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GIUSEPPE VRESPA Responsabile Servizio Ricerche in Implantologia e Biomateriali Servizio di Odontoiatria - Direttore Prof. Enrico Gherlone Istituto Scientifico S. Raffaele, Milano PROTOCOLLO CHIRURGICO in implantoprotesi odontoiatrica INDICE DEGLI ARGOMENTI 1 INTRODUZIONE 4 II sistema implantoprotesico PHI (Primary Healing Implant) Strumentario chirurgico 4 4 2 INDICAZIONI GENERALI ALL’IMPIANTO A GUARIGIONE PRIMARIA 5 3 CONTROINDICAZIONI ALL’USO DI IMPIANTI 5 Controindicazioni generali assolute Controindicazioni generali Controindicazioni generali relative Controindicazioni locali assolute Controindicazioni locali relative 6 6 7 8 8 4 VISITA IMPlANTOPROTESICA 9 Raccolta dell’anamnesi Esame radiologico Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) Eventuali esami di laboratorio Esame obbiettivo Diagnosi e piano di trattamento Modelli studio ecerature diagnostiche Trattamento farmacologico 9 9 9 10 10 10 11 11 5 PROTOCOLLO DI IMPIEGO DEGLI IMPIANTI PHI 11 Indicazioni del tipo di impianto minimo per sito Indicazioni del tipo di impianti nelle creste riassorbite, atrofiche o in presenza di pareti sottili (impianto ESO-ENDO) Impianto MRS per medio rialzo di seno mascellare Indicazioni per gli impianti post-estrattivi immediati e protocollo chirurgico Edentulismo totale Impianti non protocollari 12 6 PROCEDURE OPERATORIE 18 Antibiotici locali Procedura A o esposizione della corticale ossea Procedura B o incisione in cresta Incisione della corticale e fresatura pilota Fresatura della cavità preliminare Eventuali difficoltà nella fresatura Osteotomia della cavità agradini Eventuali difficoltà nell’uso dell’osteotomo Operazioni di pulizia e di lavaggio della cavità Operazioni di maschiatura Operazioni di inserimento dell’impianto 19 20 20 24 24 25 27 28 29 29 30 13 14 15 17 18 Posizionamento della vite-tappo di guarigione 31 7 CONDIZIONI POST-OPERATORIE 32 Carico degli impianti 32 PHI ringrazia il dottor Francesco Gasbarri per aver collaborato alla realizzazione della pinza calibro osseo PHI e per la gentile concessione del suo schema di funzionamento (foto 2, pagina 31) e il dottor Amorino Andreutti per i contributi fotografici 5, 6 e 7. 1 IL SISTEMA IMPLANTOPROTESICO PHI (PRIMARY HEALING IMPLANT) STRUMENTARIO CHIRURGICO INTRODUZIONE Gli impianti PHI (Primary Healing Implant) rappresentano una novità nel campo dell’implantologia osteointegrata dovuta a una particolare chirurgia confermata da ripetute e accurate verifiche sperimentali. La metodica PHI consente una riparazione ossea di tipo primario. La guarigione ossea primaria è stata studiata soprattutto in ortopedia dal Prof. R. K. Schenk dell’Università di Berna. Oggi, con gli impianti PHI, si realizza il processo riparativo osseo primario anche nell’implantologia dentale. Mentre gli impianti tradizionali vengono inseriti nella cavità sempre con una manovra di forzatura, per avvitamento oppure per martellatura dei medesimi, con l’impianto PHI I’inserimento avviene per accoppiamento, senza forzatura. Questo significa non solo assenza di pressione, ma anche assenza di tensione. Il processo di integrazione dell’impianto PHI è stato valutato in uno studio multicentrico compiuto in 8 centri diversi su circa 2500 impianti inseriti nei 24 mesi e la percentuale di successo è risultata essere complessivamente pari al 99,28% (mandibola e mascella). Il valore scientifico delle sperimentazioni su coste bovine isolate, conigli, maiali e primati non umani, fatti in collaborazione con Università italiane (Chieti, Milano) e straniere (Buenos Aires, Dijon) sono state riconosciute a livello internazionale. Tali sperimentazioni sono state presentate a diversi congressi mondiali IADR (Singapore, 28-29 giugno 1995; San Francisco, 1317 marzo 1996; Orlando, 19-23 marzo 1997; Nizza, 24-27 giugno 1998; Vancouver, 9 marzo 1999; Montpellier, 29 settembre 1999; Washington, 1-3 giugno 2000; Chiba-Giappone, 27-30 giugno 2001; San Diego, 7 marzo 2002; Goteborg, 25-28 giugno 2003). Il sistema implantologico PHI consiste in uno strumentario chirurgico composto da un calibro osseo collimatore, da un mucotomo (o bisturi circolare opercolatore) con un puntatore centrale deputato all’invito per la fresa sonda e/o fresa a gradini, da un osteotomo e da un maschiatore. La fresa è composta da un gambo cavo, da una porzione liscia e dalla parte lavorante raffreddata. La rettifica cavitaria (osteotomia) è realizzata manualmente da un osteotomo composto da quattro lame incrociate parallele che proseguono apicalmente a generare nel sito chirurgico la forma definitiva. La maschiatura viene effettuata con uno strumento cavo che consente ai liquidi biologici di fuoriuscire evitando così il verificarsi di compressioni idrauliche intraossee. L’impianto PHI è costituito da un collo liscio cilindrico rettificato, da un fusto conico plasmato su cui sono realizzate 2 spirali differenziate. Il tappo-vite di guarigione viene impiegato concordemente alla misura dell’impianto, dell’ampiezza della gengiva e in base al protocollo prescelto. L’impianto PHI deve essere installato con gli strumenti chirurgici dedicati. Ciò significa che, se si impianta una protesi modello D3 (4,5 x 13) si deve usare: • una fresa gradini modello D3, • l’osteotomo modello D3, e infine • un maschiatore modello D3. 2 INDICAZIONI GENERALI ALL’IMPIANTO A GUARIGIONE PRIIMARIA Le indicazioni generali per l’inserimento di impianti sono: • ORTODONTICHE; • PARODONTALI; • PROTESICHE. In ortodonzia gli impianti possono essere usati nei soggetti con età superiore ai 16-18 anni, per rimpiazzare la mancanza di elementi naturali da usare come punti di attacco per l’applicazione di forze di tipo ortodontico. Nel trattamento della malattia parodontale gli impianti sono utili nell’esecuzione delle legature di gruppi di denti con eccessiva mobilità clinica. Lo scopo delle legature è di aumentare la stabilità dei denti, trasformandoli da elementi singoli in ponti di più elementi. L’eventuale presenza di pilastri molto solidi (impianti) può conferire alla struttura di collegamento (legatura) grande efficacia. Si tenga presente che la presenza d’infiammazione locale è una controindicazione temporanea assoluta alla operazione di impianto, il trattamento della parodontopatia è quindi un’operazione preliminare all’inserimento di impianti. Le indicazioni protesiche sono le più ampie, salvo nei casi d’inopportunità deontologica e di controindicazioni locali assolute. La collocazione di impianti, su cui ancorare la ricostruzione protesica, è sempre possibile e dev’essere considerata l’indicazione primaria. 3 CONTROINDICAZIONI ALL’USO DI IMPIANTI Le controindicazioni generali assolute all’uso degli impianti a riparazione ossea primaria restano a tutt’oggi da individuare. Più che di reali controindicazioni, si tratta di situazioni in cui operare pazienti con limitate speranze di sopravvivenza a breve termine sembra deontologicamente inopportuno. Dalle osservazioni raccolte risulta utile adottare un Iivello di prudenza adeguato allo stadio della malattia. Comunque l’applicazione della terapia implantoprotesica a pazienti affetti da malattie non gravi per le quali sia necessario applicare il concetto di prudenza (cioè riduzione delle sollecitazioni) rende necessario informare il paziente del maggior rischio d’insuccesso o di possibile minore durata degli impianti. Essere prudenti significa ridurre la sollecitazione sull’osso con tutti gli accorgimenti possibili e cioè: • AUMENTO DEL TEMPO DI RIPARAZIONE OSSEA; • AUMENTO DEL NUMERO DEI PILASTRI; • CONTATTI OCCLUSALI PUNTIFORMI; • CARICHI VERTICALI; • PERFETTO BILANCIAMENTO OCCLUSALE; • SUPERFICI DI MASTICAZION’E MORBIDE; • DOCCE OCCLUSALI NOTTURNE (BYTES) DI PROTEZIONE. 