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RASSEGNA STAMPA
martedì 6 maggio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da IoDonna.it del 30/04/14
VOLONTARIATO
Arci: aperti i campi antimafia
Workshop di formazione, corsi sulla legalità, laboratori, bonifiche e
coltivazioni delle terre. I luoghi confiscati alle cosche tornano a nuova
vita. Con l'aiuto e il lavoro di tutti
di Nicoletta Pennati
Trasformare i luoghi un tempo simbolo del potere mafioso in occasioni di riscatto.
Restituirli alla gente, eleggerli a simboli positivi di riscatto. Un processo lungo, ma
possibile. Dimostrato negli anni. Anche attraverso i Campi Antimafia proposti dall’Arci e
giunti quest’anno all’ottava edizione.
Aperti a singoli, gruppi, famiglie, anche under 18, propongono una pacifica “occupazione”
estiva nutrita con workshop di formazione, educazione alla legalità democratica e alla
responsabilità, azione concrete sui terreni, laboratori culturali, memoria e condivisione di
esperienze. Non solo in Sicilia, Campania, Puglia, Calabria, ma anche nelle Marche, in
Liguria, Veneto, Lombardia e Toscana. Perché purtroppo la mafia è ormai ramificata
ovunque e terreni e proprietà sono sparsi in centinaia di comuni.
Obiettivo finale: collaborare per costruire una comunità alternative alle mafie. Le iscrizioni
sono aperte e si raccolgono fino ad esaurimento dei posti disponibili.
Si comincia con Corleone, in Sicilia, da metà maggio e si continua fino a settembre. In
Sicilia, ma anche in Liguria e Lombardia. È possibile iscriversi scaricando dal sito Arci il
modulo da compilare.
http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2014/campi-legalita-arci-402046971905.shtml
Da QualEnergia.it del 06/05/14
Cuba, sistemi alternativi e più efficienti per
vivere senza petrolio
Cosa potrà succederà dopo il picco del petrolio e quali problemi
dovremmo affrontare. Riusciremo a sostenerci con le sole energie
rinnovabili a sostenerci? Un gruppo di lavoro composto da agronomi,
fisici, esperti di energie rinnovabili, geologi ed ecologi sta
sperimentando a Cuba sistemi alternativi e più efficienti di coltivare e
vivere senza petrolio.
Roberto Salustri
Orti collettivi, trasporto pubblico con cavalli, utilizzo di energie rinnovabili, agricoltura
biologica e trazione animale, attività sociali in piazza. Potrebbe essere lo scenario
ipotizzato dal movimento delle Transition Town o l’insieme delle varie attività portate avanti
da gruppi ecologisti, invece è la realtà di tutti i giorni a Cuba. Tutti ci domandiamo cosa
succederà dopo il picco del petrolio, quali problemi dovremmo affrontare, riusciremo con le
sole energie rinnovabili a sostenerci? Oppure ci aspetta uno scenario alla Mad Max?
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A Cuba già lo sanno: stanno vivendo senza petrolio da anni, da quando l’Unione Sovietica
ha smesso di spedire tutta una serie di derivati del petrolio e da quando l’embargo
costringe i cubani a farsi bastare quel che possono produrre da soli. Nel 1990 il PIL di
Cuba è crollato dell’85% e il consumo di petrolio del 50%. Inizialmente le calorie di cibo
disponibili a testa calarono del 30%-40%. La gente inizio a dimagrire velocemente.
L’agricoltura, che in precedenza assomigliava a quella del resto del mondo e utilizzava
fertilizzanti, pesticidi, macchinari e sistemi di allevamento industriali, ha dovuto essere
rimodellata in modo sostenibile. Il biologico è diventato la norma. I bovini, più che essere
allevati per la carne, sono usati per il lavoro dei campi. La gente oggi mangia molta frutta e
verdura e in molti la coltivano da soli o negli orti collettivi urbani.
Oggi la produzione di cibo è al 90% dei livelli pre-crisi, ma il consumo di energia è molto,
molto al disotto dei livelli precedenti. La gente gode di buona salute, Cuba ha un sistema
sanitario migliore di quello degli USA, quando passò l’uragano Katryna, il Governo cubano
offrì di mandare medici e paramedici. A Cuba si punta molto sulla prevenzione e la
mortalità infantile è più bassa che negli USA.
Il sistema scolastico funziona bene. Cuba ha solo il 2% della popolazione dell’America
Latina, ma l’11% degli scienziati di quel continente sono cubani. Gli uomini vanno in
pensione a 60 anni, le donne a 55. L’età media si sta allungando, per cui anche queste
soglie dovranno essere spostate in avanti.
Il primo problema che hanno dovuto risolvere durante il “periodo speciale” è stato quello
del cibo. In poche settimane hanno dovuto escogitare sistemi diversi da quelli industriali
per coltivare e conservare il cibo. Una delle iniziative partite dal basso e poi
“istituzionalizzate” è stata quella delle fattorie urbane (granjas urbanas), orti collettivi in
aree urbane, parchi e aree pubbliche trasformati in fonti di cibo. Anche su i tetti e i balconi
si iniziò a coltivare. Attualmente gli “organoponici” e le “granjas urbanas” sono sostenuti da
una rete di tecnici e agronomi cubani che collaborano con le università e insegnano ai
cittadini a coltivare in modo efficiente, senza petrolio e suoi derivati.
Per aiutare questa esperienza l’ARCS (Arci Cultura e Sviluppo, Ong del sistema ARCI
nata nel 1985), insieme al dipartimento internazionale di Legambiente, RESEDA onlus,
AUCS (Associazione Universitaria per la Cooperazione e lo Sviluppo), ACTAF
(associazione tecnici agronomi e forestali cubani, e l’Università di Pinar del Rio hanno
ideato e realizzato un progetto di Supporto allo sviluppo dell’agricoltura urbana e sub
urbana e di un sistema di commercializzazione nella città di Pinar del Rio. Lo scopo è
potenziare l’esperienza delle Granjas e delle cooperative di produzione agricola. Uno degli
obiettivi principali è ridurre il consumo di acqua ed energia per l’irrigazione, attraverso la
pacciamatura, sistemi di irrigazione sostenibile, impianti di pompaggio che utilizzano le
fonti di energia rinnovabile (eolico, fotovoltaico, pompe ad ariete idraulico) e altre tecniche
agricole biologiche.
Un gruppo di lavoro composto da agronomi, fisici, esperti di energie rinnovabili, geologi ed
ecologi stanno sperimentando sistemi alternativi e più efficienti di coltivare e vivere senza
petrolio. Anche il tema della conservazione e il trasporto degli alimenti ha un forte impatto
energetico e quindi è studiato da questo gruppo anche progettando mini-industrie di
trasformazione dei prodotti agricoli ad energie rinnovabili.
Una delle attività più interessanti che stiamo portando avanti è la realizzazione di una
comunità cooperativa che utilizza la permacultura come sistema agricolo e di vita. In
un’area di 236 ettari i 50 soci della Cooperativa agricola “Roberto Amaran” e le loro
famiglie vivono producendo cibo in modo completamente ecologico e sostenibile
migliorando il terreno e incrementando la capacità produttiva ecologica.
Progetti come questi sono sicuramente di aiuto alla popolazione cubana ma saranno
altresì importantissimi per il nostro futuro. L’esperienza di Cuba, con tutti i miglioramenti
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del caso, sarà utile per costruire un futuro solidale e senza petrolio. Certo, sarebbe bello
che si arrivasse a stili di vita sostenibili per libera scelta, non forzatamente e con
abbastanza tempo a disposizione, ma intanto mi piace pensare che sopravvivremo anche
noi alla fine del petrolio e che gli aspetti sociali e culturali potrebbero addirittura migliorare.
Video di approfondimento:
http://www.youtube.com/watch?v=gY1kfNKj-eo
http://www.youtube.com/watch?v=j6rSIsfsgQ0
http://www.qualenergia.it/articoli/20140506-cuba-sistemi-alternativi-e-pi%C3%B9-efficientivivere-senza-petrolio
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ESTERI
del 06/05/14, pag. 9
La battaglia di Sloviansk
Simone Pieranni
Ucraina. Almeno altri 10 morti a est. Abbattuto un elicottero
dell’esercito. Mosca: «Rischio catastrofe umanitaria»
Odessa e Slaviansk sono le due città ucraine al centro dello scontro militare, sfociato
ormai in guerra civile, che vede contrapposti Guardia Nazionale, esercito e corpi speciali
ucraini e i filorussi, impegnati a difendere e riconquistare posizioni. Anche ieri il bollettino è
stato tragico: almeno dieci le vittime a Sloviansk dove i separatisti sono stati in grado di
colpire un altro elicottero delle forze di Kiev. Secondo quanto dichiarato da uno dei
comandanti delle forze di autodifesa filorusse del sud est del paese, ci sarebbero anche
state vittimi civili e almeno venticinque feriti. è questa cittadina di poco più di 100mila
abitanti l’attuale centro dello scontro tra le due forze in campo.
La diplomazia appare statica, con Mosca che avverte circa il rischio di una catastrofe
umanitaria. «Nelle città assediate, si legge nel comunicato del ministero degli esteri russo,
si sente la mancanza di medicinali e inizia l’interruzione nell’approvvigionamento
alimentare». Un’emergenza — specie negli ospedali ucraini — sottolineata anche da molte
ong che lamentano i tagli del budget sanitario, per finanziare le spese militare del governo
di Majdan. E anche secondo Kiev sarebbero almeno dieci i civili morti negli scontri a
Sloviansk, mentre la Germania propone un nuovo incontro a Ginevra, con tanto di road
map in cinque punti, senza però tenere conto dei separatisti. Proprio la loro assenza ha
seppellito sotto le offensive militari di Kiev il precedente e precario accordo, che oltre a
non aver ottenuto alcun risultato, se possibile, ha peggiorato il confronto.
A questo si aggiunge ora la corsa alle elezioni: l’Europa, il Fondo monetario e gli Stati uniti
(presenti con un quartier generale a Kiev, con personale adibito a «consigliare» i militari
ucraini) spingono perché si svolgano le elezioni del 25 maggio, come se le urne potessero
cancellare di colpo la realtà di un paese spaccato e diviso in due. Anche ieri sia la Francia,
sia la stessa Kiev, hanno confermato l’importanza della data, mentre Mosca già nei giorni
precedenti si era detta decisamente scettica circa la riuscita della tornata elettorale. Il
governo di Majdan, però, non obbedisce più solo ai propri ministri e se vuole ottenere il
prestito del Fondo monetario deve accelerare i tempi: o conquistare il paese e riportarlo
sotto l’autorità della capitale, o organizzare in ogni caso le elezioni. Il Fondo monetario è
stato chiaro: i soldi arriveranno, a patto che il paese sia unito.
La situazione militare del resto rimane in bilico, tra difficoltà ad avere dati oggettivi su
quanto accade e costanti operazioni tese a recuperare e riconquistare palazzi governativi,
sedi televisive e uffici di polizia. A Odessa — dove l’incendio alla sede dei sindacati, con
oltre 40 morti, ha segnato il momento più grave del confronto militare (secondo la russa
Rt, tutto sarebbe nato da uno scontro tra ultras della Chernomorets Odessa e del Metalist
Kharkov) — la situazione rimane tesa. Domenica una manifestazione dei filorussi è
riuscita a sfondare il portone della caserma dove erano in stato di arresto molti dei
protagonisti degli scontri con le forze ucraine, liberandoli. I poliziotti che avrebbero dovuto
impedire l’azione, hanno gettato a terra gli scudi, in un ennesimo atto di insuburdinazione
contro Kiev. Ieri, infine, un gruppo di neonazisti di Settore Destro, è arrivato in città e ha
organizzato una manifestazione, mentre Kiev ha annunciato l’invio di una unità speciale da
quelle parti, per dare manforte ad un esercito che non riesce ad avere la meglio
sull’organizzazione dei filorussi.
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Tra Kiev e Mosca intanto è ormai guerra dialettica aperta. Il premier ad interim di Kiev
Yatseniuk, si è recato nei giorni scorsi a Odessa, promettendo l’indagine richiesta
dall’Unione europea, ma puntando il dito contro Mosca, accusata di essere la principale
responsabile dell’attuale situazione in Ucraina. Mosca ha risposto con 81 pagine di un
«Libro bianco» sulla situazione nel paese. Il rapporto, reso noto dal ministero degli esteri
russo, denuncia i «numerosi episodi» di violazioni dei diritti umani in Ucraina dalla fine
dello scorso novembre alla fine di marzo.
Il «Libro bianco» accusa le autorità ucraine di aver «preso il potere con la forza, di aver
portato a termine un colpo di Stato, di aver distrutto le legittime strutture di potere, di aver
tollerato episodi di xenofobia, ricatto, repressioni, abusi fisici e politici contro gli oppositori
politici».
Il fronte centrale del combattimento è Sloviansk, già teatro alcuni giorni fa di una delle
battaglie più importanti. Almeno cinque esponenti delle milizie filorusse sono rimasti
gravemente feriti ieri, secondo quanto riferito dall’agenzia Interfax, che ha citato un
portavoce delle forze separatiste. «Siamo circondati da vicino. Molti negozi stanno
chiudendo perché non ci sono merci da commerciare», ha dichiarato la stessa fonte
descrivendo la situazione nella città completamente accerchiata dalle forze di Kiev e che
teme un’offensiva imminente. Ieri — infine — è stata la Germania a provare a ritentare una
carta diplomatica, mettendo al centro di un’eventuale pacificazione Russia e Ucraina,
chiamate a trovare un accordo, ancora una volta a Ginevra, mentre il segretario generale
delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha offerto la sua mediazione per trovare una soluzione
alla crisi in Ucraina. «Sono pronto a svolgere un ruolo», ha detto .
Del 6/5/2014 – pag. 1-17
INTERVISTA AL MINISTRO TEDESCO STEINMEIER
“Ucraina, guerra vicina trattiamo con Putin”
ANDREA TARQUINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO - «Siamo ad un passo da uno scontro militare aperto in Ucraina. Occorre una
seconda conferenza di Ginevra». È il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter
Steinmeier a parlare. Ed a esporre le nuove proposte di Berlino per evitare il peggio, in
questa intervista a Repubblica e ad altri tre grandi quotidiani europei. «Non dobbiamo
permettere a Putin di essere un avversario». E ancora: «Vediamo immagini spaventose: la
situazione peggiora di giorno in giorno, specie nell’est ucraino, le sanguinose immagini di
Odessa ci dicono che siamo a pochi passi da uno scontro militare aperto. Dobbiamo
cambiare la situazione».
MINISTRO, a quali tentativi pensa?
«MI concentro sulla ricerca di possibilità e strumenti per evitare una guerra civile. Tutti i
paesi Ue escludono un intervento militare. Quindi dobbiamo cercare un mix bilanciato di
pressione politica e offerte diplomatiche per preparare il terreno a una soluzione politica. È
divenuto più difficile negli ultimi giorni. Ma forse la tragedia di Odessa è stata campanello
d’allarme anche per le parti in conflitto. Gli ultimi mesi ci hanno mostrato che è facile
condannare gli sviluppi, come è stato anche necessario dopo la violazione del diritto
internazionale in Crimea. È infinitamente più difficile trovare vie d’uscita da un conflitto in
escalation e le soluzioni politiche. Sarebbe irresponsabile permettere che le potenze
coinvolte cadano in un completo silenzio tra loro a causa di una escalation… Anche se è
difficile, abbiamo bisogno di cooperazione».
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Perché “Ginevra 1” non ha funzionato?
«L’errore non è stato la conferenza, ma il non aver elaborato un modo per tradurre nei fatti
le intese. “Ginevra 2” deve stabilire singoli passi vincolanti, ridurre la tensione nelle zone
più colpite dai conflitti, rafforzare un processo politico e costituzionale che includa tutti in
Ucraina, sullo sfondo della cooperazione tra Usa, Europa, Russia per la stabilizzazione
economica ucraina».
Putin vuole ricostruire l’Urss?
«Certo è che nell’elaborazione teorica della politica estera russa la categoria dominante
resta il pensiero in termini di sfere d’influenza geostrategiche. Ciò porta non solo a
malintesi, ma anche a conflitti con le parti del mondo che dal 1989 avevano detto addio al
pensiero geostrategico. L’idea europea di un rapporto stabile con i vicini non è stata mai
rivolta contro la Russia. Dobbiamo convincere Mosca che deve avere lo stesso interesse a
una stabilità della zona tra le frontiere orientali della Ue e le frontiere occidentali russe».
Pensa ancora che le elezioni presidenziali in Ucraina si terranno il 25 maggio?
«Le premesse non sono buone. Non sappiamo se saranno migliori il 25 maggio. Ma non è
ammissibile una strategia che punti a rendere impossibile quella scadenza. Coloro che in
Russia la mettono in forse cadono in contraddizione: dubitano della legittimità della
leadership politica in Ucraina, e negano la chance di creare una nuova legittimità con
l’elezione di un presidente. Per questo mi batto per “Ginevra 2” e per un’intesa sulla
scadenza elettorale».
I paesi baltici temono uno scenario ucraino. Fino a che punto Nato e Germania sono
pronte a difenderli?
«Nella parte orientale della Ue la sensazione di minaccia ha raggiunto il massimo livello.
