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Il corridoio della paura (Shock Corridor)
Un film di Samuel Fuller. Con James Best, Gene Evans, Constance Towers, Peter Breck.
Genere Drammatico, b/n, 101 minuti. Produzione USA 1963.
Il giornalista Barrett vuol vincere il premio Pulitzer e simula di essere un malato di mente per venire
ricoverato in un manicomio e fare un reportage su un delitto insoluto. Di esso sono stati testimoni
tre malati, che egli riesce a interrogare: un soldato che ha subito in Corea il lavaggio del cervello,
uno studente nero vittima di vessazioni razziste che adesso crede di essere un bianco del Ku Klux
Klan, e uno scienziato atomico che le ricerche sulla fissione nucleare hanno fatto ricadere
nell’infanzia... È quest’ultimo che lo mette sulla pista del colpevole. Barrett riesce nella sua impresa
e vince davvero il Pulitzer, ma il prolungato soggiorno nel manicomio e l’esperienza della follia lo
portano a diventare pazzo davvero. Una didascalia apre il film, con una frase di Euripide: «Giove
rende pazzi coloro che vuole afferrare». Cori Il corridoio della paura Samuel Fuller (nato nel 1921)
ha realizzato una favola moderna «piena di urlo e furore», caratteristica di un temperamento
caloroso ed esplosivo, di uno stile fatto di folgorazioni barocche e di sincopi visive, e anche di un
humour sarcastico fino al delirio: sono i caratteri che hanno fatto di lui un fenomeno del cinema
contemporaneo. Secondo Martin Scorsese, Fuller è uno specialista della violenza emotiva; secondo
Bertrand Tavernier un democratico, generoso, idealista, cinico, che nasconde un animo di
visionario; e secondo Jean-Luc Godard, che l’ha messo non a caso in una scena chiave di Pierrot le
fou, semplicemente un barbaro. In Il corridoio della paura, Fuller vuol denunciare tre cancri che
attaccano il mondo attuale: il razzismo, l’intolleranza e la scienza non controllata del pensiero e
dalla morale. Non si tira indietro di fronte a nessuna esagerazione, non si preoccupa della
verosimiglianza (le terapie praticate nel manicomio sono assolutamente fantasiose!) pur di sostenere
la sua dimostrazione. Questo ex corrispondente di guerra ha sempre fatto un cinema al
lanciafiamme: ogni sequenza è come un presidio da conquistare, un terreno da neutralizzare. Gli
accade di farlo con una gran pesantezza, ma che importa? il corridoio della paura veicola anche
materiali residui, trascinati nel flusso torrentizio su cui naviga questa nave di pazzi, una costruzione
senza alberature e senza bussola, ma non senza pilota. (Da I capolavori del cinema, Vallardi,
Milano, 1990)
***
Ci sono registi americani che la critica francese ha pressoché rovinato, montando loro la testa e
trasformandoli da onesti artigiani in falsi padreterni, Ad altri, invece, l’interessamento entusiastico
dei “Cahiers du Cinéma” ha giovato: tra questi mettiamo senz’altro Samuel Fuller. Nato nel
Massachussetts cinquantatré anni fa, ex giornalaio, ex giornalista, ex scrittore di libri gialli, ormai lo
conosciamo bene dalle fotografie: tracagnotto, sorridente, con una zazzera da artista e un grosso
sigaro eternamente acceso. Pur avendo visto quasi tutte le sue opere (ha esordito nel 1948 con uno
strano western di seconda categoria, Ho ucciso Jess il bandito) non ci eravamo mai accorti di aver a
che fare con un genio, lo avevamo sempre confuso con altri registi minori. Uno dei suoi film, Mano
pericolosa, ci aveva anche fatto arrabbiare per un premio immeritatamente vinto alla Mostra di
Venezia. Lasciamo da parte i pezzi deliranti che dedicano a film come La casa di bambù o L ‘urlo
della battaglia i “giovani turchi” dei “Cahiers”. Però il buon Fuller, vedendosi considerato fra i
maestri, ha preso coraggio e si è lanciato in imprese ambiziose. Di il corridoio della paura, per
esempio, non si può dire che sia un film banale. È vero che sul tema del giornalismo a sensazione
Billy Wilder ha detto una parola definitiva con L’asso nella manica: tuttavia anche in questo film,
dove un reporter senza scrupoli si fa passare per matto e rinchiudere in manicomio, c’è grinta e
passione civile. Il difetto maggiore è che la conclusione appare prevedibile fin dalle prime battute: il
finto pazzo, attraverso la convivenza con i malati e le cure che gli vengono praticate nella clinica,
diventerà un pazzo vero. Vincerà il Premio Pulitzer, ma non sarà più capace di ritrovare se stesso.
