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RASSEGNA STAMPA martedì 6 maggio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da IoDonna.it del 30/04/14 VOLONTARIATO Arci: aperti i campi antimafia Workshop di formazione, corsi sulla legalità, laboratori, bonifiche e coltivazioni delle terre. I luoghi confiscati alle cosche tornano a nuova vita. Con l'aiuto e il lavoro di tutti di Nicoletta Pennati Trasformare i luoghi un tempo simbolo del potere mafioso in occasioni di riscatto. Restituirli alla gente, eleggerli a simboli positivi di riscatto. Un processo lungo, ma possibile. Dimostrato negli anni. Anche attraverso i Campi Antimafia proposti dall’Arci e giunti quest’anno all’ottava edizione. Aperti a singoli, gruppi, famiglie, anche under 18, propongono una pacifica “occupazione” estiva nutrita con workshop di formazione, educazione alla legalità democratica e alla responsabilità, azione concrete sui terreni, laboratori culturali, memoria e condivisione di esperienze. Non solo in Sicilia, Campania, Puglia, Calabria, ma anche nelle Marche, in Liguria, Veneto, Lombardia e Toscana. Perché purtroppo la mafia è ormai ramificata ovunque e terreni e proprietà sono sparsi in centinaia di comuni. Obiettivo finale: collaborare per costruire una comunità alternative alle mafie. Le iscrizioni sono aperte e si raccolgono fino ad esaurimento dei posti disponibili. Si comincia con Corleone, in Sicilia, da metà maggio e si continua fino a settembre. In Sicilia, ma anche in Liguria e Lombardia. È possibile iscriversi scaricando dal sito Arci il modulo da compilare. http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2014/campi-legalita-arci-402046971905.shtml Da QualEnergia.it del 06/05/14 Cuba, sistemi alternativi e più efficienti per vivere senza petrolio Cosa potrà succederà dopo il picco del petrolio e quali problemi dovremmo affrontare. Riusciremo a sostenerci con le sole energie rinnovabili a sostenerci? Un gruppo di lavoro composto da agronomi, fisici, esperti di energie rinnovabili, geologi ed ecologi sta sperimentando a Cuba sistemi alternativi e più efficienti di coltivare e vivere senza petrolio. Roberto Salustri Orti collettivi, trasporto pubblico con cavalli, utilizzo di energie rinnovabili, agricoltura biologica e trazione animale, attività sociali in piazza. Potrebbe essere lo scenario ipotizzato dal movimento delle Transition Town o l’insieme delle varie attività portate avanti da gruppi ecologisti, invece è la realtà di tutti i giorni a Cuba. Tutti ci domandiamo cosa succederà dopo il picco del petrolio, quali problemi dovremmo affrontare, riusciremo con le sole energie rinnovabili a sostenerci? Oppure ci aspetta uno scenario alla Mad Max? 2 A Cuba già lo sanno: stanno vivendo senza petrolio da anni, da quando l’Unione Sovietica ha smesso di spedire tutta una serie di derivati del petrolio e da quando l’embargo costringe i cubani a farsi bastare quel che possono produrre da soli. Nel 1990 il PIL di Cuba è crollato dell’85% e il consumo di petrolio del 50%. Inizialmente le calorie di cibo disponibili a testa calarono del 30%-40%. La gente inizio a dimagrire velocemente. L’agricoltura, che in precedenza assomigliava a quella del resto del mondo e utilizzava fertilizzanti, pesticidi, macchinari e sistemi di allevamento industriali, ha dovuto essere rimodellata in modo sostenibile. Il biologico è diventato la norma. I bovini, più che essere allevati per la carne, sono usati per il lavoro dei campi. La gente oggi mangia molta frutta e verdura e in molti la coltivano da soli o negli orti collettivi urbani. Oggi la produzione di cibo è al 90% dei livelli pre-crisi, ma il consumo di energia è molto, molto al disotto dei livelli precedenti. La gente gode di buona salute, Cuba ha un sistema sanitario migliore di quello degli USA, quando passò l’uragano Katryna, il Governo cubano offrì di mandare medici e paramedici. A Cuba si punta molto sulla prevenzione e la mortalità infantile è più bassa che negli USA. Il sistema scolastico funziona bene. Cuba ha solo il 2% della popolazione dell’America Latina, ma l’11% degli scienziati di quel continente sono cubani. Gli uomini vanno in pensione a 60 anni, le donne a 55. L’età media si sta allungando, per cui anche queste soglie dovranno essere spostate in avanti. Il primo problema che hanno dovuto risolvere durante il “periodo speciale” è stato quello del cibo. In poche settimane hanno dovuto escogitare sistemi diversi da quelli industriali per coltivare e conservare il cibo. Una delle iniziative partite dal basso e poi “istituzionalizzate” è stata quella delle fattorie urbane (granjas urbanas), orti collettivi in aree urbane, parchi e aree pubbliche trasformati in fonti di cibo. Anche su i tetti e i balconi si iniziò a coltivare. Attualmente gli “organoponici” e le “granjas urbanas” sono sostenuti da una rete di tecnici e agronomi cubani che collaborano con le università e insegnano ai cittadini a coltivare in modo efficiente, senza petrolio e suoi derivati. Per aiutare questa esperienza l’ARCS (Arci Cultura e Sviluppo, Ong del sistema ARCI nata nel 1985), insieme al dipartimento internazionale di Legambiente, RESEDA onlus, AUCS (Associazione Universitaria per la Cooperazione e lo Sviluppo), ACTAF (associazione tecnici agronomi e forestali cubani, e l’Università di Pinar del Rio hanno ideato e realizzato un progetto di Supporto allo sviluppo dell’agricoltura urbana e sub urbana e di un sistema di commercializzazione nella città di Pinar del Rio. Lo scopo è potenziare l’esperienza delle Granjas e delle cooperative di produzione agricola. Uno degli obiettivi principali è ridurre il consumo di acqua ed energia per l’irrigazione, attraverso la pacciamatura, sistemi di irrigazione sostenibile, impianti di pompaggio che utilizzano le fonti di energia rinnovabile (eolico, fotovoltaico, pompe ad ariete idraulico) e altre tecniche agricole biologiche. Un gruppo di lavoro composto da agronomi, fisici, esperti di energie rinnovabili, geologi ed ecologi stanno sperimentando sistemi alternativi e più efficienti di coltivare e vivere senza petrolio. Anche il tema della conservazione e il trasporto degli alimenti ha un forte impatto energetico e quindi è studiato da questo gruppo anche progettando mini-industrie di trasformazione dei prodotti agricoli ad energie rinnovabili. Una delle attività più interessanti che stiamo portando avanti è la realizzazione di una comunità cooperativa che utilizza la permacultura come sistema agricolo e di vita. In un’area di 236 ettari i 50 soci della Cooperativa agricola “Roberto Amaran” e le loro famiglie vivono producendo cibo in modo completamente ecologico e sostenibile migliorando il terreno e incrementando la capacità produttiva ecologica. Progetti come questi sono sicuramente di aiuto alla popolazione cubana ma saranno altresì importantissimi per il nostro futuro. L’esperienza di Cuba, con tutti i miglioramenti 3 del caso, sarà utile per costruire un futuro solidale e senza petrolio. Certo, sarebbe bello che si arrivasse a stili di vita sostenibili per libera scelta, non forzatamente e con abbastanza tempo a disposizione, ma intanto mi piace pensare che sopravvivremo anche noi alla fine del petrolio e che gli aspetti sociali e culturali potrebbero addirittura migliorare. Video di approfondimento: http://www.youtube.com/watch?v=gY1kfNKj-eo http://www.youtube.com/watch?v=j6rSIsfsgQ0 http://www.qualenergia.it/articoli/20140506-cuba-sistemi-alternativi-e-pi%C3%B9-efficientivivere-senza-petrolio 4 ESTERI del 06/05/14, pag. 9 La battaglia di Sloviansk Simone Pieranni Ucraina. Almeno altri 10 morti a est. Abbattuto un elicottero dell’esercito. Mosca: «Rischio catastrofe umanitaria» Odessa e Slaviansk sono le due città ucraine al centro dello scontro militare, sfociato ormai in guerra civile, che vede contrapposti Guardia Nazionale, esercito e corpi speciali ucraini e i filorussi, impegnati a difendere e riconquistare posizioni. Anche ieri il bollettino è stato tragico: almeno dieci le vittime a Sloviansk dove i separatisti sono stati in grado di colpire un altro elicottero delle forze di Kiev. Secondo quanto dichiarato da uno dei comandanti delle forze di autodifesa filorusse del sud est del paese, ci sarebbero anche state vittimi civili e almeno venticinque feriti. è questa cittadina di poco più di 100mila abitanti l’attuale centro dello scontro tra le due forze in campo. La diplomazia appare statica, con Mosca che avverte circa il rischio di una catastrofe umanitaria. «Nelle città assediate, si legge nel comunicato del ministero degli esteri russo, si sente la mancanza di medicinali e inizia l’interruzione nell’approvvigionamento alimentare». Un’emergenza — specie negli ospedali ucraini — sottolineata anche da molte ong che lamentano i tagli del budget sanitario, per finanziare le spese militare del governo di Majdan. E anche secondo Kiev sarebbero almeno dieci i civili morti negli scontri a Sloviansk, mentre la Germania propone un nuovo incontro a Ginevra, con tanto di road map in cinque punti, senza però tenere conto dei separatisti. Proprio la loro assenza ha seppellito sotto le offensive militari di Kiev il precedente e precario accordo, che oltre a non aver ottenuto alcun risultato, se possibile, ha peggiorato il confronto. A questo si aggiunge ora la corsa alle elezioni: l’Europa, il Fondo monetario e gli Stati uniti (presenti con un quartier generale a Kiev, con personale adibito a «consigliare» i militari ucraini) spingono perché si svolgano le elezioni del 25 maggio, come se le urne potessero cancellare di colpo la realtà di un paese spaccato e diviso in due. Anche ieri sia la Francia, sia la stessa Kiev, hanno confermato l’importanza della data, mentre Mosca già nei giorni precedenti si era detta decisamente scettica circa la riuscita della tornata elettorale. Il governo di Majdan, però, non obbedisce più solo ai propri ministri e se vuole ottenere il prestito del Fondo monetario deve accelerare i tempi: o conquistare il paese e riportarlo sotto l’autorità della capitale, o organizzare in ogni caso le elezioni. Il Fondo monetario è stato chiaro: i soldi arriveranno, a patto che il paese sia unito. La situazione militare del resto rimane in bilico, tra difficoltà ad avere dati oggettivi su quanto accade e costanti operazioni tese a recuperare e riconquistare palazzi governativi, sedi televisive e uffici di polizia. A Odessa — dove l’incendio alla sede dei sindacati, con oltre 40 morti, ha segnato il momento più grave del confronto militare (secondo la russa Rt, tutto sarebbe nato da uno scontro tra ultras della Chernomorets Odessa e del Metalist Kharkov) — la situazione rimane tesa. Domenica una manifestazione dei filorussi è riuscita a sfondare il portone della caserma dove erano in stato di arresto molti dei protagonisti degli scontri con le forze ucraine, liberandoli. I poliziotti che avrebbero dovuto impedire l’azione, hanno gettato a terra gli scudi, in un ennesimo atto di insuburdinazione contro Kiev. Ieri, infine, un gruppo di neonazisti di Settore Destro, è arrivato in città e ha organizzato una manifestazione, mentre Kiev ha annunciato l’invio di una unità speciale da quelle parti, per dare manforte ad un esercito che non riesce ad avere la meglio sull’organizzazione dei filorussi. 5 Tra Kiev e Mosca intanto è ormai guerra dialettica aperta. Il premier ad interim di Kiev Yatseniuk, si è recato nei giorni scorsi a Odessa, promettendo l’indagine richiesta dall’Unione europea, ma puntando il dito contro Mosca, accusata di essere la principale responsabile dell’attuale situazione in Ucraina. Mosca ha risposto con 81 pagine di un «Libro bianco» sulla situazione nel paese. Il rapporto, reso noto dal ministero degli esteri russo, denuncia i «numerosi episodi» di violazioni dei diritti umani in Ucraina dalla fine dello scorso novembre alla fine di marzo. Il «Libro bianco» accusa le autorità ucraine di aver «preso il potere con la forza, di aver portato a termine un colpo di Stato, di aver distrutto le legittime strutture di potere, di aver tollerato episodi di xenofobia, ricatto, repressioni, abusi fisici e politici contro gli oppositori politici». Il fronte centrale del combattimento è Sloviansk, già teatro alcuni giorni fa di una delle battaglie più importanti. Almeno cinque esponenti delle milizie filorusse sono rimasti gravemente feriti ieri, secondo quanto riferito dall’agenzia Interfax, che ha citato un portavoce delle forze separatiste. «Siamo circondati da vicino. Molti negozi stanno chiudendo perché non ci sono merci da commerciare», ha dichiarato la stessa fonte descrivendo la situazione nella città completamente accerchiata dalle forze di Kiev e che teme un’offensiva imminente. Ieri — infine — è stata la Germania a provare a ritentare una carta diplomatica, mettendo al centro di un’eventuale pacificazione Russia e Ucraina, chiamate a trovare un accordo, ancora una volta a Ginevra, mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha offerto la sua mediazione per trovare una soluzione alla crisi in Ucraina. «Sono pronto a svolgere un ruolo», ha detto . Del 6/5/2014 – pag. 1-17 INTERVISTA AL MINISTRO TEDESCO STEINMEIER “Ucraina, guerra vicina trattiamo con Putin” ANDREA TARQUINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO - «Siamo ad un passo da uno scontro militare aperto in Ucraina. Occorre una seconda conferenza di Ginevra». È il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier a parlare. Ed a esporre le nuove proposte di Berlino per evitare il peggio, in questa intervista a Repubblica e ad altri tre grandi quotidiani europei. «Non dobbiamo permettere a Putin di essere un avversario». E ancora: «Vediamo immagini spaventose: la situazione peggiora di giorno in giorno, specie nell’est ucraino, le sanguinose immagini di Odessa ci dicono che siamo a pochi passi da uno scontro militare aperto. Dobbiamo cambiare la situazione». MINISTRO, a quali tentativi pensa? «MI concentro sulla ricerca di possibilità e strumenti per evitare una guerra civile. Tutti i paesi Ue escludono un intervento militare. Quindi dobbiamo cercare un mix bilanciato di pressione politica e offerte diplomatiche per preparare il terreno a una soluzione politica. È divenuto più difficile negli ultimi giorni. Ma forse la tragedia di Odessa è stata campanello d’allarme anche per le parti in conflitto. Gli ultimi mesi ci hanno mostrato che è facile condannare gli sviluppi, come è stato anche necessario dopo la violazione del diritto internazionale in Crimea. È infinitamente più difficile trovare vie d’uscita da un conflitto in escalation e le soluzioni politiche. Sarebbe irresponsabile permettere che le potenze coinvolte cadano in un completo silenzio tra loro a causa di una escalation… Anche se è difficile, abbiamo bisogno di cooperazione». 6 Perché “Ginevra 1” non ha funzionato? «L’errore non è stato la conferenza, ma il non aver elaborato un modo per tradurre nei fatti le intese. “Ginevra 2” deve stabilire singoli passi vincolanti, ridurre la tensione nelle zone più colpite dai conflitti, rafforzare un processo politico e costituzionale che includa tutti in Ucraina, sullo sfondo della cooperazione tra Usa, Europa, Russia per la stabilizzazione economica ucraina». Putin vuole ricostruire l’Urss? «Certo è che nell’elaborazione teorica della politica estera russa la categoria dominante resta il pensiero in termini di sfere d’influenza geostrategiche. Ciò porta non solo a malintesi, ma anche a conflitti con le parti del mondo che dal 1989 avevano detto addio al pensiero geostrategico. L’idea europea di un rapporto stabile con i vicini non è stata mai rivolta contro la Russia. Dobbiamo convincere Mosca che deve avere lo stesso interesse a una stabilità della zona tra le frontiere orientali della Ue e le frontiere occidentali russe». Pensa ancora che le elezioni presidenziali in Ucraina si terranno il 25 maggio? «Le premesse non sono buone. Non sappiamo se saranno migliori il 25 maggio. Ma non è ammissibile una strategia che punti a rendere impossibile quella scadenza. Coloro che in Russia la mettono in forse cadono in contraddizione: dubitano della legittimità della leadership politica in Ucraina, e negano la chance di creare una nuova legittimità con l’elezione di un presidente. Per questo mi batto per “Ginevra 2” e per un’intesa sulla scadenza elettorale». I paesi baltici temono uno scenario ucraino. Fino a che punto Nato e Germania sono pronte a difenderli? «Nella parte orientale della Ue la sensazione di minaccia ha raggiunto il massimo livello. Soprattutto in Lettonia, Lituania ed Estonia. Lo capiamo, e abbiamo espresso la nostra solidarietà politica. In relazione a scenari di minaccia militare, la Nato ha rafforzato temporaneamente le capacità di sorveglianza, con pattuglie aeree e navali». Siamo allora testimoni di una nuova guerra fredda? «I poteri politici non possono mai essere testimoni. Hanno la responsabilità di impedire che avvenga ciò che c’è ragione di temere, cioè che il conflitto sull’Ucraina diventi acuto, cosa che noi tutti in Europa non ritenevamo possibile. Improvvisamente, 25 anni dopo la fine del confronto tra i due blocchi, una nuova spaccatura politica dell’Europa diverrebbe di nuovo virulenta. Nessuno s’inganni: è un pericolo e una minaccia, non solo per l’Ucraina. Con questo conflitto può venire distrutta l’intera architettura di sicurezza costruita e consolidata in decenni in Europa». Putin è ancora un partner possibile, o piuttosto un avversario? «Non dobbiamo permettergli di essere un avversario». Nel 1914 le potenze pensarono a un conflitto locale balcanico, e poi divenne guerra mondiale. Quanto siamo lontani da una simile situazione? «Tra il 1914 e oggi ci sono state due guerre mondiali e la fine del confronto tra i due blocchi. Tali eventi dovrebbero bastare a renderci sensibili e attenti a non ricadere mai a tempi come quelli di allora. Non vediamo oggi in tutta Europa una disponibilità di molti Stati a mandare in guerra i loro giovani. Con la Osce e l’Onu abbiamo strumenti che già più volte hanno reso governabili i conflitti. Adesso non c’è garanzia, ma spero che ci riesca di farlo con l’Ucraina, e lavoro per questo. Anche se durerà a lungo, perché la volontà di deescalation non è presente in tutte le parti in campo». 