Soprattutto in Lettonia, Lituania ed Estonia. Lo capiamo, e abbiamo espresso la nostra
solidarietà politica. In relazione a scenari di minaccia militare, la Nato ha rafforzato
temporaneamente le capacità di sorveglianza, con pattuglie aeree e navali».
Siamo allora testimoni di una nuova guerra fredda?
«I poteri politici non possono mai essere testimoni. Hanno la responsabilità di impedire
che avvenga ciò che c’è ragione di temere, cioè che il conflitto sull’Ucraina diventi acuto,
cosa che noi tutti in Europa non ritenevamo possibile. Improvvisamente, 25 anni dopo la
fine del confronto tra i due blocchi, una nuova spaccatura politica dell’Europa diverrebbe di
nuovo virulenta. Nessuno s’inganni: è un pericolo e una minaccia, non solo per l’Ucraina.
Con questo conflitto può venire distrutta l’intera architettura di sicurezza costruita e
consolidata in decenni in Europa».
Putin è ancora un partner possibile, o piuttosto un avversario?
«Non dobbiamo permettergli di essere un avversario».
Nel 1914 le potenze pensarono a un conflitto locale balcanico, e poi divenne guerra
mondiale. Quanto siamo lontani da una simile situazione?
«Tra il 1914 e oggi ci sono state due guerre mondiali e la fine del confronto tra i due
blocchi. Tali eventi dovrebbero bastare a renderci sensibili e attenti a non ricadere mai a
tempi come quelli di allora. Non vediamo oggi in tutta Europa una disponibilità di molti Stati
a mandare in guerra i loro giovani. Con la Osce e l’Onu abbiamo strumenti che già più
volte hanno reso governabili i conflitti. Adesso non c’è garanzia, ma spero che ci riesca di
farlo con l’Ucraina, e lavoro per questo. Anche se durerà a lungo, perché la volontà di
deescalation non è presente in tutte le parti in campo».
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Del 6/5/2014 – pag. 16
IL REPORTAGE
Quei corpi in trappola nella casa degli spiriti
Odessa dopo la strage
“Nessuno vincerà in questa folle partita”
DAL NOSTRO INVIATO
VINCENZO NIGRO
ODESSA - ANGELI e demoni si aggirano nella casa della strage. Nella penombra
scavalcano le cataste di mobili carbonizzati, aggiungono i loro fiori ai mazzi di garofani
rossi. Calpestano esitanti un blocco di parquet bruciato, che emana un odore quasi
dolciastro: quello dei resti delle vittime che non è stato possibile rimuovere dal legno. Nel
Palazzo dei Sindacati di Odessa, dove venerdì 2 maggio più di 40 russi sono morti tra le
fiamme o asfissiati, ragione e ingiuria si intrecciano silenziose. Una processione di
visitatori, russi e ucraini, di curiosi e pellegrini sfila sul luogo di un massacro che già
marchia questa guerra civile di Ucraina. Il palazzo è al centro di Kulikova Pole, una grande
piazza-giardino nella zona centrale di Odessa, accanto al grande viale alberato che porta
al mare e alla scalinata più famosa dell’Urss, quella della corazzata Potëmkin. Al piano
terra tutto è bruciato profondamente: i mobili, i rivestimenti, le porte. Gli intonaci sono
crollati, dalle scale spunta il cemento armato a nudo.
«Chi ha ragione? Chi ha torto? Tutti abbiamo le due cose, e tutti perderemo», dice
Anatoly.
L’uomo che ci accompagna è quasi un segno del destino: è un ex professore di storia, ma
per aiutarsi fa anche il tassista. Il padre siberiano e la madre ucraina si trasferirono qui. Di
se stesso dice: «Russo? Ucraino? Sono un uomo, non so scegliere, non voglio». Al centro
fra i sedili della sua Skoda c’è una recensione di un libro, “The Sleepwalkers”, di
Christopher Clark, sui sonnambuli che portarono l’Europa alla guerra nel 1914. «Chissà
come finirà adesso… ma venerdì, ormai è chiaro come è andata». La storia di quella
giornata tragica per Odessa, per l’Ucraina e per la Russia si intreccia maledettamente con
le bande di tifosi più o meno violenti che scolorano in politica. «Venerdì c’era una partita
fra il Cheronomorets di Odessa e il Metalist di Kharkiv. Dopo pranzo i tifosi si erano
radunati al centro della città per andare insieme allo stadio, insieme».
Ma su uno dei viali ci sono i russi, molti di meno di loro, ma armati. Vedono arrivare quella
folla, li vedono con i colori dell’Ucraina, giallo e azzurro, e parte l’attacco, anche con colpi
di pistola. «In quel momento almeno 2 tifosi vengono uccisi da pistolettate, dai filo-russi
che capiscono subito di essere in minoranza e anche per questo reagiscono alzando il
tiro». Gli scontri iniziano a 200 metri dall’Hotel Continental, poi si trascinano
interrompendosi per lunghi momenti. Immediatamente gli ultras e gli attivisti di Majdan si
passano la voce sui social media che ormai sono un moltiplicatore di tutto, quando serve
anche di violenza. Allo stadio, che non è lontano, la partita inizia, ma fra primo e secondo
tempo le scalinate si svuotano, gli ucraini partono per la guerra.
«Arretrando, i filorussi provano a difendere un accampamento di tende messo in piedi per
protestare contro il governo di Kiev proprio nel grande giardino del palazzo dei sindacati ».
I filo-ucraini si rafforzano e si organizzano. In strada verranno filmate ragazze che
riempiono le bombe molotov. Con i rinforzi arrivati dallo stadio e dalle file della sicurezza
dei filo-Majdan, il contrattacco ai russi diventa inarrestabile. Dietro il palazzo dei sindacati
la piazza è chiusa da una cancellata, per cui i primi iniziano a rifugiarsi all’interno: altri li
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imitano. È una trappola. Parte l’assedio, le molotov lanciate prima all’interno e poi contro
chi provava a fuggire. I russi si difendono, in ogni stanza ci sono ancora a giorni di
distanza sacchi di tela carichi di sassi e mattoni, le armi che si erano portate dentro.
Ora Odessa appare tranquilla. Non è così. La polizia allo sbando è stata rafforzata da una
colonna di Guardia nazionale arrivata da Kiev, ci saranno dentro di sicuro anche uomini di
Pravy Sektor, la destra estrema. Domenica i filorussi avevano circondato una caserma di
polizia e si erano fatti liberare 60 dei loro che erano stati arrestati. Allora Kiev ha messo
fuori dalla polizia alcune decine (da Mosca dicono centinaia) di agenti, e inquadrato tutto
con nuovi capi. Si preparano a organizzare le elezioni politiche “ucraine” del 25 maggio,
mentre il referendum autonomista dell’11 maggio, quello dei filo-russi, qui non dovrebbero
riuscire a metterlo in piedi.
Odessa è tranquilla, ma alla tv Anatoly cambia canale: da Mosca, in tutti i tg ritornano gli
attivisti russi che venerdì si lanciavano in strada per sfuggire al fuoco. Angeli e demoni,
russi e ucraini si scambiano accuse e si scambiano nei ruoli. Come sonnambuli sembrano
correre verso una guerra ancora più violenta.
del 06/05/14, pag. 9
La pace atlantica della Pinotti
Giulio Marcon
Centosessanta anni fa il conte di Cavour decise di mandare dei soldati del Regno di
Sardegna a combattere in Crimea. Si trattava di una scelta estemporanea e scaltra per
conquistarsi un posto nel gioco diplomatico europeo. Erano stati gli inglesi, formalmente, a
chiedergli di mandare delle truppe sabaude.
La ministra della difesa Roberta Pinotti, che di Cavour ha solo una portarei che porta il suo
nome, ha solertemente offerto delle truppe italiane per una «missione di pace» in Ucraina
(c’è tanto di intervista su la Repubblica del 4 maggio). Ma non gliel’ha chiesto nessuno, e
meno male. Non gliel’hanno chiesto le Nazioni Unite, né la Nato (l’Alleanza atlantica), né i
russi, né gli americani. Con un azzardato paragone con la situazione in Libano (che niente
c’entra con quello che sta succedendo in Ucraina e dove le nostre truppe sono schierate
nel territorio libanese perché riconosciute neutrali e al di sopra delle parti in conflitto), la
ministra della difesa italiana dimostra di avere un’approssimativa consapevolezza di quello
che sta succedendo nella crisi in Ucraina e un’eccessiva considerazione del ruolo di
pacificazione delle nostre truppe. Tra l’altro in Afghanistan non è andata proprio come la
racconta: lì siamo in guerra aperta.
In realtà — come evidenziato da molti– il conflitto ucraino non ha bisogno oggi di «prove
muscolari» né di finte «missioni di pace», che non hanno alcuna possibilità di essere
decise ed inviate, ma di riannodare il bandolo delle trattative e di una soluzione
diplomatica, che è l’unica possibile. Se invece si continua ad andare verso una prova di
forza allora la guerra è assicurata. In questo momento, la causa dell’incendio è l’offensiva
militare dell’esercito ucraino contro i separatisti. Questa offensiva andrebbe fermata,
perché — oltre a provocare una guerra su più vasta scala — ha ormai minato gli accordi di
Ginevra (pure osteggiati da una parte dei separatisti) e la possibilità di una soluzione
concertata della crisi nella regione.
La responsabilità dell’autocrate Vladimir Putin (con cui si sono intrattenuti, in affari e in
politica, in questi anni tutti i leader delle democrazie occidentali) prima nel sostenere un
leader corrotto e autoritario come Yanukovich e poi nel soffiare sul fuoco dei separatismi
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locali è evidente, come è altrettanto chiaro che c’è un problema reale delle minoranze
russofone che si sentono minacciate dalle forze nazionaliste fasciste e antisemite ucraine.
Non però è solo farina del sacco di Putin; ci sono paure ed angosce reali della minoranza
russa di quel paese (strumentalizzate dal leader di Mosca), cui gli «occidentali» meglio
farebbero a dare risposte più rassicuranti che appoggiare i carri armati di Kiev. Dopo la
fuga di Yanukovich nel febbraio scorso, uno dei primi atti del parlamento ucraino — poi
bloccato dal veto del presidente Turcinov– è stato quello di abolire il russo come lingua
ufficiale. È uno scenario «jugoslavo»: non è bastata la lezione degli anni ’90 a far capire
agli europei che è necessario affrontare un conflitto di questo genere con strumenti diversi
dall’interventismo armato e dall’arroganza della Nato.
Ed è proprio l’espansione, con tanto di stategia, della Nato ad est — e la pervicace
intenzione di fare dell’Ucraina un suo prossimo avamposto — ad essere una delle cause
principali di quello che sta succedendo in quel paese. «Ma che c’entrano gli americani con
l’Ucraina?» si è chiesto Romano Prodi, invitando implicitamente gli europei a lasciarli fuori
dalla porta e ad essere loro i protagonisti di una soluzione del conflitto in corso. Ma il
problema è proprio questo: gli americani, in un modo o nell’altro, in Ucraina ci vogliono
entrare e rimanerci per due motivi: stare a ridosso, magari con la Nato, alla potenza russa
ed entrare nel gioco del controllo delle risorse e delle vie di comunicazione che
attraversano il paese.
Quando si pensa ad una «missione di pace» in Ucraina bisogna essere chiari. Non basta
dire «pacificazione». È una missione (dell’Alleanza atlantica) a sostegno del governo di
Kiev? È una forza di interposizione (anche con truppe russe, solo così da Mosca possono
accettarla) tra le forze separatiste e quelle del governo ucraino? In mancanza di
chiarimenti dire come fa la nostra ministra difesa che l’Italia è disponibile a mandare delle
proprie truppe, anche «attraverso la Nato, non significa nemmeno lontanamente emulare il
conte Cavour di centosessanta anni fa (che aveva comunque una sua visione e degli
obiettivi ben precisi), bensì semplicemente mettersi al servizio. Ma non certo della pace.
del 06/05/14, pag. 14
Vent ’anni dopo l’apartheid è diventato
economico
IL SUDAFRICA ORFANO DI MANDELA ALLE ELEZIONI CON
DISUGUAGLIANZE SOCIALI SEMPRE PIÙ MARCATE TRA I NERI.
FAVORITO IL PRESIDENTE ZUMA
Una fila lunghissima con i colori della “nazione arcobaleno” si snoda per Trafalgar Square,
a Londra. Davanti alla South Africa House, dove ha sede il consolato, centinaia di
sudafricani residenti in Gran Bretagna sventolano le bandiere gialle e nere dell’African
Nation Congress e quelle azzurre dello sfidante Democratic Alliance e si preparano a
votare, in anticipo rispetto al loro paese, nelle elezioni che celebrano i 20 anni della fine
dell’apartheid e dell’inizio della democrazia. Ma anche le prime dalla morte del padre della
nazione, Nelson Mandela. “L’African National Congress (Anc) è andato al potere nel ’94,
raccogliendo i frutti della lotta del suo leader, Mandela, e facendo un compromesso con la
minoranza bianca: a noi il potere politico a voi quello economico”. Chris Vandome è
ricercatore presso Chatham House, Istituto britannico che si occupa di affari internazionali.
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Il Programma dedicato all’Africa del think-tank londinese è probabilmente il più importante
del mondo. Chris ripercorre questi venti anni di democrazia dominati dall’Anc spiegando
perché l’apartheid oggi non è più razziale, come prima del ’94, bensì sociale ed
economico. “Sia la presidenza Mandela che quella del successore Mbeki hanno puntato
tutto sulla crescita economica. In questo modo, anche grazie al flusso di investimenti
dall’estero e agli aiuti del Fondo monetario internazionale, il Paese è esploso a livello
macroeconomico”. Lasciando però indietro una fetta importante di persone, “creando una
frattura sociale tra minoranza benestante – spesso bianca – e una maggioranza devastata
dall’alto tasso di disoccupazione e dalla carenza di servizi pubblici (istruzione, igiene,
salute)”. Solo quest’anno ci sono state oltre 3.000 manifestazioni, senza contare le
rivendicazioni salariali dei minatori. Nel 2012 ne morirono 38 negli scontri con la polizia.
“Segni evidenti del malessere diffuso e del fallimento delle politiche sociali del partito di
governo”, nota Vandome.
LA CORSA ELETTORALE è però quella di un uomo solo: Jacob Zuma, leader dell’Anc e
presidente in carica dal 2009. Già accusato di corruzione, Zuma ha governato facendo lo
slalom attraverso gli scandali. Il più noto all’opinione pubblica è quello in cui è stato
accusato di aver sottratto 65 milioni di rand (più di 4 milioni di euro) di denaro pubblico per
la ristrutturazione faraonica di una casa di campagna. Una giudice che ha indagato sul
caso, Thuli Madonsela, è popolarissima, e tutti i partiti di opposizione cavalcano una linea
anti-corruzione. Eppure l’Anc è ancora il primo partito: il sondaggi lo danno sopra il 65%.
L’opposizione è divisa, e neanche una sfidante dall’alto profilo come Manphela Ramphele
– donna, accademica, imprenditrice e già militante anti- apartheid – è riuscita a coalizzare
contro il ventennale potere dell’Anc. Patrick, nero 42 anni di Johannesburg, che veste la
maglietta di Zuma è molto netto: “Non voto per lui perché è corrotto, ma credo ancora nel
partito”, come ci credono tanti della generazione “born free”, ovvero quelli nati liberi
dall’apartheid, i ventenni di oggi. Forse non riesce a rappresentare più molti settori della
società, ma l’Anc infatti continua a difendere le classi più deboli attraverso gli strumenti
dello stato sociale. “Anche dopo le elezioni”, chiarisce Patrick, “il partito ha il potere di
richiamare il suo leader e di sostituirlo. Così accadde con Mbeki che dovette lasciare il
posto a Zuma. E così spero accada a Zuma” in favore del suo attuale vice, Cyril
Ramaphosa, ambizioso uomo d’affari, anche lui con un passato da attivista anti-apartheid.
Quel che è certo, oltre alla vittoria sicura di Zuma e dell’African National Congress , è che
Mandela non è sparito dalle strade del Sudafrica. “Per noi è come un padre”, aggiunge
Patrick “tutti lo amano e lo rispettano per l’umanità che ha espresso”. Ma l’eredità più
grande che Madiba ha lasciato al suo Paese è certamente quella del senso dello Stato.
“Quando nel 2004 decise di ritirarsi dalla vita pubblica, lo fece anche per questo”, conclude
Vandome. “Per dire: non sono eterno, ma quello che lascio resterà”. In Sudafrica
l’autonomia della magistratura e la libertà di stampa sono gli strumenti che bilanciano gli
abusi del potere politico. Elementi di una democrazia che in Africa è merce rara.
A. Val.
del 06/05/14, pag. 13
Boko Haram: «Venderemo le liceali rapite»
Rivendicato il sequestro di 223 studentesse in Nigeria. Il leader islamista: «Ce l’ha
chiesto Dio»
Marina Mastroluca
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«Le venderemo al mercato come schiave ». Ha l’aria di chi impartisce una lezione
Abubakar Shekau, leader del movimento qaedista Boko Haram, mentre rivendica in un
video il rapimento di oltre 270 ragazze in Nigeria. Da quasi tre settimane non si hanno più
notizie delle studentesse sequestrate il 14 aprile scorso a Chibok, nello Stato del Borno,
dove erano giunte per sostenere un esame di fine corso. Shekau si fa riprendere dalle
telecamere in mimetica, davanti ad un veicolo per il trasporto di militari e a due pick up
equipaggiati con mitragliatrici. Accanto a lui ci sono sei soldati armati e a volto coperto.