3 Si definisce riparazione ossea primaria il processo riparativo osseo, che si verifica a seguito dell’inserimento di un impianto nel tessuto osseo, con la seguente evoluzione: LA RIPARAZIONE OSSEA • a livello del tessuto osseo corticale la riparazione deve avvenire per rimodellamento haversiano che tocca il suo apice intorno alla PRIMARIA seconda settimana dall’intervento e che entra in fase di quiescenza entro il secondo mese. Nel femore di coniglio adulto, la formazione di osteoide fra impianto e corticale dev’essere assente; • a livello del tessuto osseo spongioso si deve verificare l’attivazione delle cellule ossee quiescenti dell’endostio e la produzione di osteoide nel coagulo organizzato, con netta evidenza al settimo giorno dall’operazione. Nel femore di coniglio adulto la successiva neoapposizione ossea e il contemporaneo rimodellamento, devono portare alla formazione di osso parzialmente rimodellato dopo circa quattro settimane come in una frattura composta; • assenza del fenomeno condroide che si verifica nelle fratture, assenza di un processo generalizzato e preventivo di riassorbimento del tessuto osseo all’interfaccia, • nel femore di coniglio adulto l’incremento delle resistenze offerte all’estrazione dell’impianto dev’essere pressoché lineare e portare a valori, a quattro settimane, superiori al 65% dei valori a sei mesi CONTROINDICAZIONI GENERALI ASSOLUTE CONTROINDICAZIONI GENERALI 1. Malattie gravi mentali o nervose congenite o acquisite tali da rendere difficoltose o impossibili sia la terapia sia la prognosi. 2. Malattie nervose ricorrenti o croniche in cui il rapporto del soggetto con la realtà attraversi dei periodi di labilità nei quali può essere compromesso il rapporto psichico del paziente con la protesi endossea. 3. Gravi malattie tumorali a prossimo esito infausto. 4. Età inferiore a 16 anni. Gravi malattie a carico: I) delle ossa: • OSTEOPOROSI GRAVE • OSTEITE DEFORMANTE DI PAGET • OSTEOMALACIA (DISTURBI OSTEOIDI E DELLA MINERALIZZAZIONE) • OSTEODISTROFIA FIBROSA SISTEMICA (RECKLlNGHAUSEN) • OSTEODISTROFIA RENALE • OSTEOPETROSI Il) del connettivo: • SCLERODERMIA • LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO • POLIARTRITE NODOSA III) del cuore: • PREGRESSI INFARTI DEL MIOCARDIO IN FORMA GRAVE • INSUFFICIENZA CARDIACA MAL COMPENSATA • PATOLOGIE VALVOLARI GRAVI • DISTURBI MINACCIOSI DEL RITMO DELLA CONDUZIONE IV) del sangue e del sistema emopoietico: • ANEMIE NON CARENZIALI IN FORMA GRAVE • COAGULOPATIE CONGENITE 3 CONTROINDICAZIONI GENERALI RELATIVE • SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA (AIDS) V) del sistema endocrino: • IPERFUNZIONE O IPOFUNZIONE GRAVE DELLA CORTECCIA SURRENALE • IPERFUNZIONE O IPOFUNZIONE GRAVE DELLE PARATIROIDI • IPERFUNZIONE O IPOFUNZIONE GRAVE DELLA TIROIDE • IPERFUNZIONE O IPOFUNZIONE GRAVE DELL’IPOFISI • DIABETE GIOVANILE O SCOMPENSATO VI) del rene: • INSUFFICIENZA RENALE CRONICA CON UREMIA VII) del fegato: • EPATOPATIE GRAVI VIII) del sistema nervoso: • COREA MINOR • SCLEROSI A PLACCHE (NEVRASSITE) Riassumendo sono fortemente controindicate, all’implantologia a riparazione ossea primaria, tutte le forme patologiche gravi a prossimo esito infausto. Sollecitano una grande attenzione nella valutazione dei singoli casi la collaborazione del Medico Curante e di eventuali Colleghi Specialisti. L’eventuale trattamento clinico deve essere caratterizzato da una estrema prudenza. Le forme patologiche con gravi disturbi del metabolismo del calcio e del tessuto connettivo; tutte le forme in cui il paziente non può essere trattato per turbe comportamentali e infine tutte le forme patologiche che necessitano di terapie croniche con cortisonici. Per le terapie cortisoniche si temono la depressione del sistema immunitario e la riduzione dell’osteogenesi conseguenti all’assunzione del farmaco. Grande rilievo assumono i dosaggi e l’associazione di patologie che possono sinergizzare gli effetti negativi della terapia cortisonica a livello immunitario edel metabolismo del tessuto osseo. Le malattie del connettivo, controindicano quindi in maggior misura l’impianto. La somministrazione di cortisonici in forma cronica a basso dosaggio non costituisce una controindicazione assoluta. Si deve avvertire il paziente che nel caso di somministrazione di elevati dosaggi cortisonici bisogna disporre anche una copertura antibiotica. Gli stati patologici che costituiscono controindicazioni relative, sono le malattie acute che vengono debellate con opportune terapie oppure stati transitori come la gravidanza o stati di malattia cronica congenita o acquisita in forma lieve o intermedia. Il riscontro di una patologia che potrebbe costituire un inopportuno trattamento sta a indicare collaborazione con il Medico Curante che dà in formazioni al riguardo. Si possono richiedere inoltre esami di laboratorio più mirati. 1. STATO DI GRAVIDANZA E PERIODO POST-PARTUM: • attendere il termine della gravidanza e periodo di allattamento. 2. OSTEOPOROSI IN FORMA NON GRAVE: • approfondire le analisi (valori ematici delle fosfatasi acida e alcalina). Se la forma è lieve si proceda come di norma, se la forma è intermedia si allunghino sino a sei mesi i tempi di guarigione e si 3 agisca attenendosi strettamente al concetto di limitazione delle sollecitazioni. 3. MALATTIE CARDIACHE NON GRAVI: • accertare la gravità della patologia interpellando il Cardiologo; accertare l’eventuale assunzione di anticoagulanti; richiedere eventualmente la sospensione del trattamento per riportare i valori della coagulazione almeno al 70% in occasione di applicazioni multiple di impianti, sempre a giudizio del Cardiologo. Disporre una copertura antibiotica opportuna. In alternativa, procedere all’applicazione di un solo impianto per intervento, in modo da ridurre le perdite ematiche, disporre inoltre a scopo emostatico una sutura intorno al collo dell’impianto. 4. DIABETE IN FORMA NON GRAVE: • sino a valori di circa 140-160 si aumenta il tempo di guarigione a mesi tre oltre si può arrivare sino a sei mesi a seconda della gravità. Dare una copertura antibiotica di almeno 12 giorni a partire da 2 giorni prima delI’intervento. 5. REUMATISMO ARTICOLARE ACUTO (RAA): • si eseguono gli interventi seguendo la profilassi (antibiotica) prescritta dal Medico Curante. 6. DIATESI ALLERGICHE: • si accerti l’eventuale allergia al titanio puro. 7. NEVRALGIA ESSENZIALE DEL TRIGEMINO: • si accerti la gravità della sindrome tenendo presente che l’impianto potrebbe rivelarsi un trigger. Se si decide per l’intervento, si metta il paziente in terapia con carbamazepina dieci giorni prima dell’intervento fino a venti giorni dopo. 8. ALTERAZIONI DELLA MOTILlTÀ SU BASE ANSIOSA: (SERRAMENTO ODIGRIGNAMENTO): • ci si attenga al concetto di limitazione della sollecitazione. È assolutamente controindicato per ricostruzioneprotesica l’uso della porcellana. La presenza di malattie croniche di lieve entità non controindica l’inserimento di impianti. Le condizioni patologiche croniche di media gravità consigliano una prudenza, che deve essere sempre posta in relazione alla gravità della patologia e della sua influenza sul metabolismo osseo. Il paziente deve essere informato della presenza di un maggior rischio e dev’essere consenziente. CONTROINDICAZIONI LOCALI ASSOLUTE Sono riconducibili a: • PATOLOGIE LOCALI NON OPERABILI DI TIPO TUMORALE • DEFICIT ANATOMICO NON CORREGGIBILE CON PLASTICA RICOSTRUTTIVA CONTROINDICAZIONI LOCALI RELATIVE Le controindicazioni locali relative sono: • DEFICIT ANATOMICO CORREGGIBILE ATTRAVERSO PLASTICA RICOSTRUTTIVA • INFIAMMAZIONE LOCALE ACUTA OCRONICA DEI TESSUTI MOLLI (PARODONTOPATIE) • PROCESSI INFIAMMATORI OSSEI LOCALI ACUTI O CRONICI • PRESENZA DI RESIDUI RADICOLARI NEL SITO DI INTERVENTO • PRESENZA DI DENTI INCLUSI NEL SITO D’INTERVENTO • ESTRAZIONE PREGRESSA DA MENO DI 30-60 GIORNI Le controindicazioni locali relative possono essere superate con trattamenti chirurgici che devono precedere l’operazione d’inserimento degli impianti. 