7 Del 6/5/2014 – pag. 16 IL REPORTAGE Quei corpi in trappola nella casa degli spiriti Odessa dopo la strage “Nessuno vincerà in questa folle partita” DAL NOSTRO INVIATO VINCENZO NIGRO ODESSA - ANGELI e demoni si aggirano nella casa della strage. Nella penombra scavalcano le cataste di mobili carbonizzati, aggiungono i loro fiori ai mazzi di garofani rossi. Calpestano esitanti un blocco di parquet bruciato, che emana un odore quasi dolciastro: quello dei resti delle vittime che non è stato possibile rimuovere dal legno. Nel Palazzo dei Sindacati di Odessa, dove venerdì 2 maggio più di 40 russi sono morti tra le fiamme o asfissiati, ragione e ingiuria si intrecciano silenziose. Una processione di visitatori, russi e ucraini, di curiosi e pellegrini sfila sul luogo di un massacro che già marchia questa guerra civile di Ucraina. Il palazzo è al centro di Kulikova Pole, una grande piazza-giardino nella zona centrale di Odessa, accanto al grande viale alberato che porta al mare e alla scalinata più famosa dell’Urss, quella della corazzata Potëmkin. Al piano terra tutto è bruciato profondamente: i mobili, i rivestimenti, le porte. Gli intonaci sono crollati, dalle scale spunta il cemento armato a nudo. «Chi ha ragione? Chi ha torto? Tutti abbiamo le due cose, e tutti perderemo», dice Anatoly. L’uomo che ci accompagna è quasi un segno del destino: è un ex professore di storia, ma per aiutarsi fa anche il tassista. Il padre siberiano e la madre ucraina si trasferirono qui. Di se stesso dice: «Russo? Ucraino? Sono un uomo, non so scegliere, non voglio». Al centro fra i sedili della sua Skoda c’è una recensione di un libro, “The Sleepwalkers”, di Christopher Clark, sui sonnambuli che portarono l’Europa alla guerra nel 1914. «Chissà come finirà adesso… ma venerdì, ormai è chiaro come è andata». La storia di quella giornata tragica per Odessa, per l’Ucraina e per la Russia si intreccia maledettamente con le bande di tifosi più o meno violenti che scolorano in politica. «Venerdì c’era una partita fra il Cheronomorets di Odessa e il Metalist di Kharkiv. Dopo pranzo i tifosi si erano radunati al centro della città per andare insieme allo stadio, insieme». Ma su uno dei viali ci sono i russi, molti di meno di loro, ma armati. Vedono arrivare quella folla, li vedono con i colori dell’Ucraina, giallo e azzurro, e parte l’attacco, anche con colpi di pistola. «In quel momento almeno 2 tifosi vengono uccisi da pistolettate, dai filo-russi che capiscono subito di essere in minoranza e anche per questo reagiscono alzando il tiro». Gli scontri iniziano a 200 metri dall’Hotel Continental, poi si trascinano interrompendosi per lunghi momenti. Immediatamente gli ultras e gli attivisti di Majdan si passano la voce sui social media che ormai sono un moltiplicatore di tutto, quando serve anche di violenza. Allo stadio, che non è lontano, la partita inizia, ma fra primo e secondo tempo le scalinate si svuotano, gli ucraini partono per la guerra. «Arretrando, i filorussi provano a difendere un accampamento di tende messo in piedi per protestare contro il governo di Kiev proprio nel grande giardino del palazzo dei sindacati ». I filo-ucraini si rafforzano e si organizzano. In strada verranno filmate ragazze che riempiono le bombe molotov. Con i rinforzi arrivati dallo stadio e dalle file della sicurezza dei filo-Majdan, il contrattacco ai russi diventa inarrestabile. Dietro il palazzo dei sindacati la piazza è chiusa da una cancellata, per cui i primi iniziano a rifugiarsi all’interno: altri li 8 imitano. È una trappola. Parte l’assedio, le molotov lanciate prima all’interno e poi contro chi provava a fuggire. I russi si difendono, in ogni stanza ci sono ancora a giorni di distanza sacchi di tela carichi di sassi e mattoni, le armi che si erano portate dentro. Ora Odessa appare tranquilla. Non è così. La polizia allo sbando è stata rafforzata da una colonna di Guardia nazionale arrivata da Kiev, ci saranno dentro di sicuro anche uomini di Pravy Sektor, la destra estrema. Domenica i filorussi avevano circondato una caserma di polizia e si erano fatti liberare 60 dei loro che erano stati arrestati. Allora Kiev ha messo fuori dalla polizia alcune decine (da Mosca dicono centinaia) di agenti, e inquadrato tutto con nuovi capi. Si preparano a organizzare le elezioni politiche “ucraine” del 25 maggio, mentre il referendum autonomista dell’11 maggio, quello dei filo-russi, qui non dovrebbero riuscire a metterlo in piedi. Odessa è tranquilla, ma alla tv Anatoly cambia canale: da Mosca, in tutti i tg ritornano gli attivisti russi che venerdì si lanciavano in strada per sfuggire al fuoco. Angeli e demoni, russi e ucraini si scambiano accuse e si scambiano nei ruoli. Come sonnambuli sembrano correre verso una guerra ancora più violenta. del 06/05/14, pag. 9 La pace atlantica della Pinotti Giulio Marcon Centosessanta anni fa il conte di Cavour decise di mandare dei soldati del Regno di Sardegna a combattere in Crimea. Si trattava di una scelta estemporanea e scaltra per conquistarsi un posto nel gioco diplomatico europeo. Erano stati gli inglesi, formalmente, a chiedergli di mandare delle truppe sabaude. La ministra della difesa Roberta Pinotti, che di Cavour ha solo una portarei che porta il suo nome, ha solertemente offerto delle truppe italiane per una «missione di pace» in Ucraina (c’è tanto di intervista su la Repubblica del 4 maggio). Ma non gliel’ha chiesto nessuno, e meno male. Non gliel’hanno chiesto le Nazioni Unite, né la Nato (l’Alleanza atlantica), né i russi, né gli americani. Con un azzardato paragone con la situazione in Libano (che niente c’entra con quello che sta succedendo in Ucraina e dove le nostre truppe sono schierate nel territorio libanese perché riconosciute neutrali e al di sopra delle parti in conflitto), la ministra della difesa italiana dimostra di avere un’approssimativa consapevolezza di quello che sta succedendo nella crisi in Ucraina e un’eccessiva considerazione del ruolo di pacificazione delle nostre truppe. Tra l’altro in Afghanistan non è andata proprio come la racconta: lì siamo in guerra aperta. In realtà — come evidenziato da molti– il conflitto ucraino non ha bisogno oggi di «prove muscolari» né di finte «missioni di pace», che non hanno alcuna possibilità di essere decise ed inviate, ma di riannodare il bandolo delle trattative e di una soluzione diplomatica, che è l’unica possibile. Se invece si continua ad andare verso una prova di forza allora la guerra è assicurata. In questo momento, la causa dell’incendio è l’offensiva militare dell’esercito ucraino contro i separatisti. Questa offensiva andrebbe fermata, perché — oltre a provocare una guerra su più vasta scala — ha ormai minato gli accordi di Ginevra (pure osteggiati da una parte dei separatisti) e la possibilità di una soluzione concertata della crisi nella regione. La responsabilità dell’autocrate Vladimir Putin (con cui si sono intrattenuti, in affari e in politica, in questi anni tutti i leader delle democrazie occidentali) prima nel sostenere un leader corrotto e autoritario come Yanukovich e poi nel soffiare sul fuoco dei separatismi 9 locali è evidente, come è altrettanto chiaro che c’è un problema reale delle minoranze russofone che si sentono minacciate dalle forze nazionaliste fasciste e antisemite ucraine. Non però è solo farina del sacco di Putin; ci sono paure ed angosce reali della minoranza russa di quel paese (strumentalizzate dal leader di Mosca), cui gli «occidentali» meglio farebbero a dare risposte più rassicuranti che appoggiare i carri armati di Kiev. Dopo la fuga di Yanukovich nel febbraio scorso, uno dei primi atti del parlamento ucraino — poi bloccato dal veto del presidente Turcinov– è stato quello di abolire il russo come lingua ufficiale. È uno scenario «jugoslavo»: non è bastata la lezione degli anni ’90 a far capire agli europei che è necessario affrontare un conflitto di questo genere con strumenti diversi dall’interventismo armato e dall’arroganza della Nato. Ed è proprio l’espansione, con tanto di stategia, della Nato ad est — e la pervicace intenzione di fare dell’Ucraina un suo prossimo avamposto — ad essere una delle cause principali di quello che sta succedendo in quel paese. «Ma che c’entrano gli americani con l’Ucraina?» si è chiesto Romano Prodi, invitando implicitamente gli europei a lasciarli fuori dalla porta e ad essere loro i protagonisti di una soluzione del conflitto in corso. Ma il problema è proprio questo: gli americani, in un modo o nell’altro, in Ucraina ci vogliono entrare e rimanerci per due motivi: stare a ridosso, magari con la Nato, alla potenza russa ed entrare nel gioco del controllo delle risorse e delle vie di comunicazione che attraversano il paese. Quando si pensa ad una «missione di pace» in Ucraina bisogna essere chiari. Non basta dire «pacificazione». È una missione (dell’Alleanza atlantica) a sostegno del governo di Kiev? È una forza di interposizione (anche con truppe russe, solo così da Mosca possono accettarla) tra le forze separatiste e quelle del governo ucraino? In mancanza di chiarimenti dire come fa la nostra ministra difesa che l’Italia è disponibile a mandare delle proprie truppe, anche «attraverso la Nato, non significa nemmeno lontanamente emulare il conte Cavour di centosessanta anni fa (che aveva comunque una sua visione e degli obiettivi ben precisi), bensì semplicemente mettersi al servizio. Ma non certo della pace. del 06/05/14, pag. 14 Vent ’anni dopo l’apartheid è diventato economico IL SUDAFRICA ORFANO DI MANDELA ALLE ELEZIONI CON DISUGUAGLIANZE SOCIALI SEMPRE PIÙ MARCATE TRA I NERI. FAVORITO IL PRESIDENTE ZUMA Una fila lunghissima con i colori della “nazione arcobaleno” si snoda per Trafalgar Square, a Londra. Davanti alla South Africa House, dove ha sede il consolato, centinaia di sudafricani residenti in Gran Bretagna sventolano le bandiere gialle e nere dell’African Nation Congress e quelle azzurre dello sfidante Democratic Alliance e si preparano a votare, in anticipo rispetto al loro paese, nelle elezioni che celebrano i 20 anni della fine dell’apartheid e dell’inizio della democrazia. Ma anche le prime dalla morte del padre della nazione, Nelson Mandela. “L’African National Congress (Anc) è andato al potere nel ’94, raccogliendo i frutti della lotta del suo leader, Mandela, e facendo un compromesso con la minoranza bianca: a noi il potere politico a voi quello economico”. Chris Vandome è ricercatore presso Chatham House, Istituto britannico che si occupa di affari internazionali. 10 Il Programma dedicato all’Africa del think-tank londinese è probabilmente il più importante del mondo. Chris ripercorre questi venti anni di democrazia dominati dall’Anc spiegando perché l’apartheid oggi non è più razziale, come prima del ’94, bensì sociale ed economico. “Sia la presidenza Mandela che quella del successore Mbeki hanno puntato tutto sulla crescita economica. In questo modo, anche grazie al flusso di investimenti dall’estero e agli aiuti del Fondo monetario internazionale, il Paese è esploso a livello macroeconomico”. Lasciando però indietro una fetta importante di persone, “creando una frattura sociale tra minoranza benestante – spesso bianca – e una maggioranza devastata dall’alto tasso di disoccupazione e dalla carenza di servizi pubblici (istruzione, igiene, salute)”. Solo quest’anno ci sono state oltre 3.000 manifestazioni, senza contare le rivendicazioni salariali dei minatori. Nel 2012 ne morirono 38 negli scontri con la polizia. “Segni evidenti del malessere diffuso e del fallimento delle politiche sociali del partito di governo”, nota Vandome. LA CORSA ELETTORALE è però quella di un uomo solo: Jacob Zuma, leader dell’Anc e presidente in carica dal 2009. Già accusato di corruzione, Zuma ha governato facendo lo slalom attraverso gli scandali. Il più noto all’opinione pubblica è quello in cui è stato accusato di aver sottratto 65 milioni di rand (più di 4 milioni di euro) di denaro pubblico per la ristrutturazione faraonica di una casa di campagna. Una giudice che ha indagato sul caso, Thuli Madonsela, è popolarissima, e tutti i partiti di opposizione cavalcano una linea anti-corruzione. Eppure l’Anc è ancora il primo partito: il sondaggi lo danno sopra il 65%. L’opposizione è divisa, e neanche una sfidante dall’alto profilo come Manphela Ramphele – donna, accademica, imprenditrice e già militante anti- apartheid – è riuscita a coalizzare contro il ventennale potere dell’Anc. Patrick, nero 42 anni di Johannesburg, che veste la maglietta di Zuma è molto netto: “Non voto per lui perché è corrotto, ma credo ancora nel partito”, come ci credono tanti della generazione “born free”, ovvero quelli nati liberi dall’apartheid, i ventenni di oggi. Forse non riesce a rappresentare più molti settori della società, ma l’Anc infatti continua a difendere le classi più deboli attraverso gli strumenti dello stato sociale. “Anche dopo le elezioni”, chiarisce Patrick, “il partito ha il potere di richiamare il suo leader e di sostituirlo. Così accadde con Mbeki che dovette lasciare il posto a Zuma. E così spero accada a Zuma” in favore del suo attuale vice, Cyril Ramaphosa, ambizioso uomo d’affari, anche lui con un passato da attivista anti-apartheid. Quel che è certo, oltre alla vittoria sicura di Zuma e dell’African National Congress , è che Mandela non è sparito dalle strade del Sudafrica. “Per noi è come un padre”, aggiunge Patrick “tutti lo amano e lo rispettano per l’umanità che ha espresso”. Ma l’eredità più grande che Madiba ha lasciato al suo Paese è certamente quella del senso dello Stato. “Quando nel 2004 decise di ritirarsi dalla vita pubblica, lo fece anche per questo”, conclude Vandome. “Per dire: non sono eterno, ma quello che lascio resterà”. In Sudafrica l’autonomia della magistratura e la libertà di stampa sono gli strumenti che bilanciano gli abusi del potere politico. Elementi di una democrazia che in Africa è merce rara. A. Val. del 06/05/14, pag. 13 Boko Haram: «Venderemo le liceali rapite» Rivendicato il sequestro di 223 studentesse in Nigeria. Il leader islamista: «Ce l’ha chiesto Dio» Marina Mastroluca 11 «Le venderemo al mercato come schiave ». Ha l’aria di chi impartisce una lezione Abubakar Shekau, leader del movimento qaedista Boko Haram, mentre rivendica in un video il rapimento di oltre 270 ragazze in Nigeria. Da quasi tre settimane non si hanno più notizie delle studentesse sequestrate il 14 aprile scorso a Chibok, nello Stato del Borno, dove erano giunte per sostenere un esame di fine corso. Shekau si fa riprendere dalle telecamere in mimetica, davanti ad un veicolo per il trasporto di militari e a due pick up equipaggiati con mitragliatrici. Accanto a lui ci sono sei soldati armati e a volto coperto. «Ho rapito le vostre ragazze - dice -. Le venderò». «Dio mi ha detto di venderle, loro sono sua proprietà e io eseguirò le sue