciò non significa negare che le cose spirituali devono essere giudicate spiritualmente né che sia irrilevante
2. Per questo uso del termine critico mi affido a Bernard Ramm, Protestant
Biblical Interpretation: A Handbook of Hermeneutics for Conservative
Protestants, 2. ed. Wilde, Boston, 1956, pp. 101–103. Questo materiale
non si trova nella terza edizione.
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Introduzione
la pietà; vuole piuttosto dire che neanche la pietà e il dono dello Spirito Santo garantiscono interpretazioni infallibili. Quando due interpreti, ugualmente pii, si presentano con due interpretazioni di un testo incompatibili, deve essere chiaro anche
al più spirituale di noi, e forse anche alla maggioranza di coloro che non si abbandonano a forme deteriori di polisemia (di
cui parlerò di più avanti), che non possono avere ragione tutti e due3. Se questi interpreti non sono solo spirituali ma anche
maturi, forse potremmo sperare che indagheranno sui motivi
per i quali sono giunti a conclusioni diverse. Con una verifica
attenta, cortese e onesta potrebbero trovare con il tempo una
soluzione alle opposte pretese interpretative. Forse ha ragione
uno e l’altro ha torto; forse hanno entrambi in parte ragione e
in parte torto e hanno bisogno di modificare le proprie posizioni; oppure, può essere che i due interpreti non riescono ad annullare le specifiche ragioni che li portano a dissentire e rimangono quindi incapaci di individuare il problema esegetico o ermeneutico e risolverlo. Non importa: dal nostro punto di vista,
quello che è importante è che i due interpreti siano impegnati in un’esegesi critica, un’esegesi che fornisce o tenta di fornire
una giustificazione adeguata per le conclusioni raggiunte e per
ogni opinione professata.
3. A volte un impedimento non permette di capire questo punto. Quasi venti anni fa ero in macchina con un altro credente che mi confidò
ciò che il Signore gli aveva «detto» quella mattina durante il tempo di
raccoglimento. Stava leggendo Matteo nella versione King James, e mi
resi conto che non solo aveva capito male l’inglese antico, ma che anche
quella versione in quel punto aveva tradotto male il testo greco. Suggerii con gentilezza che ci poteva essere un altro modo per comprendere
il brano e riassunsi quello che ritenevo fosse il suo significato. Il fratello
scartò il mio punto di vista ritenendolo impossibile in quanto lo Spirito
Santo, che non mente, gli aveva rivelato la verità su quel versetto. Essendo io allora giovane e intraprendente, andai avanti con la mia spiegazione di grammatica, sul contesto e sulla traduzione, ma le spiegazioni furono messe da parte grazie a un riferimento a 1 Corinzi 2:10b–15: le cose
spirituali devono essere giudicate spiritualmente, cosa questa che lasciò
pochi dubbi sul mio stato. Sinceramente curioso, chiesi a questo fratello
che cosa avrebbe detto se io avessi sostenuto la mia interpretazione non
per ragioni di grammatica e di testo ma perché il Signore stesso mi aveva dato l’interpretazione che proponevo. Rimase in silenzio per diverso tempo e poi concluse, «Suppongo che lo Spirito ci dice che la Bibbia
vuole dire cose diverse a persone diverse».
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fallacie esegetiche
Ma se l’esegesi critica offre buone ragioni, il suo compito deve anche essere quello di respingere ragioni sbagliate.
Ecco perché è importante il nostro studio. Illuminando le nostre fallacie esegetiche possiamo divenire dei migliori esperti di esegesi critica.
L’analisi attenta della Bibbia ci renderà capaci di «ascoltarla» un po’ meglio. È troppo facile imporre al testo della Scrittura interpretazioni tradizionali che abbiamo ereditato. Senza
renderci conto, trasferiamo l’autorità della Scrittura alle nostre
tradizioni e le investiamo di una falsa certezza se non addirittura di una certezza idolatra. Siccome le tradizioni si modificano nell’atto di essere tramandate, può accadere che con il passare del tempo possiamo essere trasportati lontano dalla Parola
di Dio, pur continuando a insistere che tutte le nostre opinioni teologiche sono «bibliche» e quindi vere. Quando siamo in
una simile condizione, se studiamo la Bibbia in modo non critico è probabile che il nostro studio non farà altro che rafforzare
i nostri errori. Se la Bibbia deve compiere la sua opera di continua riforma, sia della nostra vita sia della nostra dottrina, dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per ascoltarla nuovamente e
utilizzare le migliori risorse che disponiamo.
