leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
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O BINARI ad est dell’equatore collana diretta da Antonio Di Grado 1 PAOLO VOLPONI il linguaggio sportivo e altri scritti (1956 – 1993) a cura di alessandro gaudio introduzione di massimo raffaeli postfazione di darwin pastorin ad est dell’equatore © 2016 ad est dell’equatore vico orto, 2 80040 pollena trocchia (na) www.adestdellequatore.com [email protected] copertina e progetto grafico di Carlo Ziviello Eppure lo spazio per far diventare il calcio uno strumento di cultura esisterebbe «se ci fossero meno speculazioni e profitti, se non si tentasse di farne un mondo chiuso al resto della società». Paolo Volponi legge la “Gazzetta dello Sport”, seduto al bar della piazza di Urbino in una foto risalente, con ogni evidenza, agli anni Settanta Fra i poeti rossoblu di Massimo Raffaeli La memoria dei tifosi non è sempre infallibile. Così, capita a Paolo Volponi (grande appassionato di calcio, tifoso del Bologna già alla scuola elementare) di postdatare di un anno e sbagliare stagione addirittura quando scrive, a sessant’anni di distanza e davanti al naufragio in C1 della squadra del cuore, che per lui la partita iniziatica, la prima veduta dal vero, era stata un Bologna-First Vienna giocato al Comunale, che allora si chiamava “Littoriale”, nel “maggio 1933”. Gli annali del calcio, con la loro implacabile filologia, lo smentiscono perché quella partita si giocò in effetti quasi un anno prima, il 10 luglio del 1932, e stupisce che Volponi (comunque rammentando il risultato esatto, 2 a 0) non ricordi come si trattasse della finale di Coppa dell’Europa Centrale, vinta contro i maestri austriaci che allora amavano fregiarsi, in nazionale, 10 del titolo iperbolico di “Wunderteam”. Ma il Bologna era da un decennio il Grande Bologna e i tifosi gli avevano inventato uno slogan presto celeberrimo, “Il Bologna è uno squadrone/ che tremare il mondo fa”. Era la squadra del centravanti Angiolino Schiavio, l’eroe eponimo, dell’ala destra Biavati (famoso per la finta somigliante a un paso doble), del portiere Ceresoli dai voli arcangelici e di ben tre oriundi uruguagi (Andreolo, Sansone e Fedullo) i quali dettavano in centrocampo il ritmo del gioco, blando e a tratti persino sonnacchioso (dicono le cronache d’epoca) ma tuttavia capace di improvvise inversioni come di lancinanti contropiede. Una squadra vittoriosa in ben quattro campionati, fra il ’36 e il ’41, cui vanno aggiunte due Coppe dell’Europa Centrale nonché il titolo più prestigioso, la Coppa della Esposizione Universale (una specie di Champions ante litteram) conquistata a Parigi nel giugno ’37 rifilando in finale quattro gol ai londinesi del Chelsea. Volponi, prima che un tifoso, è un appassionato di calcio e da adulto infatti scriverà che il tifoso è un suddito mentre lo sportivo un uomo libero: sempre si batterà (sono parole sue, del ’56) contro il “falso brivido d’entusiasmo” ovvero “la stupefatta passività, evasione, esaltazione”, contro un calcio (sono parole ancora sue, del 1981) “tutto uguale e tutto ugualmente chiuso all’interno 11 del posto strumentale assegnatogli dalla nostra società dominante”. Amava troppo il gioco, la sua passione primordiale, per tollerare di vederlo ridotto, come nei suoi anni estremi, a un’ impresa mercantile già totalmente ipotecata dal sistema mediatico. Non aveva nostalgia di nulla e però rimpiangeva, da ultimo, le radiocronache di un pioniere, Nicolò Carosio (“Mentre sentivi Carosio mangiavi, bevevi, Carosio era come l’anguria”), quasi che un simile ricordo, affettuoso e persino superstizioso, fosse l’esorcisma per il calcio invadente ed esoso, ad ogni livello, che oramai gli toccava vedere in tv. Carosio aveva narrato il Grande Bologna e Volponi, ad vocem, amava raccontare agli amici specialmente la cronaca del ritorno trionfale della squadra in città, il 7 giugno del ’37, all’indomani del Torneo di Parigi, con la folla stipata nel piazzale davanti alla stazione, con gli osanna e i mazzi di fiori lanciati ai calciatori. Solo vent’anni dopo, due poeti da lui sempre prediletti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi, allora ginnasiali al “Galvani”, gli avrebbero confessato, a una riunione di “Officina”, che entrambi quel mattino di giugno non erano a scuola ma persi tra la folla, sotto il portico, ad aspettare Schiavio e i suoi compagni. Un poeta liberale aveva scritto che ognuno riconosce i suoi: anche in questo, nel semplice amore per il football e per la maglia del Bologna, Volponi li 12 sentiva fraterni tutt’e due. Roversi era proprio nato dentro al calcio, essendo figlio del radiologo con ambulatorio al “Rizzoli” dove ogni lunedì mattina i campioni esibivano gli acciacchi e i lividi di un infortunio; Pasolini andava allo stadio ma più che altro giocava all’ala destra (come avrebbe fatto per tutta la vita, da amatore incallito) e si esibiva nei campi di Caprara, dalle parti dell’Ospedale Maggiore, era un emulo di Biavati e lo chiamavano Stukas: un’estate, di ritorno nel Friuli materno, a Casarsa, arrivò a dipingere la sua stanzetta di studente a strisce rossoblu, come uno sfondo sentimentale che il tempo e i restauri successivi non hanno cancellato. A Volponi adolescente, chiuso in casa sulle mura di Urbino, bastava viceversa la voce di Carosio. E, in proposito, c’è un passo del romanzo più scopertamente autobiografico, Il lanciatore di giavellotto (1981), in cui si dice della mala accoglienza, a insulti e fischi sonorissimi, che gli italiani fuorusciti accordarono nel 1938, nell’antico “Velodrome” di Marsiglia, alla nazionale di Vittorio Pozzo che stava disputando i Mondiali. Quel giorno molti degli azzurri in campo provenivano dalla squadra rossoblu ma quello stesso giorno il Duce aveva imposto loro di indossare una funerea camicia nera. Come fosse uno sfregio (o un colpo che divide in due la vita ma la rende perspicua, certa nel dolore e nella improvvida costernazione) Volponi non l’avrebbe mai dimenticato.