istruzioni», aggiunge. Le ragazze non dovevano essere lì, piuttosto che a scuola le famiglie avrebbero dovuto mandarle spose, perché l’istruzione femminile è peccato, «l’educazione occidentale è peccato»: questo significa Boko Haram, il nome del gruppo. Per 14 minuti Shekau declama il suo credo contro l’educazione scolastica delle ragazze, contro la convivenza tra cristiani e musulmani. Ha dei fogli in mano, il suo sembra un proclama. Poi annuncia le sue intenzioni: ridurre in schiavitù, vendere o costringere a nozze forzate le ragazze in ostaggio. «Mi sposerò con una donna di 12 anni e con una ragazza di 9 anni», annuncia. Subito dopo il sequestro di massa i sospetti si erano concentrati sull’organizzazione terroristica. Ma il video del leader di Boko Haram non appare del tutto convincente: nel filmato non nomina mai il numero delle ragazze - delle 276 iniziali, 53 sono riuscite a fuggire - né dove sarebbe avvenuto il rapimento. Non dà nessun dettaglio e non mostra nessuna delle studentesse. Anche il riferimento alle nozze con delle ragazzine non collima con l’età delle ragazze sequestrate, tutte tra i 16 e i 18 anni. La vicenda imbarazza enormemente il governo che ha cercato di mostrare il fenomeno terroristico come estremamente circoscritto e ha ridimensionato gli attacchi a villaggi cristiani, ma che poi si è trovato a dover spiegare l’ottantina di morti negli attentati nella capitale di tre settimane fa e subito dopo il rapimento delle studentesse. Anche in questo caso la linea ufficiale è stata quella di minimizzare. Le madri e i parenti delle ragazze sono dovute arrivare ad Abuja per chiedere che le autorità si muovessero per riportare a casa le ragazze. Solo domenica scorsa il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha ammesso il sequestro, affermando che il governo farà tutto il possibile. Ma ieri la leader delle madri Naomi Mutah è stata brevemente arrestata - secondo fonti di stampa locali - per essersi presentata ad un meeting ufficiale sollecitando la liberazione delle ragazze. La donna sarebbe stata accusata di aver ordito la messa in scena del rapimento per mettere in cattiva luce il governo, ma sarebbe poi stata rilasciata dopo poche ore. Per le autorità di Abuja la vicenda non potrebbe avere tempistica peggiore. Il sequestro rischia di distogliere l’attenzione dal World Economic Forum for Africa, riunito per la prima volta in Nigeria proprio questa settimana e dove il governo contava di presentare il suo volto più moderno. Il presidente Jonathan, ha rivolto un appello ai leader di molti Paesi, fra questi anche al presidente degli Stati Uniti Barack Obama, perché prestino aiuto per ritrovare le ragazze e stabilizzare il Paese. Jonathan si è rivolto anche a Francia, Gran Bretagna e Cina, oltre che ai Paesi vicini Camerun, Ciad, Niger e Benin. «Abbiamo parlato ad alcuni Paesi dai quali ci aspettiamo un aiuto - ha detto -. Gli Usa sono al primo posto. Ho già parlato due volte al presidente Obama». Negli ultimi giorni ad Abuja e a Kano, nel nord del Paese, ci sono state diverse manifestazioni per chiedere al governo di darsi da fare per liberare le studentesse. «Ridatecele», c’era scritto sui cartelli, «le ragazze non meritano tutto questo». 12 del 06/05/14, pag. 21 Sfida tra Comitato Onu e Vaticano sui limiti del trattato anti tortura Il Comitato dell’Onu che si occupa di verificare l’applicazione della Convenzione contro la tortura e i trattamenti disumani e degradanti vuole che il Vaticano risponda dettagliatamente sulla pedofilia e gli abusi del clero. Lo dovrà fare oggi pomeriggio, per cercare di controbattere un verdetto (atteso per il 23 maggio) che, stando alla sessione pubblica di ieri, sembra essere già stato scritto.Per due ore, nella sala delle Conferenze posta al primo piano del Palais Wilson, la delegazione vaticana, guidata da monsignor Silvano Tomasi, è stata sottoposta a un fuoco di fila di domande su un tema al quale la Santa Sede non ha fatto alcun riferimento nel suo Rapporto di 25 pagine, in quanto, come ha dichiarato il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, equiparare le sofferenze e i traumi derivati dagli abusi sessuali sui minori a quelli inflitti con la tortura, vuol dire impostare la questione in modo chiaramente «ingannevole e forzato per qualsiasi osservatore obiettivo». Per affrontare questioni delicate come l’applicazione della Convenzione contro la tortura o la lotta alla pedofilia occorre «un dialogo costruttivo», non basato su «asserzioni polemiche», ha affermato Tomasi ieri pomeriggio alla Radio Vaticana. Mentre a caldo aveva affermato che comprendendo anche la pedofilia «si rischia lavoro inefficace e controproducente» . L’articolo 1 della Convenzione Onu definisce «tortura» (usando quindi il termine in senso proprio) «qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali» per ottenere informazioni o confessioni, per punire o intimidire e fare pressioni «o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione». Inoltre, perché ci sia «tortura», deve essere compiuta da «un agente della funzione pubblica» dello Stato o da «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale». Citando la dichiarazione interpretativa fornita al momento dell’adesione del Vaticano al Trattato, nel 2002, Tomasi ha affermato che la Convenzione si applica solo allo Stato della Città del Vaticano, in quanto entità territoriale circoscritta, e non alla Santa Sede. Un’interpretazione che invece è stata respinta dalla maggioranza degli interventi dei membri del Comitato. Tanto che il presidente, il cileno Claudio Grossman, con qualche imbarazzo è dovuto intervenire per riequilibrare la situazione, dando atto al Vaticano che il nuovo codice penale sanziona la tortura come reato e ha introdotto il reato di pedofilia. Particolarmente determinati i due vicepresidenti, l’americana Felice Gaer e il georgiano George Tugushi (che ha fatto riferimento anche al trattamento subito dall’ex maggiordomo di Benedetto XVI Paolo Gabriele), ma anche la rappresentante del Nepal («la pedofilia è una forma di tortura») e della Cina. Non è intervenuto l’italiano Alessio Bruni. Per la Gaer, lo Stato della Città del Vaticano «è una suddivisione della Santa Sede, come il cantone di Ginevra è una suddivisione della Svizzera» e la Santa Sede con la Congregazione per la dottrina della Fede è competente per tutti i preti del mondo. Gaer ha fatto riferimento a casi recenti riguardanti preti del Cile e dell’Honduras, e dell’Austria. Per quanto riguarda l’Italia, Gaer ha stigmatizzato l’esistenza nel Trattato del Laterano la norma per cui i sacerdoti non sono tenuti a fare denuncia alle autorità civili. Gaer ha chiesto al Vaticano anche di esprimersi sul divieto assoluto dell’aborto, divieto che nei casi di vittime di violenza, ad esempio, può causare sofferenze supplementari, ha affermato. Il riferimento all’aborto è stato fortemente contestato da Ashley McGuire dell’associazione Catholic Voices. M. Antonietta Calabrò 13 INTERNI del 06/05/14, pag. 6 L’Ambasciatore Usa: “L’Italia comprerà gli F35” “CI SONO ACCORDI con la Difesa, l’Italia comprerà gli F-35, probabilmente tutti e 90”. A dirlo è l’a m b a s c i a to re Usa a Roma, John R. Phillips, durante la registrazione della puntata del programma di RaiDue 2next . Philips ha elogiato l’impegno internazionale italiano, ma le sue parole sono suonate come un richiamo agli impegni presi. Gli F-35 – cacciabombardieri americani ancora in fase di sperimentazione – costano circa 135 milioni di euro l’uno e sono da mesi al centro delle polemiche. Il governo Renzi ha lasciato trapelare che intende, nella prossima legge di Stabilità, dimezzare il numero di velivoli di cui dotare l’Aeronautica, ma di certo l’amministra - zione Usa continua a fare lobby (gli aerei vengono costruiti dall’americana Lockheed Martin). Prima dell’ambasciatore, ci aveva già pensato lo stesso Barack Obama durante la sua recente visita in Italia: “La libertà ha un co s to”, ha scolpito riferendosi proprio agli F-35. A rispondere a distanza è intervenuto il deputato Gian Piero Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa: “Il Parlamento ha avviato un’indagine conoscitiva sui nostri sistemi d’arma, solo dopo saranno prese decisioni e saranno vincolanti”. Del 6/5/2014 – pag. 10 LA GIORNATA L’ultimatum del governo “Avanti con il nostro testo e poi poche modifiche” Renzi sfida i “gufi” e attacca Grillo: “È uno sciacallo” Napolitano: lavorare alla riforma della giustizia SILVIO BUZZANCA ROMA - Matteo Renzi vuole discutere delle riforme con tutti, ma chiede anche di arrivare presto ad una decisione. Il presidente del Consiglio lo dice chiaro e tondo, aprendo i lavori del seminario del Pd dedicato alle riforme. E parla anche a qualcuno dei “professoroni”, assenti, accusati nelle scorse settimane di frenare il cambiamento. «L’Italia può e deve cambiare in tempi certi», dice il premier. Non è vero che non vogliamo discutere. Vogliamo farlo ma poi bisogna decidere». E alla critiche Renzi risponde che «sostenere che bisogna cambiare non è né autoritarismo né esercizio violento della cosa pubblica». Bisogna farlo perché è «elemento di credibilità in Europa». E ammette «che avere rinviato la discussione a dopo le elezioni è « un atto che personalmente e politicamente mi costa». Il premier però ascolta cosa dicono gli esperti convocati. E prende appunti. Quando Franco Bassinini parla del presidenzialismo invocato da Silvio Berlusconi annota un «dopo» che rinvia il confronto a dopo la riforma del Senato. Registra l’ammonimento di Valerio Onida che le «riforme non si fanno per risparmiare». Annota le critiche di Ugo De Servio che dice: «Dare un potere meramente consultivo al Senato è profondamente contraddittorio». 14 Tutti problemi che restano sul tappeto. Oggi al Senato però si dovrebbe scegliere il testo base. Il governo vuole che sia adottato il suo. Gli altri no. La mediazione possibile è testo base governativo accompagnato da un pacchetto di emendamenti giù concordati. Luigi Zanda, capogruppo pd parla di intesa possibile affidando alle regioni le modalità di elezione dei futuri senatori. Ma per Luciano Violante sarebbe «un escamotage, non una soluzione». Sullo sfondo resta il tema giustizia. Ieri il presidente della Repubblica ne ha parlato con i nuovi giovani magistrati. «Siete una nuova generazione che confido non cada prigioniera di un clima di tensione che ha dominato per decenni la vita pubblica del nostro paese», ha detto Napolitano. E ha auspicato che il ministro Orlando lavori ad una riforma della giustizia «con tutti per la ricerca di soluzioni concrete e organiche». del 06/05/14, pag. 1/15 Riforme Un mostro giuridico Gaetano Azzariti Sembra che l’«autonomia del politico», dopo aver consumato un forte distacco dalla società, stia ora cercando di affrancarsi anche dal diritto. Un’impressione che, da ultimo, trova conferma nel dibattito sulle riforme istituzionali, dove i principali compromessi politici sono stati raggiunti tutti a scapito delle ragioni del diritto, delle sue regole di rigore e logica. Basta pensare al delicato intreccio che tiene unite la riforma elettorale e quella costituzionale, che rappresenta — a quel che è dato sapere — la base del misterioso “patto del Nazzareno”. Da un lato le forzature ipermaggioritarie e incostituzionali per favorire i due principali competitori (il giorno della sottoscrizione del “patto” Renzi e Berlusconi, oggi non è più così), dall’altro la scelta di non far più eleggere direttamente i senatori. Quest’accordo politico — peraltro assai precario — ha creato un mostro giuridico. Com’è noto, infatti, al fine di manifestare il “sostegno” di tutti al complesso delle riforme proposte, nel corso della discussione alla Camera, è stato deciso (da Pd e FI, ma con il consenso anche di varie minoranze interne) che l’approvazione delle norme elettorali dovesse riguardare esclusivamente la Camera, dacché i membri del Senato, dopo la riforma costituzionale e nel rispetto del “patto”, non saranno più eletti direttamente. Dal punto di vista politico a me sembra già un’aberrazione: come si può giustificare che prima di ogni discussione parlamentare, prima ancora della presentazione del disegno di legge costituzionale in materia, si imponga una scelta obbligata di non elettività della seconda Camera? I fatti di questi giorni, che hanno rimesso in discussione proprio i criteri di elettività dei futuri senatori, stanno mostrando il fiato corto di questa così ardita e apparentemente radicale scelta politica. Ma è sul piano giuridico che si sono prodotti gli effetti più negativi. Si è venuta, infatti, a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili che farebbero venir meno le stesse finalità di governabilità così ardentemente perseguite dalla maggioranza di larghe intese. Quest’esito palesemente irragionevole e, dunque, incostituzionale non verrebbe meno neppure se, in seguito, si approvasse una riforma del bicameralismo perfetto, fosse anche la più radicale, ma che non prevedesse specificatamente l’esclusione dell’elettività diretta di tutti i senatori. 15 Dunque, una blindatura di un patto politico (tra Renzi e Berlusconi) che appare fondato esclusivamente su fragili interessi politici personali, che si sono rivelati immediatamente errati: Forza Italia non è più il secondo partito e non può più sperare di sfruttare a suo vantaggio le distorsioni maggioritarie (non le rimane che sperare nel gioco delle soglie di accesso per attirare alleati recalcitranti) e il Partito democratico non troverà una sintesi se non rinnegando il principio della non elettività dei senatori. Quel che rimane è però il mostriciattolo giuridico — che non sarà facile debellare — che è stato generato da un accordo senza diritto. Non è questa vicenda un’espressione assai significativa del divorzio tra le ragioni della politica e le logiche del diritto? D’altra parte, le fondamenta stesse su cui si sta costruendo l’autonomia della politica dal diritto sono deboli. Non dovrebbe sfuggire, infatti, che le «decisioni» del potere politico, alla fine, dovranno tornare a fare i conti con la grande regola dello «stato di diritto». Nel nostro ordinamento democratico proprio al diritto costituzionale spetta l’«ultima parola». Nessuno può allora illudersi che un accordo politico – oltretutto contestato — possa rappresentare un salvacondotto in sede di giudizio di costituzionalità. E l’incostituzionalità della legge elettorale che si vuole approvare è palese. Non è difficile prevedere sin da ora la sua sorte ove arrivasse alla Consulta. Ma, ancor prima, c’è da considerare che una legge fonte di gravi irrazionalità di sistema, inidonea persino a raggiungere l’obiettivo perseguito della stabilità delle maggioranze parlamentari, foriera pertanto di una possibile paralisi del sistema politico e parlamentare, che finisce per condizionare molti dei poteri presidenziali, quello di scioglimento in particolare, è ad alto rischio di non vedere mai la luce. Non scommetterei, infatti, sulla sua promulgazione da parte del capo dello Stato. Viene naturale allora interrogarsi sulla ragione di queste forzature. È lo sguardo corto — sempre più corto, ormai quasi cieco — della politica che spiega le spericolate operazioni cui stiamo assistendo. Esagerazioni motivate della debolezza in cui versa una politica arrogante. Quando non si sa cosa fare e non si hanno chiare strategie politiche da seguire, non si può far altro che alzare la voce per cercare di far valere gli interessi del momento. Fragilità della politica che è un carattere dei tempi nostri e sembra non salvare nessuno. Se valutiamo quel che è successo sull’altro fronte delle riforme istituzionali, quello della trasformazione del nostro sistema bicamerale, ritroviamo, purtroppo, conferme drammatiche di come le ragioni della politica ormai non riescano più a conciliarsi con le logiche del diritto. Se può dirsi che il dibattito sulla legge elettorale è stato pressoché inesistente e in sede parlamentare tutte le richieste di cambiamento sono state frustrate, non altrettanto è avvenuto con riferimento al disegno di legge costituzionale presentato dal governo sulla trasformazione del Senato. Anzi, com’è noto, alla commissione affari costituzionali il progetto del governo era a un passo dal fallimento, non avendo trovato il consenso necessario proprio la richiesta concernente la non elettività diretta dei senatori. Ebbene, nel vuoto del diritto, è stato possibile assistere ad un colpo di teatro, che ha ottenuto un consenso politico pressoché unanime. Matteo Renzi, al quale nessuno può negare capacità spettacolari e velocità di movimento, ha sparigliato, proponendo egli stesso un sistema di elezione diverso. Ha sostenuto di voler lasciare che ogni Regione possa stabilire le modalità d’elezione dei propri senatori, aggiungendo che in fondo non c’era da impiccarsi sulla data di approvazione (ancorché — s’intende — nessuno potesse mettere in discussione la “velocità” come mito fondante l’immaginario del nuovo governo). Un coro di consensi ha accompagnato la brillante operazione politica, ed anche i commentatori più distanti hanno apprezzato l’apertura, mentre solo gli “irriducibili” hanno auspicato ulteriori aperture. 