Un altro difetto del film è il turgore eccessivo dell’espressione, la decisione di puntare sugli effetti
più emozionanti e senza esclusione di colpi. Si tratta di un apologo trasparentissimo sull’inutilità
della corsa al successo in un mondo dove la nevrosi sta facendo più vittime di una guerra mondiale.
Fuller ci è più simpatico mentre tira questo campanello d’allarme di quando esaltava le spie
pseudopatriottiche o i “marines” ammazzasette. In Il corridoio della paura ha inserito anche un
episodio sul problema dell’integrazione, mostrando uno studente negro (l’attore si chiama Hari
Rhodes ed è formidabile) uscito di senno per la tremenda prova di frequentare un’università sudista.
Nella sua follia il negro si crede bianco, porta cartelli segregazionisti, ruba le federe dei cuscini per
farsene cappucci da uomo del Klan, arringa gli altri malati con slogan razzisti e promuove linciaggi.
Questo capitolo è il più riuscito di un film dove il manicomio è rappresentato un po’ come nelle
vignette: c’è il pazzo che canta sempre, quello che si crede il generale Stuart, quello che gioca come
un bambino e via dicendo.
(Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962-1966, Edizioni Il Formichiere )
Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo's Nest)
Un film di Milos Forman. Con Louise Fletcher, Brad Dourif, Danny DeVito, Jack Nicholson,
Christopher Lloyd, Will Sampson, Phil Roth, William Redfield, Michael Berryman, Peter
Brocco, Dean R. Brooks, Alonzo Brown, Scatman Crothers, Mwako Cumbuka, William
Duell, Josip Elic, Lan Fendors, Nathan George, Ken Kenny. Genere Drammatico, colore,
133 minuti. Produzione USA 1975.
Candidato a nove Oscar, questo film prende le mosse da un romanzo di Ken Kesey pubblicato nel
62 e dalla commedia che ne trasse Dale Wasserman l’anno successivo. Andò in scena a Broadway
con scarso successo, ma fu immediatamente ripresa da un’infinità di teatri negli USA. Kirk
Douglas, che ne era l’interprete, ha tentato per tutti questi anni di ricavarne un film; e adesso
Qualcuno volò sopra il nido del cuculo è prodotto dal figlio di Douglas, Michael. Siamo in un
istituto psichiatrico dell’Oregon, dove viene accolto per un controllo clinico un pregiudicato. Di
temperamento ribelle e sempre allegro, McMurphy sobilla i suoi compagni smascherando il
carattere repressivo e carcerario dell’istituzione: la sua rivolta durerà poco, ma lascerà un segno. Il
merito maggiore del film (il cui strano titolo significa, in slang, «volare sopra la gabbia dei matti») è
quello di collegare la condizione dei presunti malati di mente a quella degli indiani, attraverso la
figura di un gigantesco pellerossa che si finge sordomuto ed è richiamato al gusto della vita dal
protagonista. Da oltre un secolo la civiltà imperialista continua ad avanzare, negli USA, attraverso il
genocidio: prima ha distrutto gli indiani, adesso ha elaborato un feroce sistema di difesa contro gli
emarginati e i diversi. Il manicomio è come la riserva, la psichiatria come il razzismo. Detto questo
bisogna aggiungere che il film è diretto con grande maestria dal cecoslovacco Milos Forman e
interpretato da una schiera di attori formidabili, fra i quali campeggia unjack Nicholson in forma
smagliante. Naturalmente Qualcuno volò va visto per quello che è, cioè un perfetto prodotto di
confezione.
(Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere)
Shining (The Shining)
Un film di Stanley Kubrick. Con Scatman Crothers, Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny
Lloyd, Barry Nelson, Philip Stone, Joe Turkel, Anne Jackson, Tony Burton, Lia Beldam,
Billie Gibson, Barry Dennen, Lisa Burns, Louise Burns. Genere Thriller, colore, 146 (142120) minuti. Produzione USA 1980.
Dal romanzo di Stephen King intitolato in italiano Una splendida festa di morte (Sonzogno),
Kubrick ha preso lo spunto per uno spettacolo multimiliardario che dovrebbe essere «the ultimate
horror movie», cioè la parola definitiva nel campo del film dell’orrore. Jack Nicholson accetta
l’incarico di guardiano d’inverno dell’Overlook Hotel sulle montagne del Colorado, ma fin
dall’inizio sospettiamo che qualcosa non funzionerà nella segregazione stagionale della famigliola.