L’importanza di uno studio come il nostro non può correre il rischio di essere sopravalutata se dobbiamo andare verso
l’unanimità sulle questioni d’interpretazione che ancora ci dividono. Mi sto rivolgendo a coloro che hanno una considerazione molto alta della Scrittura: è triste osservare quante differenze ci sono fra noi per ciò che la Scrittura veramente dice. Certo, le grandi verità che ci uniscono non vanno minimizzate; ma
resta il fatto che fra quelli che credono che i canonici 66 libri
siano niente di meno della Parola di Dio scritta c’è una gamma
inquietante di opinioni teologiche incompatibili. Robert K. Johnston ha ragione quando scrive:
«[Che] gli evangelici, nel mentre sostengono tutti una norma biblica, raggiungano formulazioni teologiche contraddittorie su molte delle questioni principali che studiano è
un fatto che fa pensare alla natura problematica della loro
reale comprensione dell’interpretazione teologica. Sostenere che la Bibbia è autorevole ma non essere capaci di essere
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Introduzione
d’accordo su quello che dice (anche con gli altri evangelici)
è controproducente»4.
È probabile che l’accusa non sia formulata in maniera corretta: ciò che Johnston ritiene controproducente può essere
di natura ermeneutica ed esegetica; non necessariamente ha
a che fare con l’autorità della Bibbia. Tuttavia quest’affermazione ci aiuta a confrontarci con un certo, imbarazzante grado di confusione.
Perché, fra coloro che hanno la stessa, alta considerazione dell’autorità della Scrittura, ci sono alcuni che pensano che
le lingue siano il segno definitivo del battesimo dello Spirito,
mentre altri pensano che il dono delle lingue sia facoltativo e
ancora altri che non esista più come dono autentico? Come
mai ci sono alcuni che hanno un approccio dispensazionalista
alla Scrittura e altri che si definiscono teologi del patto? Come
mai ci sono diversi tipi di calvinisti e di arminiani, di battisti e
di pedobattisti? Come mai alcuni difendono risolutamente una
forma di governo della chiesa di tipo presbiteriana, mentre altri spingono verso forme di congregazionalismo e altri ancora
difendono i tre uffici e la struttura gerarchica che ha dominato
l’Occidente per quasi un millennio e mezzo fin dall’epoca dei
padri post–apostolici? Posso osare chiedere il significato della
Cena del Signore? O domandare la ragione per la quale esiste
una pletora di opinioni escatologiche?
In un certo senso, bisogna ammetterlo, le ragioni non sono
sempre razionali e suscettibili di essere corrette unicamente in
virtù di un migliore rigore esegetico. Molti insegnanti e predicatori locali non sono mai stati costretti a confortarsi intensamente con interpretazioni alternative; e siccome perderebbero una certa sicurezza psicologica se permettessero alle proprie
domande sollevate dalla lettura della Scrittura di essere formulate adeguatamente, è improbabile che rovesceranno le tradizioni ereditate. Ma io non sto parlando di queste persone. Per
amore della mia tesi restringo il campo ai conduttori più sapienti, maturi, formati e pii che si trovano in ogni posizione:
4. Robert K. Johnston, Evangelical at an Impasse: Biblical Authority in
Practice, John Knox, Atlanta, 1979, pp. vii–viii.
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fallacie esegetiche
perché non riescono a muoversi verso un’unanimità maggiore
su tutti i fronti dottrinali?
In prima battuta potrebbero esserci diverse, pratiche barriere da superare. I leader potrebbero pensare di non avere il
tempo da trascorrere in questo genere di dibattiti che potrebbe condurre a vere soluzioni. Probabilmente la maggior parte di loro pensa che l’altro sia così convinto della sua posizione
che ci sia poco da guadagnare nel tentare un tale dialogo, essendo convinti che la gran parte, se non tutto il cambiamento,
dovrebbe essere fatto dagli oppositori, i quali dovrebbero ammettere i loro errori e adottare la retta posizione! Altri potrebbero essere troppo insicuri nella posizione che hanno da tentare un confronto. Ma se potessimo rimuovere tutti questi tipi di
impedimenti, scopriremmo che le cause cruciali delle divisioni dottrinali fra queste ipotetiche guide che abbiamo adesso radunato (con la nostra immaginazione) per un’umile e profondo dibattito al fine di cercare di superare le loro divisioni, sarebbero differenze di opinione su ciò che veramente dice questo o quel brano, oppure sul modo in cui sono collegati questo
brano e quel brano.