44 VISITA IMPLANTOPROTESICA Il paziente inizia con una visita che ha lo scopo di stabilire la fattibilità di una soluzione implantologica, accertando la presenza delle indicazioni e delle eventuali controindicazioni assolute o relative, generali o locali. La visita del paziente si svolgerà nel seguente modo: • RACCOLTA DELL’ANAMNESI (APPOSITA SCHEDA) • ESAME RADIOGRAFICO • EVENTUALI ESAMI DI LABORATORIO • ESAME OBBIETTIVO • DIAGNOSI E PIANO DI TRATTAMENTO • MODELLI STUDIO E CERATURE DIAGNOSTICHE • TRATTAMENTO FARMACOLOGICO RACCOLTA DELL’ANANMNESI Le informazioni anamnestiche necessarie a stabilire le eventuali controindicazioni generali, in base alle quali si stabilirà sia l’opportunità dell’intervento sia il livello di prudenza da adottare, possono e devono essere raccolte su apposita scheda. ESAME RADIOLOGICO L’esecuzione delle radiografie endorali e panoramica sono di prassi necessarie. Si deve ricordare che l’ortopantomografia presenta un rapporto di ingrandimento dell’immagine di 1,25-1,30 volte. AI fine di controllare quale sia il reale rapporto d’ingrandimento è bene fare uso di una radiografia endorale, eseguita con tubo a raggi paralleli, eventualmente con l’aiuto di un centratore, che dà un rapporto di 1:1. Va ricordato che gli apparecchi radiografici panoramici presentano frequentemente rapporti d’ingrandimento di 1:1,5. Con una semplice Rx endorale possiamo controllare il vero rapporto d’ingrandimento del panoramico. Se il rapporto è compreso fra 1,25 e 1,30 è possibile leggere le misure sulla ortopantomografia con l’uso di appositi regoli trasparenti di acetato, che riportano in scala i vari tipi di impianto. TOMOGRAFIA ASSIALE Questa indagine fornisce indicazioni insostituibili. È consigliabile in COMPUTERIZZATA (TAC) tutti quei casi che presentano difficoltà di interpretazione dei dati ottenuti con i precedenti esami radiologici. Con una TAC siamo in grado di dirimere qualsiasi dubbio. Infatti la TAC fornisce una serie di sezioni successive delle arcate dentarie, molto ravvicinate, in scala 1:1, sia trasversali, sia longitudinali. Questa tecnica di indagine è stata aggiornata e adattata alle esigenze dell’implantoprotesi (Vecchi, 1994). Oggi si ottengono esami specifici dei siti implantari secondo direzioni prestabilite. È utile ricordare l’importanza medico legale di disporre dei sopracitati reperti diagnostici. EVENTUALI ESAMI DI LABORATORIO ESAME OBIETTIVO DIAGNOSI E PIANO DI TRATTAMENTO 10 4 L’approfondimento diagnostico di situazioni patologiche rese note o direttamente dal paziente, o da sospetti suggeriti dall’esame generale del paziente stesso, deve avvenire con la collaborazione del Medico Curante mediante tutti gli esami opportuni. Dai reperti specialistici del paziente si potrà avere un quadro preciso del caso e determinare così la condotta terapeutica implantoprotesica più appropriata. L’esame obiettivo del cavo orale comprende le seguenti manovre semeiotiche: • ispezione della cavità, individuazione dei siti di impianto; • palpazione dei siti d’impianto, valutazione dello spessore osseo della cresta, eventuale misurazione, previa anestesia, dei diametri trasversi dei siti d’impianto con il calibro osseo collimatore PHI o similare, a una profondità, nel fornice, adeguata (circa 1 cm), dal margine gengivale; • valutazione dei radiogrammi nei siti implantari. Sulla radiografia panoramica vanno evidenziate le formazioni anatomiche salienti, seni mascellari, canale mandibolare. L’eventuale TAC va esaminata nei punti di inserimento e va verificata la possibilità dell’impianto in relazione al Protocollo Chirurgico PHI. SE SI DEVONO ESEGUIRE OPERAZIONI FUORI PROTOCOLLO, IL PAZIENTE DEVE ESSERE INFORMATO DEI MAGGIORI RISCHI; • analisi dei rapporti occlusali con particolare attenzione alle eventuali anomalie e agli spostamenti che possono rendere difficile l’articolazione della ricostruzione protesica, alle estrusioni, alle vestibolarizzazioni e altro. È necessario che il piano di trattamento preveda gli interventi di adattamento e di regolarizzazione del tavolato occlusale dell’arcata in opposizione. È opportuno, qualora ci sia l’indicazione, eseguire due impronte-studio delle arcate e di una masticazione in modo che il piano di trattamento avvenga in collaborazione con il protesista e con il tecnico di laboratorio l’esecuzione di cerature-studio e quant’altro. È necessario che la manovra del chirurgo sia concertata e guidata per ottenere il miglior risultato della ricostruzione protesica. Il progetto della ricostruzione deve iniziare dalle cerature diagnostiche che indicano i punti dove è possibile inserire i pilastri. Dagli elementi derivati dall’esame anamnestico, dall’esame obbiettivo, dall’esame radiologico, dalle cerature diagnostiche, dalla TAC dentale e altri eventuali, è possibile disegnare, sulla panoramica, la disposizione degli impianti, dopo aver ben evidenziato il canale vascolo-nervoso mandibolare, le pareti dei seni mascellari e quelle delle fosse nasali. Il piano di trattamento deve essere predisposto in base alle necessità cliniche e a quanto si concorda con il paziente (provvisori, etc). La diagnosi include la determinazione del diametro trasversale degli impianti (dev’essere inferiore al diametro misurato nel sito osseo di almeno 1 mm meglio se 1,5-2 mm). La dimensione del tessuto osseo circostante l’impianto nel punto di minimo spessore, non deve essere inferiore a 0,5 mm. Il rispetto di questa norma è obbligatorio operando con il Protocollo Chirur- 4 MODELLI STUDIO E CERATURE DIAGNOSTICHE (*) Con masse siliconiche oppure con doppie masse in polietere. L’esecuzione di modelli studio e delle relative cerature diagnostiche (*), delle eventuali mascherine in resina atte a riportare sulla gengiva i siti d’impianto predeterminati, può essere usata come di studio del caso. Nei casi di ricostruzione di estese mancanze di denti è senz’altro indicata questa procedura. Lo studio, eseguito in collaborazione con il Protesista e il Tecnico di laboratorio, permette di individuare i siti più opportuni nonché gli accorgimenti operatori consigliabili a risolvere il caso. Il trattamento farmacologico del paziente è prescritto in base alle indicazioni specifiche del caso. Tuttavia, in linea di massima, e a titolo di indicazione generica, si può adottare il seguente schema: il paziente viene sottoposto sotto copertura antibiotica a partire dal giorno precedente l’operazione preferibilmente con penicillina semisintetica (amoxicillina, bacampicillina) 1 g x 2 volte al dì x os, per 6 giorni dopo l’operazione. Prima dell’intervento il paziente farà delle abluzioni con soluzione di clorexidina 0,1 0/0 (*) abluzioni che continueranno 2 volte al dì per 6 giorni dopo l’intervento. Prima dell’intervento verrà somministrato un analgesico, ad personam, (ad esempio un analgesico puro viminolum, dividol 2 x 50 mg x os) che verrà assunto anche dopo l’operazione nei