Mentre la moglie Shelley Duvall sgrana gli occhi di fronte al lusso dei saloni e degli ambulacri, il
figlioletto Danny Lloyd li percorre a gran velocità in triciclo: purtroppo il dono dello «shining»
(cioè della veggenza), illumina il bambino sugli orrori già accaduti in quel posto e su quelli che
accadranno. Romanziere in crisi, Nicholson consuma le giornate scrivendo e riscrivendo a macchina
la stessa inutile frase: finché in un rigurgito di odio contro la famiglia, considerata responsabile del
suo fallimento, brandisce l’ascia come già fece un suo predecessore nello stesso luogo e si prepara a
fare una strage. I fantasmi invadono la scena, imponendosi come presenze reali a tutti e tre i
protagonisti. Cercando inutilmente di spaventarci a morte, Kubrick riscuote piuttosto la nostra
ammirazione: per il virtuosismo stilistico e per il carico di significati che è capace di estrarre da un
pretesto del tipo generalmente usato nei film di serie B. Con Shining sembra appunto di rivisitare
uno di questi classici minori sottobraccio con un saggista genere Umberto Eco. Sicché il film lascia
un sospetto: è vero cinema o è una lezione sul cinema? E quella di Nicholson è una grande
interpretazione sopra le righe o una patetica commemorazione di Lon Chaney?
(Da Tullio Kezich, Il nuovissimo Mille film. Cinque anni al cinema 1977-1982, Oscar Mondatori)
***
Dal romanzo (1977) di Stephen King: sotto l'influenza malefica dell'Overlook Hotel sulle Montagne
Rocciose dove s'è installato come guardiano d'inverno con moglie e figlio, Jack Torrence sprofonda
in una progressiva schizofrenica follia che lo spinge a minacciare di morte i suoi cari. Più che un
film dell'orrore e del terrore, è un thriller fantastico di parapsicologia che precisa, dopo 2001:
odissea nello spazio e Arancia meccanica, la filosofia di S. Kubrick. L'aneddotica di S. King
diventa fiaba e rilettura di un mito, di molti miti, da quello di Saturno a quello di Teseo e del
Minotauro, per non parlare del tema dell'Edipo. Il prodigioso brio tecnico-espressivo è al servizio di
un discorso sul mondo, sulla società e sulla storia. Totalmente pessimista, Kubrick nega e fugge la
storia, ma affronta l'utopia riaffermando che le radici del male sono nell'uomo, animale sociale, ma
non negando, anzi esaltando, la possibilità di una riconciliazione futura, attraverso il bambino e il
suo shining (luccicanza) e quella di una nuova e diversa concordia. Abbreviato di 4 minuti dallo
stesso Kubrick. La durata di 120 minuti è quella di un'edizione italiana non approvata dal registaproduttore. Ottimo doppiaggio di G. Giannini per J. Nicholson. (Il Morandini 2007)
Come in uno specchio (Säsom i en spegel)
Un film di Ingmar Bergman. Con Harriet Andersson, Max von Sydow, Gunnar Björnstrand,
Lars Passgard. Genere Drammatico, b/n, 92 minuti. Produzione Svezia 1961.