È naturalmente possibile che un lungo e franco dibattito potrebbe in un primo momento non far altro che mostrare
la natura delle differenze oppure quanto esse siano intrecciate con problematiche più ampie. Alla fine, però, quando tutti questi rivoli secondari sono stati attentamente e umilmente esplorati, per il fatto che facevano sorgere difficili questioni esegetiche, ciò che resta da discutere tra coloro che hanno
un’alta considerazione della Scrittura saranno unicamente questioni esegetiche ed ermeneutiche. Anche se i nostri interlocutori giungessero solo al punto in cui riterrebbero insufficienti le
prove esegetiche per approdare a una decisione sicura, avranno comunque ottenuto qualcosa; infatti, quella posizione, raggiunta con onestà da entrambe le parti che si confrontano, indicherebbe che nessuna parte ha il diritto di escludere l’altra
su basi bibliche.
Di tanto in tanto sono stato coinvolto in simili discussioni;
a volte le ho anche cercate io stesso. A volte è impossibile andare lontano: le barriere emotive sono troppo alte o l’impegno
temporale necessario a raggiungere l’unanimità è troppo gran8
Introduzione
de. Ma quando si sono svolte discussioni profittevoli, si è registrato da ambo le parti una capacità crescente di distinguere
un buon ragionamento da uno cattivo, un ragionamento forte da uno debole.
Da ciò segue, allora, l’importanza dello studio delle fallacie esegetiche. Forse troveremo in esso un incentivo ulteriore
se ricordiamo come Paolo esorta i credenti di Filippi ad avere
un medesimo pensare, esortazione che va oltre il solo incoraggiamento a sopportare gli altri ma che richiede anche la ricerca
di un’unanimità nell’area cruciale del pensare i pensieri di Dio.
Ciò fa sicuramente parte della disciplina dell’amare Dio con le
proprie menti.
Come molta parte della nostra teologia, in molti casi le nostre pratiche esegetiche ci sono state tramandate da insegnanti che le hanno apprese dal passato. Se i nostri insegnanti e noi
stessi non ci siamo aggiornati, è probabile allora che le nostre
capacità esegetiche siano rimaste indietro rispetto a sviluppi
che sono intervenuti. L’ermeneutica, la linguistica, gli studi di
letteratura e di grammatica e il progresso informatico cospirano insieme per esigere da noi un’autocritica rispetto alle nostre
pratiche esegetiche. Inoltre, alcuni degli sviluppi sono occorsi
in aree sempre più ampie della vita cristiana (per esempio, l’impatto della nuova ermeneutica sulla nostra comprensione della
contestualizzazione nella missione mondiale) da richiedere una
riflessione urgente e matura. La somma di tutta la nostra utile competenza esegetica non ha raggiunto il suo apice ai tempi
della Riforma e neanche nel secolo scorso. Anche se possiamo
imparare da coloro che ci hanno preceduto, dobbiamo affrontare la dura realtà degli ultimi secoli; né la nostalgia né la posizione che per certi versi si può preferire, quella dello struzzo,
rimuoveranno le minacce o le opportunità che esigono nuovo
rigore nell’applicazione delle nostre capacità esegetiche.
Queste ultime due considerazioni mi ricordano l’osservazione di David Hackett Fischer, che si rivolge con durezza ai
suoi colleghi storici:
«Gli storci devono, inoltre, sviluppare prove critiche non
solo per le proprie interpretazioni ma anche per i metodi che
usano per giungere a esse ... Fra i miei colleghi è comune
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fallacie esegetiche
credere che qualsiasi procedura sia lecita, purché colui che
la usa pubblichi un articolo ogni tanto e non sia condannato come criminale. La condizione della moderna storiografia
è un po’ quella degli Ebrei al tempo dei Giudici: ognuno fa
quello che gli pare meglio. I campi sono seminati con il sale e
arati con una giovenca, e c’è carestia nel paese»5.