dosaggi opportuni per il tempo necessario (1-2 gg). Di regola si somministra anche un antiflogistico puro (serrapeptasum, bromelaina). La somministrazione di prodotti che associano l’azione analgesica a quella antiflogistica (naprossene, ketoprofene, ibuprofene), può essere prescritta a condizione che il soggetto non presenti una diatesi gastrica. TRATTAMENTO FARMACOLOGICO gico PHI. Vi sono casi in cui si può scegliere un intervento non protocollare. Sono casi che debbono essere attentamente valutati ed eseguiti da Chirurghi esperti; per esempio negli impianti non protocollari (lunghi 6-8 mm o diametro 3), oppure nei casi in cui si esegue un’operazione di aumento del volume osseo. Gli interventi non protocollari aumentano il rischio d’insuccesso e il paziente deve esserne informato. Di norma si attuano per prime le terapie parodontali seguite dagli eventuali interventi estrattivi e dalla eliminazione delle infezioni apicali prossime ai siti implantari. Si procede all’operazione d’impianto quando i siti non presentano segni flogistici. Nella determinazione della dimensione verticale dell’impianto, è consigliabile mantenere una distanza minima dal canale mandibolare di 0,5-1 mm, riferendoci ovviamente alla radiografia. Anche la parete del seno mascellare andrebbe evitata con gli stessi margini, quando non si ritenga di procedere a un mini o medio rialzo del seno mascellare (intervento fuori protocollo). 5 PROTOCOLLO DI IMPIEGO DEGLI IMPIANTI PHI Gli impianti PHI possono essere usati come sostituti di radici dentarie sia singolarmente sia in associazione, formando radici multiple, sia come pilastri di ponti tradizionali e sia come sostegni di elementi in estensione. Naturalmente non tutti i tipi di impianto sono adatti a tutte queste funzioni. Per ogni situazione vi sono indicazioni diverse. Lo scopo del protocollo è fornire queste indicazioni nel modo più completo possibile. Gli impianti PHI possono assumere, entro 11 5 INDICAZIONI DEL TIPO MINIMO DI IMPIANTO PER SITO certi limiti, direzioni non parallele all’asse principale del carico dei denti. È consigliabile, tuttavia, non superare i 45° di inclinazione. In sintesi nei casi di disparallelismo, il moncone calcinabile cementabile, può assumere qualsiasi inclinazione meglio del prefabbricato costruito con angolazione predefinita. Lo spazio tra due impianti deve essere almeno 2 mm, ma si consiglia di lasciare almeno 4 mm per avere un setto osseo ben vascolarizzato e la possibilità di una buona igiene (lo spazzolino interdentale deve poter passare) e una migliore estetica. Per ogni sito impiantare esiste un impianto PHI di tipo e di dimensioni minime indicato. Il tipo di impianto verrà scelto in relazione alle caratteristiche locali del sito da impiantare. Sono disponibili impianti per osso di tipo D1, D2, D3 e D4. Il tipo di impianto da usare nell’osso D1 è l’impianto pallinato; esiste nei tipi 3,5x13 e 4x13 e va usato nell’osso essenzialmente corticale, senza la maschiatura. Nell’osso di tipo D2 e D3, vale a dire nelle sedi che in generale sono corrispondenti a 3, 4 inferiore ed a 2, 3, 4 superiore, possono essere indicati gli impianti sabbiati i quali sono, come ingombro del profilo esterno, una via intermedia tra l’impianto pallinato e l’impianto plasmato. Perciò, l’impianto sabbiato serve per l’osso D2, D3. Esso viene inserito quando si è compresi tra due corticali, ma l’osso centrale è spongioso. In altre parole, non siamo in una massa corticale, ma siamo tra due corticali in mezzo alle quali c’è dell’osso spongioso. Anche qui, per gli stessi motivi relativi all’impianto per osso D1, di solito non si fa uso del maschiatore. L’eventuale maschiatura viene decisa caso per caso. Per l’osso D3 e D4 verrà invece usato l’impianto standard, vale a dire l’impianto plasmato. Va precisato che nell’osso D3 verrà effettuata la maschiatura, mentre nell’osso D4 non verrà effettuata la maschiatura. Anche nelle zone distali inferiori, in presenza di osso particolarmente lasso, la maschiatura non deve essere effettuata. Per quanto concerne il Tuber (osso D4) occorre fare un foro di diametro inferiore a quello della vite (ad es. per la vite da 5 si fa un foro di 4,5 con la fresa a gradini), poi si procede con un passaggio di osteotomo, senza maschiatura. 17-27 16-26 15-25 14-24 13-23 12-22 11-21 12 TABELLA IMPIANTI MINIMI PER SITO 4,5X10 37-47 4,5X13 36-46 4,5X10 35-45 4X10 34-44 4X13 33-43 3,5X10 32-42 4X10 31-42 4,5X10 4,5X13 4,5X10 4X10 4X13 3,5X10 4X10 5 (*) L:impianto di lunghezza 8 mm plasmato va considerato per l’osso superiore; infatti l’impianto plasmato è specifico per l’osso spongioso, mentre l’impianto liscio è specifico per l’osso compatto. L’impianto di lunghezza 8 mm non plasmato è per l’osso inferiore perché l’osso inferiore è tipicamente un osso corticale. Per lo stesso motivo anche l’impianto di lunghezza 6 mm non plasmato va messo solo nell’inferiore, proprio perché l’inferiore è un osso corticale. INDICAZIONI DEL TIPO DI IMPIANTI NELLE CRESTE RIASSORBITE, ATROFICHE, O IN PRESENZA DI PARETI SOTTILI AI disotto di queste dimensioni, che sono quelle protocollari, è comunque possibile una terapia implantoprotesica con buona prognosi a condizione che si rispettino alcune regole generali: • non si costruiscano ponti, ma solo elementi saldati fra loro: un impianto, un dente; • ove necessario, si costruiscano denti biradicolari, al limite anche triradicolari; • nelle zone diatoriche si mantenga almeno al diametro 4, il concetto è che nelle zone di carico, specie mandiboiari, l’impianto basso e largo funziona, mentre alto e stretto non funziona. Queste situazioni fuori protocollo, comportano un aumento del rischio, circostanza che deve essere segnalata al paziente e ben studiata dall’operatore. Rispettando le dimensioni minime riportate in tabella, si possono eseguire anche ponti classici con un solo elemento intermedio. Non vanno mai costruiti ponti con un numero di elementi intermedi maggiore di uno. Alcuni lavori (Kregzde 1993) che analizzano le sollecitazioni sia dell’osso sia dell’impianto, documentano in modo convincente che la frammentazione delle strutture protesiche in unità quanto più ridotte possibili, riduce sensibilmente le sollecitazioni sull’osso e sull’impianto. Tutto ciò risulta in linea con la tendenza alla riduzione dell’estensione delle strutture protesiche come provvedimento di abbassamento del grado di iperstaticità. Un grado di iperstaticità elevato risulta tanto più pericoloso quanto più risultano indeterminate le forze agenti: infatti è sostanzialmente impossibile prevedere come si comporterà una struttura protesica iperstatica se le forze che la sollecitano sono indefinite. Inoltre, eseguendo ricostruzioni limitate, il segmento osseo in cui affondano gli impianti resta libero di muoversi secondo i carichi funzionali e non viene minimamente bloccato dalla protesi. Gli impianti non protocollari di lunghezza 6 e 8 mm in versione non plasmata si usano esclusivamente nella mandibola, mentre per il mascellare l’impianto di lunghezza minima è di 8 mm, ma in versione plasmata. È evidente che nella mascella non si useranno mai impianti non plasmati (*). La ricostruzione protesica con impianti PHI rende possibile eseguire l’estensione di un elemento, ma soltanto dopo due impianti consecutivi. Nel caso di ricostruzioni molto estese si costruiscano travate separate di pochi elementi, senza alcun collegamento a incastro (vedi interlock o simili). Il collegamento con denti naturali è sempre sconsigliabile; tuttavia qualora lo si volesse eseguire non sarà di