Il film comincia in modo indimenticabile: con i quattro protagonisti che escono saltellando, in
campo lungo, da un mare fosco color acciaio, quasi uscissero dall’inferno per raccontarci i loro
tormenti. Sono David, un maturo romanziere; i suoi figli Karin e Minus; il marito di Karin, che si
chiama Martin e fa il medico. Gli interpreti, sempre straordinari, sono volti ben noti agli
appassionati di Bergman: Gunnar Bjòrnstrand, Harriet Andersson e il grande Max von Sydow; il
giovane Minus, diciassettenne, è impersonato da un attore nuovo, bravissimo anche lui, Lars
Passgard. Fra i quattro, che trascorrono le vacanze sopra un isolotto, si è stabilito un cameratismo
affettuoso e chiassoso. Ma da poche battute accortamente distribuite nel concertato degli scherzi e
dei discorsi indifferenti, ci accorgiamo che serpeggia il dramma dell’incomprensione. I figli non si
sentono abbastanza amati dal padre, romanziere alla moda, che sta lontano per lunghi periodi e non
riesce più a comunicare con loro; il padre avverte con dolore questo abisso ormai esistente; ma
sente più forte il richiamo dell’ambizione. A ciascuno dei personaggi, nel corso del film, Bergman
concede un momento di solitaria disperazione; fa eccezione solo Martin, il medico equilibrato e
razionalista, che il regista tuttavia sospetta di aridità. L’occasione che fa scoppiare la tragedia è
l’arrivo di una crisi di Karin, malata di nervi da poco dimessa dal manicomio. La donna è una
schizofrenica che nei cedimenti della ragione crede di parlare con Dio: la sua, in realtà, è una
sindrome a sfondo sessuale, tant’è vero che Karin finisce per sedurre il fratellino Minus. Sull’orrore
dell’incesto, e sul pronto ricovero della poveretta, si concludono le vacanze della famiglia. David ci
fornisce una specie di epigrafe al film, spiegando al figlio in un estremo tentativo di comunicare con
lui che solo l’amore di Dio può redimerci dagli orrori della condizione umana. Dopo un’apertura da
capolavoro, Come in uno specchio ripiega sull’esteriorità drammatica e sulla dialettica, Karin, che
sale in soffitta per udire la voce di Dio, non è più un personaggio, ma l’incarnazione di un’ipotesi
filosofica; la lettura da parte della donna di un brano del diario paterno in cui si parla del suo male
incurabile, episodio che determina la crisi, è un espediente da vecchio teatro; e il lungo dialogo fra
David e Martin nel motoscafo è decisamente brutto. Lo stesso personaggio dello scrittore,
nonostante l’intensità che gli conferisce l’interpretazione di Björnstrand, ha troppi illustri
precedenti, dal Trigorin di Il gabbiano a Tonio Kröger di Thomas Mann, per interessarci veramente,
E l’incesto è un motivo della letteratura mitteleuropea e nordica, dagli amplessi di Siglinda e
Sigmundo nella Walkiria a L’uomo senza qualità di Musil, ma noi certo non lo metteremmo, come
Bergman sembra fare, sul conto dell’amore universale, fra le prove dell’esistenza di Dio. Come in
uno specchio rappresenta finora, in tutti i casi, l’avvicinamento massimo di Bergman a una
concezione cattolica della religiosità, lasciandosi bene indietro il panteismo sereno di Il posto delle
fragole e il razionalismo stoico di Il settimo sigillo. Se questo sia un bene o un male, se possa
giovare
o
nuocere
all’arte
di
Bergman,
ce
lo
diranno
i
prossimi
film.
(Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962-1966, Edizioni Il Formichiere)
L'ora del lupo (Vargtimmen)
Un film di Ingmar Bergman. Con Max von Sydow, Ingrid Thulin, Liv Ullmann, Georg
Rydeberg, Gertrud Fridh. Genere Drammatico, b/n, 90 minuti. Produzione Svezia 1966-68.
Ingmar Bergman: Cinematografia n. 28, secondo la titolazione rigorosa che lo svedese dichiara di
preferire. Anche il maestro di Il posto delle fragole talvolta dormicchia, ma sempre con sogni
popolati da incubi. Se alla base dell’arte di Bergman esiste una nevrosi, di cui i film sono
testimonianze poetiche, bisogna riconoscere che il regista è tanto più grande quanto più riesce a
esorcizzare e controllare le proprie ansie. Dopo Persona, un teorema svolto nell’area desertica che il
nostro secolo ha scoperto oltre Auschwitz e Hiroshima, il nuovo film sembra appartenere davvero
all’ora del lupo: il momento più nero della notte, prima dell’alba, quando le ossessioni diventano
intollerabili e tanta gente muore. Torna in scena la coppia maledetta, il pittore Max von Sydow e la
sua compagna Liv Ullmann: segregati in una delle solite isole bergmaniane, replicano la Danza di
morte di Strindberg ovvero lo strazio della vita a due nella luce livida del fallimento. Stralciato dal
contesto storico, riappare il tema di Persona: la progressiva identificazione-sovrapposizione di due
individui fino allo smarrimento della personalità. Qui è la donna innamorata che eredita con orrore
gli incubi del marito dopo la scomparsa di lui, come a confermare che le battaglie contro l’esercito
degli spettri sono perdute in permanenza. In questo film Bergman non è stato confortato da
un’autentica ispirazione: il Kammerspiel procede con il fiato corto fra le stregonerie già note, dai
riferimenti esoterici di Il flauto magico alle perversioni sessuali, da un impianto di romanzo nel
romanzo (sono visibili, nel prologo e nell’epilogo, i segni del film in lavorazione) a un delitto
inutile (il pittore uccide un ragazzo che lo guarda pescare) che ricorda Non si sa come di Pirandello.