«Ho rapito le vostre ragazze - dice -. Le venderò». «Dio mi ha detto di venderle, loro sono
sua proprietà e io eseguirò le sue istruzioni», aggiunge. Le ragazze non dovevano essere
lì, piuttosto che a scuola le famiglie avrebbero dovuto mandarle spose, perché l’istruzione
femminile è peccato, «l’educazione occidentale è peccato»: questo significa Boko Haram,
il nome del gruppo. Per 14 minuti Shekau declama il suo credo contro l’educazione
scolastica delle ragazze, contro la convivenza tra cristiani e musulmani. Ha dei fogli in
mano, il suo sembra un proclama. Poi annuncia le sue intenzioni: ridurre in schiavitù,
vendere o costringere a nozze forzate le ragazze in ostaggio. «Mi sposerò con una donna
di 12 anni e con una ragazza di 9 anni», annuncia. Subito dopo il sequestro di massa i
sospetti si erano concentrati sull’organizzazione terroristica. Ma il video del leader di Boko
Haram non appare del tutto convincente: nel filmato non nomina mai il numero delle
ragazze - delle 276 iniziali, 53 sono riuscite a fuggire - né dove sarebbe avvenuto il
rapimento. Non dà nessun dettaglio e non mostra nessuna delle studentesse. Anche il
riferimento alle nozze con delle ragazzine non collima con l’età delle ragazze sequestrate,
tutte tra i 16 e i 18 anni.
La vicenda imbarazza enormemente il governo che ha cercato di mostrare il fenomeno
terroristico come estremamente circoscritto e ha ridimensionato gli attacchi a villaggi
cristiani, ma che poi si è trovato a dover spiegare l’ottantina di morti negli attentati nella
capitale di tre settimane fa e subito dopo il rapimento delle studentesse. Anche in questo
caso la linea ufficiale è stata quella di minimizzare. Le madri e i parenti delle ragazze sono
dovute arrivare ad Abuja per chiedere che le autorità si muovessero per riportare a casa le
ragazze. Solo domenica scorsa il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha ammesso il
sequestro, affermando che il governo farà tutto il possibile. Ma ieri la leader delle madri
Naomi Mutah è stata brevemente arrestata - secondo fonti di stampa locali - per essersi
presentata ad un meeting ufficiale sollecitando la liberazione delle ragazze. La donna
sarebbe stata accusata di aver ordito la messa in scena del rapimento per mettere in
cattiva luce il governo, ma sarebbe poi stata rilasciata dopo poche ore.
Per le autorità di Abuja la vicenda non potrebbe avere tempistica peggiore. Il sequestro
rischia di distogliere l’attenzione dal World Economic Forum for Africa, riunito per la prima
volta in Nigeria proprio questa settimana e dove il governo contava di presentare il suo
volto più moderno. Il presidente Jonathan, ha rivolto un appello ai leader di molti Paesi, fra
questi anche al presidente degli Stati Uniti Barack Obama, perché prestino aiuto per
ritrovare le ragazze e stabilizzare il Paese. Jonathan si è rivolto anche a Francia, Gran
Bretagna e Cina, oltre che ai Paesi vicini Camerun, Ciad, Niger e Benin. «Abbiamo parlato
ad alcuni Paesi dai quali ci aspettiamo un aiuto - ha detto -. Gli Usa sono al primo posto.
Ho già parlato due volte al presidente Obama». Negli ultimi giorni ad Abuja e a Kano, nel
nord del Paese, ci sono state diverse manifestazioni per chiedere al governo di darsi da
fare per liberare le studentesse. «Ridatecele», c’era scritto sui cartelli, «le ragazze non
meritano tutto questo».
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del 06/05/14, pag. 21
Sfida tra Comitato Onu e Vaticano sui limiti
del trattato anti tortura
Il Comitato dell’Onu che si occupa di verificare l’applicazione della Convenzione contro la
tortura e i trattamenti disumani e degradanti vuole che il Vaticano risponda
dettagliatamente sulla pedofilia e gli abusi del clero. Lo dovrà fare oggi pomeriggio, per
cercare di controbattere un verdetto (atteso per il 23 maggio) che, stando alla sessione
pubblica di ieri, sembra essere già stato scritto.Per due ore, nella sala delle Conferenze
posta al primo piano del Palais Wilson, la delegazione vaticana, guidata da monsignor
Silvano Tomasi, è stata sottoposta a un fuoco di fila di domande su un tema al quale la
Santa Sede non ha fatto alcun riferimento nel suo Rapporto di 25 pagine, in quanto, come
ha dichiarato il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, equiparare le sofferenze e i
traumi derivati dagli abusi sessuali sui minori a quelli inflitti con la tortura, vuol dire
impostare la questione in modo chiaramente «ingannevole e forzato per qualsiasi
osservatore obiettivo».
Per affrontare questioni delicate come l’applicazione della Convenzione contro la tortura o
la lotta alla pedofilia occorre «un dialogo costruttivo», non basato su «asserzioni
polemiche», ha affermato Tomasi ieri pomeriggio alla Radio Vaticana. Mentre a caldo
aveva affermato che comprendendo anche la pedofilia «si rischia lavoro inefficace e
controproducente» .
L’articolo 1 della Convenzione Onu definisce «tortura» (usando quindi il termine in senso
proprio) «qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona
dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali» per ottenere informazioni o confessioni, per
punire o intimidire e fare pressioni «o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma
di discriminazione». Inoltre, perché ci sia «tortura», deve essere compiuta da «un agente
della funzione pubblica» dello Stato o da «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale».
Citando la dichiarazione interpretativa fornita al momento dell’adesione del Vaticano al
Trattato, nel 2002, Tomasi ha affermato che la Convenzione si applica solo allo Stato della
Città del Vaticano, in quanto entità territoriale circoscritta, e non alla Santa Sede.
Un’interpretazione che invece è stata respinta dalla maggioranza degli interventi dei
membri del Comitato. Tanto che il presidente, il cileno Claudio Grossman, con qualche
imbarazzo è dovuto intervenire per riequilibrare la situazione, dando atto al Vaticano che il
nuovo codice penale sanziona la tortura come reato e ha introdotto il reato di pedofilia.
Particolarmente determinati i due vicepresidenti, l’americana Felice Gaer e il georgiano
George Tugushi (che ha fatto riferimento anche al trattamento subito dall’ex maggiordomo
di Benedetto XVI Paolo Gabriele), ma anche la rappresentante del Nepal («la pedofilia è
una forma di tortura») e della Cina. Non è intervenuto l’italiano Alessio Bruni.
Per la Gaer, lo Stato della Città del Vaticano «è una suddivisione della Santa Sede, come
il cantone di Ginevra è una suddivisione della Svizzera» e la Santa Sede con la
Congregazione per la dottrina della Fede è competente per tutti i preti del mondo. Gaer ha
fatto riferimento a casi recenti riguardanti preti del Cile e dell’Honduras, e dell’Austria. Per
quanto riguarda l’Italia, Gaer ha stigmatizzato l’esistenza nel Trattato del Laterano la
norma per cui i sacerdoti non sono tenuti a fare denuncia alle autorità civili. Gaer ha
chiesto al Vaticano anche di esprimersi sul divieto assoluto dell’aborto, divieto che nei casi
di vittime di violenza, ad esempio, può causare sofferenze supplementari, ha affermato. Il
riferimento all’aborto è stato fortemente contestato da Ashley McGuire dell’associazione
Catholic Voices. M. Antonietta Calabrò
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INTERNI
del 06/05/14, pag. 6
L’Ambasciatore Usa: “L’Italia comprerà gli F35”
“CI SONO ACCORDI con la Difesa, l’Italia comprerà gli F-35, probabilmente tutti e 90”. A
dirlo è l’a m b a s c i a to re Usa a Roma, John R. Phillips, durante la registrazione della
puntata del programma di RaiDue 2next . Philips ha elogiato l’impegno internazionale
italiano, ma le sue parole sono suonate come un richiamo agli impegni presi. Gli F-35 –
cacciabombardieri americani ancora in fase di sperimentazione – costano circa 135 milioni
di euro l’uno e sono da mesi al centro delle polemiche. Il governo Renzi ha lasciato
trapelare che intende, nella prossima legge di Stabilità, dimezzare il numero di velivoli di
cui dotare l’Aeronautica, ma di certo l’amministra - zione Usa continua a fare lobby (gli
aerei vengono costruiti dall’americana Lockheed Martin). Prima dell’ambasciatore, ci
aveva già pensato lo stesso Barack Obama durante la sua recente visita in Italia: “La
libertà ha un co s to”, ha scolpito riferendosi proprio agli F-35. A rispondere a distanza è
intervenuto il deputato Gian Piero Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa: “Il
Parlamento ha avviato un’indagine conoscitiva sui nostri sistemi d’arma, solo dopo
saranno prese decisioni e saranno vincolanti”.
Del 6/5/2014 – pag. 10
LA GIORNATA
L’ultimatum del governo “Avanti con il nostro
testo e poi poche modifiche”
Renzi sfida i “gufi” e attacca Grillo: “È uno sciacallo” Napolitano:
lavorare alla riforma della giustizia
SILVIO BUZZANCA
ROMA - Matteo Renzi vuole discutere delle riforme con tutti, ma chiede anche di arrivare
presto ad una decisione. Il presidente del Consiglio lo dice chiaro e tondo, aprendo i lavori
del seminario del Pd dedicato alle riforme. E parla anche a qualcuno dei “professoroni”,
assenti, accusati nelle scorse settimane di frenare il cambiamento. «L’Italia può e deve
cambiare in tempi certi», dice il premier. Non è vero che non vogliamo discutere. Vogliamo
farlo ma poi bisogna decidere». E alla critiche Renzi risponde che «sostenere che bisogna
cambiare non è né autoritarismo né esercizio violento della cosa pubblica». Bisogna farlo
perché è «elemento di credibilità in Europa». E ammette «che avere rinviato la
discussione a dopo le elezioni è « un atto che personalmente e politicamente mi costa». Il
premier però ascolta cosa dicono gli esperti convocati. E prende appunti. Quando Franco
Bassinini parla del presidenzialismo invocato da Silvio Berlusconi annota un «dopo» che
rinvia il confronto a dopo la riforma del Senato. Registra l’ammonimento di Valerio Onida
che le «riforme non si fanno per risparmiare». Annota le critiche di Ugo De Servio che
dice: «Dare un potere meramente consultivo al Senato è profondamente contraddittorio».
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Tutti problemi che restano sul tappeto. Oggi al Senato però si dovrebbe scegliere il testo
base. Il governo vuole che sia adottato il suo. Gli altri no. La mediazione possibile è testo
base governativo accompagnato da un pacchetto di emendamenti giù concordati. Luigi
Zanda, capogruppo pd parla di intesa possibile affidando alle regioni le modalità di
elezione dei futuri senatori. Ma per Luciano Violante sarebbe «un escamotage, non una
soluzione». Sullo sfondo resta il tema giustizia. Ieri il presidente della Repubblica ne ha
parlato con i nuovi giovani magistrati. «Siete una nuova generazione che confido non cada
prigioniera di un clima di tensione che ha dominato per decenni la vita pubblica del nostro
paese», ha detto Napolitano. E ha auspicato che il ministro Orlando lavori ad una riforma
della giustizia «con tutti per la ricerca di soluzioni concrete e organiche».
del 06/05/14, pag. 1/15
Riforme
Un mostro giuridico
Gaetano Azzariti
Sembra che l’«autonomia del politico», dopo aver consumato un forte distacco dalla
società, stia ora cercando di affrancarsi anche dal diritto. Un’impressione che, da ultimo,
trova conferma nel dibattito sulle riforme istituzionali, dove i principali compromessi politici
sono stati raggiunti tutti a scapito delle ragioni del diritto, delle sue regole di rigore e logica.
Basta pensare al delicato intreccio che tiene unite la riforma elettorale e quella
costituzionale, che rappresenta — a quel che è dato sapere — la base del misterioso
“patto del Nazzareno”. Da un lato le forzature ipermaggioritarie e incostituzionali per
favorire i due principali competitori (il giorno della sottoscrizione del “patto” Renzi e
Berlusconi, oggi non è più così), dall’altro la scelta di non far più eleggere direttamente i
senatori. Quest’accordo politico — peraltro assai precario — ha creato un mostro giuridico.
Com’è noto, infatti, al fine di manifestare il “sostegno” di tutti al complesso delle riforme
proposte, nel corso della discussione alla Camera, è stato deciso (da Pd e FI, ma con il
consenso anche di varie minoranze interne) che l’approvazione delle norme elettorali
dovesse riguardare esclusivamente la Camera, dacché i membri del Senato, dopo la
riforma costituzionale e nel rispetto del “patto”, non saranno più eletti direttamente.
Dal punto di vista politico a me sembra già un’aberrazione: come si può giustificare che
prima di ogni discussione parlamentare, prima ancora della presentazione del disegno di
legge costituzionale in materia, si imponga una scelta obbligata di non elettività della
seconda Camera? I fatti di questi giorni, che hanno rimesso in discussione proprio i criteri
di elettività dei futuri senatori, stanno mostrando il fiato corto di questa così ardita e
apparentemente radicale scelta politica. Ma è sul piano giuridico che si sono prodotti gli
effetti più negativi. Si è venuta, infatti, a determinare una situazione paradossale,
costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge
elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci
troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra
loro totalmente incompatibili che farebbero venir meno le stesse finalità di governabilità
così ardentemente perseguite dalla maggioranza di larghe intese. Quest’esito
palesemente irragionevole e, dunque, incostituzionale non verrebbe meno neppure se, in
seguito, si approvasse una riforma del bicameralismo perfetto, fosse anche la più radicale,
ma che non prevedesse specificatamente l’esclusione dell’elettività diretta di tutti i
senatori.
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Dunque, una blindatura di un patto politico (tra Renzi e Berlusconi) che appare fondato
esclusivamente su fragili interessi politici personali, che si sono rivelati immediatamente
errati: Forza Italia non è più il secondo partito e non può più sperare di sfruttare a suo
vantaggio le distorsioni maggioritarie (non le rimane che sperare nel gioco delle soglie di
accesso per attirare alleati recalcitranti) e il Partito democratico non troverà una sintesi se
non rinnegando il principio della non elettività dei senatori. Quel che rimane è però il
mostriciattolo giuridico — che non sarà facile debellare — che è stato generato da un
accordo senza diritto. Non è questa vicenda un’espressione assai significativa del divorzio
tra le ragioni della politica e le logiche del diritto?
D’altra parte, le fondamenta stesse su cui si sta costruendo l’autonomia della politica dal
diritto sono deboli. Non dovrebbe sfuggire, infatti, che le «decisioni» del potere politico,
alla fine, dovranno tornare a fare i conti con la grande regola dello «stato di diritto». Nel
nostro ordinamento democratico proprio al diritto costituzionale spetta l’«ultima parola».
Nessuno può allora illudersi che un accordo politico – oltretutto contestato — possa
rappresentare un salvacondotto in sede di giudizio di costituzionalità. E l’incostituzionalità
della legge elettorale che si vuole approvare è palese. Non è difficile prevedere sin da ora
la sua sorte ove arrivasse alla Consulta. Ma, ancor prima, c’è da considerare che una
legge fonte di gravi irrazionalità di sistema, inidonea persino a raggiungere l’obiettivo
perseguito della stabilità delle maggioranze parlamentari, foriera pertanto di una possibile
paralisi del sistema politico e parlamentare, che finisce per condizionare molti dei poteri
presidenziali, quello di scioglimento in particolare, è ad alto rischio di non vedere mai la
luce. Non scommetterei, infatti, sulla sua promulgazione da parte del capo dello Stato.
Viene naturale allora interrogarsi sulla ragione di queste forzature. È lo sguardo corto —
sempre più corto, ormai quasi cieco — della politica che spiega le spericolate operazioni
cui stiamo assistendo. Esagerazioni motivate della debolezza in cui versa una politica
arrogante. Quando non si sa cosa fare e non si hanno chiare strategie politiche da
seguire, non si può far altro che alzare la voce per cercare di far valere gli interessi del
momento.
Fragilità della politica che è un carattere dei tempi nostri e sembra non salvare nessuno.
Se valutiamo quel che è successo sull’altro fronte delle riforme istituzionali, quello della
trasformazione del nostro sistema bicamerale, ritroviamo, purtroppo, conferme
drammatiche di come le ragioni della politica ormai non riescano più a conciliarsi con le
logiche del diritto.
Se può dirsi che il dibattito sulla legge elettorale è stato pressoché inesistente e in sede
parlamentare tutte le richieste di cambiamento sono state frustrate, non altrettanto è
avvenuto con riferimento al disegno di legge costituzionale presentato dal governo sulla
trasformazione del Senato. Anzi, com’è noto, alla commissione affari costituzionali il
progetto del governo era a un passo dal fallimento, non avendo trovato il consenso
necessario proprio la richiesta concernente la non elettività diretta dei senatori. Ebbene,
nel vuoto del diritto, è stato possibile assistere ad un colpo di teatro, che ha ottenuto un
consenso politico pressoché unanime. Matteo Renzi, al quale nessuno può negare
capacità spettacolari e velocità di movimento, ha sparigliato, proponendo egli stesso un
sistema di elezione diverso. Ha sostenuto di voler lasciare che ogni Regione possa
stabilire le modalità d’elezione dei propri senatori, aggiungendo che in fondo non c’era da
impiccarsi sulla data di approvazione (ancorché — s’intende — nessuno potesse mettere
in discussione la “velocità” come mito fondante l’immaginario del nuovo governo). Un coro
di consensi ha accompagnato la brillante operazione politica, ed anche i commentatori più
distanti hanno apprezzato l’apertura, mentre solo gli “irriducibili” hanno auspicato ulteriori
aperture.