nocumento alcuno se il dente naturale verrà considerato elemento passivo e non portante del ponte. Impianto ESO-ENDO. L’impianto eso-endo è indicato per implantazioni in presenza di una parete scoscesa, conseguenza del riassorbimento osseo. In queste situazioni l’inserimento dell’impianto provoca dei danni alla cavità impiantare e riduce la superficie di contatto tra impianto e tessuto osseo. Più precisamente, i problemi provocati da tale inserimento sono due: 1) il contorno del foro, a causa dell’elevata convessità della corticale di ingresso, risulta particolarmente ovalizzato; la spirale da spongiosa danneggia la corticale che contorna il foro, provocando 13 un riassorbimento chirurgico di tipo meccanico con conseguente diminuzione della superficie di contatto osseo; 2) esiste una differenza di spessore e di durezza tra la parete linguale e la parete vestibolare; la parete linguale spinge l’impianto verso l’esterno, provocando un cambiamento dell’asse di inserzione; l’impianto si inclina vestibolarmente con conseguente danneggiamento della cavità impiantare. Queste situazioni si possono riscontrare sia nelle creste sottili dove occorre effettuare il foro, sia nel postestrattivo laddove siamo costretti a cambiare l’asse della radice. In questi casi la soluzione è certamente l’impianto eso-endo, perché consente un inserimento perfettamente in asse con la cavità implantare, che viene preservata da possibili danni. Naturalmente, nelle creste atrofiche, il lato che resta scoperto sarà oggetto di rigenerazione tissutale (con l’ausilio dell’eventuale membrana). Va comunque precisato che, date le condizioni particolari (creste atrofiche e chirurgia ricostruttiva) il livello di successo, debitamente segnalato anche al paziente, può non essere quello degli impianti standard. IMPIANTI MRS PER Definizioni. Il mini rialzo di seno mascellare è un rialzo effettuato MEDIO RIALZO DI SENO attraverso una foratura e un successivo innalzamento del pavimento del seno mediante uno scalpello, in un tessuto osseo di altezza MASCELLARE 5 da 4 a 8 mm. Il medio rialzo di seno è un rialzo del pavimento del seno effettuato direttamente con uno scalpello, in un tessuto osseo di altezza da 2 a 4 mm. L’impianto MRS è stato progettato per il medio rialzo di seno e per casi particolari di mini rialzo. Mini rialzo Il mini rialzo è un’operazione che si rende necessaria allorquando non si dispone di sufficiente tessuto osseo per l’inserimento di un impianto dentale in corrispondenza del seno mascellare. Tale tecnica prevede la preparazione della cavità se condo i passaggi del protocollo di base, fino al raggiungimento della corticale del pavimento del seno. A questo punto, con un apposito scalpello, mediante piccoli colpi si provoca la frattura del pavimento e contemporaneamente il distacco della membrana di Schneider . In questo modo si previene anche la possibilità di lacerazioni della membrana stessa. In particolare, in presenza di creste ossee riassorbite dal profilo scosceso, l’operazione di mini rialzo del seno mascellare può essere complicata dalla presenza di un foro dal bordo ellittico in cui, per le medesime considerazioni fatte per l’impianto eso-endo, la spirale da spongiosa risulta essere inadatta. Visto che si è già in presenza di una scarsa quantità di osso disponibile, diventa indispensabile minimizzare il riassorbimento dovuto alla manovra di inserimento dell’impianto. Il profilo poco aggressivo dell’impianto MRS lo rende particolarmente indicato per queste particolari situazioni. Medio rialzo Per medio rialzo di seno mascellare si intende un’operazione di innalzamento del pavimento del seno ottenuta direttamente tramite uno scalpello. Lo spessore osseo di sostegno, di spessore tra 2 14 5 INDICAZIONI PER GLI IMPIANTI POST-ESTRATTIVI IMMEDIATI E PROTOCOLLO CHIRURGICO e 4 mm, è costituito completamente da osso corticale. Si accede all’osso secondo le due tecniche a protocollo (opercolo gengivale o incisione in cresta). Se l’osso è liscio, si procede direttamente alla frattura mediante lo scalpello; se l’osso è scabro e presenta delle piccole creste, queste vanno spianate utilizzando un’apposita fresa da osso. L’azione dello scalpello deve essere effettuata rigorosamente su superficie piana, l’avanzamento deve essere effettuato con piccoli colpi. AI momento della frattura l’operatore avverte un cambiamento nel rumore del martelletto e nella resistenza all’avanzamento, che diventa quasi nulla. A questo punto si effettua l’innalzamento del seno e della membrana di Schneider, e si procede con l’inserimento di riempitivo osseo (osso autologo o materiale osteoriproduttore, o una combinazione dei due mista a lincomicina) in quantità corrispondente ad una goccia d’acqua. Vista l’esiguità di tessuto osseo a disposizione, gli obiettivi principali da raggiungere sono due: 1) ottenere una stabilità primaria sull’osso corticale; 2) minimizzare il riassorbimento osseo dovuto alle manovre chirurgiche. Tale scopo si raggiunge con l’impianto MRS, che è provvisto di una particolare filettatura adatta per l’osso corticale. La guarigione avviene per callo esterno, e deve essere diagnosticata, a 3 e 6 mesi, radiologicamente e clinicamente. Vista la particolarità delle condizioni iniziali, va tenuto conto del fatto che il livello di successo potrebbe rivelarsi inferiore a quello degli impianti standard. Proprio a causa delle condizioni particolari che comporta l’uso di tali impianti, va precisato che sia per il mini che per il medio rialzo occorre tenere attentamente conto non solo delle controindicazioni generali (come da protocollo chirurgico PHI), ma anche delle controindicazioni locali relative alle patologie del seno mascellare (es.: sinusiti acute e croniche). Spesso, soprattutto nei giovani, la perdita ossea postestrattiva risulta imponente già in pochi mesi. La conseguente riduzione dei tessuti molli comporta in genere la scomparsa della maggior parte della gengiva. In particolare risulta deprecabile la perdita della gengiva marginale, tessuto che sembra in grado di fornire una grande stabilità biologica alla zona del solco. Per nulla trascurabile è anche la conservazione delle papille è così che l’impianto post-estrattivo immediato permette il miglior risultato raggiungibile con la terapia implantoprotesica, fornendo in assoluto la situazione più simile a quella del dente naturale. Con la conferma bibliografica dell’affidabilità della tecnica, l’impianto post-estrattivo immediato è da considerare l’indicazione obbligata qualora esistano i presupposti per il successo dell’intervento (vedi riquadro alla pagina seguente). Questi si configurano come un vero e proprio protocollo generale della tecnica: • ESISTENZA DELLE QUATTRO PARETI ALVEOLARI; • SPAZIO PERIAPICALE DI ANCORAGGIO: 2 O 3 MM INTORNO ALL’APICE DELLA RADICE; • ASSENZA ASSOLUTA D’INFIAMMAZIONE LOCALE; • RIMOZIONE CHIRURGICA DI TUTTI I TESSUTI NON ALVEO15 5 LARI (EPITELIO E TESSUTO DI GRANULAZIONE); • POSIZIONE DEL COLLO DELL’IMPIANTO A FILO DELLA GENGIVA ALVEOLARE; • PRESENZA DI COAGULO PERIMPLANTARE (L’IMPIANTO NON DEVE OCCUPARE TUTTO L’ALVEOLO); • COPERTURA ANTIBIOTICA DEL PAZIENTE: 2 GIORNI PRIMA DELL’INTERVENTO; • EVITARE RIEMPITIVI ALLOTROPICI; • SUTURARE SOLO PER POSIZIONARE L’EVENTUALE LEMBO. I VANTAGGI NELL’IMPIEGO DEGLI IMPIANTI POST-ESTRATTIVI In presenza di un alveolo a quattro pareti e di un adeguato livello cresto-marginale congli impianti immediati post-estrattivi otteniamo dei vantaggi: - di natura psicologica (la certezza del paziente che non vengono persi in maniera