C’è anche qualcosa di Giulietta degli spiriti nella grottesca irrealtà dei personaggi-incubi, ma in una
chiave espressionista troppo greve.
(Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere)
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Nella sua casa d'estate su un'isola Johan Borg (M. von Sydow), pittore famoso, insoddisfatto e
misantropo, “padrone” geloso di sua moglie Alma (L. Ullmann) e terrorizzato dalle ore notturne,
tiene un diario dove annota i démoni della nevrosi e le allucinazioni che lo tormentano. In un
castello vicino, ad Alma, che ha letto il diario, appaiono persone che assomigliano a quei démoni.
Elaborazione di un copione (Gli antropofagi) scritto anni prima e girato nel 1966, è un film
“terribilmente personale”, uno dei più foschi e appenati di Bergman. Il ricorso all'espediente dei
fantasmi è giocato sulle corde di una ironia romantica che, nelle intenzioni dell'autore, è uno
strumento per far sì che lo spettatore non s'identifichi con i personaggi, ma mantenga un distacco
critico. “Ho osato fare alcuni passi, ma non ho percorso tutta la strada... È un passo barcollante nella
direzione giusta” (I. Bergman). (Il morandini 2007)
Psyco
Un film di Alfred Hitchcock. Con Janet Leigh, Anthony Perkins, Vera Miles, John Gavin,
Martin Balsam, John McIntire, Simon Oakland, Patricia Hitchcock, Frank Albertson, Lurene
Tuttle, John Anderson. Genere Giallo, b/n, 109 minuti. Produzione USA 1960.
“Per comprendere Psyco – ha dichiarato in Francia Aifred Hitchcock – occorre una eccezionale
dose di humour”. Strano discorso, almeno in apparenza, che la prima, sgradevolissima impressione
data dal film è quella di uno Hitchcock che abbia cominciato a prendersi sul serio: senza la benché
minima traccia di quel salutare tocco di umorismo che gli aveva permesso di salvare le sue pellicole
più improbabili, e con il ricorso al più vieto repertorio dei film dell’orrore, proprio nel modo
attualmente in voga dei vampiri e dei rigurgiti di Boris Karloff (c’è il motel sinistramente solitario,
non manca un cadavere imbalsamato a metà, e scorrono ettolitri di sangue). Pur se il film ci sembra
il peggiore fra quanti Hitchcock ne abbia realizzati ultimamente, dobbiamo peraltro ammettere che
il regista vi ha svolto fino in fondo, in ogni sua implicazione, un tema che andava accarezzano da
diverso tempo: la creazione di un “protagonista immaginario” e l’identificazione fra questi il
protagonista reale. Basta pensare – tralasciando gli abbozzi ancora timidi di L’ombra del dubbie e
di L’altro uomo, di Caccia al ladro e di La finestra sui cortile – alle due sue prove più recenti: La
donna che visse due volte e Intrigo internazionale. Nel primo caso, Judy fingeva di essere
Madeleine Elster per secondare il piano criminoso dell’amante (e solo come Madeleine aveva
rilievo sullo schermo); nel secondo Roger Thornhill, scambiato per un inesistente George Kaplan
coniato a fini di spionaggio dal Fbi, si convinceva di dover essere, appunto, questo Kaplan. Qui
Norman Bates vuole invece identificarsi con la sua inesistente madre, lo ha sempre voluto prima
ancora di apparire sullo schermo: per placare il rimorso di averla uccisa, ma anche e soprattutto per
sfogare il suo complesso di Edipo, la sua impotenza, la sua tendenza al “travestismo”.