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Non ho udito nessuno dire quel che a tutti è chiaro: il sistema suggerito non ha nessun
senso giuridico e non potrà mai trovare una sua coerente applicazione. A prendere sul
serio il compromesso politico enunciato — ma non chiarito — dal presidente del consiglio
bisognerebbe ritenere che l’organo senatoriale potrebbe essere composto, del tutto
irrazionalmente, a seguito delle differenti scelte di ogni ente territoriale, magari mettendo
caoticamente assieme elettività diretta e indiretta, rappresentanza istituzionale e popolare.
Ovviamente nessuno ritiene che questo possa essere l’esito. L’ipotesi che circola in
queste ore di non modificare il testo base, ma di affiancargli l’approvazione di un ordine
del giorno di segno opposto, oltre ad essere un’innovazione assai spregiudicata dei
precedenti parlamentari, segnala l’indeterminatezza della proposta, ovvero la sua
impraticabilità costituzionale. Malgrado ciò, si tende ad apprezzare la ragione politica che
ha indotto a fare una proposta di apertura alle opposizioni. Poi si vedrà. Forse si riuscirà in
seguito a dare un senso alla riforma costituzionale che, per ora, un senso non ne ha.
Sono in molti a sostenere che sia questo un atteggiamento pragmatico, politicamente
opportuno in tempi difficili in cui non ci si vuole o può opporre al vento tempestoso e
confuso del cambiamento. Non voglio esprimere giudizi di natura propriamente politica,
ritengo tuttavia, semplicemente, che se il costo dovesse essere rappresentato dalla
negazione della logica del diritto e della costituzione, non credo sia un prezzo che si possa
pagare a nessuna ragione politica.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 6/5/2014 – pag. 22
Stop alle indagini per Di Matteo: “Non è un pm della Dda” Le nuove
regole, in vigore da marzo, non ammettono deroghe
La beffa dell’antimafia una circolare del Csm
azzera il pool di Palermo
SALVO PALAZZOLO
PALERMO - Nino Di Matteo non potrà fare più nuove indagini sulla trattativa fra i vertici
della mafia e pezzi dello Stato. Anche Roberto Tartaglia dovrà fermarsi. E, fra un mese, la
stessa sorte toccherà a Francesco Del Bene. Tira un’aria pesante nelle stanze blindate
della Procura. Il pool di Palermo è praticamente azzerato, resta soltanto il coordinatore del
gruppo, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. È il primo drammatico effetto di una
circolare arrivata dal Consiglio superiore della magistratura il 5 marzo scorso: ordina che
tutti i nuovi fascicoli d’inchiesta sulla mafia debbano essere affidati esclusivamente a chi fa
parte della Dda, la direzione distrettuale. E Di Matteo è formalmente scaduto da quattro
anni, ufficialmente è assegnato al gruppo che si occupa di abusi edilizi. Tartaglia, invece,
non fa ancora parte della Dda. Fino ad oggi, i due magistrati che hanno istruito il processo
in corso a Palermo sono stati solo «applicati» al pool. Il terzo componente del gruppo,
Francesco Del Bene, è l’unico ancora legittimato a fare nuove indagini, ma fino al primo
giugno, poi scadrà anche lui dall’incarico decennale in Dda.
La circolare del Csm spedita a tutte le procure d’Italia è perentoria: nessun nuovo fascicolo
antimafia potrà più essere gestito da chi non fa parte della direzione distrettuale, «salvo
casi eccezionali». E i casi eccezionali sono particolari competenze «nei delitti contro
l’economia, la pubblica amministrazione, la salute e l’ambiente». Oppure, dice il Csm, tutti
i componenti della Dda dovrebbero avere dei carichi di lavoro tali da non poter condurre
più altre indagini.
Così, al procuratore di Palermo Francesco Messineo non è rimasto che fermare una
nuova importante assegnazione a Di Matteo e Tartaglia. Quale, resta un segreto
d’indagine. Ma sembra che riguardi proprio gli sviluppi di una serie di accertamenti fatti in
questi ultimi mesi. Perché, ormai, non è più un mistero che i pm di Palermo hanno
proseguito le indagini sulla trattativa anche dopo l’inizio del processo in Corte d’assise:
l’estate scorsa, si sono presentati con la Dia nelle sedi romane dei servizi segreti per
acquisire una montagna di documentazione. Di recente hanno poi continuato a interrogare
decine di uomini delle istituzioni come testimoni. Il pool di Palermo sta cercando di
chiarire il ruolo della misteriosa Falange Armata, la sigla che rivendicava gli attentati del
1992-1993 ai centralini delle agenzie di stampa. E sembra che alcuni nomi su cui indagare
siano saltati fuori. Ma su questi nomi Di Matteo e Tartaglia non potranno fare alcuna
indagine, anche se sono stati loro a individuarli nella giungla dei misteri che ancora
restano. La circolare del Csm non ammette deroghe. Non importa che un gruppo di
magistrati abbia acquisito una competenza unica. Non importa che le indagini offrano
nuovi spunti di approfondimento, e relative iscrizioni nel registro degli indagati. Perché,
intanto, quella misteriosa sigla della “Falange armata” è ricomparsa, in una lettera
minacciosa spedita in carcere al boss Totò Riina dopo la pubblicazione sui giornali delle
sue intercettazioni all’ora d’aria. «Chiudi la bocca, ricordati che hai famiglia», gli hanno
scritto.
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Alla Procura di Palermo nessuno ha voglia di commentare. Ma il malumore cresce. Anche
perché l’effetto tagliola è arrivato per tutte le indagini antimafia, che vedevano applicati
diversi pm della procura ordinaria. Qualcuno sta già pensando di scrivere al Csm, per
porre ufficialmente il caso.
del 06/05/14, pag. 5
«I beni confiscati aumentano
La riforma per gestirli meglio»
MASSIMO SOLANI
Filippo Bubbico «Si dice chele stesse aziende in mano alla mafia
producono lavoro e in mano allo Stato falliscono È un teorema da
ribaltare con norme aggiornate»
«È una rivoluzione sì, ma visto il mio ruolo devo necessariamente essere più prudente.
Diciamo che è arrivato il momento di cambiare passo e che spero si riesca a farlo presto
con il contributo di tutti». Il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico lavora da mesi al
progetto di revisione della normativa sul tema dei beni confiscati e oggi quel suo lavoro
può finalmente vedere la luce con l’arrivo in Consiglio dei ministri del disegno di legge
intitolato «Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni
illeciti» in cui, fra le altre cose,sono previsti l’inasprimento delle pene previste per il 416bis
e l’introduzione del reato di autoricilaggio.
Da cosa nasce l’esigenza di questo cambio di passo?
«Negli ultimi anni abbiamo assistito a un grandissimo aumento dei sequestri e delle
confische mafiose e la grande fecondità di quella legge straordinaria ci ha dimostrato
l’efficacia di uno strumento diventato fondamentale nel combattere la criminalità
organizzata e le diverse mafie. La capacità dei sodalizi criminali di tallonare l’economia
legale e condizionarla, però, rende ancora più rilevante il tema degli strumenti che noi
mettiamo a disposizione per restituire alla dimensione collettiva e alla funzione di produrre
utilità pubbliche i beni sequestrati e confiscati. Che sono cresciuti nel corso del tempo e
cresceranno ancora di più perché la pervasività del sistema criminale nel campo
economico è sotto gli occhi di tutti».
Diciamo che la legge Rognoni-LaTorre, dopo anni di grande efficacia aveva bisogno
di qualche aggiustamento?
«Quello straordinario strumento voluto da Pio La Torre e Virginio Rognoni ha dimostrato la
sua efficacia, però non possiamo non ammettere che oggi ci troviamo di fronte alla
necessità di aggiornare quell’impianto normativo. Se un tempo si riteneva sufficiente
restituire alla funzione sociale i beni confiscati oggi proprio la mutata natura dei beni
confiscati ci pone un problema diverso: cresce il numero di aziende che vengono
sequestrate e confiscate e cresce in maniera significativa il valore dei patrimoni
confiscati».
Non solo«la roba», ma sempre più imprese con centinaia di lavoratori. Aziende che,
troppo spesso, non sopravvivono all’impatto con l’economia legale dopo il
sequestro e la confisca.
«Finora purtroppo non siamo stati capaci Di reagire rispetto ad un teorema che metteva
fuori gioco lo Stato. In molte situazioni, soprattutto in territori di crisi, le conseguenze
dell’azione penale dicevano che le stesse aziende in mano alle mafie creavano lavoro,
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mentre in mano allo Stato producevano licenziamenti. Dobbiamo sconfiggere questo
teorema».
Il disegno di legge insiste molto su questo. Con quali nuovi strumenti?
«Puntiamo a mettere in campo un nuovo modello di governo anche imparando dagli errori.
Non possiamo continuare a pensare che le amministrazioni giudiziarie proseguano per un
tempo indeterminato o che le funzioni di amministratore giudiziario si assommino in
maniera cumulativa in capo agli stessi soggetti. Proprio per la rilevanza economica e
sociale che quelle aziende confiscate esprimono in molte realtà è necessario che lo Stato
metta in campo il meglio delle sue professionalità e competenze di natura gestionale
prestando a ciascuna di queste aziende il massimo dell’attenzione».
Va letta in quest’ottica anche la riorganizzazione dell’agenzia per i beni confiscati
contenuta nel testo?
«Che l’agenzia abbia sede a Reggio Calabria non ha senso: l’agenzia deve avere la
capacità di gestire processi complessi interfacciandosi con le altre strutture dello Stato e
interagendo con le altre componenti interessate dal processo di sequestro e confisca dei
beni. Deve insomma agire in via diretta nel rapporto con le altre amministrazioni: per
questo il nostro progetto prevede una sede unica a Roma e l’utilizzo delle prefetture per
esplicitare localmente la propria funzione».
Nel testo ci sono anche interventi di sostegno per gli enti locali sciolti per
infiltrazioni
mafiose. L’ottica è quella di sostenerli nel loro percorso di rientro nella legalità?
«Non possiamo permettere che gli amministratori locali siano ancora lasciati soli, perché
più sono esposti ai condizionamenti e alle minacce e più sono fragili. Il sindaco è visto
sempre più come dominus, i consigli comunali sono sempre più svuotati di poteri ed è il
primo cittadino a nominare i dirigenti. Per questo il sindaco rischia di essere visto come
una figura monocratica che volendo può assecondare gli interessi di chi ha la forza di
imporsi. E accade troppo spesso che, pur non essendoci complicità, manchi
semplicemente la forza di opporsi a questi fenomeni. Noi dobbiamo introdurre meccanismi
di irrobustimento delle funzioni pubbliche ridando senso ai consigli comunali e al dibattito
pubblico, in modo da mettere in campo gli interessi contrapposti e validare così le scelte
che più rispondono alla tutela dell’interesse generale. Le amministrazioni sciolte per
inflitrazioni devono essere accompagnate e sostenute verso un esercizio legale delle
proprie funzioni».
Dopo un lavoro di mesi,iniziato con lo scorso governo in cui lei aveva la delega per i
beni confiscati, adesso il disegno di legge può finalmente vedere il traguardo.
Quando potrà essere approvato dal consiglio dei ministri?
«Io mi auguro che accada già domani (oggi ndr), in modo che si possa avviare al più
presto possibile il suo iter parlamentare. Nel frattempo, dopo la pubblicazione dei risultati
del lavoro delle commissioni Garofoli e Fiandaca, la commissione Antimafia guidata dalla
presidente Bindi ha concentrato su questo tema gran parte del suo lavoro recente. Per
questo sono convinto che l’impostazione del governo sarà confermata e arricchita durante
il lavoro parlamentare».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 06/05/14, pag. 13
Profughi a Milano, una tappa per
scappare altrove
ORESTE PIVETTA
Tra la Stazione centrale E le vie dei Promessi Sposi in scena una
tragedia umana su cui speculano leghisti e razzisti. Ma gli «invasori»
non sono venuti per restare
Accanto agli ultimi grattacieli a specchio, alle ultime enclave extralusso, accanto ai progetti
dell’Expo, Milano è anche questa: i quartieri popolari, gli autobus che a qualsiasi ora del
giorno e della notte ospitano un’umanità varia nel senso delle provenienze, delle
generazioni, accomunata da un’unica povertà, gli accampamenti dei rom, gli homeless
sdraiati tra i cartoni al riparo di un portico, molte altre vite ancora, e, infine, per ultimi, i
siriani accampati nei mezzanini della Stazione centrale o vaganti, attorno, alla ricerca di
qualcosa che consenta di vivere e, magari, di sperare, quei siriani profughi di guerra che
offendono la sensibilità del segretario della Lega Matteo Salvini. Se si riflette un attimo, se
si pensa al passato, nulla di nuovo: il mondo è stato da sempre teatro di grandi migrazioni
con le loro vittime e con pochi fortunati capaci di trarne vantaggio, l’Europa lo è stata in
modo massiccio, clamoroso, alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia per un secolo,
dal suo accesso alla cosiddetta modernità, pagato con l’emigrazione verso le Americhe e
altre parti del mondo di milioni di persone, e, poi, nel dopoguerra, con la diaspora dei
nostri profughi dell’Istria e con quella dei contadini futuri operai verso i capoluoghi del
triangolo industriale, Torino, Milano, Genova. La sofferenza non è uno spettacolo se non
per i sadici. Il segretario leghista che visita da voyeur la Stazione centrale e che indica
donne, uomini e bambini come un «biglietto da visita »non possiede la nozione della
complessità della società contemporanea e coltiva l’idea tutta elettorale di piccole patrie
che non comunicano, chiuse nel loro benessere( quando c’è il benessere),come se
potesse sopravvivere un «nord» benestante, sicuro, felice,a prescindere dal resto
dell’Italia e dell’Europa. Coltiva cinicamente la sconfitta e la propaganda come la via
d’uscita, parlando al suo impaurito popolo, che crede di difendersi elencando nemici per il
presente più che progettando il futuro. Milano è un’altra Lampedusa meno appariscente,
meno dolorosa. Qui approda chi la parte del suo viaggio più pericolosa l’ha superata: non
annegherà, non morirà di fame e di sete sdraiato in fondo ad un barcone alla deriva sotto il
sole. A Milano potrà continuare immaginare la sua esistenza altrove, in Germania, in
Francia, al Nord, le mete più desiderate, dove anche i più disperati sanno di poter trovare
non una misericordiosa assistenza, ma un sistema del welfare severo ma efficace, strade
verso l’inserimento in una società nuova, un lavoro. Sanno tutti, anche chi viene dalla Siria
bombardata, che in Italia la crisi economica è più grave che in altri paesi d’Europa, che
l’accoglienza è più difficile, che una occupazione per quanto di basso profilo è più lontana.
Se ne vogliono andare al più presto. Il ministro Alfano lo ha riconosciuto,con una singolare
sottolineatura: procedure più rapide di espatrio per chi vuole lasciare l’Italia, «cioè tutti».
Alcuni luoghi di Milano,la Stazione centrale e le vie attorno, sono segnati non da una
invasione ma da una attesa: da persone, cioè, che attendono l’opportunità per andare
oltre, non vogliono fermarsi, vogliono proseguire il loro cammino e intanto campano, sotto
un tetto qualsiasi e in attesa di un pasto caldo, in coda nei portici di ciò che resta di un
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antico edificio che ospitò gli appestati dei «Promessi sposi» manzoniani, il Lazzaretto,
senza dover temere una bomba sulla testa o una pallottola o, persino, un gas asfissiante.
Questa è la realtà: Siria, Sudan, Egitto, Libia, Iraq, Afghanistan, eccetera eccetera,
Ucraina chissà… È da imbecilli non provare a capire quanto possa essere naturale il
desiderio di fuggire… «Aiutarli a casa loro», vecchio slogan del cosiddetto «carroccio», dai
tempi di Bossi, è una banalità. La guerra chiude la strada a strategie che implicano la
lentezza della politica, anche quando sia manifesta la volontà della politica.