acuta e drammatica gli elementi frontali) - di tempo (riduzione drastica del periodo di trattamento) - morfo-strutturali (tutto il volume ela forma della cresta ossea alveolare vengono mantenuti) - estetici (perché si mantiene l’andamento della festonatura gengivale e la forma e il volume delle papille); - biomeccanici (perché si ottienen sempre una buona stabilità primaria dovuta alla cortex alveolaris e perché tutta l’architettura ossea perimpIantare è già funzionalizzata al carico inoltre la posizione geometrica assiale è sicuramente migliore) - di facilità d’intervento (una parte del tunnel impIantare è già pronta anche se generalmente si deve correggere l’asse di inserimento); - di riduzione del trauma (in condizioni ottimali è sufficiente un solo intervento) - protesici (perchè il migliore asse, il profilo d’emergenza e il mantenimento dei tessuti duri e molli facilitano l’integrazione del restauro protesico); - economici (ridotto numero di interventi - d’attesa e alla poltrona - e di gestione di tutta la riabilitazione implantoprotesica); - di predicibilità (perché facilita d’intervento e favorevoli condizioni biologiche sono i presupposti per una guarigione ottimale con restitutio ad integrum pressoché totale). 16 Nelle situazioni cliniche che non rispettano il protocollo si eseguiranno gli impianti dopo un periodo al termine del quale si devono verificare due condizioni cliniche. La primà è la scomparsa di qualsiasi segno d’infiammazione locale e la seconda è che si sia formato un callo osseo alveolare di sufficiente consistenza. La consistenza del callo viene giudicata dalla radiopacità alveolare. Tutto questo può essere raggiunto in un periodo che va da uno a tre-quattro mesi. Le tre situazioni in cui è assoluta l’indicazione all’impianto post-estrattivo immediato secondo la metodica PHI sono: • AVULSIONE DEL PRIMO PREMOLARE SUPERIORE. In questo caso è necessario abbattere con una fresa il setto interradicolare sino all’apice alveolare. L’impianto va inserito in questa posizione e quindi l’operazione può utilmente essere eseguita subi- 5 EDENTULISMO TOTALE La ricostruzione implantoprotesica fissa di una arcata segue le regole generali già esposte. Sintetizzando possono essere previsti tre o quattro ponti. Essi collegheranno l’incisivo centrale al canino o in alternativa i due canini, il primo premolare al primo molare ed eventualmente anche al secondo molare con relativo pilastro. La necessità di disporre i pilastri lungo le pareti del seno non altera lo schema. Nel caso si debbano usare impianti di dimensioni inferiori a quelle protocollari si disporrà un impianto per dente e ove necessario (primi molari) anche due. L’edentulismo totale può essere trattato con protesi totale mobile ancorata a barra di Ackermann. Il paziente è assai soddisfatto da questo genere di ricostruzione che ha il pregio di coniugare ottima funzionalità a estetica soddisfacente e a un costo più contenuto rispetto a una ricostruzione fissa. IMPIANTI NON PROTOCOLLARI Gli impianti PHI protocollari sono quelli che hanno un diametro superiore a 3 mm e una lunghezza di almeno 10 mm (*). Pertanto, non protocollari sono gli impianti di diametro 3 mm e quelli di altezza 6 e 8 mm. Questa denominazione deriva dal fatto che, contrariamente agli altri impianti PHI, questi possono essere genericamente considerati di durata inferiore a quelli protocollari. Infatti il loro inserimento avviene in volumi ossei ristretti e nella mandibola, corticalizzati. Nella mascella vengono a contatto con osso spongioso per lo più lasso (D3); per questa ragione esistono gli impianti di altezza 8 to dopo l’abbattimento del setto inter-radicolare; • AVULSIONE DEL PRIMO MOLARE SUPERIORE PARODONTOSICO. Quando il dente presenta l’esposizione della triforcazione, della porzione radicolare e le sue condizioni cliniche ne consigliano l’avulsione allora vi è l’indicazione assoluta a un duplice impianto post-estrattivo immediato. Essa è giustificata dal fatto che un periodo di guarigione post-estrattiva comporterebbe la scomparsa di tutto il tessuto osseo di supporto, perciò inserendo gli impianti immediatamente dopo l’avulsione si riesce ad attuare una terapia implantoprotesica laddove, attendendo, non sarebbe attuabile (escludendo interventi di rialzo del seno). L’intervento si esegue sfruttando gli alveoli palatino e mesiale; in entrambi si perfora l’apice alveolare sino al limite della corticale del seno mascellare. In seguito si alesano le cavità in cui si dispongono gli impianti; in generale nell’alveolo palatino può essere posizionato un impianto da 4,5/13 mentre in quello mesiale un 3,5/10-13; • AVULSIONE DEL SECONDO MOLARE SUPERIORE, IN PARTICOLARE SE MANCA ANCHE IL PRIMO MOLARE. L’intervento d’impianto della protesi endossea è giustificato dalla possibilità di usare la parete distale dell’alveolo residuo come punto di repere. L’impianto infatti viene posizionato nella tuberosità con direzione parallela alla parete del seno. Si consiglia di non usare impianti inferiori a 4 mm di diametro e 13 mm di lunghezza nel tuber. Gli impianti post-estrattivi immediati devono avere tempi di guarigione che permettano il completo rimodellamento dei tessuti perimplantari. In genere il tempo necessario può essere stimato in tre mesi: ogni caso va valutato singolarmente. (*) Si consiglia di iniziare con impianti di lunghezza 13 mm o 16 mm e diametro 4,5; solo in un secondo tempo si consiglia di passare all’impianto di 10 mm. 17 5 6 (*) Il fatto di non sollevare il lembo gengivale è una facilitazione possibile: se si ritiene utile sollevare il lembo, lo si può fare tranquillamente. 18 millimetri in versione plasmata appunto per il mascellare. Gli impianti PHI non protocollari, sia quelli diametro 3 mm sia quelli di altezza 6 e 8 mm, sfruttano volumi ossei molto ridotti, vale perciò la regola che se ne usi almeno uno, per ogni radice mancante. Inoltre gli impianti di diametro 3 mm non sono indicati per protesi fisse se non in accoppiata con impianti di diametro maggiore; mai comunque in masticazione. La loro maggiore indicazione è l’ancoraggio di protesi mobili in creste sottili. Gli impianti di calibro da 4 a 5 mm, altezza da 6 a 8 mm, invece sono indicati per le protesi sia mobili sia fisse. In quest’ultimo caso si ricordi: mai meno di un pilastro per ogni corona. Dovendo penetrare ossa particolarmente corticalizzate, gli impianti non protocollari sono privi di maschiatore e quindi sono lisci. Ciò dipende dalle particolari esigenze locali. Infatti la maschiatura procurerebbe fratture nelle corticali laterali il successivo inserimento dell’impianto provocherebbe il dislocamento dei segmenti ossei fratturati. La scomposizione delle fratture della corticale, provocata dall’inserimento successivo alla maschiatura, di un impianto plasmato, provocherebbe oltre alla fratturazione delle corticali, il loro dislocamento causato dalla ruvidità della superficie. PROCEDURE OPERATORIE Le procedure operatorie che permettono l’esposizione dell’osso corticale, mediante il bisturi circolare opercolatore o mediante incisione in cresta e divaricazione, formalizzano il presente protocollo chirurgico. Le procedure che prevedono il sollevamento di un lembo (*), contemplando cioè, oltre all’incisione in cresta anche incisioni di scarico laterali, costituiscono protocolli più complessi, che non rientrano in quello di base PHI. Qualora si volesse ricorrere a incisioni di scarico, se ne consiglia una di scarico distale agli impianti. Questa, preferibilmente distante almeno 3-4 mm dall’ultimo impianto, sarà