Non sono abbastanza preparato per dire se la condizione
dell’esegesi sia migliore o peggiore di quella della storiografia;
ma sicuramente ci sono dolorose similitudini.
L’ultimo motivo per cui questo studio ha assunto importanza è il cambiamento nel clima teologico che si è registrato
nel mondo occidentale negli ultimi trenta o quarant’anni. Con
il rischio di semplificare troppo, si potrebbe sostenere che la
generazione dei cristiani conservatori precedente a quella attuale affrontava degli oppositori i quali sostenevano di fatto
che la Bibbia non fosse affidabile e che solo gli ignoranti e i ciechi potevano affermare il contrario. Oggi ci sono naturalmente molte voci che dicono la stessa cosa; ma ci sono nuove voci
che insistono in modo forte sul fatto che il nostro vero problema è ermeneutico ed esegetico. I conservatori, ci viene detto,
non hanno compreso bene la Bibbia. Hanno imposto al testo
sacro un’idea artificiale di autorità e un’esegesi forzata di ogni
singolo brano. Una delle enfatizzazioni del duro, acerbo attacco al «fondamentalismo» da parte di James Barr è che i conservatori non capiscono veramente la Bibbia e che usano metodi
critici incoerenti e addirittura in maniera disonesta6. A un altro
livello, un’esplicita affermazione che si trova nel commentario
su Matteo di Robert H. Gundry è che il suo approccio al testo
è più fedele alla Scrittura di quello dei commentari tradizionali
conservatori7. Fenomeni simili sono diffusissimi.
Tutto ciò significa che un’apologetica tradizionale è in questi casi irrilevante. Siamo stati aggirati ai fianchi sulle questioni ermeneutiche ed esegetiche e uno dei passi che dobbiamo
5. David Hackett Fischer, Historians’ Fallacies: Toward a Logic of Historical Thought, Harper and Row, New York, 1970, pp. xix–xx.
6. James Barr, Fundamentalism, SCM, London, 1977.
7. Robert H. Gundry, Matthew: A Commentary on His Literary and Theological Art, Eerdmans, Grand Rapids, 1982.
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Introduzione
intraprendere per ritornare a discutere è quello di esaminare
nuovamente proprio i nostri metodi esegetici ed ermeneutici.
Ciò include la rigorosa messa a nudo delle argomentazioni pessime o deboli, sia nostre sia altrui.
I pericoli di questo studio
Se esistono delle ragioni che rendono importante uno studio
delle fallacie esegetiche ne esistono anche altre che rendono un
tale studio pericoloso.
La prima è che un persistente atteggiamento negativo è spiritualmente deleterio. La persona che fa della scoperta di tutte
le cose sbagliate lo scopo della sua vita, di quelle che hanno a
che fare con la vita in generale e di quelle che hanno a che fare
con un suo ambito, come l'esegesi, si espone a una catastrofe spirituale. La prima virtù a scomparire sarà la riconoscenza
a Dio sia per le cose buone sia per la sua protezione sovrana e
per i suoi propositi anche nelle cose cattive. Sarà presto seguita dalla perdita dell’umiltà, nel momento in cui il critico, molto informato sugli errori e sulle fallacie (soprattutto altrui!), inizia a sentirsi superiore a coloro che critica. L’esagerazione spirituale non è una virtù cristiana. Il negativismo eccessivo è un
nutrimento calorico per la superbia. Purtroppo non ho potuto
constatare che gli studenti delle scuole bibliche, per non parlare dei professori, siano esenti da questo pericolo.
Dall’altra parte, una concentrazione prolungata sugli errori e sulle fallacie potrebbe produrre un effetto piuttosto diverso in alcuni. In coloro che già si sentono insicuri o sono profondamente consapevoli delle responsabilità che stanno sulle
spalle di chi è incaricato di predicare tutto il consiglio di Dio,
uno studio del genere potrebbe spingerli allo scoraggiamento
se non alla disperazione. Lo studente sensibile potrebbe chiedersi, «se ci sono così tante trappole esegetiche, così tanti tranelli ermeneutici, come posso essere mai sicuro che sto interpretando correttamente e rettamente predicando le Scritture?
Come posso evitare la terribile responsabilità di insegnare falsità e imporre sulla coscienza del popolo di Cristo cose che Cristo stesso non impone, oppure rimuovere ciò che al contrario
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fallacie esegetiche
egli desidera che vada sostenuto? Quanto danno potrei fare
con la mia ignoranza e la mia confusione esegetica?»