NESSUNO TSUNAMI
Poi esiste la verità dei numeri: secondo l’assessore al welfare Pier Francesco Majorino, da
ottobre ad oggi Milano avrebbe dato aiuto a cinquemila immigrati, un quarto bambini,
l’ottanta per cento giovani sotto i 35 anni, dal 2 maggio sarebbero arrivati settecento
siriani. Si capiscono le difficoltà del Comune di Milano, provato datagli,da pesanti eredità e
adesso dall’urgenza dell’intervento. Settecento persone per un paese come l’Italia e per
una città come Milano non fanno però uno tsunami, immagine cara alla Lega. Non sono il
pubblico neppure di una partita di serie C. Possono colpire solo la fantasia di chi rifiuta di
credere che ogni grande città, a New York a Parigi, da Londra a Berlino, vive da decenni
di una mescolanza assoluta: in fondo solo ora la percentuale degli immigrati sulla
popolazione italiana sta sfiorando le percentuali che Francia, Germania o Regno Unito
hanno conosciuto negli anni ottanta. Il ministro Alfano, replicando all’assessore Majorino
che reclamava un sostegno più forte da parte del governo, «fatti dopo le parole», ha
negato l’esistenza di un’emergenza immigrazione. Una bella notizia. Da vent’anni, da
quando i primi immigrati si affacciarono in numero considerevole sulle coste italiane
(cominciarono i vu’ cumprà sulle spiagge emiliane), si recita invece la litania della
«emergenza». Un’emergenza«ventennale» è un non senso e a questo punto l’Italia e
soprattutto l’Europa avrebbero dovuto garantirsi pratiche adeguate a fronteggiare un
fenomeno che è ormai qualcosa che appartiene alla consuetudine. Non ci sono alternative
e non sono alternative gli «sbarramenti» invocati dalla Lega (strano che nessuno abbia più
evocati i bombardamenti sui gommoni in mezzo al Marenostrum, come fecero i vari Maroni
e Borghezio). Una lunga esperienza ormai ha dimostrato quanto qualsiasi frontiera sia
permeabile. Una breccia ha scalfito, fino a farlo crollare, anche il muro di Berlino. Ma
soprattutto è fragile la convinzione che una gabbia serva a chi sta dentro contro chi è fuori:
se mai è vero l’opposto, una società multipla è utile a tutti, se la politica funziona. Anche
quando semplicemente si offre un piatto di minestra calda e una coperta: il volontariato (e
in particolare quello cattolico e, a Milano, della Caritas) non solo ha scongiurato il peggio
nei momenti più duri ma è sempre la prova di un dinamismo, di una cultura, di una vitalità,
di un protagonismo che nella nostra comunità, divisa tra astensionismo e protesta,
sembrano smarriti. Milano s’appresta alla «celebrazione » dell’Expo, tra un anno. Milioni di
investimenti e milioni (come si augurano gli organizzatori) di visitatori per discutere di un
nobilissimo argomento: nutrire il pianeta. Intanto cominciamo a nutrire alcune centinaia di
siriani, pronti peraltro a salutarci.
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SOCIETA’
Del 6/5/2014 – pag. 1-29
L’ANALISI
I violenti di famiglia
EMANUELA AUDISIO
L’ITALIA si è incurvata. Da tempo. Guarda, assiste, subisce. Dovrebbe non giocare più,
non a queste condizioni. Invece si volta dall’altra parte, fa passare la nottata, e il giorno
dopo piange e si lamenta.
I CATTIVI le hanno fatto male.
Cosa si fa? I vertici sportivi (Giancarlo Abete, Federcalcio, Maurizio Beretta, Lega di serie
A e i loro predecessori) preoccupati solo delle poltrone e di non assumersi un minimo di
responsabilità fanno la faccia triste, misurano distanze, diventano sociologi: «È la società
ad essere violenta, gli incidenti sono avvenuti fuori dallo stadio». In pratica: noi non
c’entriamo. Culturalmente chi amministra lo sport è colpevole di ignavia. Il tifoso è un
appassionato che sbaglia, anzi che esagera, non un delinquente. Va capito, e dai, vuol
bene alla squadra. I dirigenti del calcio che ora fanno le vittime, lo sono eccome. Ma di se
stessi, della loro vigliaccheria: mai una reazione in tutti questi anni in cui bruciavano treni,
quartieri venivano devastati, e negli stadi entrava di tutto: motorini, svastiche, asce, odio,
criminali. Solo in Sudamerica e in qualche paese sottosviluppato c’è la stessa situazione.
In America appena un proprietario di una squadra di basket (i Clippers) ha parlato con toni
razzisti dei neri, la Lega lo ha squalificato a vita. Spendeva miliardi, eppure è stato
cacciato. In Italia il calcio (campione del mondo nel 2006) non si è mai dato una casa
degna, si è sempre accontentato della sua pochezza. Stadi vecchi, che invitano ad essere
bestie dietro al recinto, non spettatori. Dove le bestie ultrà imprigionano il paese che alza
le mani, si arrende, e tratta: vi cediamo il comando, ma non esagerate. Come dire ai
banditi: questa è la banca, prendete solo quello che vi serve. In questo momento, secondo
la classificazione Uefa, in Italia non c’è un solo stadio di categoria élite, ce ne sono quattro
a 4 stelle.
In Germania invece 12 sono di élite e 10 a quattro stelle. Sarà proprio un caso che
Guardiola è andato ad allenare lì? I nostri ormai sono stadi spettrali. Un territorio nemico,
dove basta una sciarpa sbagliata e ti accoltellano.
Poi c’è lo Stato, le forze dell’ordine. Lo Stato ha sempre considerato gli ultrà come un
fuoco amico. Dagli orari regolari. Per questo comodo. Ne conosce gli appartenenti e il
territorio in cui si muovono. Mentre la violenza sociale e politica viene repressa, quella da
stadio viene sopportata. È a tempo. Controllabile. Non sono nemici dello Stato, solo
dementi che giocano a fare la guerra, pericolosi nella loro feroce ignoranza. Che se la
sbrighino tra curve, facciano i conti tra di loro, noi stiamo a guardare. Trattino, così si
calmano, e si evitano guai peggiori. Questo è il patto, che la polizia agevola. Voi rapinate
la banca senza sparare, e noi non vi inseguiamo. Non è una politica, è una resa di
autorità. Ultrà e capitani si parlano, poi decidono i teppisti. Gli allenatori che se ne devono
andare (Giampaolo a Brescia), se si deve giocare (finale Coppa Italia, derby Lazio-Roma).
Genny ‘a Carogna è il leader di un pezzo indipendente delle Curve d’Italia. Ivan il terribile
Bogdanov, capo ultrà che nell’ottobre 2010 a Genova decise di far sospendere ItaliaSerbia, fu arrestato, Genny invece è tornato a casa. Non è uno straniero, ma uno di
famiglia, una controparte. All’estero il calcio è bello da guardare, riesce perfino a fare
ironia su una banana razzista. In Italia fa schifo, soprattutto perché nessuno ha voglia di
giocare seriamente.
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Del 6/5/2014 – pag. 2
LA GIORNATA
Napolitano e Renzi “I club rompano con i
facinorosi”
Il premier: le squadre paghino la sicurezza Il Coni: “I vertici del calcio
hanno fatto poco”
FABIO TONACCI
ROMA - «Non bisogna trattare con i facinorosi — dice il Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano — le società calcistiche rompano i legami con questi aggregati che
vengono chiamate tifoserie». Due giorni dopo i fatti della Coppa Italia, la sparatoria prima
della partita, poi la trattativa o presunta tale con il capo dei Mastiff napoletani Genny ‘a
carogna, lo Stato reagisce. E lo fa con i suoi massimi vertici.
Napolitano parla dall’Auditorium di Roma, durante una mostra sulla Nazionale: «Quanto
abbiamo visto è il segno di una crisi morale, di valori e di comportamenti». E poi: «Sono
vicino alla vedova Raciti, come tutti gli italiani onesti». Il premier Matteo Renzi, che era
all’Olimpico sabato scorso, sceglie il salotto di Porta a Porta per dire che «le istituzioni non
lasciano il calcio a Genny a’carogna». E però, nel sottolineare come «parlare con gli ultras
sia stato un errore», di fatto ha ammesso che un qualche dialogo con i capi ultras c’è
stato.
Polemiche a parte («è scandaloso usarle a fini elettorali, siamo circondati da sciacalli che
si buttano per lucrare due voti», ha ribadito il premier), il governo ha annunciato che tra
giugno e agosto saranno convocate le società di calcio per introdurre un nuovo principio:
«Dovranno prendersi cura del pagamento dell’ordine pubblico durante le manifestazioni».
Per ora si ragiona sul breve termine. Il Viminale sta lavorando a un provvedimento, che
potrebbe approdare al Consiglio dei ministri già la prossima settimana: prevede che il
Daspo (il provvedimento che impedisce ai violenti di entrare negli stadi) venga raddoppiato
per i recidivi, aumentando i reati per i quali si può applicare. Misure che andranno ad
aggiungersi a quelle elaborate dalla task force composta da esperti dell’Interno («Va
rilanciata l’idea del Daspo a vita», sostiene il ministro Alfano) e del mondo del calcio che
partiranno in via sperimentale all’inizio del prossimo campionato. Sul caso è intervenuto
anche il presidente del Coni Giovanni Malagò: «È imbarazzante la reiterazione di quello
che avviene negli stadi: significa che o non si è fatto nulla o lo si è fatto male».
Intanto migliorano le condizioni di Ciro Esposito, il giovane napoletano ferito alla colonna
vertebrale. È piantonato al Policlinico Gemelli, perché da ieri è in stato di fermo con
l’accusa di rissa. «Mio figlio rischia la vita perché gli hanno sparato — si arrabbia la
mamma, Antonella Leardi — e scopro che viene trattato come un delinquente».
del 06/05/14, pag. 39
Una madre e il figlio sull’asfalto
Il dramma di Federico Aldrovandi e della giustizia a lungo negata
Corrado Stajano
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C’è una frase a pagina 114 di Una sola stella nel firmamento che fa sobbalzare: «Non
sapevo di avere tutto quel coraggio». Sono di Patrizia Moretti queste parole, nel libro
pubblicato dal Saggiatore, scritto con Francesca Avon. Patrizia Moretti è la mamma di
Federico Aldrovandi, il ragazzo di 18 anni ucciso con ferocia dalla polizia il 25 settembre
2005 a Ferrara; Francesca Avon è una psicanalista junghiana. Davvero una madre
coraggio, Patrizia. Che cosa c’è di più atroce della morte di un giovane figlio? Non si
rassegna mai, si batte, lotta allo spasimo, vuol sapere, vuole sia fatta giustizia per quelli
che hanno distrutto il suo mondo. Il libro è terribile, bellissimo — se si può usare questo
superlativo per una storia così atroce — prende la gola, è angosciante, indigna, fa
comprendere com’è importante la serenità del vivere. La legge deve essere veramente
uguale per tutti, rispettata soprattutto da chi ha il dovere di farla rispettare. Una sola stella
nel firmamento, che ha per sottotitolo Io e mio figlio Federico Aldrovandi, è una dolorosa
introspezione, ma è anche il ritratto di una famiglia, di una città, di una società, della vita di
provincia, del modo di pensare di oggi, dei conformismi, delle ipocrisie, dell’Italia peggiore
e anche dell’Italia migliore, degli amici che si perdono quando esplode una tragedia che
divide una comunità e degli amici nuovi, uomini, donne, ragazzi che sembrano uscire
allora dalle catacombe e sono le energie positive che esistono nel Paese. Il libro è anche
una rappresentazione degli uomini di potere, il vescovo assente, lontano dal Cristo morto,
dimentico anche che lì fuori dal portone del suo palazzo c’è il monumento di Savonarola
che nacque proprio a Ferrara; e poi, tra gli altri, il questore che difende contro ogni regola
dei codici e dell’umanità i suoi uomini indifendibili. (Poi, nel 2006, paga bugie e omissioni.
Giuliano Amato, ministro degli Interni del secondo governo Prodi, ordina una doverosa
inchiesta e dopo una settimana gli fa far le valigie). Ci sono anche i giornalisti cinici, altro
che quarto potere, pavidi, subalterni: la questura, la procura sono sacre, come possono
mettersi contro in una città di provincia. La giustizia, all’inizio, è come imballata, la procura
non fa ciò che le compete, non requisisce neppure i due manganelli rotti dai poliziotti sul
corpo di quel povero ragazzo. Il tribunale poi si riscatta, lo Stato, alla lunga, ha il coraggio
di processare se stesso. E i quattro poliziotti assassini delle pattuglie Alfa 2 e Alfa 3 della
questura di Ferrara vengono condannati, anche se seguitano a indossare la divisa. Le
sentenze, confermate nei tre gradi di giudizio — dal 2007 al 2012 — stabiliscono per quel
gruppetto tre anni e sei mesi di reclusione, eccesso colposo in omicidio colposo. Che cosa
è successo in quella città piena di grazia in una sera di fine estate? Bisogna dimenticare la
Ferrara letteraria, gli ippogrifi ariosteschi, la suggestione dei luoghi, le mura degli Angeli,
l’Addizione Erculea, il club Marfisa d’Este, Micol, l’inquieta e misteriosa protagonista del
Giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani. È una storia soltanto fosca a troncare la
giovinezza di Federico Aldrovandi. Quella sera del 24 settembre, con gli amici, va a
Bologna, al Link, un centro sociale dove è in programma un concerto di musica reggae. Il
concerto è stato annullato, Federico e gli amici restano, ballano, scherzano, si divertono,
bevono qualche boccale di birra, non sono ubriachi quando tornano a casa verso le cinque
del mattino. Federico si fa lasciare un po’ lontano da casa, vuole sgranchirsi le gambe,
smaltire quel che ha bevuto. Poi il buio, anche se è l’alba. Federico viene massacrato di
botte su tutto il corpo, brutalizzato coi manganelli che si spaccano, colpito dalla testa ai
piedi da quattro poliziotti tra cui una donna che non si risparmia. Il ragazzo si difende con
durezza, è alto, robusto, i quattro lo rivoltano, il torace all’ingiù, lo calpestano
selvaggiamente schiacciandolo con gli scarponi anche quando riescono a ammanettarlo.
Le immagini dell’autopsia sono impressionanti. Disseminate sul corpo ha 54 lesioni, grandi
e piccole. «Figlio mio che cosa ti hanno fatto». Per quasi cinque ore, dalle 6.15 alle 11, il
cadavere di Federico resta sull’asfalto, vicino al cancello del galoppatoio. Comincia il
carosello delle nequizie, delle ambiguità, della paura. Nessuno ha visto, nessuno ha
sentito. Come a Orgosolo, come a San Luca. La polizia va subito casa per casa nel
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vicinato, vuole accertarsi se qualcuno sa di quel feroce pestaggio. Tutti, quel mattino,
negano, impauriti dalle divise. La tesi ufficiale è che Federico Aldrovandi — sfigurato,
irriconoscibile — è morto per una overdose. Nessuno l’ha toccato, dice il questore. La
versione poliziesca non è credibile. Perché contro quel ragazzo è stato usato tanto odio?
Ha visto qualcosa che non doveva vedere mentre camminava tranquillo verso casa?
Federico non è un eroinomane. Qualche pastiglia, non di più. Nel sangue gli è stato
trovato un quantitativo insignificante di Ketamina che, secondo i periti, provoca
depressione, non agitazione, violenza. Patrizia Moretti non dà requie, scrive lettere ai
politici, ai magistrati, fa appelli, respinge con forza le calunnie, gli sciacallaggi messi in
moto dai colpevoli e dai loro protettori, subisce minacce, querele, intimidazioni. Mette a
**** il suo cuore in nome del figlio. È una donna da tragedia greca. Alla ricerca della verità,
sa usare gli strumenti d’oggi. Il 2 gennaio 2006 nasce il blog dedicato a Federico
Aldrovandi. In una lunga lettera racconta quel che è successo. Il mondo della Rete sembra
impazzito, un’esplosione. Il blog è il più cliccato dell’intero Paese, i pavidi giornalisti si
incuriosiscono. Crea emozione quella madre disperata: «Come possono dormire la notte?
Non hanno una coscienza?». Gli assassini si difendono, malamente, vergognosamente:
233 poliziotti firmano un documento di solidarietà con i colleghi. Poi salta fuori una
testimone che in quella maledetta alba ha visto tutto e ora ha il coraggio di parlare. Il
processo di primo grado dura due anni ed è doloroso per Patrizia vedere quegli uomini
grossi, corpacciuti, dal viso banale, che le hanno ucciso il figlio. La verità salta fuori.
Federico «è morto per le percosse subìte e non a causa degli stupefacenti e di un bad trip,
come hanno continuato a ripetere gli imputati e i loro avvocati». «Mele marce », viene
detto, «schegge impazzite». Quelli che fanno il loro dovere sono la maggioranza. Si sa.
Ma dall’assassinio di Franco Serantini, Pisa 1972, alla mattanza della scuola Diaz e di
Bolzaneto, Genova 2001, alla morte di Stefano Cucchi, Roma 2009, gli episodi atroci sono
tanti, troppi, fino a ieri. Qual è l’educazione civile, politica, militare che viene impartita nelle
caserme? A pagina 149 del suo libro, Patrizia Moretti scrive: «Mi chiedo se finirà mai
questa complicità fra poliziotti». Profetica. Quel che è appena successo a Rimini, quei
sinistri applausi fuorilegge — contro una sentenza definitiva dello Stato — sembra la
figurazione di un passato che non passa. I poliziotti plaudenti del sindacato SAP che
indossano la divisa si comporterebbero con un ragazzo innocente come i loro colleghi
delle pattuglie Alfa 2 e Alfa 3 della Questura di Ferrara?