eseguita a spessore parziale nella zona distale vestibolare per circa 5 mm, e mesialmente a spessore totale. Con tale accorgimento la distribuzione del tessuto molle intorno agli impianti non produce un’esposizione ossea nella zona dello scarico distale. Le procedure sono due e differiscono perché nella prima si dispone di gengiva aderente in abbondanza (sia in estensione sia in spessore; risulta utile l’eliminazione di una certa quantità di tessuto, che in genere si verifica nelle zone superiori distali), mentre nella seconda si prevede il risparmio della gengiva aderente e la sua localizzazione attorno al collo dell’impianto. Pertanto, si deve distinguere nel protocollo chirurgico PHI una Procedura A (o esposizione della corticale ossea) euna Procedura B (o incisione della cresta). Il protocollo chirurgico PHI si attua nei pazienti con situazioni anatomiche favorevoli: le creste ossee del mascellare corrispondono alle classi O-l-II secondo Fallschussel, al gruppo alto e arrotondato e in alcuni casi al gruppo alto e sottile nella mandibola secondo Atwood e Coy. Nel sito d’impianto non vi devono essere avulsioni pregresse che al controllo radiologico nonmostrino una sufficiente radiopacità nel sito dell’estrazione. Inoltre deve essere presente nel sito dell’operazione una quantità di gengiva aderente sufficiente a circondare il collo dell’impianto per almeno 3 mm sia vestibolarmente sia lingualmente: è il caso, per esempio, di barre 6 ANTIBIOTICI LOCALI per over-denture superiori o inferiori, dove sia necessario avere ingombri minimi (Procedura A o esposizione della corticale ossea). Altrimenti si ricorrerà a una differente procedura di esposizione dell’osso corticale (Procedura B o incisione in cresta). La Procedura B è più adatta alle zone in cui sia necessario o conveniente risparmiare il tessuto aderente o incrementarlo. La preparazione della sala chirurgica e del campo operatorio devono permettere l’esecuzione di tutte le operazioni concernenti l’intervento in condizioni di sterilità; ogni strumento chirurgico quindi deve essere introdotto nel cavo orale in tale condizione. Il campo operatorio viene preparato con abluzioni di clorexidina in soluzione allo 0,1%. Viene praticata l’anestesia locale che è di tipo plessico terminale; la tronculare deve essere evitata per mantenere la sensibilità del canale vascolo-nervoso mandibolare. Va ricordato che durante gli interventi ambulatoriali di chirurgia orale, quale che sia il livello di sterilità della sala operatoria, si deve abbondare in lavaggi con soluzione antibiotica per ridurre sempre più la carica batterica. Questa precauzione è tanto più importante in implantologia, poiché in questa disciplina è fondamentale un buon processo riparativo osseo e il maggior nemico del processo riparativo sono le complicanze infettive. Perciò una certa profusione di soluzione antibiotica è buona norma durante tutto l’intervento implantare. La scelta dell’antibiotico deve essere mirata a evitare l’eventuale sensibilità; perciò qualsiasi antibiotico si usi, ci si deve dapprima accertare che il paziente non sia allergico o sensibile ad esso. È utile inoltre usare un antibiotico dotato di buona diffusione ossea per facilitarne il riassorbimento, evitando che si formino bolle di farmaco non più sterile (dopo 12-24 ore) e di difficile eliminazione locale. Un esempio di antibiotico con buon tropismo osseo è la lincomicina. Questo antibiotico si presta per un uso locale. Infatti, pur dando luogo a qualche episodio di allergia crociata con la penicillina, esso viene raramente usato fuori dall’Ortopedia. Nell’uso clinico viene mantenuto come antibiotico di riserva, poiché in qualche caso (1:100.000) può dare come complicanza la gastroenterite emorragica (che talvolta è a esito infausto), oltre a evitare lo sviluppo di ceppi resistenti. È quindi assai raro che il paziente sottoposto alla cura implantoprotesica sia stato in precedenza trattato con Iincomicina. Questo riduce drasticamente il rischio di pazienti sensibilizzati. Inoltre la gastroenterite emorragica si manifesta in seguito alla somministrazione protratta di antibiotico, una sola applicazione locale rende questa complicanza molto rara, estremamente improbabile e certamente non importante a livello di gravità. Certamente l’uso locale non determina lo sviluppo di ceppi resistenti come si verifica nell’uso clinico prolungato. Tutte queste considerazioni (pur non esimendoci dal sottoporre il paziente al test di allergia, se è manifesta una sensibilità alla penicillina o comunque se si registra una diatesi allergica), fanno della lincomicina un ottimo antibiotico per uso locale in chirurgia odontostomatologica. A livello pratico è utilissimo tenere a portata di mano due siringhe contenenti 4 mg ciascuna di betametasone in soluzi19 6 PROCEDURA A ESPOSIZIONE DELLA CORTICALE OSSEA PROCEDURA B INCISIONE DELLA CRESTA (*) La corticale buccale è sempre da rispettare. Vestibolarmente l’insufficienza della corticale viene corretta con tecniche di rigenerazione che comunque devono riguardare, al massimo, i due terzi coronali. 20 one. In caso di manifestazioni allergiche, è possibile fare un’immediata infiltrazione di betametasone nel pavimento della lingua. Questa operazione dà tempestiva e assoluta certezza del risultato. I successivi provvedimenti possono essere presi con assoluta tranquillità. Dopo aver praticato l’anestesia locale, si procede alla misurazione dello spessore della cresta ossea con la pinza calibro osseo PHI. Nell’eventualità di anomalie come sottosquadri, se viene constatata la presenza di uno spessore osseo sufficiente, si traccia un punto sulla gengiva (con un pennarello adatto) in mezzo ai due aghi indicatori della pinza calibro osseo (fig. 1). Questo processo consente di collocare l’impianto con sicurezza senza fenestrare la parete ossea (fig. 2). L’intervento viene di norma preceduto da un sondaggio, a cielo aperto, eseguito con apposita fresa sonda, strumento cilindrico sottile che può essere utile per stabilire con precisione attraverso opportune radiografie (fig. 3) la dimensione verticale dell’impianto e che fornisce inoltre una prima sottile traccia per le successive operazioni. La posizione dell’impianto nell’osso deve tendere alla centralità del tessuto osseo spongioso. L’asse longitudinale dell’impianto verrà così orientato sulla linea mediana fra le due corticali, vestibolare e linguale; se esiste un sottosquadro la mediana è quella del sottosquadro. Il corretto uso del calibro osseo collimatore permette all’impianto di restare contenuto nel volume osseo. Nel piano mesio distale la direzione sarà quella più conveniente, in genere con inclinazione distale. Questa procedura permette di esporre la corticale ossea nel punto dell’intervento senza scollare un lembo: ciò riduce il costo biologico dell’operazione e la semplifica notevolmente. Si adotta in tutti i casi in cui ci sia abbondanza di gengiva attorno all’impianto, perimetralmente circa 3 mm. Anche un notevole spessore della gengiva indica l’uso dell’opercolatore. Segnata la posizione dell’impianto sulla gengiva, utilizzando nel caso un’apposita mascherina, dopo aver controllato con il calibro osseo collimatore che il punto dell’ingresso dell’impianto sia compatibile con l’anatomia profonda della cresta ossea, si procede all’esecuzione dell’incisione preliminare utilizzando l’apposito bisturi circolare del calibro dell’impianto prescelto (fig. 4). La velocità di rotazione del bisturi deve essere molto moderata (50-100 giri pm). Si procede al distacco