Un caso clinico, dunque, attorno al quale e in funzione del quale Hitchcock mobilita un bagaglio di
facili “cifre” pseudofreudiane; gli uccelli impagliati, le coltellate come sostituzione dello stupro, la
madre nel sottosuolo. Ma se l’orrore, l’anormale e il patologico predominano totalmente, se i
personaggi “sani” appaiono, per la prima volta in Hitchcock, privi di qualunque rilievo (si veda il
peso soltanto fisico di Sam, o l’inesistenza di Lila), non si può nemmeno dire che il film costituisca
uno studio coraggioso e serio di tale “caso “: unica preoccupazione dell’autore è al contrario quella
di imbrogliare le carte, di tenere la verità segreta fino all’ultimo istante, di concentrare ogni
attenzione sulla madre di Norman – che non esiste – anziché su Norman, riducendo così in limiti
ben precisi la stessa recitazione, peraltro notevolissima, di Anthony Perkins. Hitchcock non ripete
l’audacia di La donna che visse due volte: la confessione cioè, mezz’ora prima del finale, della non
esistenza di Madeleine: al dramma umano e vero di Judy, del resto, non aveva saputo dare alcun
risalto dopo averla spogliata della sua personalità fittizia, del suo “mistero”. La “spiegazione” in
Psyco – la luce, se vogliamo, dopo la discesa nel maelstrom della follia – arriva a film terminato, e
consiste in una scialba lezioncina di psicoanalisi in pillole ancor più fastidiosa che nel vecchio Io ti
salverò. A parte ciò, il film si limita a sfruttare, con abilità consumata e gratuita, le conseguenze più
“shocking” delle sue torbide e sottaciute premesse; e forse in questo senso – nel senso cioè di un
gioco compiaciuto e fine a se Stesso – si può comprendere l’allusione allo “humour” più sopra
ricordata. Soltanto individui prevenuti o incapaci di intendere possono considerare “immorali” le
coltellate inferte da Simone a Nadia in Rocco e i suoi fratelli e lasciar passare quelle di Norman a
Marion Crane: la dimensione tragica e la violenza espressiva sono funzionali, in Visconti, ai fini di
una netta condanna, mentre Hitchcock diverte e si diverte, scivola dalla compiacenza sessuale a
quella necrofila, oltrepassa i limiti stessi del buon gusto (la carrellata che parte dal dettaglio di un
occhio spalancato della ragazza morta, successiva al particolare del sangue colante nel tubo di
scarico) e soprattutto chiama il pubblico a godere, in uno stato di inconscia complicità, di un atto
lungamente pregustato. L’omicidio – sostituzione dello stupro – è promesso fin da quando Norman
spia Marion attraverso il quadro, o, ancor prima, da quando la ragazza e Sam fanno all’amore
seminudi nella camera d’albergo: e lo spettatore, com’era chiaramente detto in La finestra sul
cortile, è identificato ancora una volta con il “voyeur” “Giallo” tutto sommato assai modesto,
realizzato con un bilancio evidentemente limitato e con un soggetto assurdo, Psyco ha ai nostri
occhi il grave torto di essere stato preso troppo sul serio, e possiede, in compenso, due discutibili
meriti: una fattura tecnica più che abile (basti pensare alla trasformazione subita da un’attrice come
Janet Leigh), e una palese impalcatura “ideologica” che permette di toccare con mano le basi
culturali di Hitchcock e della sua particolare “letteratura amena dell’angoscia”. Questa volta, gli
zelatori parigini del regista non hanno avuto bisogno di arrampicarsi sugli specchi per scovare
significati metafisico-freudiani: anche se hanno voluto egualmente passare il segno, e ci hanno
spiegato che l’agente della polizia stradale è un angelo custode, Marion rappresenta la possibilità di
scegliere, Norman la dannazione, e Psyco costituisce un dibattito sul libero arbitrio e la
predestinazione. Tutti elementi che non risultano nel film, ammesso – e non concesso – che a
Hitchcock interessasse farli risultare.
(di Guido Fink, da Cinema Novo, 1960)
***
Una bella impiegata ruba quarantamila dollari e fugge. Cambia la macchina, si trova nel mezzo di
un temporale e decide di passare la notte in un motel. Il proprietario è Norman, all'apparenza un
ottimo ragazzo che manifesta soltanto qualche piccola stranezza, come quella di impagliare uccelli.
Il motel non ospita nessun altro cliente. La donna decide di fare una doccia prima di dormire. Sotto
l'acqua viene aggredita e uccisa da un'altra donna, che si intravvede appena. La mattina Norman
scopre il corpo. Sconvolto fa pulizia, mette il cadavere nel bagagliaio e fa sparire la macchina nelle
sabbie mobili. Sconvolto perché sa che l'assassina è sua madre, che è patologicamente gelosa del
figlio e non sopporta neppure che parli con altre donne. Un investigatore privato, con l'aiuto del
fidanzato della donna uccisa, riesce a risolvere la matassa, anche se ci rimette la vita. Norman e sua
madre sono la stessa persona: il ragazzo è pazzo, dopo aver ucciso la madre per gelosia ne custodiva
il corpo in soffitta e si identificava in lei non sopportando il rimorso del proprio delitto. Psycho non
era certo il migliore dei film di Hitchcock ma a volte le vie del culto percorrono strade misteriose.