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INFORMAZIONE
del 06/05/14, pag. 5
Rai Way, gli interessi e i misteri dietro il no di
Gasparri
Vittorio Emiliani
SU L’UNITÀ DI MARTEDÌ 29 APRILE CARLO ROGNONI, COME me EX MEMBRO,IN
EPOCA DIVERSA,DEL CDA RAI, torna sul tema della vendita, ora nuovamente attuale, di
Rai Way,la società delle torri di trasmissione. Notando giustamente che nel 2001 la
vendita di una quota(il49%)agli americani di Crown Castle non avvenne, come avverrebbe
adesso, per tamponare i buchi di un bilancio all’epoca solido,ma per realizzare
investimenti e rafforzare la rete. Forse però è utile e istruttivo spiegare cosa accadde
allora. Intanto va detto che l’intesa Rai-Crown Castle era stata perfezionata il 27 aprile
2001, nel nuovo CdA erano presenti i rappresentanti Usa e, poco dopo, il primo business
plan della società prevedeva utili consistenti. Il socio texano - fatto fondamentale - aveva
già versato i 724 miliardi di lire (al netto di tasse e imposte) destinati alla Rai presso la
Chase Manhattan Bank.IlSole-24Oreealtri giornali economici avevano positivamente
valutato l’accordo. Nelmesediaprile2001erastata firmata Pure una pre-intesa con Poste
Italiane il cui ad Passera riteneva l’operazione così interessante sul piano strategico da
chiedere di entrare con una quota di minoranza fra il 5 e il 20% della Nuova Rai Way. La
cessionedel49%diRaiWay- tecnicamente trattata da Claudio Cappon, prima vice e poi
direttore generale - aveva per noi due fini primari: a) procedere sulla strada dell’apertura ai
privati (il governo Blair aveva ceduto addirittura il 100% degli impianti alla stessa Crown
Castle); b)destinare le risorse straordinarie non alla gestione ordinaria bensì a investimenti
strutturali, come il digitale terrestre. I724miliardi ricavati costituivano un «volano»
fondamentale per la Rai nella competizione con Mediaset. Quei 724 miliardi erano una
bella fetta aggiuntiva per un bilancio Rai allora sui 5.000 miliardi di lire (50% canone- 50%
pubblicità). Purtroppo alle soglie di nuove elezioni politiche (maggio 2001) il ministro delle
Telecomunicazioni nel governo Amato, Salvatore Cardinale, ex Ccd e Udeur, «non se la
sentì» di esprimere la propria «presa d’atto» (di ciò si trattava) all’accordo già operante.
Un comportamento che pesò in modo decisivo sulle sorti della Rai. Le elezioni le vinse
Berlusconi e fra Quel suo successo e l’ingresso del fido Maurizio Gasparri alle
Telecomunicazioni ci fu la tragedia delle Twin Towers, con una crisi economica che
rendeva ancor più oneroso per Crown Castle quell’accordo. Al nostro CdA Gasparri non
indirizzò nemmeno un biglietto. Mentre scrisse al presidente di Crown Castle, John P.
Kelly, una lettera. Con quali contenuti? Per quali ragioni? Non lo ha mai reso noto. Si
conosce invece la lettera con la quale il 22 ottobre John P. Kelly, presidente di Crown
Castle, rispose alla lettera (ripeto, sin qui sconosciuta) del ministro italiano. L’Adn-Kronos
infatti ne pubblicò stralci. In uno Kelly esprimeva «il rammarico che eventi sopravvenuti e
imprevedibili, nonché considerazioni di carattere strategico, impongano a codesto
Ministero un riesame di merito del contratto stipulato da Crown Castle con Rai il 27
aprile». Dunque fu Gasparri, palesemente, e non il socio texano, a prospettare
contraccolpi così drammatici da portare a un «riesame» (che vuol dire bocciatura)
dell’intesa. Perché ? Dopo l’11 settembre temeva che la società fra la Tv italiana e una
società Usa non fosse affidabile per ragioni «strategiche»? Forse Gasparri paventava
infiltrazioni terroristiche in Crown Castle? Semplicemente ridicolo. Egli ha sempre
sostenuto che il suo «no» all’intesa si fondava su di un pilastro: il vertice Rai aveva
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«svenduto» agli americani il 49% di Rai Way. Cifre alla mano, si tratta di una balla
colossale. Dopo la bocciatura (intesa a «gambizzare» la Rai), Gasparri proclamò infatti
che avrebbe trovato lui soci molto più ricchi e generosi per Rai Way: un’altra bufala. Li
cercò?Non se ne ha notizia. Certo non li trovò. Per alcune dichiarazioni offensive in
margine alla vicenda di Rai Way il ministro Gasparri e l’allora portavoce di Alleanza
Nazionale, l’onorevole Alessio Butti, vennero querelati da Roberto Zaccaria e da me . Ma
si protessero con lo scudo della «insindacabilità». Perché il ministro, in particolare, ha
rifiutato l’aula giudiziaria? Per non dover spiegare retroscena imbarazzanti della bocciatura
inflitta a un accordo tanto vantaggioso? Per non dover magari esibire la sua famosa lettera
a Crown Castle, con cui - a quanto fa capire il presidente Kelly - stese un tappeto rosso
alla velocissima uscita dei texani dall’alleanza con Rai? La sola
cosacertaèchequei724miliardi di lire netti del 2001 per il 49% di Rai Way esistevano
concretamente,erano stati già versati alla Chase Manhattan Bank in attesa dell’ok
definitivo (una semplice presa d’atto) del ministro. Il loro ritorno nelle casse della società
texana penalizzò pesantemente la Rai nella competizione con Mediaset sul digitale
terrestre, accelerato da Gasparri nel momento in cui la Rai non aveva i capitali del
concorrente Mediaset per i contenuti. Poi sarebbero venuti la legge Gasparri tutta a favore
di Berlusconi e di uno stretto rapporto Rai-governo, il SIC, l’imposizione per Viale Mazzini
discendere dalla piattaforma satellitare Sky e altro ancora. Che spiega almeno in parte la
zona grigia in cui è finita la Rai.
Del 6/5/2014 – pag. 15
Sky lancia un sistema di rilevamento degli ascolti Misura anche tablet e
online, faro sui social network
“Ecco il mio auditel” Rupert Murdoch sfida la tv
italiana
ALDO FONTANAROSA
ROMA - Nei suoi undici anni di vita, Sky Italia ha messo in piedi le sedi di Roma e Milano,
il bouquet dei canali, le redazioni, le fiction. Ed ora ha anche un sistema di rilevamento
degli ascolti tv. Sky Italia, insomma, si è fatta un suo Auditel che entra in diretta frontale
competizione con l’Auditel ufficiale. A fine aprile, ambasciatori di Sky Italia hanno fatto
visita a due parlamentari di alto rango (uno di maggioranza e uno di opposizione) per
raccontare in anteprima dello “Smart Panel”, come è stato ribattezzato il nuovo misuratore
degli share. Una creatura recente.
Da fine 2013, in segretezza, la pay-tv di Rupert Murdoch ha contattato 10 mila famiglie,
tutte con abbonamento Sky, e ne ha già reclutate 5000 per il suo “gruppo di ascolto” (le
altre 5000 arriveranno entro l’estate). In un giorno medio di aprile scorso, l’Auditel ufficiale
ha monitorato 5 mila 127 nuclei familiari (di cui 1039 abbonati a Sky). Ora Sky, per
ottenere dati a suo dire più precisi sulle scelte dei propri clienti, sta creando un universo,
un insieme dieci volte più grande. Queste 10 mila famiglie avranno in casa un decoder di
Sky: per il 76% ad alta definizione, per il 24 in bassa, così da riprodurre la situazione reale
della platea di abbonati. E sul decoder ecco la scatolina “meter” che comincia a dire, già in
queste ore, che cosa le persone guardano, quando e come.
“Smart Panel” – altra novità - monitora le visioni in mobilità. Intercetta cioè le persone che
seguono una partita, la Formula 1, il motomondiale, un telegiornale sullo smartphone o sul
tablet (grazie all’opzione Sky Go che a gennaio avevano scelto in 2 milioni). “Smart
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Panel”, ancora, fotografa la visione dei programmi via Internet: conteggia il ragazzo che
scarica un film con Sky Online (senza abbonamento); oppure il vecchio abbonato che
collega il decoder alla Rete per downlodare una serie tv. E l’Auditel ufficiale, invece?
Includerà nel suo radar le visioni in mobilità in un futuro, oggi fa delle sperimentazioni.
Sempre l’Auditel tiene conto dei programmi registrati o scaricati sul decoder Sky; ma fissa
una condizione per conteggiarli: la visione in differita deve avvenire entro una settimana
dalla messa in onda in diretta del programma.
C’è poi la frontiera di Twitter, di Facebook, delle app. “Smart Panel” tenterà di capire il
grado di coinvolgimento emotivo di uno spettatore valutando se ha in mano un “secondo
schermo” come uno smartphone (mentre guarda la tv); e se lo utilizza per fare qualcosa in
Internet. Qualcosa di riconducile al programma televisivo. Il meccanismo è ben descritto in
“Cosa Conta” (il recente studio della Fondazione Rosselli, finanziato da Sky, opera di
Monica Sardelli e Federico Tarquini, con introduzione di Francesca Traclò). Il volume
ricorda che il Super Bowl di febbraio – evento culto per il football americano - «si è rilevato
senza precedenti per la mole di attività generata sui social network a commento della
partita» ed anche – cosa decisiva – delle pubblicità in onda. I tweet – sulla gara e gli spot
– sono stati 25,3 milioni. Una cosa mai vista, in effetti. Il fenomeno, fatte le debite
proporzioni, si è affacciato nella edizione italiana di X-Factor («con 447 mila tweet nella
sola puntata finale del 12 dicembre 2013»). Per accendere un faro stabile sul mondo dei
social network, Sky medita un accordo con la Nielsen.
Eric Gerritsen, vice presidente esecutivo di Sky Italia per la Comunicazione e gli Affari
istituzionali, spiega la filosofia di “Smart Panel”: «Auditel è una macchina d’epoca, nata
nell’era analogica, che faticosamente viene adattata alle nuove stagioni della
comunicazione. Il nostro sistema di rilevazione, invece, è strutturato da subito per la
stagione nuova del digitale. Auditel ha tante rughe e capelli bianchi. Capita. Noi abbiamo
uno strumento contemporaneo, coerente con l’epoca di big data ». Ma in concreto,
Gerritsen, a che cosa vi serve “Smart Panel” e quali dati vi sta dando? «I dati sono
confidenziali. Ma un esempio può già dire molto. Secondo Auditel, il 39% dei nostri spot
pubblicitari ha un pubblico pari a zero. Non li guarderebbe nessuno perché vanno in onda
su piccoli canali dall’ascolto insignificante, sempre nelle stime di Auditel. “Smart Panel” ci
rivela che la percentuale di spot a pubblico zero sarebbe molto più bassa, intorno all’8%».
L’olandese Gerritsen è stato avvistato più volte dalle parti di “Babylon”, un cenacolo di
studio che fa capo alla società di consulenza Ambrosetti. Anche lì si ragiona sulla
televisione rivoluzionata, sui giovani che guardano un film o Sanremo con il tablet in
azione, sulle app, sui media che si intrecciano tra loro e si trasformano. Ospite all’ultimo
dibattito a porte chiuse l’americano Alec Ross, consigliere dell’ex ministro degli Esteri
Hillary Clinton. Guru delle nuove tecnologie.
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CULTURA E SCUOLA
Del 6/5/2014 – pag. 1-21
L’INCHIESTA
Università, i pizzini dei baroni “Sono il padrone
dei concorsi”
“Le mie richieste nel pizzino virtuale” così parlava la banda dei baroni
Le intercettazioni dei prof sotto indagine a Bari E l’ex garante della
privacy raccomandava il figlio
GIULIANO FOSCHINI
BARI - LA PROCURA di Bari ha chiuso il primo filone dell’inchiesta sul malaffare del
sistema universitario italiano: 38 indagati, due associazioni a delinquere. A essere
mercanteggiati sono i posti da professori negli atenei, i mercanti sono i baroni.
L’hanno chiamata «Do ut des», perché «la sostanza di quest’indagine complessa è tutta in
quella locuzione latina: io do affinché tu dia». A essere mercanteggiati sono i posti da
professori ordinari e associati nelle università di tutta Italia. Mentre i mercanti sono i baroni
e i mammasantissima del diritto costituzionale, canonico e pubblico comparato. La procura
di Bari ha chiuso il primo filone dell’inchiesta sul malaffare del sistema universitario
italiano. Trentotto indagati e due associazioni a delinquere: una con base Bari, l’altra a
Milano, dove sono stati inviati gli atti per competenza. L’ex ministro Anna Maria Bernini e
l’ex garante della privacy Francesco Pizzetti già iscritti nel registro degli indagati. E il filone
sul diritto costituzionale — nel quale sono stati denunciati dalla Finanza cinque dei saggi
scelti dal presidente Napolitano per le riforme costituzionali — al vaglio dei pm.
Complessivamente sono una cinquantina i concorsi «il cui andamento ed esito finale —
sostiene la Guardia di Finanza — nulla hanno avuto a che vedere col merito». Esiste,
dicono gli inquirenti, «una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari che hanno
consentito sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della
giustizia. In sostanza i concorsi universitari sono stati celebrati, discussi e decisi
molto prima del loro espletamento».
IL CASO BERNINI
«Era il barone, era il capo di tutti». Così veniva definito dai colleghi il professor Giorgio
Lombardi. Insieme con il collega Giuseppe Ferrari era l’uomo che aveva in mano il diritto
pubblico comparato in Italia. E si era impegnato perché Anna Maria Bernini, ex ministro di
Forza Italia, vincesse un concorso. Lombardi poi si ammala, tanto da spegnersi durante
l’indagine: «Io se non avessi avuto questo accidente — si sfoga con un collega — ero il
padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini!
Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così». Le
pressioni per la Bernini sono molte. Lo ammette lo stesso Ferrari. «Lo so, però ho bisogno
che gli parli dieci minuti... perché io non ce la faccio più guarda, tra De Vergottini, Amato
(ndr, Giuliano) e Morbidelli per la Bernini. Pizzetti te lo raccomando lui e la famiglia... non
ce la faccio più».
«ARISTOCRAZIA ARISTOTELICA»
Con Lombardi che si ammala il potere è nelle mani di Ferrari. È lui stesso in
un’intercettazione a spiegare quello che la Finanza definisce il «potere ventennale
dell’aristocrazia ferrariana». «Quello che cercavamo di praticare era un metodo che è
stato concepito in un momento in cui Lombardi pigliava tutto. C’era una specie di
aristocrazia nel senso aristotelico, cioè i migliori che si accordano nell’interesse della
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corporazione!». La Finanza fa un conto: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati
sono «espressione di una maggioranza di chiara appartenenza alla corporazione di
matrice ferrariana, a riprova dell’esistenza di un sistema basato essenzialmente sul dato
dell’appartenenza a una corrente accademica».
IL PIZZINO TELEMATICO
Tra gli atti intercettati c’è una mail del professor Ferrari dalla quale si evince un’intesa tra il
docente bocconiano e il collega Luis Eduardo Rozo Acuna. «Carissimo, consegno
un’umile richiesta al pizzino telematico» e via un elenco di richieste. «Scusa per la sintesi
brutale, ma meglio essere franchi... A buon rendere. Grazie».
IL CASO PIZZETTI
Tra gli indagati c’è anche l’ex garante della privacy, che secondo gli investigatori fa
pressioni per far vincere un concorso al figlio come evidentemente gli aveva promesso
Lombardi. «Lui — dice al telefono con Ferrari, in riferimento a un altro professore — dice
che gli farebbe piacere che appunto il desiderio di Lombardi si realizzasse ». Ferrari: «Stai
tranquillo». Pizzetti: «È un secolo che ci conosciamo, sappiamo anche comunque quando
ci siamo presi degli impegni reciproci non li abbiamo mai fatti mancare». Sono decine le
telefonate di Pizzetti, che viene definito dagli investigatori «astuto e «infaticabile». «Volevo
dirti che ho visto Augusto (ndr, Barbera) — dice Pizzetti a Ferrari — e anche lui una mano
su Gambino potrebbe darla». E poi: «Se ti serve possono parlare anche io a padre Paolo
(padre Paolo Scarafoni, ex rettore dell’Università europea di Roma, indagato, ndr)». Il
concorso alla fine salterà.
Del 6/5/2014 – pag. 23
Gli ebook rilanciano i prestiti: più 64 per cento nel 2013 Boom di iscritti
al servizio gratuito, tra loro anche manager
In fila per il libro digitale la biblioteca rinasce
grazie ai nuovi lettori
CRISTIANA SALVAGNI
ROMA - Le biblioteche salvate dall’ebook. Sembra un controsenso: i polverosi scaffali
stipati di volumi di carta rilanciati da quei libri impalpabili, compressi in un file e scaricati
dal web. Eppure i dati sul prestito elettronico in Italia raccontano una rinascita digitale delle
sale di lettura e il ritorno di quegli utenti, istruiti e in carriera, che non ci mettevano piede
da anni. Secondo il rapporto della piattaforma MediaLibraryOnline, che sarà presentato
giovedì al Salone del Libro di Torino, quelli che oggi leggono sullo schermo titoli presi in
prestito sono 320mila e sono cresciuti del 64 per cento rispetto al 2012, diventando quasi
uno su dieci di tutti i frequentatori tradizionali delle biblioteche (4-5 milioni secondo l’Istat).
Il servizio è nato nel 2009: serve 3.900 biblioteche pubbliche, più della metà delle 6.841
legate agli enti locali, e in un paio di anni ha visto moltiplicarsi iscritti e prestiti gratuiti. Nel
2013 i download sono aumentati del 202 per cento, le consultazioni hanno sfiorato i due
milioni: 1,8, per la precisione, contro il milione del 2012 e i 400mila scarsi del 2011. Come
funziona? Ci si registra in biblioteca, si riceve un account e poi da casa, sull’autobus o in
fila dal medico si possono sfogliare giornali e riviste o scaricare ebook, film, dischi da
ascoltare.