16 Non ho udito nessuno dire quel che a tutti è chiaro: il sistema suggerito non ha nessun senso giuridico e non potrà mai trovare una sua coerente applicazione. A prendere sul serio il compromesso politico enunciato — ma non chiarito — dal presidente del consiglio bisognerebbe ritenere che l’organo senatoriale potrebbe essere composto, del tutto irrazionalmente, a seguito delle differenti scelte di ogni ente territoriale, magari mettendo caoticamente assieme elettività diretta e indiretta, rappresentanza istituzionale e popolare. Ovviamente nessuno ritiene che questo possa essere l’esito. L’ipotesi che circola in queste ore di non modificare il testo base, ma di affiancargli l’approvazione di un ordine del giorno di segno opposto, oltre ad essere un’innovazione assai spregiudicata dei precedenti parlamentari, segnala l’indeterminatezza della proposta, ovvero la sua impraticabilità costituzionale. Malgrado ciò, si tende ad apprezzare la ragione politica che ha indotto a fare una proposta di apertura alle opposizioni. Poi si vedrà. Forse si riuscirà in seguito a dare un senso alla riforma costituzionale che, per ora, un senso non ne ha. Sono in molti a sostenere che sia questo un atteggiamento pragmatico, politicamente opportuno in tempi difficili in cui non ci si vuole o può opporre al vento tempestoso e confuso del cambiamento. Non voglio esprimere giudizi di natura propriamente politica, ritengo tuttavia, semplicemente, che se il costo dovesse essere rappresentato dalla negazione della logica del diritto e della costituzione, non credo sia un prezzo che si possa pagare a nessuna ragione politica. 17 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 6/5/2014 – pag. 22 Stop alle indagini per Di Matteo: “Non è un pm della Dda” Le nuove regole, in vigore da marzo, non ammettono deroghe La beffa dell’antimafia una circolare del Csm azzera il pool di Palermo SALVO PALAZZOLO PALERMO - Nino Di Matteo non potrà fare più nuove indagini sulla trattativa fra i vertici della mafia e pezzi dello Stato. Anche Roberto Tartaglia dovrà fermarsi. E, fra un mese, la stessa sorte toccherà a Francesco Del Bene. Tira un’aria pesante nelle stanze blindate della Procura. Il pool di Palermo è praticamente azzerato, resta soltanto il coordinatore del gruppo, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. È il primo drammatico effetto di una circolare arrivata dal Consiglio superiore della magistratura il 5 marzo scorso: ordina che tutti i nuovi fascicoli d’inchiesta sulla mafia debbano essere affidati esclusivamente a chi fa parte della Dda, la direzione distrettuale. E Di Matteo è formalmente scaduto da quattro anni, ufficialmente è assegnato al gruppo che si occupa di abusi edilizi. Tartaglia, invece, non fa ancora parte della Dda. Fino ad oggi, i due magistrati che hanno istruito il processo in corso a Palermo sono stati solo «applicati» al pool. Il terzo componente del gruppo, Francesco Del Bene, è l’unico ancora legittimato a fare nuove indagini, ma fino al primo giugno, poi scadrà anche lui dall’incarico decennale in Dda. La circolare del Csm spedita a tutte le procure d’Italia è perentoria: nessun nuovo fascicolo antimafia potrà più essere gestito da chi non fa parte della direzione distrettuale, «salvo casi eccezionali». E i casi eccezionali sono particolari competenze «nei delitti contro l’economia, la pubblica amministrazione, la salute e l’ambiente». Oppure, dice il Csm, tutti i componenti della Dda dovrebbero avere dei carichi di lavoro tali da non poter condurre più altre indagini. Così, al procuratore di Palermo Francesco Messineo non è rimasto che fermare una nuova importante assegnazione a Di Matteo e Tartaglia. Quale, resta un segreto d’indagine. Ma sembra che riguardi proprio gli sviluppi di una serie di accertamenti fatti in questi ultimi mesi. Perché, ormai, non è più un mistero che i pm di Palermo hanno proseguito le indagini sulla trattativa anche dopo l’inizio del processo in Corte d’assise: l’estate scorsa, si sono presentati con la Dia nelle sedi romane dei servizi segreti per acquisire una montagna di documentazione. Di recente hanno poi continuato a interrogare decine di uomini delle istituzioni come testimoni. Il pool di Palermo sta cercando di chiarire il ruolo della misteriosa Falange Armata, la sigla che rivendicava gli attentati del 1992-1993 ai centralini delle agenzie di stampa. E sembra che alcuni nomi su cui indagare siano saltati fuori. Ma su questi nomi Di Matteo e Tartaglia non potranno fare alcuna indagine, anche se sono stati loro a individuarli nella giungla dei misteri che ancora restano. La circolare del Csm non ammette deroghe. Non importa che un gruppo di magistrati abbia acquisito una competenza unica. Non importa che le indagini offrano nuovi spunti di approfondimento, e relative iscrizioni nel registro degli indagati. Perché, intanto, quella misteriosa sigla della “Falange armata” è ricomparsa, in una lettera minacciosa spedita in carcere al boss Totò Riina dopo la pubblicazione sui giornali delle sue intercettazioni all’ora d’aria. «Chiudi la bocca, ricordati che hai famiglia», gli hanno scritto. 18 Alla Procura di Palermo nessuno ha voglia di commentare. Ma il malumore cresce. Anche perché l’effetto tagliola è arrivato per tutte le indagini antimafia, che vedevano applicati diversi pm della procura ordinaria. Qualcuno sta già pensando di scrivere al Csm, per porre ufficialmente il caso. del 06/05/14, pag. 5 «I beni confiscati aumentano La riforma per gestirli meglio» MASSIMO SOLANI Filippo Bubbico «Si dice chele stesse aziende in mano alla mafia producono lavoro e in mano allo Stato falliscono È un teorema da ribaltare con norme aggiornate» «È una rivoluzione sì, ma visto il mio ruolo devo necessariamente essere più prudente. Diciamo che è arrivato il momento di cambiare passo e che spero si riesca a farlo presto con il contributo di tutti». Il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico lavora da mesi al progetto di revisione della normativa sul tema dei beni confiscati e oggi quel suo lavoro può finalmente vedere la luce con l’arrivo in Consiglio dei ministri del disegno di legge intitolato «Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti» in cui, fra le altre cose,sono previsti l’inasprimento delle pene previste per il 416bis e l’introduzione del reato di autoricilaggio. Da cosa nasce l’esigenza di questo cambio di passo? «Negli ultimi anni abbiamo assistito a un grandissimo aumento dei sequestri e delle confische mafiose e la grande fecondità di quella legge straordinaria ci ha dimostrato l’efficacia di uno strumento diventato fondamentale nel combattere la criminalità organizzata e le diverse mafie. La capacità dei sodalizi criminali di tallonare l’economia legale e condizionarla, però, rende ancora più rilevante il tema degli strumenti che noi mettiamo a disposizione per restituire alla dimensione collettiva e alla funzione di produrre utilità pubbliche i beni sequestrati e confiscati. Che sono cresciuti nel corso del tempo e cresceranno ancora di più perché la pervasività del sistema criminale nel campo economico è sotto gli occhi di tutti». Diciamo che la legge Rognoni-LaTorre, dopo anni di grande efficacia aveva bisogno di qualche aggiustamento? «Quello straordinario strumento voluto da Pio La Torre e Virginio Rognoni ha dimostrato la sua efficacia, però non possiamo non ammettere che oggi ci troviamo di fronte alla necessità di aggiornare quell’impianto normativo. Se un tempo si riteneva sufficiente restituire alla funzione sociale i beni confiscati oggi proprio la mutata natura dei beni confiscati ci pone un problema diverso: cresce il numero di aziende che vengono sequestrate e confiscate e cresce in maniera significativa il valore dei patrimoni confiscati». Non solo«la roba», ma sempre più imprese con centinaia di lavoratori. Aziende che, troppo spesso, non sopravvivono all’impatto con l’economia legale dopo il sequestro e la confisca. «Finora purtroppo non siamo stati capaci Di reagire rispetto ad un teorema che metteva fuori gioco lo Stato. In molte situazioni, soprattutto in territori di crisi, le conseguenze dell’azione penale dicevano che le stesse aziende in mano alle mafie creavano lavoro, 19 mentre in mano allo Stato producevano licenziamenti. Dobbiamo sconfiggere questo teorema». Il disegno di legge insiste molto su questo. Con quali nuovi strumenti? «Puntiamo a mettere in campo un nuovo modello di governo anche imparando dagli errori. Non possiamo continuare a pensare che le amministrazioni giudiziarie proseguano per un tempo indeterminato o che le funzioni di amministratore giudiziario si assommino in maniera cumulativa in capo agli stessi soggetti. Proprio per la rilevanza economica e sociale che quelle aziende confiscate esprimono in molte realtà è necessario che lo Stato metta in campo il meglio delle sue professionalità e competenze di natura gestionale prestando a ciascuna di queste aziende il massimo dell’attenzione». Va letta in quest’ottica anche la riorganizzazione dell’agenzia per i beni confiscati contenuta nel testo? «Che l’agenzia abbia sede a Reggio Calabria non ha senso: l’agenzia deve avere la capacità di gestire processi complessi interfacciandosi con le altre strutture dello Stato e interagendo con le altre componenti interessate dal processo di sequestro e confisca dei beni. Deve insomma agire in via diretta nel rapporto con le altre amministrazioni: per questo il nostro progetto prevede una sede unica a Roma e l’utilizzo delle prefetture per esplicitare localmente la propria funzione». Nel testo ci sono anche interventi di sostegno per gli enti locali sciolti per infiltrazioni mafiose. L’ottica è quella di sostenerli nel loro percorso di rientro nella legalità? «Non possiamo permettere che gli amministratori locali siano ancora lasciati soli, perché più sono esposti ai condizionamenti e alle minacce e più sono fragili. Il sindaco è visto sempre più come dominus, i consigli comunali sono sempre più svuotati di poteri ed è il primo cittadino a nominare i dirigenti. Per questo il sindaco rischia di essere visto come una figura monocratica che volendo può assecondare gli interessi di chi ha la forza di imporsi. E accade troppo spesso che, pur non essendoci complicità, manchi semplicemente la forza di opporsi a questi fenomeni. Noi dobbiamo introdurre meccanismi di irrobustimento delle funzioni pubbliche ridando senso ai consigli comunali e al dibattito pubblico, in modo da mettere in campo gli interessi contrapposti e validare così le scelte che più rispondono alla tutela dell’interesse generale. Le amministrazioni sciolte per inflitrazioni devono essere accompagnate e sostenute verso un esercizio legale delle proprie funzioni». Dopo un lavoro di mesi,iniziato con lo scorso governo in cui lei aveva la delega per i beni confiscati, adesso il disegno di legge può finalmente vedere il traguardo. Quando potrà essere approvato dal consiglio dei ministri? «Io mi auguro che accada già domani (oggi ndr), in modo che si possa avviare al più presto possibile il suo iter parlamentare. Nel frattempo, dopo la pubblicazione dei risultati del lavoro delle commissioni Garofoli e Fiandaca, la commissione Antimafia guidata dalla presidente Bindi ha concentrato su questo tema gran parte del suo lavoro recente. Per questo sono convinto che l’impostazione del governo sarà confermata e arricchita durante il lavoro parlamentare». 20 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 06/05/14, pag. 13 Profughi a Milano, una tappa per scappare altrove ORESTE PIVETTA Tra la Stazione centrale E le vie dei Promessi Sposi in scena una tragedia umana su cui speculano leghisti e razzisti. Ma gli «invasori» non sono venuti per restare Accanto agli ultimi grattacieli a specchio, alle ultime enclave extralusso, accanto ai progetti dell’Expo, Milano è anche questa: i quartieri popolari, gli autobus che a qualsiasi ora del giorno e della notte ospitano un’umanità varia nel senso delle provenienze, delle generazioni, accomunata da un’unica povertà, gli accampamenti dei rom, gli homeless sdraiati tra i cartoni al riparo di un portico, molte altre vite ancora, e, infine, per ultimi, i siriani accampati nei mezzanini della Stazione centrale o vaganti, attorno, alla ricerca di qualcosa che consenta di vivere e, magari, di sperare, quei siriani profughi di guerra che offendono la sensibilità del segretario della Lega Matteo Salvini. Se si riflette un attimo, se si pensa al passato, nulla di nuovo: il mondo è stato da sempre teatro di grandi migrazioni con le loro vittime e con pochi fortunati capaci di trarne vantaggio, l’Europa lo è stata in modo massiccio, clamoroso, alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia per un secolo, dal suo accesso alla cosiddetta modernità, pagato con l’emigrazione verso le Americhe e altre parti del mondo di milioni di persone, e, poi, nel dopoguerra, con la diaspora dei nostri profughi dell’Istria e con quella dei contadini futuri operai verso i capoluoghi del triangolo industriale, Torino, Milano, Genova. La sofferenza non è uno spettacolo se non per i sadici. Il segretario leghista che visita da voyeur la Stazione centrale e che indica donne, uomini e bambini come un «biglietto da visita »non possiede la nozione della complessità della società contemporanea e coltiva l’idea tutta elettorale di piccole patrie che non comunicano, chiuse nel loro benessere( quando c’è il benessere),come se potesse sopravvivere un «nord» benestante, sicuro, felice,a prescindere dal resto dell’Italia e dell’Europa. Coltiva cinicamente la sconfitta e la propaganda come la via d’uscita, parlando al suo impaurito popolo, che crede di difendersi elencando nemici per il presente più che progettando il futuro. Milano è un’altra Lampedusa meno appariscente, meno dolorosa. Qui approda chi la parte del suo viaggio più pericolosa l’ha superata: non annegherà, non morirà di fame e di sete sdraiato in fondo ad un barcone alla deriva sotto il sole. A Milano potrà continuare immaginare la sua esistenza altrove, in Germania, in Francia, al Nord, le mete più desiderate, dove anche i più disperati sanno di poter trovare non una misericordiosa assistenza, ma un sistema del welfare severo ma efficace, strade verso l’inserimento in una società nuova, un lavoro. Sanno tutti, anche chi viene dalla Siria bombardata, che in Italia la crisi economica è più grave che in altri paesi d’Europa, che l’accoglienza è più difficile, che una occupazione per quanto di basso profilo è più lontana. Se ne vogliono andare al più presto. Il ministro Alfano lo ha riconosciuto,con una singolare sottolineatura: procedure più rapide di espatrio per chi vuole lasciare l’Italia, «cioè tutti». Alcuni luoghi di Milano,la Stazione centrale e le vie attorno, sono segnati non da una invasione ma da una attesa: da persone, cioè, che attendono l’opportunità per andare oltre, non vogliono fermarsi, vogliono proseguire il loro cammino e intanto campano, sotto un tetto qualsiasi e in attesa di un pasto caldo, in coda nei portici di ciò che resta di un 21 antico edificio che ospitò gli appestati dei «Promessi sposi» manzoniani, il Lazzaretto, senza dover temere una bomba sulla testa o una pallottola o, persino, un gas asfissiante. Questa è la realtà: Siria, Sudan, Egitto, Libia, Iraq, Afghanistan, eccetera eccetera, Ucraina chissà… È da imbecilli non provare a capire quanto possa essere naturale il desiderio di fuggire… «Aiutarli a casa loro», vecchio slogan del cosiddetto «carroccio», dai tempi di Bossi, è una banalità. La guerra chiude la strada a strategie che implicano la lentezza della politica, anche quando sia manifesta la volontà della politica. NESSUNO TSUNAMI Poi esiste la verità dei numeri: secondo l’assessore al welfare Pier Francesco Majorino, da ottobre ad oggi Milano avrebbe dato aiuto a cinquemila immigrati, un quarto bambini, l’ottanta per cento giovani sotto i 35 anni, dal 2 maggio sarebbero