A tali studenti posso solo dire che si faranno ancor più errori se non si intraprende uno studio come questo, di quanti se ne faranno se ci si confronta con domande difficili e si migliorano le proprie capacità. La differenza è che nel primo caso
si sarà inconsapevoli degli errori che si fanno. Se si è genuinamente preoccupati della qualità del proprio ministero e non
solo della propria insicurezza psicologica, si tratterà di un’alternativa inaccettabile. L’ignoranza può forse rendere le persone felici ma non è una virtù.
Il pericolo fondamentale in ogni studio critico della Bibbia è quello che gli ermeneutici ritengono la giusta distanza
tra soggetto e oggetto (distanziazione). Si tratta di una componente necessaria di un lavoro critico ma è difficile e a volte è costosa.
Possiamo cogliere la posta in gioco se consideriamo un fenomeno comune alla scuole bibliche, ricorrendo a un esempio.
Giuseppe Cristiani si convertì nel periodo della scuola superiore. Studiò informatica all’università ma serviva anche nella sua chiesa e aveva un efficace ministero nel gruppo locale degli studenti universitari. La sua devozione era calda e costante. Nonostante un occasionale periodo di crisi spirituale, sentiva spesso, mentre leggeva la Bibbia, che il Signore gli parlava. Tuttavia nella Bibbia c’erano così tante cose che non capiva.
Mentre raggiungeva la convinzione personale che avrebbe dovuto impegnarsi in un servizio cristiano a tempo pieno, la sua
comunità lo confermava nella sua comprensione dei doni e della chiamata. Consapevole delle sue limitazioni andò alla Scuola
Biblica con tutto il fervore di una nuova recluta.
Dopo sei mesi di Scuola Biblica, la situazione era molto diversa. Giuseppe trascorreva molte ore al giorno nel memorizzare la morfologia greca e a imparare i dettagli dell’itinerario
del secondo viaggio missionario di Paolo. Aveva anche iniziato
a scrivere saggi di esegesi; ma nel mentre completava i suoi studi sul lessico, i digrammi della sintassi, la sintesi delle opinioni
dei critici e la sua valutazione delle prove contrastanti, gli sembrava che la Bibbia non fosse così viva come un tempo. Giuseppe era preoccupato di questo; trovava che era più difficile
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Introduzione
pregare e testimoniare di quanto non accadesse prima di andare alla Scuola Biblica. Non capiva che cosa gli stesse succedendo; non credeva che la colpa fosse degli insegnanti, che per lo
più erano credenti pii, maturi e con molta conoscenza.
Passa altro tempo. A questo punto avrebbe potuto fare una
serie di cose. Poteva rifugiarsi in un pietismo difensivo che denunciava fortemente l’intellettualismo arido che vedeva intorno a sé; oppure poteva essere risucchiato in un vortice di impegno intellettuale che scaccia via l’adorazione, la preghiera,
la testimonianza e la meditazione della Scrittura; oppure poteva tirare avanti barcollando fino a quando veniva liberato con
la laurea e con il ritorno al mondo reale. C’è una via migliore?
Queste esperienze sono una componente necessaria della vita
di una Scuola Biblica?
La risposta è sì a tutte e due le domande. Tali esperienze
sono necessarie e sono causate dalla distanziazione. Tuttavia
comprendere il fenomeno può darci la possibilità di superare
meglio tali difficoltà, più di quanto accada realmente. Quando cerchiamo di comprendere il senso di un testo (o anche
di un’altra persona), per valutarlo criticamente, cioè, non in
modo arbitrario ma avendo delle buone ragioni sul modo in
cui l’autore voleva essere compreso, dobbiamo prima di tutto cogliere la natura e il grado delle differenze che separano
la nostra comprensione dalla comprensione del testo. Solo allora potremo fondere con profitto il nostro orizzonte di comprensione con l’orizzonte del testo, vale a dire solo allora potremo iniziare a plasmare i nostri pensieri secondo le direttive del testo affinché possiamo veramente comprenderlo. Fallire nell’attraversare il processo della distanziazione prima della fusione degli orizzonti significa di solito che non c’è stata
una vera fusione: l’interprete pensa di sapere quello che il testo intende ma troppo spesso gli ha semplicemente imposto i
propri pensieri.