Soprattutto i libri elettronici stanno facendo da traino alla lettura: avvicinano a Marcel
Proust o Dan Brown gente che mai prima aveva avuto confidenza con i testi
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di carta e riportano in biblioteca, almeno virtualmente, quei lettori forti che per mancanza di
tempo non ci andavano più. «Se gli utenti tradizionali sono studenti e pensionati, per lo più
donne, quelli digitali sono uomini 30-40enni, professionisti che fanno parte della fascia
attiva della popolazione» spiega Pieraldo Lietti, coordinatore di Brianza Biblioteche e
membro del comitato nazionale dell’Associazione italiana biblioteche. Questi iscritti di
ritorno consultano il catalogo la sera tardi, tra le sette e mezzanotte, prendono in prestito
in media 24 libri l’anno contro i 17 dei fruitori tradizionali e sempre più spesso leggono in
versione “mobile”: aumenta del 17 per cento l’uso dello smartphone.
Più in generale i dati testimoniano una rivoluzione in corso nello stile di lettura. «È più
liquida, un’esperienza meno isolata e più sociale: prima di abbandonare definitivamente la
carta per l’e-reader gli aspiranti lettori digitali fanno le prove sui tablet, sui cellulari, e ciò
indica che c’è una grande curiosità per questo nuovo mondo » continua Lietti. Come c’è
una rinata vivacità delle biblioteche: arriva da lì un libro su cinque di tutti quelli letti in Italia.
«I numeri crescono in fretta — conferma Giulio Blasi, amministratore delegato di Horizons,
la società che gestisce la piattaforma Mlol — gli utenti attivi sono tra il 5 e il 10 per cento di
tutti i frequentatori abituali, ma abbiamo stimato che possono crescere fino al 20-30 per
cento. Finora tanti potenziali lettori neanche sanno che esiste questo servizio. Si diffonde
molto con il passaparola». E, a guardare le zone, anche a macchia di leopardo. Ha una
presenza capillare in Lombardia, Piemonte o Emilia Romagna ma è lacunoso al sud e del
tutto assente in grandi città come Roma e Napoli, così come in Valle d’Aosta, Liguria,
Molise, Basilicata, Calabria. «In Italia c’è una questione meridionale delle biblioteche —
continua Blasi — per questo la nostra copertura è molto più radicata al centro-nord».
Nonostante ciò siamo tra i Paesi più avanzati in Europa: «Solo noi abbiamo accordi con
tutti i grandi gruppi, l’ultimo l’abbiamo chiuso da poco con Mondadori e ha segnato la
presenza sulla piattaforma di tutti i “big five” dell’editoria. Inoltre nel 2012 la percentuale di
biblioteche che offrivano ebook era del 44 per cento contro il 4 della Francia e il 16 della
Germania ». Il catalogo on line è di 27mila titoli ma entro l’estate dovrebbe raggiungere i
50mila. Una goccia nell’oceano rispetto al milione di titoli offerto negli Stati Uniti: ma là il
prestito digitale è arrivato dieci anni prima.
Del 6/5/2014 – pag. 30-31
L’altro liceo
Un’istruzione specializzata e internazionale per rendere più competitivi i
propri figli. È l’obiettivo di moltissime famiglie Dalle lingue straniere alla
matematica: spesso scelgono gli istituti privati. Ma anche il pubblico
allarga l’offerta e seleziona gli studenti più motivati
MARIA NOVELLA DE LUCA
È LA paura di restare indietro. Sepolti nel ritardo di un paese senza finestre sul mondo.
Guardando i figli crescere con il magro bagaglio dell’inglese “scolastico”, e vederli
arrancare nell’universo multilingue che li circonda, popolato ormai di addestratissimi baby
poliglotti. Così chi può corre ai ripari: asili trilingue per i più piccoli, scuole internazionali fin
dall’infanzia e licei anche statali che garantiscano, almeno, la doppia maturità. È l’altra
faccia del declino dell’istruzione pubblica, erosa e devastata da anni di tagli: come già
avviene in Inghilterra o negli Stati Uniti, le famiglie che possono pagare rette alte o
altissime, o che scelgono di indebitarsi, cercano per i propri figli percorsi di studio
alternativi, internazionali. Perché se l’avvenire è altrove, meglio prepararsi fin da piccoli a
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navigarci dentro. Ormai è una corsa. Anche se i costi possono variare dai seimila euro
delle scuole francesi e tedesche, ai ventimila euro l’anno dei campus americani e inglesi.
Alla Deutsche Schule di Roma, grande e razionale edificio immerso in ettari di verde e con
una piscina olimpionica interna, il 54% degli allievi è italiano. E le iscrizioni, dal 2010,
quando già la crisi era alle porte, aumentano di anno in anno. Al liceo Chateaubriand,
storico istituto francese che ha il privilegio di sorgere tra i giardini di villa Borghese, il 60%
degli studenti arriva da italianissime famiglie della Capitale. Alla “Deledda international
school” di Genova, unico centro italiano a partecipazione pubblica che segue i programmi
dell’Ibo, ossia l’International Baccalaureat, diploma che apre le porte di tutte le università
del mondo, hanno raddoppiato le sezioni per poter accogliere sempre più studenti,
nonostante la rigidissima selezione in entrata. Lunghe liste d’attesa anche al famoso
“Collegio del mondo unito” di Duino, vicino a Trieste, ambitissimo liceo multilingue a cui si
accede democraticamente con borse di studio. E al Saint Stephen’s, una tra le più radicate
scuole angloamericane nel nostro paese, la quota di allievi non stranieri ha superato il
36% delle iscrizioni.
Racconta Jutta Eberl Marchetti, rappresentante dei genitori della Deutsche Schule di
Roma: «Sempre più famiglie italiane chiedono di iscrivere i loro figli alla scuola tedesca,
infatti stiamo ampliando le classi dei più piccoli, perché da noi è fondamentale iniziare a tre
anni, altrimenti l’apprendimento della lingua diventa troppo difficile. Dal 2010 abbiamo
avuto un netto incremento di allievi: quello che vince è il metodo, il controllo pedagogico,
i ragazzi studiano in tedesco, in inglese e in italiano, vengono abituati all’autonomia ed
entrano facilmente sia nelle università europee che in quelle americane. E metà della retta
la paga lo stato tedesco... ». Numeri ancora marginali, numeri che raccontano però
un’Italia che cambia, e dove per la prima volta si profilano scuole di serie A e scuole di
serie B. Ma dove a fare la differenza non sono più i ricchi collegi (spesso religiosi) scelti
per censo e per appartenenza, e non di rado diplomifici, ma quelle realtà che garantiscano
percorsi internazionali. Ossia finestre sul mondo. Sottolinea Joel Lust, preside del licée
Chateaubriand: «Abbiamo 1476 allievi di venticinque nazionalità diverse, ma oggi la
maggioranza sono italiani. La retta varia dai 4.500 euro delle primarie ai 5.500 delle classi
superiori. Siamo una istituzione storica, molti ex studenti che hanno frequentato
Chateaubriand continuano ad iscrivere i loro figli. Ma non è soltanto tradizione — dice Lust
— qui si studia in francese, inglese e in italiano e si esce con una doppia maturità,
abbiamo atelier di cinese e di arabo. Ed è questo credo che rende ancora la nostra scuola
così ambita».
Un approccio diverso alla cultura, più veloce, più scientifico. Anche più ludico a volte.
Sarina Gosio, vice preside del “Deledda international school”, parla con entusiasmo della
selezionatissima scuola in cui insegna, voluta dal comune di Genova, riconosciuta sede
del Baccellierato Internazionale, unico liceo italiano che dura quattro anni e non cinque.
«La richiesta è sempre più alta, ma noi scegliamo soltanto gli studenti più motivati, e oggi
abbiamo allargato il nostro programma anche alle medie. È un percorso radicalmente
diverso rispetto a quello italiano, si svolge completamente in inglese e credo che la nostra
forza sia quella non solo di offrire una maturità “globale” ma di insegnare a studiare così
come avviene nel resto del mondo».
Non poco infatti si è appannato nei nostri licei, spesso arroccati su un approccio filologico
del sapere che stride con quanto il mondo chiede. Pur con delle aperture. Se infatti
l’offerta multilingue oggi in Italia è soprattutto privata, e del tutto carente nelle primarie e
secondarie pubbliche, in diversi licei statali pur tra mille difficoltà si cercano di moltiplicare
le opportunità. Dalla doppia maturità (francese italiana, spagnola italiana) alle certificazioni
Cambridge per l’inglese, dai corsi di cinese a quelli di tedesco.
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Isole però nel declino collettivo, come spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione
Agnelli. E proprio nel volume sulla “Valutazione nella scuola” da poco pubblicato, i
ricercatori della Fondazione si soffermano sull’esodo dagli istituti pubblici, da parte delle
famiglie più “avvertite”. «Sappiamo che è sufficiente che alcuni degli studenti migliori
fuggano dalle “normali” scuole statali — si legge nella ricerca — per andare a frequentare
scuole selezionate, statali o private, perché si inneschi una reazione a catena, in cui le
scuole d’élite raccolgono un numero crescente di talenti e risorse mentre il resto entra in
una fase di declino accelerato. Difficile non pensare alla fuga da quelle con un’alta
percentuale di stranieri. O al successo di iscrizioni alle private internazionali».
Ragiona infatti Andrea Gavosto: «Non abbiamo ancora i dati quantitativi di questo
abbandono, ma è evidente che nel decadimento della scuola pubblica molte famiglie si
stanno attrezzando. Ed è preoccupante, è la prima crepa profonda che può portare l’Italia
ad una situazione come quella inglese o americana, dove nel pubblico restano soltanto le
fasce più povere e difficili della popolazione». Per questo, spiega Gavosto, sarebbe utile e
necessario che la scuola si aprisse alla valutazione, ad un rapporto trasparente con le
famiglie. «I licei pubblici erano un tempo i luoghi di elezione in cui si creava la classe
dirigente: oggi le eccellenze ci sono ancora, ma mancano la formazione scientifica, le
lingue, un approccio più moderno e globale. Il boom delle private internazionali ci dice
proprio questo: i genitori cercano una istruzione globale per i propri figli e sono disposti a
qualunque sacrificio. E il rischio di declino della scuola pubblica — conclude Gavosto — è
ormai evidentissimo ».
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ECONOMIA E LAVORO
del 06/05/14, pag. 7
Cambiare il sindacato e il Paese
Oggi la sfida del congresso Cgil
Patto trilaterale per rilanciare il sistema economico ● A Rimini la
relazione di Susanna Camusso, in un momento difficile per il mondo del
lavoro ● Renzi non c’è. Il governo sarà rappresentato dal ministro del
Lavoro, Poletti
Parola d’ordine: cambiamento. Del Paese e del sindacato. Per combattere una
diseguaglianza sempre più inaccettabile. Nel sesto anno della crisi Susanna Camusso dirà
questo nella relazione che questa mattina aprirà il XVII congresso Cgil a Rimini. Non sarà
un discorso facile, quello del segretario generale - e certamente riconfermato. Perché per
una volta i numeri Non dicono tutta la verità. Descrivono un congresso unitario con
percentuali simil bulgare- 97,5 per cento di consensi al documento con primo firmatario
Susanna Camusso- quando invece le differenze ci sono. E forti. E dunque il congresso
sarà assai delicato. Sia sul fronte interno che - soprattutto - su quello dei rapporti con il
governo. Invitato ufficialmente da quasi un mese, il presidente del Consiglio non ha
formalmente risposto, ma il suo entourage nei giorni scorsi ha spiegato che diserterà
l'assise, come farà con l’Assemblea annuale di Confindustria. Dopo aver parlato di
«mancanza di rispetto», ieri pomeriggio Susanna Camusso ha usato il fioretto e la clava.
Rispondendo ai cronisti che la solleticavano sul tema ha risposto: «Mi state dando una
notizia perché palazzo Chigi non ci ha ancora comunicato le sue intenzioni». Poi è arrivata
la citazione «storica»: «Comunque è già successo che il premier di allora non
partecipasse al congresso». Si trattava di Silvio Berlusconi. E il paragone con l’ex
Cavaliere non farà certo piacere a Renzi. La stoccata di Camusso un risultato però l’ha
avuto. Un’oretta dopo è arrivata la nota ufficiale del ministero del Lavoro: a sostituire Renzi
a Rimini domani ci sarà Giuliano Poletti. Una presenza certamente consona per il ruolo,
ma per il ministro del Lavoro si tratta di un ritorno in Romagna a soli tre giorni dal dibattito
tenuto domenica alle Giornate del lavoro della stessa Cgil, con un vivace botta e risposta
sul quel decreto Lavoro avversato completamente dal sindacato. Perciò nella relazione
Susanna Camusso non sarà certo tenera con il governo. «Abbiamo una situazione
economica più facilmente paragonabile a un post bellico che ad altre stagioni - ha
anticipato ieri - . Il congresso ha l’obiettivo di riproporre una strategia di cambiamento delle
politiche nazionale ed europee». E dunque la richiesta sarà di avere meno contratti, un
sistema pensionistico flessibile e tanti, tanti investimenti, sia pubblici che privati, come
proposto nel Piano del Lavoro, vero «testo sacro» dei quattro anni di segreteria. L’altro
cardine della relazione sarà il futuro del sindacato e della Cgil. Partendo dall’orgoglio per
essere «l’organizzazione più rappresentativa e democratica del Paese»,Camusso
rilancerà sulla sfida della rappresentanza dei giovani e dei precari,mentre sul fin troppo
lungo cammino congressuale - sei mesi dal via delle quasi 40 mila assemblee sui luoghi di
lavoro di gennaio - già nei giorni scorsi Camusso aveva anticipato: «Salvaguardando la
partecipazione e la delega alle assemblee, costruiremo un percorso meno faticoso e più
ricco».
LA QUESTIONE RAPPRESENTANZA
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Sul piano interno invece Camusso ha già preparato il terreno nelle ultime settimane precongressuali. A rompere il compromesso costruito dallo stesso segretario generale lo
scorso settembre per presentarsi uniti davanti ai lavoratori nel sesto anno della crisi - un
congresso ad emendamenti - è arrivata il 10 gennaio scorso la firma del Testo unico sulla
rappresentanza. La Fiom di Maurizio Landini contesta principalmente due punti: le
sanzioni previste per i delegati sindacali in caso di mancato rispetto degli accordi e
l'Arbitrato interconfederale chiamato a dirimere i problemi di applicazione sullo stesso
accordo. La questione rappresentanza - l'accordo del 31 maggio 2013 fra sindacati e
Confindustria che prevede la certificazione della rappresentanza sindacale e l'esigibilità
dei contratti - ha tracciato un solco. Un anticipo dello scontro con Landini è già avvenuto
venti giorni fa al congresso della Fiom. Sempre a Rimini i due hanno battagliato
dialetticamente con il segretario generale della Cgil che ha chiesto alla Fiom di «non
autoescludersi» - in riferimento alla Consultazione tenuta fra i metalmeccanici e vinto dal
No con l'86%conmodalità diverse da quello confederale vinto invece dal Sì con il 95,5%. e il segretario della Fiom che ha controbattuto chiedendo di «cambiare assieme quel
testo», modificandolo su sanzioni e Arbitrato. Ma se ad aprile a giocare in casa era
Landini, adesso lo farà Camusso. Al netto delle accuse di «brogli» dell' unico oppositore Giorgio Cremaschi, che con il documento "Il sindacato è un' altra cosa" ha preso il 2,5%
dei delegati e questa mattina farà un picchetto di protesta all’entrata del Pala Congressi su 953 delegati al congresso più del 90 per cento sono a suo favore. Dunque oggi parte la
tre giorni di un congresso «più breve e sobrio». Si parte alle11conla relazione di
SusannaCamusso, mentre nel pomeriggio ci saranno gli interventi di Luigi Angeletti e
Raffaele Bonanni. Domani in mattinata il saluto di Poletti e poi spazio al dibattito
congressuale con gli interventi degli oppositori Landini e Cremaschi. Giovedì in mattinata
le conclusioni di Camusso - che sarà certamente rieletta - nel pomeriggio le votazioni, la
convocazione del nuovo Comitato Direttivo per procedere all’elezione del segretario
generale.
del 06/05/14, pag. 2
A congresso senza unità
Antonio Sciotto
Sindacato. La Cgil riunisce per la XVII volta i suoi delegati, a Rimini da
oggi fino a giovedì, in un momento di grande difficoltà. E Renzi dà
forfait. Susanna Camusso verrà riconfermata, al prezzo di lacerazioni
interne e scontri, per altri quattro anni leader del colosso sindacale da
5,7 milioni di iscritti
La Cgil arriva a celebrare il suo XVII Congresso, da oggi a giovedì a Rimini, in un
momento di grande difficoltà. Non solo per i sindacati, ma più in generale per i diritti del
lavoro, in Italia e in Europa. Susanna Camusso verrà riconfermata per altri 4 anni alla
guida di un colosso che conta 5,7 milioni di iscritti, ma al prezzo di lacerazioni interne e
scontri – principalmente con la Fiom di Maurizio Landini, ma non solo – che a malapena si
riescono a insabbiare sotto il tappeto di un consenso alla maggioranza che nei dati ufficiali
è bulgaro: al 97,6%. Senza parlare poi del rapporto con il premier Matteo Renzi e con
larga parte del Pd, ogni giorno più teso e difficile.