arrivati settecento siriani. Si capiscono le difficoltà del Comune di Milano, provato datagli,da pesanti eredità e adesso dall’urgenza dell’intervento. Settecento persone per un paese come l’Italia e per una città come Milano non fanno però uno tsunami, immagine cara alla Lega. Non sono il pubblico neppure di una partita di serie C. Possono colpire solo la fantasia di chi rifiuta di credere che ogni grande città, a New York a Parigi, da Londra a Berlino, vive da decenni di una mescolanza assoluta: in fondo solo ora la percentuale degli immigrati sulla popolazione italiana sta sfiorando le percentuali che Francia, Germania o Regno Unito hanno conosciuto negli anni ottanta. Il ministro Alfano, replicando all’assessore Majorino che reclamava un sostegno più forte da parte del governo, «fatti dopo le parole», ha negato l’esistenza di un’emergenza immigrazione. Una bella notizia. Da vent’anni, da quando i primi immigrati si affacciarono in numero considerevole sulle coste italiane (cominciarono i vu’ cumprà sulle spiagge emiliane), si recita invece la litania della «emergenza». Un’emergenza«ventennale» è un non senso e a questo punto l’Italia e soprattutto l’Europa avrebbero dovuto garantirsi pratiche adeguate a fronteggiare un fenomeno che è ormai qualcosa che appartiene alla consuetudine. Non ci sono alternative e non sono alternative gli «sbarramenti» invocati dalla Lega (strano che nessuno abbia più evocati i bombardamenti sui gommoni in mezzo al Marenostrum, come fecero i vari Maroni e Borghezio). Una lunga esperienza ormai ha dimostrato quanto qualsiasi frontiera sia permeabile. Una breccia ha scalfito, fino a farlo crollare, anche il muro di Berlino. Ma soprattutto è fragile la convinzione che una gabbia serva a chi sta dentro contro chi è fuori: se mai è vero l’opposto, una società multipla è utile a tutti, se la politica funziona. Anche quando semplicemente si offre un piatto di minestra calda e una coperta: il volontariato (e in particolare quello cattolico e, a Milano, della Caritas) non solo ha scongiurato il peggio nei momenti più duri ma è sempre la prova di un dinamismo, di una cultura, di una vitalità, di un protagonismo che nella nostra comunità, divisa tra astensionismo e protesta, sembrano smarriti. Milano s’appresta alla «celebrazione » dell’Expo, tra un anno. Milioni di investimenti e milioni (come si augurano gli organizzatori) di visitatori per discutere di un nobilissimo argomento: nutrire il pianeta. Intanto cominciamo a nutrire alcune centinaia di siriani, pronti peraltro a salutarci. 22 SOCIETA’ Del 6/5/2014 – pag. 1-29 L’ANALISI I violenti di famiglia EMANUELA AUDISIO L’ITALIA si è incurvata. Da tempo. Guarda, assiste, subisce. Dovrebbe non giocare più, non a queste condizioni. Invece si volta dall’altra parte, fa passare la nottata, e il giorno dopo piange e si lamenta. I CATTIVI le hanno fatto male. Cosa si fa? I vertici sportivi (Giancarlo Abete, Federcalcio, Maurizio Beretta, Lega di serie A e i loro predecessori) preoccupati solo delle poltrone e di non assumersi un minimo di responsabilità fanno la faccia triste, misurano distanze, diventano sociologi: «È la società ad essere violenta, gli incidenti sono avvenuti fuori dallo stadio». In pratica: noi non c’entriamo. Culturalmente chi amministra lo sport è colpevole di ignavia. Il tifoso è un appassionato che sbaglia, anzi che esagera, non un delinquente. Va capito, e dai, vuol bene alla squadra. I dirigenti del calcio che ora fanno le vittime, lo sono eccome. Ma di se stessi, della loro vigliaccheria: mai una reazione in tutti questi anni in cui bruciavano treni, quartieri venivano devastati, e negli stadi entrava di tutto: motorini, svastiche, asce, odio, criminali. Solo in Sudamerica e in qualche paese sottosviluppato c’è la stessa situazione. In America appena un proprietario di una squadra di basket (i Clippers) ha parlato con toni razzisti dei neri, la Lega lo ha squalificato a vita. Spendeva miliardi, eppure è stato cacciato. In Italia il calcio (campione del mondo nel 2006) non si è mai dato una casa degna, si è sempre accontentato della sua pochezza. Stadi vecchi, che invitano ad essere bestie dietro al recinto, non spettatori. Dove le bestie ultrà imprigionano il paese che alza le mani, si arrende, e tratta: vi cediamo il comando, ma non esagerate. Come dire ai banditi: questa è la banca, prendete solo quello che vi serve. In questo momento, secondo la classificazione Uefa, in Italia non c’è un solo stadio di categoria élite, ce ne sono quattro a 4 stelle. In Germania invece 12 sono di élite e 10 a quattro stelle. Sarà proprio un caso che Guardiola è andato ad allenare lì? I nostri ormai sono stadi spettrali. Un territorio nemico, dove basta una sciarpa sbagliata e ti accoltellano. Poi c’è lo Stato, le forze dell’ordine. Lo Stato ha sempre considerato gli ultrà come un fuoco amico. Dagli orari regolari. Per questo comodo. Ne conosce gli appartenenti e il territorio in cui si muovono. Mentre la violenza sociale e politica viene repressa, quella da stadio viene sopportata. È a tempo. Controllabile. Non sono nemici dello Stato, solo dementi che giocano a fare la guerra, pericolosi nella loro feroce ignoranza. Che se la sbrighino tra curve, facciano i conti tra di loro, noi stiamo a guardare. Trattino, così si calmano, e si evitano guai peggiori. Questo è il patto, che la polizia agevola. Voi rapinate la banca senza sparare, e noi non vi inseguiamo. Non è una politica, è una resa di autorità. Ultrà e capitani si parlano, poi decidono i teppisti. Gli allenatori che se ne devono andare (Giampaolo a Brescia), se si deve giocare (finale Coppa Italia, derby Lazio-Roma). Genny ‘a Carogna è il leader di un pezzo indipendente delle Curve d’Italia. Ivan il terribile Bogdanov, capo ultrà che nell’ottobre 2010 a Genova decise di far sospendere ItaliaSerbia, fu arrestato, Genny invece è tornato a casa. Non è uno straniero, ma uno di famiglia, una controparte. All’estero il calcio è bello da guardare, riesce perfino a fare ironia su una banana razzista. In Italia fa schifo, soprattutto perché nessuno ha voglia di giocare seriamente. 23 Del 6/5/2014 – pag. 2 LA GIORNATA Napolitano e Renzi “I club rompano con i facinorosi” Il premier: le squadre paghino la sicurezza Il Coni: “I vertici del calcio hanno fatto poco” FABIO TONACCI ROMA - «Non bisogna trattare con i facinorosi — dice il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano — le società calcistiche rompano i legami con questi aggregati che vengono chiamate tifoserie». Due giorni dopo i fatti della Coppa Italia, la sparatoria prima della partita, poi la trattativa o presunta tale con il capo dei Mastiff napoletani Genny ‘a carogna, lo Stato reagisce. E lo fa con i suoi massimi vertici. Napolitano parla dall’Auditorium di Roma, durante una mostra sulla Nazionale: «Quanto abbiamo visto è il segno di una crisi morale, di valori e di comportamenti». E poi: «Sono vicino alla vedova Raciti, come tutti gli italiani onesti». Il premier Matteo Renzi, che era all’Olimpico sabato scorso, sceglie il salotto di Porta a Porta per dire che «le istituzioni non lasciano il calcio a Genny a’carogna». E però, nel sottolineare come «parlare con gli ultras sia stato un errore», di fatto ha ammesso che un qualche dialogo con i capi ultras c’è stato. Polemiche a parte («è scandaloso usarle a fini elettorali, siamo circondati da sciacalli che si buttano per lucrare due voti», ha ribadito il premier), il governo ha annunciato che tra giugno e agosto saranno convocate le società di calcio per introdurre un nuovo principio: «Dovranno prendersi cura del pagamento dell’ordine pubblico durante le manifestazioni». Per ora si ragiona sul breve termine. Il Viminale sta lavorando a un provvedimento, che potrebbe approdare al Consiglio dei ministri già la prossima settimana: prevede che il Daspo (il provvedimento che impedisce ai violenti di entrare negli stadi) venga raddoppiato per i recidivi, aumentando i reati per i quali si può applicare. Misure che andranno ad aggiungersi a quelle elaborate dalla task force composta da esperti dell’Interno («Va rilanciata l’idea del Daspo a vita», sostiene il ministro Alfano) e del mondo del calcio che partiranno in via sperimentale all’inizio del prossimo campionato. Sul caso è intervenuto anche il presidente del Coni Giovanni Malagò: «È imbarazzante la reiterazione di quello che avviene negli stadi: significa che o non si è fatto nulla o lo si è fatto male». Intanto migliorano le condizioni di Ciro Esposito, il giovane napoletano ferito alla colonna vertebrale. È piantonato al Policlinico Gemelli, perché da ieri è in stato di fermo con l’accusa di rissa. «Mio figlio rischia la vita perché gli hanno sparato — si arrabbia la mamma, Antonella Leardi — e scopro che viene trattato come un delinquente». del 06/05/14, pag. 39 Una madre e il figlio sull’asfalto Il dramma di Federico Aldrovandi e della giustizia a lungo negata Corrado Stajano 24 C’è una frase a pagina 114 di Una sola stella nel firmamento che fa sobbalzare: «Non sapevo di avere tutto quel coraggio». Sono di Patrizia Moretti queste parole, nel libro pubblicato dal Saggiatore, scritto con Francesca Avon. Patrizia Moretti è la mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo di 18 anni ucciso con ferocia dalla polizia il 25 settembre 2005 a Ferrara; Francesca Avon è una psicanalista junghiana. Davvero una madre coraggio, Patrizia. Che cosa c’è di più atroce della morte di un giovane figlio? Non si rassegna mai, si batte, lotta allo spasimo, vuol sapere, vuole sia fatta giustizia per quelli che hanno distrutto il suo mondo. Il libro è terribile, bellissimo — se si può usare questo superlativo per una storia così atroce — prende la gola, è angosciante, indigna, fa comprendere com’è importante la serenità del vivere. La legge deve essere veramente uguale per tutti, rispettata soprattutto da chi ha il dovere di farla rispettare. Una sola stella nel firmamento, che ha per sottotitolo Io e mio figlio Federico Aldrovandi, è una dolorosa introspezione, ma è anche il ritratto di una famiglia, di una città, di una società, della vita di provincia, del modo di pensare di oggi, dei conformismi, delle ipocrisie, dell’Italia peggiore e anche dell’Italia migliore, degli amici che si perdono quando esplode una tragedia che divide una comunità e degli amici nuovi, uomini, donne, ragazzi che sembrano uscire allora dalle catacombe e sono le energie positive che esistono nel Paese. Il libro è anche una rappresentazione degli uomini di potere, il vescovo assente, lontano dal Cristo morto, dimentico anche che lì fuori dal portone del suo palazzo c’è il monumento di Savonarola che nacque proprio a Ferrara; e poi, tra gli altri, il questore che difende contro ogni regola dei codici e dell’umanità i suoi uomini indifendibili. (Poi, nel 2006, paga bugie e omissioni. Giuliano Amato, ministro degli Interni del secondo governo Prodi, ordina una doverosa inchiesta e dopo una settimana gli fa far le valigie). Ci sono anche i giornalisti cinici, altro che quarto potere, pavidi, subalterni: la questura, la procura sono sacre, come possono mettersi contro in una città di provincia. La giustizia, all’inizio, è come imballata, la procura non fa ciò che le compete, non requisisce neppure i due manganelli rotti dai poliziotti sul corpo di quel povero ragazzo. Il tribunale poi si riscatta, lo Stato, alla lunga, ha il coraggio di processare se stesso. E i quattro poliziotti assassini delle pattuglie Alfa 2 e Alfa 3 della questura di Ferrara vengono condannati, anche se seguitano a indossare la divisa. Le sentenze, confermate nei tre gradi di giudizio — dal 2007 al 2012 — stabiliscono per quel gruppetto tre anni e sei mesi di reclusione, eccesso colposo in omicidio colposo. Che cosa è successo in quella città piena di grazia in una sera di fine estate? Bisogna dimenticare la Ferrara letteraria, gli ippogrifi ariosteschi, la suggestione dei luoghi, le mura degli Angeli, l’Addizione Erculea, il club Marfisa d’Este, Micol, l’inquieta e misteriosa protagonista del Giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani. È una storia soltanto fosca a troncare la giovinezza di Federico Aldrovandi. Quella sera del 24 settembre, con gli amici, va a Bologna, al Link, un centro sociale dove è in programma un concerto di musica reggae. Il concerto è stato annullato, Federico e gli amici restano, ballano, scherzano, si divertono, bevono qualche boccale di birra, non sono ubriachi quando tornano a casa verso le cinque del mattino. Federico si fa lasciare un po’ lontano da casa, vuole sgranchirsi le gambe, smaltire quel che ha bevuto. Poi il buio, anche se è l’alba. Federico viene massacrato di botte su tutto il corpo, brutalizzato coi manganelli che si spaccano, colpito dalla testa ai piedi da quattro poliziotti tra cui una donna che non si risparmia. Il ragazzo si difende con durezza, è alto, robusto, i quattro lo rivoltano, il torace all’ingiù, lo calpestano selvaggiamente schiacciandolo con gli scarponi anche quando riescono a ammanettarlo. Le immagini dell’autopsia sono impressionanti. Disseminate sul corpo ha 54 lesioni, grandi e piccole. «Figlio mio che cosa ti hanno fatto». Per quasi cinque ore, dalle 6.15 alle 11, il cadavere di Federico resta sull’asfalto, vicino al cancello del galoppatoio. Comincia il carosello delle nequizie, delle ambiguità, della paura. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito. Come a Orgosolo, come a San Luca. La polizia va subito casa per casa nel 25 vicinato, vuole accertarsi se qualcuno sa di quel feroce pestaggio. Tutti, quel mattino, negano, impauriti dalle divise. La tesi ufficiale è che Federico Aldrovandi — sfigurato, irriconoscibile — è morto per una overdose. Nessuno l’ha toccato, dice il questore. La versione poliziesca non è credibile. Perché contro quel ragazzo è stato usato tanto odio? Ha visto qualcosa che non doveva vedere mentre camminava tranquillo verso casa? Federico non è un eroinomane. Qualche pastiglia, non di più. Nel sangue gli è stato trovato un quantitativo insignificante di Ketamina che, secondo i periti, provoca depressione, non agitazione, violenza. Patrizia Moretti non dà requie, scrive lettere ai politici, ai magistrati, fa appelli, respinge con forza le calunnie, gli sciacallaggi messi in moto dai colpevoli e dai loro protettori, subisce minacce, querele, intimidazioni. Mette a **** il suo cuore in nome del figlio. È una donna da tragedia greca. Alla ricerca della verità, sa usare gli strumenti d’oggi. Il 2 gennaio 2006 nasce il blog dedicato a Federico Aldrovandi. In una lunga lettera racconta quel che è successo. Il mondo della Rete sembra impazzito, un’esplosione. Il blog è il più cliccato dell’intero Paese, i pavidi giornalisti si incuriosiscono. Crea emozione quella madre disperata: «Come possono dormire la notte? Non hanno una coscienza?». Gli assassini si difendono, malamente, vergognosamente: 233 poliziotti firmano un documento di solidarietà con i colleghi. Poi salta fuori una testimone che in quella maledetta alba ha visto tutto e ora ha il coraggio di parlare. Il processo di primo grado dura due anni ed è doloroso per Patrizia vedere quegli uomini grossi, corpacciuti, dal viso banale, che le hanno ucciso il figlio. La verità salta fuori. Federico «è morto per le percosse subìte e non a causa degli stupefacenti e di un bad trip, come hanno continuato a ripetere gli imputati e i loro avvocati». «Mele marce », viene detto, «schegge impazzite». Quelli che fanno il loro dovere sono la maggioranza. Si sa. Ma dall’assassinio di Franco Serantini, Pisa 1972, alla mattanza della scuola Diaz e di Bolzaneto, Genova 2001, alla morte di Stefano Cucchi, Roma 2009, gli episodi atroci sono tanti, troppi, fino a ieri. Qual è l’educazione civile, politica, militare che viene impartita nelle caserme? A pagina 149 del suo libro, Patrizia Moretti scrive: «Mi chiedo se finirà mai questa complicità fra poliziotti». Profetica. Quel che è appena successo a Rimini, quei sinistri applausi fuorilegge — contro una sentenza definitiva dello Stato — sembra la figurazione di un passato che non passa. I poliziotti plaudenti del sindacato SAP che indossano la divisa si comporterebbero con un ragazzo innocente come i loro colleghi delle pattuglie Alfa 2 e Alfa 3 della Questura di Ferrara? 