Negli anni Sessanta la pratica dell'inconscio non era certamente una novità, lo scalpore c'era già
stato nel 1944 con Io ti salverò (Gregory Peck, con l'aiuto della Bergman e di un "freudiano" risolve
le proprie angosce risalendo analiticamente a un incidente infantile), ma Anthony Perkins aveva
dato un'interpretazione di tale efficacia da divenire da quel momento il più famoso "pazzo" della
storia del cinema, senza più una possibilità autentica di emanciparsi da quel ruolo. La critica non ha
mai perdonato a Hitchcock l'eccesso di crudezza (e di effetto) di certe scene. Ricordiamo le più
famose: il teschio della madre seduta sulla sedia girevole, la morte del detective privato (Martin
Balsam), la sinistra casa Bates sempre inquadrata contro un cielo minaccioso. Soprattutto la
sequenza dell'uccisione di Janet Leigh sotto la doccia ha creato una vera psicosi collettiva.
(MYmovies 2007 - Giancarlo Zappoli)
Fitzcarraldo
Un film di Werner Herzog. Con Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy. Genere
Avventura, colore, 157 minuti. Produzione Germania 1981.
Agli inizi del Novecento l'eccentrico Brian Sweeney Fitzgerald, barone irlandese del caucciù, vuole
costruire a Iquitos, nel cuore dell'Amazzonia peruviana, il più grande teatro d'opera di tutti i tempi
per farci cantare Enrico Caruso. Costato 8 miliardi (più tutti gli averi del regista, due morti, parecchi
feriti e tre anni di lavorazione) questo film, frutto di un'operazione un po' folle, è paradossalmente il
più ordinato e accademico del più sregolato autore del nuovo cinema tedesco. Narrato a ritmo lasco
col tran tran di uno sceneggiato TV, ha un solo personaggio vivo: il battello il cui assurdo ed epico
trasporto attraverso il colle occupa 45 minuti. I momenti d'incanto e le sequenze visionarie,
comunque, non mancano. Si apre e si chiude con un frammento delle 2 opere ottocentesche che
hanno per protagonista Elvira: Ernani (1844) di G. Verdi e I puritani (1835) di V. Bellini. Esiste
sulla romanzesca lavorazione del film un bel documentario di Les Blank, Burden of Dreams (1982),
che, secondo alcuni, è persino più affascinante del film. (Il Morandini 2007)
***
Brian Sweene Fitzgerald, detto Fitzcarraldo, è un curioso personaggio che ha le sembianze
allucinate di Klaus Kinski: vive nella foresta amazzonica, dove sogna di costruire il più grande
teatro d'opera del mondo e di farlo inaugurare addirittura da Caruso. Dopo essere stato scambiato
per un Dio dagli indios della foresta, il nostro folle eroe riuscirà a realizzare almeno in parte il suo
sogno, portando in Amazzonia un gruppo di musicisti e di cantanti d'opera. Werner Herzog è capace
di compiere azioni inaudite in nome di una sua concezione titanica e assoluta del cinema. Fra le sue
imprese più incredibili c'è proprio Fitzcarraldo la cui vicenda è emblematica del cinema di questo
autore. Fitzcarraldo è un film caotico e poco compatto, un film in cui ci sono ingenuità clamorose e
cadute di tono seccanti. Ma è un film che riesce ad allargare i confini del visibile, una specie di
viaggio lungo i confini del cinema. Un film d'amore e di follia. Un film assurdo che ha un metodo e
una logica rigorosa. Quando, dopo avere tanto sofferto con Kinski e con Herzog, vediamo entrare in
porto la nave di Brian Sweeny Fitzgerald, con le note di Bellini sparate a tutto volume da un
grammofono, perdente di fronte alla tirannia del capitale, vincitore nell'ottica degli uomini e del
destino, ogni resistenza cade e gli occhi si riempiono di gratitudine. (Il Farinotti 2007)
Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes)
Un film di Werner Herzog. Con Klaus Kinski, Helena Rojo Del Negro, Ruy Guerra, Peter
Berling. Genere Storico, b/n, 94 minuti. Produzione Germania, Messico, Perù 1972.