Renzi ha già fatto sapere che non sarà presente al Congresso, come d’altronde non
presenzierà il 29 maggio all’Assemblea annuale di Confindustria. Camusso ieri ha
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spiegato che in realtà il sindacato «non ha mai avuto una risposta ufficiale da Palazzo
Chigi», ma che comunque «non è un presidente del consiglio a legittimare un congresso»:
«È già successo altre volte, con altri premier, ma certo non è simbolo di rispetto per le
grandi organizzazioni dei lavoratori».
I motivi dell’assenza di Renzi sono almeno due: il premier non vuole essere identificato,
sotto elezioni, con le associazioni di rappresentanza, perché percepite da un sempre più
vasto pubblico (basti pensare ai grillini, ma anche a tanti precari) come conservatrici e
difensori dei «garantiti» (se garantito oggi si vuol definire chi ha un tempo indeterminato o
una pensione). Inoltre, l’accoglienza a neanche 20 giorni dal voto non sarebbe certo
trionfale: se è vero che gli 80 euro alla Cgil piacciono, dall’altro lato il decreto Poletti è
stato aspramente contestato.
Questo sul fronte, per così dire, “politico”. Ma la Cgil è anche il maggiore sindacato
italiano, e quindi – nel bene e nel male – è sempre pietra di paragone per le altre
organizzazioni. Se i rapporti con i sindacati di base sono quasi inesistenti, se non di aperta
ostilità, quelli con Cisl e Uil sono invece fondamentali: la segretaria ha fatto del legame
con Bonanni e Angeletti uno dei pilastri del suo primo mandato, a volte anche a dispetto di
un contesto generale che suggeriva altre mosse. Le mobilitazioni (salvo che per le crisi
industriali) nell’ultimo anno sono scese quasi a zero, perché gli altri due sindacati non si
muovono. E anche sul decreto Poletti e su una imminente (annunciata) vertenza per
riformare le pensioni, l’ordine di scuderia è quello di aspettare i due alleati.
Infine c’è il fronte più squisitamente interno, e qui apriti cielo. La Cgil giunge spaccata,
lacerata, al Congresso, mentre fino a Natale 2013 ci si aspettava un’assise unitaria, quasi
perfino noiosa. A ravvivare i giochi – e a scatenare lo scontro – è arrivato lo scorso
gennaio il Testo unico sulla rappresentanza, un accordo firmato da Camusso con Cisl, Uil
e Confindustria, che non è piaciuto alla Fiom di Maurizio Landini.
Landini, già noto mediaticamente, è diventato nell’immaginario di molti l’“anti-Camusso”.
Lo scontro è stato durissimo, e in mezzo ci si sono messi perfino Renzi e Grillo,
nell’intenzione di conquistare tanti iscritti al sindacato oggi in cerca di nuovi riferimenti
politici. Si è parlato di un asse Renzi-Landini, basato su una presunta sintonia dei due nel
voler cambiare il Paese: abbattendo le «burocrazie frenanti», di cui Camusso sarebbe un
simbolo. Non a caso Landini non esclude di riformare la Cgil con le primarie.
Stesso discorso per Grillo, che se in diversi post ha detto peste e corna di Cgil, Cisl e Uil,
definendoli «sepolcri imbiancati», ha invece mostrato più indulgenza e simpatia verso la
Fiom, percepita come più vicina ai precari e agli esclusi.
Certo che il feeling Landini-Renzi, però, comincia a vacillare. In un’intervista a Repubblica,
ieri, il segretario Fiom ha ribadito tutti i suoi motivi di apprezzamento per il premier (a
partire dagli 80 euro: «Io in un solo rinnovo non sono mai riuscito a fare quella cifra»), ma
ha anche ricordato di aver scritto una lettera piena zeppa di richieste, «per una nuova
politica industriale e sociale»: «Ma su questo piano – ha detto – non vedo elementi di
novità». La richiesta principe della Fiom, quella per una legge sulla rappresentanza, Renzi
dopo varie promesse pare averla messa nel cassetto: e così Landini, se non riuscirà a
sparigliare dopo le elezioni, rischia di aver dato fiducia al premier ma di restare con il
cerino in mano.
D’altronde, anche gli equilibri dentro la Cgil adesso si giocano su un crinale delicatissimo.
Camusso si è appunto blindata nel 97,6% di voti al documento I (quello che porta anche la
firma di Landini) e nel 95% del sì al Testo unico: consultazione senza i dati Fiom, unendo i
quali, si arriva comunque a un 66% a favore della segretaria (ma la Fiom ha fatto votare
anche i non iscritti). Come se non bastasse, la platea dei delegati formata per il Congresso
(e che eleggerà il nuovo Direttivo, che a sua volta confermerà Camusso segretaria) è stata
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formata secondo la Fiom e altri pezzi di minoranza in modo «truffaldino», perché non
sarebbe stato pesato in modo equo il voto sugli emendamenti.
Quindi, conclude Landini, «oggi non vedo le condizioni perché si possa chiudere
unitariamente». Differenti liste per il Direttivo, dunque, una maggioranza più risicata e
meno “bulgara” per Camusso segretaria, e nessun posto per la Fiom (come è già stato per
l’ultimo quadriennio) nella nuova segreteria confederale.
del 06/05/14, pag. 1/3
La scommessa di Rimini
Tre pilastri per costruire il futuro
Aldo Carra
Il Congresso della Cgil si svolge attorno al tema “Il lavoro decide il futuro” in paese che sta
vivendo la crisi più lunga dall’inizio della rivoluzione industriale. Nell’insieme delle
economie sviluppate i tassi di crescita sono diminuiti dal 4% degli anni sessanta all’1% di
oggi. Il sindacato, la cui rappresentatività è fortemente indebolita dalla crisi, potrà avere la
forza per imporre un “Piano del lavoro” come fece Di Vittorio nel dopoguerra?
Partiamo dalla rappresentatività. Nel settore più “tradizionale” — il mondo dei pensionati
— essa è indebolita perché la contrattazione nazionale delle condizioni economiche
(rivalutazioni, minimi..) è stata annullata dall’austerità e quella territoriale (welfare locale,
assistenza, servizi..) vanificata dalle leggi di stabilità.
Tra i lavoratori dipendenti la situazione non è migliore. La forza della crisi agisce come un
grande ricatto sui dipendenti pubblici (mai c’è stato un periodo così lungo senza rinnovi
contrattuali), sui dipendenti del comparto industriale dove il sindacato è sospinto a
contrattare arretramenti di diritti e cassa integrazione, sui servizi dove si preparano
(banche) grandi ristrutturazioni. E che dire degli oltre tre milioni di disoccupati ai quali, nel
caso migliore, si dice dovete accontentarvi di restare agli ultimi posti senza illudervi di
andare oltre il precariato? E come meravigliarsi se altri 3–4 milioni di persone, scoraggiate,
il lavoro non lo cercano nemmeno e non entrano in questo purgatorio dei disoccupati?
La trasformazione di quello che una volta fu il “mondo del lavoro” in un lavoro senza un
mondo di valori solidali e di riferimenti politici, sociali, culturali, indebolisce paurosamente
la forza e la rappresentatività del sindacato. Ed il fatto che, addirittura con un Pd al
governo, non ci siano idee di politiche pubbliche per lo sviluppo, di politiche industriali
(dove sono finiti i pur interessanti input sui settori del futuro annunciati col job act?) e di
investimenti ed incentivi pubblici, toglie inevitabilmente forza e credibilità anche al piano
del lavoro della Cgil.
Se questo è il quadro della situazione, davanti alla Cgil stanno grandi interrogativi: se la
forza dei soggetti collettivi dipende dalla rappresentanza dei soggetti sociali, come
declinare oggi la rappresentanza di quel mondo frammentato di cui abbiamo parlato? E’
sufficiente riproporre l’obiettivo del lavoro come condizione per un futuro? Il percorso
tradizionale — il lavoro realizza la persona e fornisce un reddito che consente ad essa di
costruire il suo futuro — è sempre attuale e credibile? Ed è l’unico perseguibile?
Con queste domande è chiamata a fare i conti la Cgil, ma le risposte non le può cercare e
dare solo la Cgil.
Esse richiedono la costruzione di una piattaforma fondata su tre pilastri: la ricerca di un
nuovo sviluppo possibile, la redistribuzione del lavoro, l’introduzione di un reddito di
cittadinanza.
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Una ripresa della crescita va ricercata, ma non è affatto scontata. In ogni caso richiede di
individuare i settori propulsivi del futuro, di dotarsi di concreti piani e di politiche industriali
(magari riprendendo le idee base del piano Bersani Industria 2015 caduto nel
dimenticatoio), di lanciare una “campagna di risanamento” del territorio e delle
infrastrutture diffuse, finanziata dal pubblico e dal privato, con esenzioni fiscali consistenti,
e gestita nei territori da istituzioni locali ed organizzazioni sociali. Non si tratta di invocare
una ripresa qualunque né tantomeno che ricalchi il modello di sviluppo pre-crisi, ma di
ridefinire gli obiettivi che la società deve perseguire nei prossimi anni nei campi della
salute, dell’istruzione, della cultura, della qualità sociale ed ambientale ed in funzione di
essi individuare i settori produttivi di beni e servizi da stimolare con politiche di sostegno,
di incentivazione, di formazione professionale. In questa direzione va certamente il Piano
del Lavoro della Cgil ed il congresso potrebbe essere utile per sentire cosa ne pensano ed
intendono fare governo e forze politiche.
Ma fermarsi qui non è sufficiente. Sindacato e sinistre non possono procrastinare oltre la
scelta di redistribuire il lavoro e ridurre gli orari. Siamo paradossalmente tra i paesi europei
con la disoccupazione più alta, ma in cui i pochi occupati che ci sono lavorano di più
(l’Italia ha un orario medio annuo superiore a quello di Francia, Germania, Olanda del 23%
il che equivale ad oltre 3 milioni di occupati in meno). Consentire a tutti di avere la
possibilità di lavorare, anche se con orario ridotto e retribuzione non piena, ma con
rapporti di lavoro contrattualizzati (part time progressivo da trasformare in full time,
collegamento a pensionamenti con orari decrescenti, contratti di solidarietà aziendali e
territoriali…..) è una condizione essenziale per ricostruire un senso di appartenenza al
mondo del lavoro e ridurre l’inoccupazione strutturale esistente e prevista.
Infine, in un contesto di massimo contenimento della disoccupazione come questo
delineato, diventerebbe più praticabile la proposta, anch’essa a mio parere non
procrastinabile, di un “reddito di cittadinanza”. Si tratta di costruire un’idea ed una pratica
di “cittadinanza attiva”, connesse a prestazioni lavorative di utilità sociale, sia come
sostegno minimo per chi non possiede altri redditi, sia come reddito integrativo per
compensare riduzioni di orario e di retribuzione volontarie o necessitate.
Una piattaforma di questa portata non può essere caricata solo e tutta sul sindacato: essa
richiede una sponda politica che le dia il respiro e la credibilità necessari.
Questa sponda oggi manca ed il congresso della Cgil, quindi, finisce per caricarsi di
aspettative che vanno oltre le sue possibilità. Questo non esime nemmeno la Cgil dal
compito di ripensarsi come rappresentanza di un nuovo mondo nel quale i confini tra
lavoro e non lavoro, lavoro autonomo e lavoro dipendente, lavoro per il reddito e lavoro
per il piacere, lavoro per creare valore di mercato e lavoro per creare valori d’uso sono
saltati.
E, a partire da una ritrovata forza, confrontarsi a testa alta con quella politica che prima ha
sposato il neoliberismo che ha generato la crisi che ha investito anche il sindacato e che
adesso lo accusa di conservatorismo. Potrà essere il sindacato, a questo punto, a
chiedere alla politica, di assumersi le responsabilità che le competono per guidare la
profonda trasformazione che si impone. E, con questa speranza, buon congresso, cara
Cgil.
Del 6/5/2014 – pag. 1-9
La Ue: l’Italia cresce poco meglio Spagna e Grecia
FEDERICO FUBINI
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L’ULTIMA infornata di stime della Commissione europea arriva e se ne va lasciando dietro
di sé un sospetto: e se ci fosse qualcosa di unico, a proposito dell’Italia? Questo Paese
pensava di essere parte di un club, quello dell’euro o almeno della sua cosiddetta
“periferia”. Nel bene e nel male il suo comportamento era spiegabile con un gruppo di
simili. Ma è così? I fatti presentati ieri a Bruxelles inducono a dubitarne. L’Italia sembra
staccarsi, in ritardo e ormai quasi da sola. La ripresa in Spagna, Irlanda, Portogallo e
persino in Grecia almeno nei numeri si presenta più viva.
COME noi questi Paesi hanno appena vissuto la peggiore recessione della loro storia
recente, ma nel 2014 e 2015 cresceranno quasi il doppio dell’Italia. In certi casi tre volte
tanto. Secondo Bruxelles, Spagna e Portogallo lo faranno già quest’anno (Pil in
espansione dell’1,1% contro 0,6% italiano), mentre il grande vicino iberico ripeterà anche il
prossimo (più 2,1% contro 1,2% dell’Italia). L’Irlanda viaggia già a velocità più che doppia
e persino il ritmo della ripresa greca l’anno prossimo dovrebbe essere quasi triplo rispetto
al nostro. Naturalmente Atene fa storia a sé. Dopo un collasso peggiore anche di quello
degli Stati Uniti nella grande depressione — un quarto dell’economia è sparito in cinque
anni — il rimbalzo del 2,9% previsto per il 2015 può essere quasi solo uno spasmo di
nervi.
Eppure la Commissione europea vede l’Italia in una posizione singolare: viaggia in coda
all’intero gruppo dell’area euro sia quest’anno che nel 2015. Un po’ più piano procedono
solo Cipro, che però si sta riprendendo dallo choc delle sue banche, e la Finlandia che in
realtà non ha avuto una recessione così profonda. L’Italia era un’anomalia per la
fiacchezza delle sue gambe prima della crisi e torna ad esserlo dopo. Come se nel
frattempo non fosse successo nulla, anziché una delle fratture più profonde dell’ultimo
secolo. Possibile?
Non è vero che la ripresa sia in qualunque altro posto meno che qui. Emanuele Baldacci
dell’Istat ieri ha mostrato che nell’ultimo paio di mesi gli occupati in Italia hanno iniziato
a crescere di alcune decine di migliaia: un’inezia dopo una erosione di 1,6 milioni di posti
in cinque anni, ma almeno la tendenza si è invertita. E in un seminario all’istituto statistico
è emerso anche che fra gli imprenditori c’è un (lieve) ritorno della voglia di investire.
La lista dei segni di risveglio può continuare, eppure restano più deboli che nel resto del
Sud Europa e neanche loro permettono di eludere la grande domanda: è giusta la strada
che abbiamo preso? L’Italia negli anni scorsi ha compiuto una scelta di fondo diversa da
quella degli altri Paesi colpiti dalla crisi di debito. È stata una scelta condivisa da
centrosinistra, centro e destra. Mentre le altre economie deboli accettavano l’aiuto
europeo, la troika e il suo amaro menù di riforme, noi abbiamo proposto a Bruxelles e a
Francoforte un altro tipo di patto: a casa nostra decidiamo noi, ma in cambio promettiamo
di tenere il deficit sotto controllo. Nel triennio 2011-2013 i tre governi succedutisi hanno
passato manovre per qualcosa come 67 miliardi di euro, riportato (e tenuto) il deficit entro
il 3%, eppure il debito non ha mai smesso di salire in proporzione a un’economia
contrattasi più che ovunque meno che in Grecia.
Nel frattempo l’Irlanda e i Paesi iberici hanno preso la strada che noi abbiamo rifiutato.
Madrid ha accettato l’aiuto, ha agito poco sul deficit, ma su richiesta europea ha cambiato
le regole del lavoro in un modo che persino Matteo Renzi riterrebbe troppo rivoluzionario:
gran parte dei contratti si fanno in azienda, non in affollati «tavoli» centralizzati nella
capitale, mentre i giudici non mettono bocca nei licenziamenti economici. Può non piacere,
ma ieri all’Istat Stefania Tomasini di Prometeia ha mostrato che il Pil dell’Italia oggi
sarebbe del 3% più alto se solo l’export fosse andato bene come in Spagna.
Per il Portogallo gli ultimi anni sono stati anche peggio: il deficit resta doppio rispetto
all’Italia ma il governo ha introdotto contratti alla spagnola (o meglio, alla tedesca) e
cancellato 4 giorni di vacanza a parità di paga. Per due anni le proteste hanno
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paralizzato Lisbona e la Corte costituzionale ha respinto alcuni dei tagli al welfare. Ora
però il Portogallo è fuori dalla tutela europea, l’export è salito del 16% e la disoccupazione
è scesa del 2,5%: un risultato impensabile qui.
Questi Paesi hanno preso una via sgradevole, sono ancora fragili, ma non privi di risultati.
Invece l’Italia ma scelto la propria sovranità, mettendola al servizio dei conti pubblici e non
di una vera capacità di crescere: ma senza crescita anche i conti resteranno fragili per
sempre. La via italiana all’uscita dalla crisi ha funzionato? I numeri — per ora — dicono di
no. Gli ultimi anni, è vero, hanno insegnato a diffidare di chi crede di avere tutte le
risposte. Ma vale anche per l’unanimità italiana di questi anni.
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