26 INFORMAZIONE del 06/05/14, pag. 5 Rai Way, gli interessi e i misteri dietro il no di Gasparri Vittorio Emiliani SU L’UNITÀ DI MARTEDÌ 29 APRILE CARLO ROGNONI, COME me EX MEMBRO,IN EPOCA DIVERSA,DEL CDA RAI, torna sul tema della vendita, ora nuovamente attuale, di Rai Way,la società delle torri di trasmissione. Notando giustamente che nel 2001 la vendita di una quota(il49%)agli americani di Crown Castle non avvenne, come avverrebbe adesso, per tamponare i buchi di un bilancio all’epoca solido,ma per realizzare investimenti e rafforzare la rete. Forse però è utile e istruttivo spiegare cosa accadde allora. Intanto va detto che l’intesa Rai-Crown Castle era stata perfezionata il 27 aprile 2001, nel nuovo CdA erano presenti i rappresentanti Usa e, poco dopo, il primo business plan della società prevedeva utili consistenti. Il socio texano - fatto fondamentale - aveva già versato i 724 miliardi di lire (al netto di tasse e imposte) destinati alla Rai presso la Chase Manhattan Bank.IlSole-24Oreealtri giornali economici avevano positivamente valutato l’accordo. Nelmesediaprile2001erastata firmata Pure una pre-intesa con Poste Italiane il cui ad Passera riteneva l’operazione così interessante sul piano strategico da chiedere di entrare con una quota di minoranza fra il 5 e il 20% della Nuova Rai Way. La cessionedel49%diRaiWay- tecnicamente trattata da Claudio Cappon, prima vice e poi direttore generale - aveva per noi due fini primari: a) procedere sulla strada dell’apertura ai privati (il governo Blair aveva ceduto addirittura il 100% degli impianti alla stessa Crown Castle); b)destinare le risorse straordinarie non alla gestione ordinaria bensì a investimenti strutturali, come il digitale terrestre. I724miliardi ricavati costituivano un «volano» fondamentale per la Rai nella competizione con Mediaset. Quei 724 miliardi erano una bella fetta aggiuntiva per un bilancio Rai allora sui 5.000 miliardi di lire (50% canone- 50% pubblicità). Purtroppo alle soglie di nuove elezioni politiche (maggio 2001) il ministro delle Telecomunicazioni nel governo Amato, Salvatore Cardinale, ex Ccd e Udeur, «non se la sentì» di esprimere la propria «presa d’atto» (di ciò si trattava) all’accordo già operante. Un comportamento che pesò in modo decisivo sulle sorti della Rai. Le elezioni le vinse Berlusconi e fra Quel suo successo e l’ingresso del fido Maurizio Gasparri alle Telecomunicazioni ci fu la tragedia delle Twin Towers, con una crisi economica che rendeva ancor più oneroso per Crown Castle quell’accordo. Al nostro CdA Gasparri non indirizzò nemmeno un biglietto. Mentre scrisse al presidente di Crown Castle, John P. Kelly, una lettera. Con quali contenuti? Per quali ragioni? Non lo ha mai reso noto. Si conosce invece la lettera con la quale il 22 ottobre John P. Kelly, presidente di Crown Castle, rispose alla lettera (ripeto, sin qui sconosciuta) del ministro italiano. L’Adn-Kronos infatti ne pubblicò stralci. In uno Kelly esprimeva «il rammarico che eventi sopravvenuti e imprevedibili, nonché considerazioni di carattere strategico, impongano a codesto Ministero un riesame di merito del contratto stipulato da Crown Castle con Rai il 27 aprile». Dunque fu Gasparri, palesemente, e non il socio texano, a prospettare contraccolpi così drammatici da portare a un «riesame» (che vuol dire bocciatura) dell’intesa. Perché ? Dopo l’11 settembre temeva che la società fra la Tv italiana e una società Usa non fosse affidabile per ragioni «strategiche»? Forse Gasparri paventava infiltrazioni terroristiche in Crown Castle? Semplicemente ridicolo. Egli ha sempre sostenuto che il suo «no» all’intesa si fondava su di un pilastro: il vertice Rai aveva 27 «svenduto» agli americani il 49% di Rai Way. Cifre alla mano, si tratta di una balla colossale. Dopo la bocciatura (intesa a «gambizzare» la Rai), Gasparri proclamò infatti che avrebbe trovato lui soci molto più ricchi e generosi per Rai Way: un’altra bufala. Li cercò?Non se ne ha notizia. Certo non li trovò. Per alcune dichiarazioni offensive in margine alla vicenda di Rai Way il ministro Gasparri e l’allora portavoce di Alleanza Nazionale, l’onorevole Alessio Butti, vennero querelati da Roberto Zaccaria e da me . Ma si protessero con lo scudo della «insindacabilità». Perché il ministro, in particolare, ha rifiutato l’aula giudiziaria? Per non dover spiegare retroscena imbarazzanti della bocciatura inflitta a un accordo tanto vantaggioso? Per non dover magari esibire la sua famosa lettera a Crown Castle, con cui - a quanto fa capire il presidente Kelly - stese un tappeto rosso alla velocissima uscita dei texani dall’alleanza con Rai? La sola cosacertaèchequei724miliardi di lire netti del 2001 per il 49% di Rai Way esistevano concretamente,erano stati già versati alla Chase Manhattan Bank in attesa dell’ok definitivo (una semplice presa d’atto) del ministro. Il loro ritorno nelle casse della società texana penalizzò pesantemente la Rai nella competizione con Mediaset sul digitale terrestre, accelerato da Gasparri nel momento in cui la Rai non aveva i capitali del concorrente Mediaset per i contenuti. Poi sarebbero venuti la legge Gasparri tutta a favore di Berlusconi e di uno stretto rapporto Rai-governo, il SIC, l’imposizione per Viale Mazzini discendere dalla piattaforma satellitare Sky e altro ancora. Che spiega almeno in parte la zona grigia in cui è finita la Rai. Del 6/5/2014 – pag. 15 Sky lancia un sistema di rilevamento degli ascolti Misura anche tablet e online, faro sui social network “Ecco il mio auditel” Rupert Murdoch sfida la tv italiana ALDO FONTANAROSA ROMA - Nei suoi undici anni di vita, Sky Italia ha messo in piedi le sedi di Roma e Milano, il bouquet dei canali, le redazioni, le fiction. Ed ora ha anche un sistema di rilevamento degli ascolti tv. Sky Italia, insomma, si è fatta un suo Auditel che entra in diretta frontale competizione con l’Auditel ufficiale. A fine aprile, ambasciatori di Sky Italia hanno fatto visita a due parlamentari di alto rango (uno di maggioranza e uno di opposizione) per raccontare in anteprima dello “Smart Panel”, come è stato ribattezzato il nuovo misuratore degli share. Una creatura recente. Da fine 2013, in segretezza, la pay-tv di Rupert Murdoch ha contattato 10 mila famiglie, tutte con abbonamento Sky, e ne ha già reclutate 5000 per il suo “gruppo di ascolto” (le altre 5000 arriveranno entro l’estate). In un giorno medio di aprile scorso, l’Auditel ufficiale ha monitorato 5 mila 127 nuclei familiari (di cui 1039 abbonati a Sky). Ora Sky, per ottenere dati a suo dire più precisi sulle scelte dei propri clienti, sta creando un universo, un insieme dieci volte più grande. Queste 10 mila famiglie avranno in casa un decoder di Sky: per il 76% ad alta definizione, per il 24 in bassa, così da riprodurre la situazione reale della platea di abbonati. E sul decoder ecco la scatolina “meter” che comincia a dire, già in queste ore, che cosa le persone guardano, quando e come. “Smart Panel” – altra novità - monitora le visioni in mobilità. Intercetta cioè le persone che seguono una partita, la Formula 1, il motomondiale, un telegiornale sullo smartphone o sul tablet (grazie all’opzione Sky Go che a gennaio avevano scelto in 2 milioni). “Smart 28 Panel”, ancora, fotografa la visione dei programmi via Internet: conteggia il ragazzo che scarica un film con Sky Online (senza abbonamento); oppure il vecchio abbonato che collega il decoder alla Rete per downlodare una serie tv. E l’Auditel ufficiale, invece? Includerà nel suo radar le visioni in mobilità in un futuro, oggi fa delle sperimentazioni. Sempre l’Auditel tiene conto dei programmi registrati o scaricati sul decoder Sky; ma fissa una condizione per conteggiarli: la visione in differita deve avvenire entro una settimana dalla messa in onda in diretta del programma. C’è poi la frontiera di Twitter, di Facebook, delle app. “Smart Panel” tenterà di capire il grado di coinvolgimento emotivo di uno spettatore valutando se ha in mano un “secondo schermo” come uno smartphone (mentre guarda la tv); e se lo utilizza per fare qualcosa in Internet. Qualcosa di riconducile al programma televisivo. Il meccanismo è ben descritto in “Cosa Conta” (il recente studio della Fondazione Rosselli, finanziato da Sky, opera di Monica Sardelli e Federico Tarquini, con introduzione di Francesca Traclò). Il volume ricorda che il Super Bowl di febbraio – evento culto per il football americano - «si è rilevato senza precedenti per la mole di attività generata sui social network a commento della partita» ed anche – cosa decisiva – delle pubblicità in onda. I tweet – sulla gara e gli spot – sono stati 25,3 milioni. Una cosa mai vista, in effetti. Il fenomeno, fatte le debite proporzioni, si è affacciato nella edizione italiana di X-Factor («con 447 mila tweet nella sola puntata finale del 12 dicembre 2013»). Per accendere un faro stabile sul mondo dei social network, Sky medita un accordo con la Nielsen. Eric Gerritsen, vice presidente esecutivo di Sky Italia per la Comunicazione e gli Affari istituzionali, spiega la filosofia di “Smart Panel”: «Auditel è una macchina d’epoca, nata nell’era analogica, che faticosamente viene adattata alle nuove stagioni della comunicazione. Il nostro sistema di rilevazione, invece, è strutturato da subito per la stagione nuova del digitale. Auditel ha tante rughe e capelli bianchi. Capita. Noi abbiamo uno strumento contemporaneo, coerente con l’epoca di big data ». Ma in concreto, Gerritsen, a che cosa vi serve “Smart Panel” e quali dati vi sta dando? «I dati sono confidenziali. Ma un esempio può già dire molto. Secondo Auditel, il 39% dei nostri spot pubblicitari ha un pubblico pari a zero. Non li guarderebbe nessuno perché vanno in onda su piccoli canali dall’ascolto insignificante, sempre nelle stime di Auditel. “Smart Panel” ci rivela che la percentuale di spot a pubblico zero sarebbe molto più bassa, intorno all’8%». L’olandese Gerritsen è stato avvistato più volte dalle parti di “Babylon”, un cenacolo di studio che fa capo alla società di consulenza Ambrosetti. Anche lì si ragiona sulla televisione rivoluzionata, sui giovani che guardano un film o Sanremo con il tablet in azione, sulle app, sui media che si intrecciano tra loro e si trasformano. Ospite all’ultimo dibattito a porte chiuse l’americano Alec Ross, consigliere dell’ex ministro degli Esteri Hillary Clinton. Guru delle nuove tecnologie. 29 CULTURA E SCUOLA Del 6/5/2014 – pag. 1-21 L’INCHIESTA Università, i pizzini dei baroni “Sono il padrone dei concorsi” “Le mie richieste nel pizzino virtuale” così parlava la banda dei baroni Le intercettazioni dei prof sotto indagine a Bari E l’ex garante della privacy raccomandava il figlio GIULIANO FOSCHINI BARI - LA PROCURA di Bari ha chiuso il primo filone dell’inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano: 38 indagati, due associazioni a delinquere. A essere mercanteggiati sono i posti da professori negli atenei, i mercanti sono i baroni. L’hanno chiamata «Do ut des», perché «la sostanza di quest’indagine complessa è tutta in quella locuzione latina: io do affinché tu dia». A essere mercanteggiati sono i posti da professori ordinari e associati nelle università di tutta Italia. Mentre i mercanti sono i baroni e i mammasantissima del diritto costituzionale, canonico e pubblico comparato. La procura di Bari ha chiuso il primo filone dell’inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano. Trentotto indagati e due associazioni a delinquere: una con base Bari, l’altra a Milano, dove sono stati inviati gli atti per competenza. L’ex ministro Anna Maria Bernini e l’ex garante della privacy Francesco Pizzetti già iscritti nel registro degli indagati. E il filone sul diritto costituzionale — nel quale sono stati denunciati dalla Finanza cinque dei saggi scelti dal presidente Napolitano per le riforme costituzionali — al vaglio dei pm. Complessivamente sono una cinquantina i concorsi «il cui andamento ed esito finale — sostiene la Guardia di Finanza — nulla hanno avuto a che vedere col merito». Esiste, dicono gli inquirenti, «una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari che hanno consentito sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della giustizia. In sostanza i concorsi universitari sono stati celebrati, discussi e decisi molto prima del loro espletamento». IL CASO BERNINI «Era il barone, era il capo di tutti». Così veniva definito dai colleghi il professor Giorgio Lombardi. Insieme con il collega Giuseppe Ferrari era l’uomo che aveva in mano il diritto pubblico comparato in Italia. E si era impegnato perché Anna Maria Bernini, ex ministro di Forza Italia, vincesse un concorso. Lombardi poi si ammala, tanto da spegnersi durante l’indagine: «Io se non avessi avuto questo accidente — si sfoga con un collega — ero il padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini! Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così». Le pressioni per la Bernini sono molte. Lo ammette lo stesso Ferrari. «Lo so, però ho bisogno che gli parli dieci minuti... perché io non ce la faccio più guarda, tra De Vergottini, Amato (ndr, Giuliano) e Morbidelli per la Bernini. Pizzetti te lo raccomando lui e la famiglia... non ce la faccio più». «ARISTOCRAZIA ARISTOTELICA» Con Lombardi che si ammala il potere è nelle mani di Ferrari. È lui stesso in un’intercettazione a spiegare quello che la Finanza definisce il «potere ventennale dell’aristocrazia ferrariana». «Quello che cercavamo di praticare era un metodo che è stato concepito in un momento in cui Lombardi pigliava tutto. C’era una specie di aristocrazia nel senso aristotelico, cioè i migliori che si accordano nell’interesse della 30 corporazione!». La Finanza fa un conto: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati sono «espressione di una maggioranza di chiara appartenenza alla corporazione di matrice ferrariana, a riprova dell’esistenza di un sistema basato essenzialmente sul dato dell’appartenenza a una corrente accademica». IL PIZZINO TELEMATICO Tra gli atti intercettati c’è una mail del professor Ferrari dalla quale si evince un’intesa tra il docente bocconiano e il collega Luis Eduardo Rozo Acuna. «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico» e via un elenco di richieste. «Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi... A buon rendere. Grazie». IL CASO PIZZETTI Tra gli indagati c’è anche l’ex garante della privacy, che secondo gli investigatori fa pressioni per far vincere un concorso al figlio come evidentemente gli aveva promesso Lombardi. «Lui — dice al telefono con Ferrari, in riferimento a un altro professore — dice che gli farebbe piacere che appunto il desiderio di Lombardi si realizzasse ». Ferrari: «Stai tranquillo». Pizzetti: «È un secolo che ci conosciamo, sappiamo anche comunque quando ci siamo presi degli impegni reciproci non li abbiamo mai fatti mancare». Sono decine le telefonate di Pizzetti, che viene definito dagli investigatori «astuto e «infaticabile». «Volevo dirti che ho visto Augusto (ndr, Barbera) — dice Pizzetti a Ferrari — e anche lui una mano su Gambino potrebbe darla». E poi: «Se ti serve possono parlare anche io a padre Paolo (padre Paolo Scarafoni, ex rettore dell’Università europea di Roma, indagato, ndr)». Il concorso alla fine salterà. Del 6/5/2014 – pag. 23 Gli ebook rilanciano i prestiti: più 64 per cento nel 2013 Boom di iscritti al servizio gratuito, tra loro anche manager In fila per il libro digitale la biblioteca rinasce grazie ai nuovi lettori CRISTIANA SALVAGNI ROMA - Le biblioteche salvate dall’ebook. Sembra un controsenso: i polverosi scaffali stipati di volumi di carta rilanciati da quei libri impalpabili, compressi in un file e scaricati dal web. Eppure i dati sul prestito elettronico in Italia raccontano una rinascita digitale delle sale di lettura e il ritorno di quegli utenti, istruiti e in carriera, che non ci mettevano piede da anni. Secondo il rapporto della piattaforma MediaLibraryOnline, che sarà presentato giovedì al Salone del Libro di Torino, quelli che oggi leggono sullo schermo titoli presi in prestito sono 320mila e sono cresciuti del 64 per cento rispetto al 2012, diventando quasi uno su dieci di tutti i frequentatori tradizionali delle biblioteche (4-5 milioni secondo l’Istat). Il servizio è nato nel 2009: serve 3.900 biblioteche pubbliche, più della metà delle 6.841 legate agli enti locali, e in un paio di anni ha visto moltiplicarsi iscritti e prestiti gratuiti. Nel 2013 i download sono aumentati del 202 per cento, le consultazioni hanno sfiorato i due milioni: 1,8, per la precisione, contro il milione del 2012 e i 400mila scarsi del 2011. Come funziona? Ci si registra in biblioteca, si riceve un account e poi da casa, sull’autobus o in fila dal medico si possono sfogliare giornali e riviste o scaricare ebook, film, dischi