Occhio a Werner Herzog, il regista bavarese, 33 anni,. di cui in Italia, zona anche
cinematograficamente depressa, si sa poco o nulla, ma che promette di entrare a far parte-della
famiglia dei maestri. In attesa che arrivi sui nostri schermi Ognuno per sé e Dio contro tutti,
premiato all’ultimo festival di Cannes, Aguirre, furore di Dio, il film precedente (sesto
lungometraggio d’una carriera cominciata nel 1962), non dovrebbe sfuggire allo spettatore che
cerca opere-di medio costo ma di alto tasso lirico. Virtù incontestabile nella parabola che Herzog
ambienta nel Perù del 1560, percorso dagli avidi e violenti conquistadores. Fingendo di ispirarsi a
un diario dell’epoca, il film immagina che un gruppo di soldati, staccatisi dalla spedizione di
Gonzalo Pizarro, s’avventurino verso il mitico Eldorado, guidati da Aguirre, simbolo feroce del
ribelle spinto alla follia dalla sete di potere. Costruita una zattera, quel pugno dì uomini (cui si
aggiungono due giovani donne) scende un fiume solenne e misterioso, e il viaggio nell’ignoto si
popola di inquietanti minacce e di episodi crudeli. Ridotto all’impotenza. il legittimo comandante e
nominato sarcasticamente imperatore un suo soldato, col consenso di un frate Aguirre si dichiara
padrone dei luoghi. Ma è una grottesca finzione: frecce avvelenate, lanciate dal fitto della boscaglia,
piovono sui bianchi decimando il gruppo, e durante un’incursione sulla riva si scopre un villaggio
di cannibali. La fame, i lamenti,. le acque rapinose non fermano il forsennato: morto l’imperatore,
impiccato il comandante, decapitato un soldato che-voleva fuggire, la zattera diviene presto un
inferno di orrori. Aguirre terrorizza i superstiti e intanto promette onori e ricchezze, ma il suo è
ormai il delirio d’un pazzo. Quando tutti saranno morti, vinti dall’ostilità della natura e da nemici
invisibili, l’uomo vaneggia di sposare sua figlia e di fondare una dinastia che conquisti col
tradimento tutta la Spagna. «Dio è con me» proclama a un branco di scimmie venute a profanare i
cadaveri di cui è disseminata la zattera.
Nel «Dio è con me» di Aguirre riecheggia il «Gott mit uns» dei nazisti, e questa è soltanto la più
esplicita allusione di Herzog alla storia recente. In realtà tutto il film, carico di simboli trasparenti, è
un’allegoria della civiltà spinta al genocidio dall’imperialismo colonialista benedetto dalla Chiesa e
dalla voluttà di potenza che ha travolto nella paranoia ogni misericordia e senso del diritto.
Condotto a una spietatezza selvaggia dal suo fanatismo, Aguirre non è soltanto un antenato di
Hitler: incarna, nel suo gelido sadismo, la barbarie sepolta nell’uomo di ieri, di oggi e di domani,
tradotta nell’umiliazione dei deboli e nel furore distruttivo.
Questi temi non sono certo nuovi nella cultura tedesca, che ha sottoposto a durissima critica tutta la
tradizione storica fondata sul mito del titanismo e la logica dello sterminio, ma Herzog li svolge con
un vigore insolito, e una eloquenza segreta, tutta di immagini, più persuasiva di molte prediche.
Rifiutando il melodramma e scegliendo una recitazione quasi estraniata alla Bresson - che il
doppiaggio italiano talvolta tradisce - il film ha infatti la densità e intensità dei classici, ritmo grave
ma internamente tutto palpiti e lunghi espressivi silenzi, riempiti da presenze enigmatiche (le
splendide figure femminili) e violenze agghiaccianti. Per la sua forza emotiva Aguirre è un esempio
magistrale, per qualche verso da apparentare col San Michele dei Taviani, di cinema della realtà che
il rigore dello stile trasfigura, oltre l’avventura e la storia, in pura accensione mentale, in fulgore
metafisico.
Gli spettatori di palato fine saranno conquistati dalla limpidezza delle immagini (serbate memoria
del nome del fotografo: Thomas Mauch), dalla intelligenza con cui Herzog compone nello spazio di
un fiume maestoso e di foreste inesplorate, contrassegni dell’ordine naturale, i piani narrativi e
figurativi di una allucinazione, dominata dall’ambiguità, che raffigura la violenza dell’ "ordine
civile". E saranno colti di sorpresa dalla prova superba di Klaus Kinski, che riscattato da una
mediocre milizia nel cinema dell’orrore e nel western-spaghetti qui dà ad Aguirre, genio del male, il
risalto di certi personaggi shakespeariani. Le donne sono Helena Rojo e Cecilia Rivera: severe e
soave rintocco della pietà. (Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 31 luglio 1975)