Da qui consegue che se una Scuola sta insegnando a pensare in modo critico (nel senso in cui ho usato il termine), per forza di cose si faranno i conti con una qualche, preoccupante forma di dislocazione e distanziazione. Un’istituzione di valore inferiore non creerebbe tante difficoltà: in essa gli studenti sono
incoraggiati unicamente ad apprendere e non a valutare.
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fallacie esegetiche
La distanziazione è difficile e può essere costosa. Ma non
posso astenermi dal sottolineare che non è un fine in sé. Il suo
giusto complemento è la fusione degli orizzonti di comprensione. Se questa parte del compito interpretativo è nutrita insieme alla distanziazione, non sarà così distruttiva. Infatti, la vita
cristiana, la fede e il pensiero che emergono da questo doppio
processo saranno più robusti, più attenti spiritualmente, più
pieni di discernimento, più biblici e più critici di quanto sarebbero stati altrimenti. Ma alcune delle tappe sono pericolose: bisogna imparare a integrare l’intero percorso con l’impegno cristiano e il tema di questo studio sarà di beneficio a tale scopo.
Se si fallisce nell’impegno in una tale integrazione ci si predispone a naufragare spiritualmente.
I limiti di questo studio
Questo studio non presenta un’analisi molto tecnica. È stato
pensato per studenti di Scuole Bibliche e per altri che prendono sul serio la propria responsabilità nell’interpretare le Scritture; ma non aggiunge niente al sapere che hanno gli esperti.
Forse dovrei aggiungere che il titolo, Fallacie esegetiche
(non Fallacie ermeneutiche), si concentra su coloro che fanno
esegesi. Con il rischio di fare una distinzione troppo semplicistica, sostengo che l’esegesi ha a che fare con l’interpretazione
del testo mentre l’ermeneutica ha a che fare con la natura del
processo interpretativo. L’esegesi conclude dicendo, «Questo
brano significa questo»; l’ermeneutica conclude affermando,
«Questo processo interpretativo presenta i seguenti metodi ed
è affetto dai seguenti preconcetti». Le due cose sono ovviamente collegate. Ma benché l’ermeneutica sia una disciplina importante in sé, idealmente non è fine a se stessa: è serva dell’esegesi. In un certo senso, siccome sto discutendo di vari aspetti
del processo interpretativo, si può dire che il mio è uno studio
ermeneutico; ma siccome l’enfasi qui non è tanto sul processo
considerato da un punto di vista teorico ma dal punto di vista
di chi lo pratica e che deve spiegare ciò che il testo sacro vuole
dire, ho sottolineato nella presentazione il lato esegetico di tutti i possibili significati.
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Introduzione
Siccome non è uno studio tecnico, non ho fornito ampie informazioni bibliografiche. Ho incluso nella presentazione solo
le opere citate o a cui mi riferisco (anche se di sfuggita).
Questo studio si concentra sulle fallacie esegetiche, non sugli errori storici e teologici, tranne che nel momento in cui influenzano l’esegesi.
Non credo di essere stato esaustivo nella presentazione dei
tipi di errori che discuto in questo libro. Gli errori di cui parlo sono quelli che sulla base della mia esperienza ritengo fra i
più comuni.
Tuttavia, ho cercato di essere imparziale negli esempi. Ho
citato fallacie esegetiche tratte dalle opere di liberali e conservatori, dagli scritti di calvinisti e di arminiani. Sono menzionate
persone quasi sconosciute come pure studiosi famosi. Due dei
miei personali errori esegetici vengono da me sepolti definitivamente con vergogna. I miei esempi sono stati tratti per lo più
da fonti piuttosto serie, non dalle pubblicazioni popolari dove
il numero di errori è più alto; ma ho anche incluso alcuni esempi tratti da predicatori popolari. Una leggera maggioranza di
esempi provengono da scrittori evangelici ma ciò riflette il pubblico per cui questo studio è stato per primo preparato.
In queste pagine non c’è un’analisi del ruolo che lo Spirito Santo ha nel nostro compito esegetico. Il tema è importante
e difficile ma significherebbe spostare l’enfasi sul piano ermeneutico il che andrebbe a detrimento dell’utilità di questo libro
come manuale per chi pratica l’esegesi.
In breve, si tratta in primo luogo di una raccolta di fallacie
esegetiche tipiche dei principianti.
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