da ascoltare. Soprattutto i libri elettronici stanno facendo da traino alla lettura: avvicinano a Marcel Proust o Dan Brown gente che mai prima aveva avuto confidenza con i testi 31 di carta e riportano in biblioteca, almeno virtualmente, quei lettori forti che per mancanza di tempo non ci andavano più. «Se gli utenti tradizionali sono studenti e pensionati, per lo più donne, quelli digitali sono uomini 30-40enni, professionisti che fanno parte della fascia attiva della popolazione» spiega Pieraldo Lietti, coordinatore di Brianza Biblioteche e membro del comitato nazionale dell’Associazione italiana biblioteche. Questi iscritti di ritorno consultano il catalogo la sera tardi, tra le sette e mezzanotte, prendono in prestito in media 24 libri l’anno contro i 17 dei fruitori tradizionali e sempre più spesso leggono in versione “mobile”: aumenta del 17 per cento l’uso dello smartphone. Più in generale i dati testimoniano una rivoluzione in corso nello stile di lettura. «È più liquida, un’esperienza meno isolata e più sociale: prima di abbandonare definitivamente la carta per l’e-reader gli aspiranti lettori digitali fanno le prove sui tablet, sui cellulari, e ciò indica che c’è una grande curiosità per questo nuovo mondo » continua Lietti. Come c’è una rinata vivacità delle biblioteche: arriva da lì un libro su cinque di tutti quelli letti in Italia. «I numeri crescono in fretta — conferma Giulio Blasi, amministratore delegato di Horizons, la società che gestisce la piattaforma Mlol — gli utenti attivi sono tra il 5 e il 10 per cento di tutti i frequentatori abituali, ma abbiamo stimato che possono crescere fino al 20-30 per cento. Finora tanti potenziali lettori neanche sanno che esiste questo servizio. Si diffonde molto con il passaparola». E, a guardare le zone, anche a macchia di leopardo. Ha una presenza capillare in Lombardia, Piemonte o Emilia Romagna ma è lacunoso al sud e del tutto assente in grandi città come Roma e Napoli, così come in Valle d’Aosta, Liguria, Molise, Basilicata, Calabria. «In Italia c’è una questione meridionale delle biblioteche — continua Blasi — per questo la nostra copertura è molto più radicata al centro-nord». Nonostante ciò siamo tra i Paesi più avanzati in Europa: «Solo noi abbiamo accordi con tutti i grandi gruppi, l’ultimo l’abbiamo chiuso da poco con Mondadori e ha segnato la presenza sulla piattaforma di tutti i “big five” dell’editoria. Inoltre nel 2012 la percentuale di biblioteche che offrivano ebook era del 44 per cento contro il 4 della Francia e il 16 della Germania ». Il catalogo on line è di 27mila titoli ma entro l’estate dovrebbe raggiungere i 50mila. Una goccia nell’oceano rispetto al milione di titoli offerto negli Stati Uniti: ma là il prestito digitale è arrivato dieci anni prima. Del 6/5/2014 – pag. 30-31 L’altro liceo Un’istruzione specializzata e internazionale per rendere più competitivi i propri figli. È l’obiettivo di moltissime famiglie Dalle lingue straniere alla matematica: spesso scelgono gli istituti privati. Ma anche il pubblico allarga l’offerta e seleziona gli studenti più motivati MARIA NOVELLA DE LUCA È LA paura di restare indietro. Sepolti nel ritardo di un paese senza finestre sul mondo. Guardando i figli crescere con il magro bagaglio dell’inglese “scolastico”, e vederli arrancare nell’universo multilingue che li circonda, popolato ormai di addestratissimi baby poliglotti. Così chi può corre ai ripari: asili trilingue per i più piccoli, scuole internazionali fin dall’infanzia e licei anche statali che garantiscano, almeno, la doppia maturità. È l’altra faccia del declino dell’istruzione pubblica, erosa e devastata da anni di tagli: come già avviene in Inghilterra o negli Stati Uniti, le famiglie che possono pagare rette alte o altissime, o che scelgono di indebitarsi, cercano per i propri figli percorsi di studio alternativi, internazionali. Perché se l’avvenire è altrove, meglio prepararsi fin da piccoli a 32 navigarci dentro. Ormai è una corsa. Anche se i costi possono variare dai seimila euro delle scuole francesi e tedesche, ai ventimila euro l’anno dei campus americani e inglesi. Alla Deutsche Schule di Roma, grande e razionale edificio immerso in ettari di verde e con una piscina olimpionica interna, il 54% degli allievi è italiano. E le iscrizioni, dal 2010, quando già la crisi era alle porte, aumentano di anno in anno. Al liceo Chateaubriand, storico istituto francese che ha il privilegio di sorgere tra i giardini di villa Borghese, il 60% degli studenti arriva da italianissime famiglie della Capitale. Alla “Deledda international school” di Genova, unico centro italiano a partecipazione pubblica che segue i programmi dell’Ibo, ossia l’International Baccalaureat, diploma che apre le porte di tutte le università del mondo, hanno raddoppiato le sezioni per poter accogliere sempre più studenti, nonostante la rigidissima selezione in entrata. Lunghe liste d’attesa anche al famoso “Collegio del mondo unito” di Duino, vicino a Trieste, ambitissimo liceo multilingue a cui si accede democraticamente con borse di studio. E al Saint Stephen’s, una tra le più radicate scuole angloamericane nel nostro paese, la quota di allievi non stranieri ha superato il 36% delle iscrizioni. Racconta Jutta Eberl Marchetti, rappresentante dei genitori della Deutsche Schule di Roma: «Sempre più famiglie italiane chiedono di iscrivere i loro figli alla scuola tedesca, infatti stiamo ampliando le classi dei più piccoli, perché da noi è fondamentale iniziare a tre anni, altrimenti l’apprendimento della lingua diventa troppo difficile. Dal 2010 abbiamo avuto un netto incremento di allievi: quello che vince è il metodo, il controllo pedagogico, i ragazzi studiano in tedesco, in inglese e in italiano, vengono abituati all’autonomia ed entrano facilmente sia nelle università europee che in quelle americane. E metà della retta la paga lo stato tedesco... ». Numeri ancora marginali, numeri che raccontano però un’Italia che cambia, e dove per la prima volta si profilano scuole di serie A e scuole di serie B. Ma dove a fare la differenza non sono più i ricchi collegi (spesso religiosi) scelti per censo e per appartenenza, e non di rado diplomifici, ma quelle realtà che garantiscano percorsi internazionali. Ossia finestre sul mondo. Sottolinea Joel Lust, preside del licée Chateaubriand: «Abbiamo 1476 allievi di venticinque nazionalità diverse, ma oggi la maggioranza sono italiani. La retta varia dai 4.500 euro delle primarie ai 5.500 delle classi superiori. Siamo una istituzione storica, molti ex studenti che hanno frequentato Chateaubriand continuano ad iscrivere i loro figli. Ma non è soltanto tradizione — dice Lust — qui si studia in francese, inglese e in italiano e si esce con una doppia maturità, abbiamo atelier di cinese e di arabo. Ed è questo credo che rende ancora la nostra scuola così ambita». Un approccio diverso alla cultura, più veloce, più scientifico. Anche più ludico a volte. Sarina Gosio, vice preside del “Deledda international school”, parla con entusiasmo della selezionatissima scuola in cui insegna, voluta dal comune di Genova, riconosciuta sede del Baccellierato Internazionale, unico liceo italiano che dura quattro anni e non cinque. «La richiesta è sempre più alta, ma noi scegliamo soltanto gli studenti più motivati, e oggi abbiamo allargato il nostro programma anche alle medie. È un percorso radicalmente diverso rispetto a quello italiano, si svolge completamente in inglese e credo che la nostra forza sia quella non solo di offrire una maturità “globale” ma di insegnare a studiare così come avviene nel resto del mondo». Non poco infatti si è appannato nei nostri licei, spesso arroccati su un approccio filologico del sapere che stride con quanto il mondo chiede. Pur con delle aperture. Se infatti l’offerta multilingue oggi in Italia è soprattutto privata, e del tutto carente nelle primarie e secondarie pubbliche, in diversi licei statali pur tra mille difficoltà si cercano di moltiplicare le opportunità. Dalla doppia maturità (francese italiana, spagnola italiana) alle certificazioni Cambridge per l’inglese, dai corsi di cinese a quelli di tedesco. 33 Isole però nel declino collettivo, come spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. E proprio nel volume sulla “Valutazione nella scuola” da poco pubblicato, i ricercatori della Fondazione si soffermano sull’esodo dagli istituti pubblici, da parte delle famiglie più “avvertite”. «Sappiamo che è sufficiente che alcuni degli studenti migliori fuggano dalle “normali” scuole statali — si legge nella ricerca — per andare a frequentare scuole selezionate, statali o private, perché si inneschi una reazione a catena, in cui le scuole d’élite raccolgono un numero crescente di talenti e risorse mentre il resto entra in una fase di declino accelerato. Difficile non pensare alla fuga da quelle con un’alta percentuale di stranieri. O al successo di iscrizioni alle private internazionali». Ragiona infatti Andrea Gavosto: «Non abbiamo ancora i dati quantitativi di questo abbandono, ma è evidente che nel decadimento della scuola pubblica molte famiglie si stanno attrezzando. Ed è preoccupante, è la prima crepa profonda che può portare l’Italia ad una situazione come quella inglese o americana, dove nel pubblico restano soltanto le fasce più povere e difficili della popolazione». Per questo, spiega Gavosto, sarebbe utile e necessario che la scuola si aprisse alla valutazione, ad un rapporto trasparente con le famiglie. «I licei pubblici erano un tempo i luoghi di elezione in cui si creava la classe dirigente: oggi le eccellenze ci sono ancora, ma mancano la formazione scientifica, le lingue, un approccio più moderno e globale. Il boom delle private internazionali ci dice proprio questo: i genitori cercano una istruzione globale per i propri figli e sono disposti a qualunque sacrificio. E il rischio di declino della scuola pubblica — conclude Gavosto — è ormai evidentissimo ». 34 ECONOMIA E LAVORO del 06/05/14, pag. 7 Cambiare il sindacato e il Paese Oggi la sfida del congresso Cgil Patto trilaterale per rilanciare il sistema economico ● A Rimini la relazione di Susanna Camusso, in un momento difficile per il mondo del lavoro ● Renzi non c’è. Il governo sarà rappresentato dal ministro del Lavoro, Poletti Parola d’ordine: cambiamento. Del Paese e del sindacato. Per combattere una diseguaglianza sempre più inaccettabile. Nel sesto anno della crisi Susanna Camusso dirà questo nella relazione che questa mattina aprirà il XVII congresso Cgil a Rimini. Non sarà un discorso facile, quello del segretario generale - e certamente riconfermato. Perché per una volta i numeri Non dicono tutta la verità. Descrivono un congresso unitario con percentuali simil bulgare- 97,5 per cento di consensi al documento con primo firmatario Susanna Camusso- quando invece le differenze ci sono. E forti. E dunque il congresso sarà assai delicato. Sia sul fronte interno che - soprattutto - su quello dei rapporti con il governo. Invitato ufficialmente da quasi un mese, il presidente del Consiglio non ha formalmente risposto, ma il suo entourage nei giorni scorsi ha spiegato che diserterà l'assise, come farà con l’Assemblea annuale di Confindustria. Dopo aver parlato di «mancanza di rispetto», ieri pomeriggio Susanna Camusso ha usato il fioretto e la clava. Rispondendo ai cronisti che la solleticavano sul tema ha risposto: «Mi state dando una notizia perché palazzo Chigi non ci ha ancora comunicato le sue intenzioni». Poi è arrivata la citazione «storica»: «Comunque è già successo che il premier di allora non partecipasse al congresso». Si trattava di Silvio Berlusconi. E il paragone con l’ex Cavaliere non farà certo piacere a Renzi. La stoccata di Camusso un risultato però l’ha avuto. Un’oretta dopo è arrivata la nota ufficiale del ministero del Lavoro: a sostituire Renzi a Rimini domani ci sarà Giuliano Poletti. Una presenza certamente consona per il ruolo, ma per il ministro del Lavoro si tratta di un ritorno in Romagna a soli tre giorni dal dibattito tenuto domenica alle Giornate del lavoro della stessa Cgil, con un vivace botta e risposta sul quel decreto Lavoro avversato completamente dal sindacato. Perciò nella relazione Susanna Camusso non sarà certo tenera con il governo. «Abbiamo una situazione economica più facilmente paragonabile a un post bellico che ad altre stagioni - ha anticipato ieri - . Il congresso ha l’obiettivo di riproporre una strategia di cambiamento delle politiche nazionale ed europee». E dunque la richiesta sarà di avere meno contratti, un sistema pensionistico flessibile e tanti, tanti investimenti, sia pubblici che privati, come proposto nel Piano del Lavoro, vero «testo sacro» dei quattro anni di segreteria. L’altro cardine della relazione sarà il futuro del sindacato e della Cgil. Partendo dall’orgoglio per essere «l’organizzazione più rappresentativa e democratica del Paese»,Camusso rilancerà sulla sfida della rappresentanza dei giovani e dei precari,mentre sul fin troppo lungo cammino congressuale - sei mesi dal via delle quasi 40 mila assemblee sui luoghi di lavoro di gennaio - già nei giorni scorsi Camusso aveva anticipato: «Salvaguardando la partecipazione e la delega alle assemblee, costruiremo un percorso meno faticoso e più ricco». LA QUESTIONE RAPPRESENTANZA 35 Sul piano interno invece Camusso ha già preparato il terreno nelle ultime settimane precongressuali. A rompere il compromesso costruito dallo stesso segretario generale lo scorso settembre per presentarsi uniti davanti ai lavoratori nel sesto anno della crisi - un congresso ad emendamenti - è arrivata il 10 gennaio scorso la firma del Testo unico sulla rappresentanza. La Fiom di Maurizio Landini contesta principalmente due punti: le sanzioni previste per i delegati sindacali in caso di mancato rispetto degli accordi e l'Arbitrato interconfederale chiamato a dirimere i problemi di applicazione sullo stesso accordo. La questione rappresentanza - l'accordo del 31 maggio 2013 fra sindacati e Confindustria che prevede la certificazione della rappresentanza sindacale e l'esigibilità dei contratti - ha tracciato un solco. Un anticipo dello scontro con Landini è già avvenuto venti giorni fa al congresso della Fiom. Sempre a Rimini i due hanno battagliato dialetticamente con il segretario generale della Cgil che ha chiesto alla Fiom di «non autoescludersi» - in riferimento alla Consultazione tenuta fra i metalmeccanici e vinto dal No con l'86%conmodalità diverse da quello confederale vinto invece dal Sì con il 95,5%. e il segretario della Fiom che ha controbattuto chiedendo di «cambiare assieme quel testo», modificandolo su sanzioni e Arbitrato. Ma se ad aprile a giocare in casa era Landini, adesso lo farà Camusso. Al netto delle accuse di «brogli» dell' unico oppositore Giorgio Cremaschi, che con il documento "Il sindacato è un' altra cosa" ha preso il 2,5% dei delegati e questa mattina farà un picchetto di protesta all’entrata del Pala Congressi su 953 delegati al congresso più del 90 per cento sono a suo favore. Dunque oggi parte la tre giorni di un congresso «più breve e sobrio». Si parte alle11conla relazione di SusannaCamusso, mentre nel pomeriggio ci saranno gli interventi di Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni. Domani in mattinata il saluto di Poletti e poi spazio al dibattito congressuale con gli interventi degli oppositori Landini e Cremaschi. Giovedì in mattinata le conclusioni di Camusso - che sarà certamente rieletta - nel pomeriggio le votazioni, la convocazione del nuovo Comitato Direttivo per procedere all’elezione del segretario generale. del 06/05/14, pag. 2 A congresso senza unità Antonio Sciotto Sindacato. La Cgil riunisce per la XVII volta i suoi delegati, a Rimini da oggi fino a giovedì, in un momento di grande difficoltà. E Renzi dà forfait. Susanna Camusso verrà riconfermata, al prezzo di lacerazioni interne e scontri, per altri quattro anni leader del colosso sindacale da 5,7 milioni di iscritti La Cgil arriva a celebrare il suo XVII Congresso, da oggi a giovedì a Rimini, in un momento di grande difficoltà. Non solo per i sindacati, ma più in generale per i diritti del lavoro, in Italia e in Europa. Susanna Camusso verrà riconfermata per altri 4 anni alla guida di un colosso che conta 5,7 milioni di iscritti, ma al prezzo di lacerazioni interne e scontri – principalmente con la Fiom di Maurizio Landini, ma non solo – che a malapena si riescono a insabbiare sotto il tappeto di un consenso alla maggioranza che nei dati ufficiali è bulgaro: al 97,6%. Senza parlare poi del rapporto con il premier Matteo Renzi e con larga parte del Pd, ogni giorno più teso e difficile. Renzi ha già fatto sapere che non sarà presente al Congresso, come d’altronde non presenzierà il 29 maggio all’Assemblea annuale di Confindustria. Camusso ieri ha 36 spiegato che in realtà il sindacato «non ha mai avuto una risposta ufficiale da Palazzo Chigi», ma che comunque «non è un presidente del consiglio a legittimare un congresso»: «È già successo altre volte, con altri premier, ma certo non è simbolo di rispetto per le grandi organizzazioni dei lavoratori». I motivi dell’assenza di Renzi sono almeno due: il premier non vuole essere identificato, sotto elezioni, con le associazioni di rappresentanza, perché percepite da un sempre più vasto pubblico (basti pensare ai grillini, ma anche a tanti precari) come conservatrici e difensori dei «garantiti» (se garantito oggi si vuol definire chi ha un tempo indeterminato o una pensione). Inoltre, l’accoglienza a neanche 20 giorni dal voto non sarebbe certo trionfale: se è vero che gli 80 euro alla Cgil piacciono, dall’altro lato il decreto Poletti è stato aspramente contestato. Questo sul fronte, per così dire, “politico”. Ma la Cgil è anche il maggiore sindacato italiano, e quindi – nel bene e nel male – è sempre pietra di paragone per le altre organizzazioni. Se i rapporti con i sindacati di base sono quasi inesistenti, se non di aperta ostilità, quelli con Cisl e Uil sono invece fondamentali: la segretaria ha fatto del legame con Bonanni e Angeletti uno dei pilastri del suo primo mandato, a volte anche a dispetto di un contesto generale che suggeriva altre mosse. Le mobilitazioni (salvo che per le crisi industriali) nell’ultimo anno sono scese quasi a zero, perché gli altri due sindacati non si muovono. E anche sul decreto Poletti e su una imminente (annunciata) vertenza per riformare le pensioni, l’ordine di scuderia è quello di aspettare i due alleati. Infine c’è il fronte più squisitamente interno, e qui apriti cielo. La Cgil giunge spaccata, lacerata, al Congresso, mentre fino a Natale 2013 ci si aspettava un’assise unitaria, quasi perfino noiosa. A ravvivare i giochi – e a scatenare lo scontro – è arrivato lo scorso gennaio il Testo unico sulla rappresentanza, un accordo firmato da Camusso con Cisl, Uil e Confindustria, che non è piaciuto alla Fiom di Maurizio Landini. Landini, già noto mediaticamente, è diventato nell’immaginario di molti l’“anti-Camusso”. Lo scontro è stato durissimo, e in mezzo ci si sono messi perfino Renzi e Grillo, nell’intenzione di conquistare tanti iscritti al sindacato oggi in cerca di nuovi riferimenti politici. Si è parlato di un asse Renzi-Landini, basato su una presunta sintonia dei due nel voler cambiare il Paese: abbattendo le «burocrazie frenanti», di cui Camusso sarebbe un simbolo. Non a caso Landini non esclude di riformare la Cgil con le primarie. Stesso discorso per Grillo, che se in diversi post ha detto peste e corna di Cgil, Cisl e Uil, definendoli «sepolcri imbiancati», ha invece mostrato più indulgenza e simpatia verso la Fiom, percepita come più vicina ai precari e agli esclusi. Certo che il feeling Landini-Renzi, però, comincia a vacillare. In un’intervista a Repubblica, ieri, il segretario Fiom ha ribadito tutti i suoi motivi di apprezzamento per il premier (a partire dagli 80 euro: «Io in un solo rinnovo non sono mai riuscito a fare quella cifra»), ma ha anche ricordato di aver scritto una lettera piena zeppa di richieste, «per una nuova politica industriale e sociale»: «Ma su questo piano – ha detto – non vedo elementi di novità». La richiesta principe della Fiom, quella per una legge sulla rappresentanza, Renzi dopo varie promesse pare averla messa nel cassetto: e così Landini, se non riuscirà a sparigliare dopo le elezioni, rischia di aver dato fiducia al premier ma di restare con il cerino in mano. D’altronde, anche gli equilibri dentro la Cgil adesso si giocano su un crinale delicatissimo. Camusso si è appunto blindata nel 97,6% di voti al documento I (quello che porta anche la firma di Landini) e nel 95% del sì al Testo unico: consultazione senza i dati Fiom, unendo i quali, si arriva comunque a un 66% a favore della segretaria (ma la Fiom ha fatto votare anche i non iscritti). Come se non bastasse, la platea dei delegati formata per il Congresso (e che eleggerà il nuovo Direttivo, che a sua volta confermerà Camusso segretaria) è stata 37 formata secondo la Fiom e altri pezzi di minoranza in modo «truffaldino», perché non sarebbe stato pesato in modo equo il voto sugli emendamenti. Quindi, conclude Landini, «oggi non vedo le condizioni perché si possa chiudere unitariamente». Differenti liste per il Direttivo, dunque, una maggioranza più risicata e meno “bulgara” per Camusso segretaria, e nessun posto per la Fiom (come è già stato per l’ultimo quadriennio) nella nuova segreteria confederale. del 06/05/14, pag. 1/3 La scommessa di Rimini Tre pilastri per costruire il futuro Aldo Carra Il Congresso della Cgil si svolge attorno al tema “Il lavoro decide il futuro” in paese che sta vivendo la crisi più lunga dall’inizio della rivoluzione industriale. Nell’insieme delle economie sviluppate i tassi di crescita sono diminuiti dal 4% degli anni sessanta all’1% di oggi. Il sindacato, la cui rappresentatività è fortemente indebolita dalla crisi, potrà avere la forza per imporre un “Piano del lavoro” come fece Di Vittorio nel dopoguerra? Partiamo dalla rappresentatività. Nel settore più “tradizionale” — il mondo dei pensionati — essa è indebolita perché la contrattazione nazionale delle condizioni economiche (rivalutazioni, minimi..) è stata annullata dall’austerità e quella territoriale (welfare locale, assistenza, servizi..) vanificata dalle leggi di stabilità. Tra i lavoratori dipendenti la situazione non è migliore. La forza della crisi agisce come un grande ricatto sui dipendenti pubblici (mai c’è stato un periodo così lungo senza rinnovi contrattuali), sui dipendenti del comparto industriale dove il sindacato è sospinto a contrattare arretramenti di diritti e cassa integrazione, sui servizi dove si preparano (banche) grandi ristrutturazioni. E che dire degli oltre tre milioni di disoccupati ai quali, nel caso migliore, si dice dovete accontentarvi di restare agli ultimi posti senza illudervi di andare oltre il precariato? E come meravigliarsi se altri 3–4 milioni di persone, scoraggiate, il lavoro non lo cercano nemmeno e non entrano in questo purgatorio dei disoccupati? La trasformazione di quello che una volta fu il “mondo del lavoro” in un lavoro senza un mondo di valori solidali e di riferimenti politici, sociali, culturali, indebolisce paurosamente la forza e la rappresentatività del sindacato. Ed il fatto che, addirittura con un Pd al governo, non ci siano idee di politiche pubbliche per lo sviluppo, di politiche industriali (dove sono finiti i pur interessanti input sui settori del futuro annunciati col job act?) e di investimenti ed incentivi pubblici, toglie inevitabilmente forza e credibilità anche al piano del lavoro della Cgil. Se questo è il quadro della situazione, davanti alla Cgil stanno grandi interrogativi: se la forza dei soggetti collettivi dipende dalla rappresentanza dei soggetti sociali, come declinare oggi la rappresentanza di quel mondo frammentato di cui abbiamo parlato? E’ sufficiente riproporre l’obiettivo del lavoro come condizione per un futuro? Il percorso tradizionale — il lavoro realizza la persona e fornisce un reddito che consente ad essa di costruire il suo futuro — è sempre attuale e credibile? Ed è l’unico perseguibile? Con queste domande è chiamata a fare i conti la Cgil, ma le risposte non le può cercare e dare solo la Cgil. Esse richiedono la costruzione di una piattaforma fondata su tre pilastri: la ricerca di un nuovo sviluppo possibile, la redistribuzione del lavoro, l’introduzione di un reddito di cittadinanza. 38 Una ripresa della crescita va ricercata, ma non è affatto scontata. In ogni caso richiede di individuare i settori propulsivi del futuro, di dotarsi di concreti piani e di politiche industriali (magari riprendendo le idee base del piano Bersani Industria 2015 caduto nel dimenticatoio), di lanciare una “campagna di risanamento” del territorio e delle infrastrutture diffuse, finanziata dal pubblico e dal privato, con esenzioni fiscali consistenti, e gestita nei territori da istituzioni locali ed organizzazioni sociali. Non si tratta di invocare una ripresa qualunque né tantomeno che ricalchi il modello di sviluppo pre-crisi, ma di ridefinire gli obiettivi che la società deve perseguire nei prossimi anni nei campi della salute, dell’istruzione, della cultura, della qualità sociale ed ambientale ed in funzione di essi individuare i settori produttivi di beni e servizi da stimolare con politiche di sostegno, di incentivazione, di formazione professionale. In questa direzione va certamente il Piano del Lavoro della Cgil ed il congresso potrebbe essere utile per sentire cosa ne pensano ed intendono fare governo e forze politiche. Ma fermarsi qui non è sufficiente. Sindacato e sinistre non possono procrastinare oltre la scelta di redistribuire il lavoro e ridurre gli orari. Siamo paradossalmente tra i paesi europei con la disoccupazione più alta, ma in cui i pochi occupati che ci sono lavorano di più (l’Italia ha un orario medio annuo superiore a quello di Francia, Germania, Olanda del 23% il che equivale ad oltre 3 milioni di occupati in meno). Consentire a tutti di avere la possibilità di lavorare, anche se con orario ridotto e retribuzione non piena, ma con rapporti di lavoro contrattualizzati (part time progressivo da trasformare in full time, collegamento a pensionamenti con orari decrescenti, contratti di solidarietà aziendali e territoriali…..) è una condizione essenziale per ricostruire un senso di appartenenza al mondo del lavoro e ridurre l’inoccupazione strutturale esistente e prevista. Infine, in un contesto di massimo contenimento della disoccupazione come questo delineato, diventerebbe più praticabile la proposta, anch’essa a mio parere non procrastinabile, di un “reddito di cittadinanza”. Si tratta di costruire un’idea ed una pratica di “cittadinanza attiva”, connesse a prestazioni lavorative di utilità sociale, sia come sostegno minimo per chi non possiede altri redditi, sia come reddito integrativo per compensare riduzioni di orario e di retribuzione volontarie o necessitate. Una piattaforma di questa portata non può essere caricata solo e tutta sul sindacato: essa richiede una sponda politica che le dia il respiro e la credibilità necessari. Questa sponda oggi manca ed il congresso della Cgil, quindi, finisce per caricarsi di aspettative che vanno oltre le sue possibilità. Questo non esime nemmeno la Cgil dal compito di ripensarsi come rappresentanza di un nuovo mondo nel quale i confini tra lavoro e non lavoro, lavoro autonomo e lavoro dipendente, lavoro per il reddito e lavoro per il piacere, lavoro per creare valore di mercato e lavoro per creare valori d’uso sono saltati. E, a partire da una ritrovata forza, confrontarsi a testa alta con quella politica che prima ha sposato il neoliberismo che ha generato la crisi che ha investito anche il sindacato e che adesso lo accusa di conservatorismo. Potrà essere il sindacato, a questo punto, a chiedere alla politica, di assumersi le responsabilità che le competono per guidare la profonda trasformazione che si impone. E, con questa speranza, buon congresso, cara Cgil. Del 6/5/2014 – pag. 1-9 La Ue: l’Italia cresce poco meglio Spagna e Grecia FEDERICO FUBINI 39 L’ULTIMA infornata di stime della Commissione europea arriva e se ne va lasciando dietro di sé un sospetto: e se ci fosse qualcosa di unico, a proposito dell’Italia? Questo Paese pensava di essere parte di un club, quello dell’euro o almeno della sua cosiddetta “periferia”. Nel bene e nel male il suo comportamento era spiegabile con un gruppo di simili. Ma è così? I fatti presentati ieri a Bruxelles inducono a dubitarne. L’Italia sembra staccarsi, in ritardo e ormai quasi da sola. La ripresa in Spagna, Irlanda, Portogallo e persino in Grecia almeno nei numeri si presenta più viva. COME noi questi Paesi hanno appena vissuto la peggiore recessione della loro storia recente, ma nel 2014 e 2015 cresceranno quasi il doppio dell’Italia. In certi casi tre volte tanto. Secondo Bruxelles, Spagna e Portogallo lo faranno già quest’anno (Pil in espansione dell’1,1% contro 0,6% italiano), mentre il grande vicino iberico ripeterà anche il prossimo (più 2,1% contro 1,2% dell’Italia). L’Irlanda viaggia già a velocità più che doppia e persino il ritmo della ripresa greca l’anno prossimo dovrebbe essere quasi triplo rispetto al nostro. Naturalmente Atene fa storia a sé. Dopo un collasso peggiore anche di quello degli Stati Uniti nella grande depressione — un quarto dell’economia è sparito in cinque anni — il rimbalzo del 2,9% previsto per il 2015 può essere quasi solo uno spasmo di nervi. Eppure la Commissione europea vede l’Italia in una posizione singolare: viaggia in coda all’intero gruppo dell’area euro sia quest’anno che nel 2015. Un po’ più piano procedono solo Cipro, che però si sta riprendendo dallo choc delle sue banche, e la Finlandia che in realtà non ha avuto una recessione così profonda. L’Italia era un’anomalia per la fiacchezza delle sue gambe prima della crisi e torna ad esserlo dopo. Come se nel frattempo non fosse successo nulla, anziché una delle fratture più profonde dell’ultimo secolo. Possibile? Non è vero che la ripresa sia in qualunque altro posto meno che qui. Emanuele Baldacci dell’Istat ieri ha mostrato che nell’ultimo paio di mesi gli occupati in Italia hanno iniziato a crescere di alcune decine di migliaia: un’inezia dopo una erosione di 1,6 milioni di posti in cinque anni, ma almeno la tendenza si è invertita. E in un seminario all’istituto statistico è emerso anche che fra gli imprenditori c’è un (lieve) ritorno della voglia di investire. La lista dei segni di risveglio può continuare, eppure restano più deboli che nel resto del Sud Europa e neanche loro permettono di eludere la grande domanda: è giusta la strada che abbiamo preso? L’Italia negli anni scorsi ha compiuto una scelta di fondo diversa da quella degli altri Paesi colpiti dalla crisi di debito. È stata una scelta condivisa da centrosinistra, centro e destra. Mentre le altre economie deboli accettavano l’aiuto europeo, la troika e il suo amaro menù di riforme, noi abbiamo proposto a Bruxelles e a Francoforte un altro tipo di patto: a casa nostra decidiamo noi, ma in cambio promettiamo di tenere il deficit sotto controllo. Nel triennio 2011-2013 i tre governi succedutisi hanno passato manovre per qualcosa come 67 miliardi di euro, riportato (e tenuto) il deficit entro il 3%, eppure il debito non ha mai smesso di salire in proporzione a un’economia contrattasi più che ovunque meno che in Grecia. Nel frattempo l’Irlanda e i Paesi iberici hanno preso la strada che noi abbiamo rifiutato. Madrid ha accettato l’aiuto, ha agito poco sul deficit, ma su richiesta europea ha cambiato le regole del lavoro in un modo che persino Matteo Renzi riterrebbe troppo rivoluzionario: gran parte dei contratti si fanno in azienda, non in affollati «tavoli» centralizzati nella capitale, mentre i giudici non mettono bocca nei licenziamenti economici. Può non piacere, ma ieri all’Istat Stefania Tomasini di Prometeia ha mostrato che il Pil dell’Italia oggi sarebbe del 3% più alto se solo l’export fosse andato bene come in Spagna. Per il Portogallo gli ultimi anni sono stati anche peggio: il deficit resta doppio rispetto all’Italia ma il governo ha introdotto contratti alla spagnola (o meglio, alla tedesca) e cancellato 4 giorni di vacanza a parità di paga. Per due anni le proteste hanno 40 paralizzato Lisbona e la Corte costituzionale ha respinto alcuni dei tagli al welfare. Ora però il Portogallo è fuori dalla tutela europea, l’export è salito del 16% e la disoccupazione è scesa del 2,5%: un risultato impensabile qui. Questi Paesi hanno preso una via sgradevole, sono ancora fragili, ma non privi di risultati. Invece l’Italia ma scelto la propria sovranità, mettendola al servizio dei conti pubblici e non di una vera capacità di crescere: ma senza crescita anche i conti resteranno fragili per sempre. La via italiana all’uscita dalla crisi ha funzionato? I numeri — per ora — dicono di no. Gli ultimi anni, è vero, hanno insegnato a diffidare di chi crede di avere tutte le risposte. Ma vale anche per l’unanimità italiana di questi anni. 41