del residuo gengivale circolare con uno scollatore chirurgico adeguato. Dopo aver pinzato il residuo con un klemmer, lo si disseziona con un bisturi e lo si asporta esponendo la superficie ossea. Nel caso in cui la gengiva aderente sia scarsa e non circondi per almeno 3 mm il collo dell’impianto, allora è consigliabile risparmiare la gengiva aderente e disporla in modo da formare un collare protettivo sulla circonferenza dell’impianto (*). Questo implica una posizione precisa a favore della presenza di un collare di gengiva aderente attorno all’impianto. L’osservazione clinica (15 anni) ci consente di essere in favore della presenza di questo collare gengivale come fattore protettivo della parte immersa dell’impianto. Un orientamento in tal senso va espresso in quanto la letteratura (Krekeler 1985) sembra non rilevare livelli di successo differenti per 6 impianti circondati o non circondati da gengiva aderente, in condizioni di ottima igiene. La gestione clinica dei fatti infiammatori acuti perimplantari, permette di rilevare che questi fatti si manifestano, nella stragrande maggioranza dei casi, in impianti che sono sprovvisti del collare di gengiva aderente, in tutto o in parte. Nella pratica clinica, è frequente il rilievo di comportamenti non corretti da parte del paziente che risulta infedele nel mantenimento igienico della sua restaurazione protesica. In questi casi la durata dell’impianto protetto dalla gengiva aderente non solo è superiore, ma la stessa qualità della vita dell’impianto è decisamente migliore di quella di un impianto nella mucosa libera. Per riassumere, se esiste la gengiva aderente, la possibilità di perimplantiti in condizioni di igiene non perfette, è drasticamente ridotta. Un tema molto interessante può essere rilevare il numero di fatti infiammatori acuti che si manifestano in condizioni di scarsa igiene controllata nelle due differenti situazioni: di impianti con o senza il collare di gengiva aderente. Il caldeggiare la presenza di un collare di gengiva induce a favorire gli interventi di innesto, precedenti l’impianto, in zone dove sia possibile, per l’esiguità del tessuto, adottare la tecnica di conservazione e di allargamento della gengiva. Nella zona in cui si intende inserire l’impianto, si pratica una incisione in cresta a spessore totale, di forma lineare (fig. 5), che divida più o meno a metà il tessuto aderente. Può essere utile arrivare sino al solco del dente mesiale. Con uno scollatore si divarica il tessuto per esporre circa 3 mm di osso corticale. Si esegue poi l’intervento attraverso questa apertura, tenendo il collo dell’impianto sotto il filo della gengiva, ma sopra il filo della corticale. Terminato l’impianto, si sutura la gengiva (fig. 6). Con questa operazione la gengiva viene sostanzialmente divaricata intorno all’impianto o agli impianti. Il risultato finale (fig. 7) è veramente interessante poiché si ottiene un aumento netto del tessuto aderente che arriva a contenere completamente gli impianti, partendo da un cercine gengivale a volte minimo. È chiaro che nelle zone frontali le possibilità offerte da questa tecnica sono veramente sorprendenti in quanto consentono il ripristino di deficit tissutali (anche ossei) inestetici e la ricostruzione di papille e parabole. Estetica e funzionalità vengono così ripristinate in modo semplice nello stesso intervento di impianto. 21 Foto 1. Pinza calibro osseo PHI. I due aghi, piegati a 90°, servono a visualizzare il sottosquadro osseo. Foto 2. Schema di funzionamento della pinza calibro osseo PHI. È possibile segnare con un pennarello il punto di entrata della fresa sonda sulla gengiva, in modo da centrare il sottosquadro osseo. Foto 3. Rx di controllo della profondità dell’impianto. Con la fresa sonda si raggiunge la profondità più idonea (già prevista in base ai dati radiografici), effettuando poi la verifica con una Rx endorale. Foto 4. Aspetto dell’opercolo gengivale, eseguito con un mucotomo (o bisturi circolare opercolatore PHI). Foto 5. Incisione in cresta e divaricazione della gengiva, eseguita per riposizionarla attorno al bordo degli impianti. Si ottiene così una perfetta chiusura, con un modestissimo impegno chirurgico. Foto 6. Sutura della stessa breccia dopo l’inserimento degli impianti. In questo caso particolare la sutura è in catgut; di norma la si esegue in seta calibro 3/4 zeri. Foto 7. Guarigione del caso precedente. È evidente il brillante risultato ottenuto. INCISIONE DELLA CORTICALE E FRESATURA PILOTA FRESATURA DELLA CAVITA’ PRELIMINARE 6 (*) Le frese chirurgiche e l’osteotomo alesatore sono costruiti in acciaio chirurgico ad alta resistenza. 24 Nel punto di inserimento degli impianti viene praticata una foratura della corticale con strumento rotante adatto, di diametro massimo di 1 mm. La corticale esposta può presentare un profilo appuntito o comunque tale da rendere difficile il posizionamento corretto della fresa pilota. Il metodo più semplice e di minor costo biologico è quello di affrontare la fresatura pilota quasi ortogonalmente all’osso esposto vestibolarmente. Superata la prima corticale si allineerà gradualmente la fresa pilota all’asse dell’impianto. In alternativa il profilo della corticale può essere regolarizzato con un’operazione di osteoplastica. La fresatura della cavità preliminare avviene in unica soluzione nell’osso D2, D3, D4; nell’osso D1 avviene per gradi. Il processo di fresatura (*), con fresa a gradini (senza taglienti laterali) permette alle frese un alloggiamento autocentrante rispetto alle corticali ossee. Queste, essendo più consistenti della spongiosa, possono utilmente provocare piccoli spostamenti laterali che portano la fresa nella zona ossea più morbida e centrale della cresta. Nell’osso corticale (tipo D1) la fresatura progressiva esegue un’asportazione di quantità di tessuto osseo molto ridotta consentendo una manovra di formazione della cavità molto delicata. Il numero di passaggi e di calibri da impiegare successivamente dipende dal tipo di consistenza dell’osso. Si provvede, quindi, alla collocazione sul manipolo contrangolo, della fresa a gradini prescelta per iniziare l’esecuzione della cavità preliminare. La velocità di rotazione della fresa deve essere molto ridotta (70-100 giri pm). È preferibile usare manipoli contrangoli con riduzioni elevate (70-260 o superiori). Si controlla che il flusso di soluzione fisiologica (temperatura ambiente) proveniente dalla fresa sia regolare. Il flusso deve essere caratterizzato da una bassa pressione e da un’abbondante portata; flussi ad alta pressione possono essere molto pericolosi. Essi possono dare luogo a enfisemi liquidi, per esempio della glottide con rischio di vita per il paziente (in letteratura descritti due decessi per enfisema liquido). Si pongono l’indice e il pollice della mano sinistra, in opposizione, ai lati del sito da operare, si posiziona l’apice della fresa nel tunnel creato dalla fresa sonda e si procede alla fresatura lungo il tunnel già tracciato dalla fresa sonda. La pressione da esercitare sul manipolo è quella adatta a provocare l’affondamento della fresa, questa tende a impegnarsi spontaneamente nel canale già tracciato seguendo la minor consistenza della midollare. La linea di avanzamento è perciò prestabilita ed è la linea o lo spazio di separazione delle corticali. Adottando questo schema di fresatura della cavità preliminare la possibilità di grossolani errori direzionali involontari viene drasticamente ridotta e/o annullata. Questi eventuali errori grossolani possono essere corretti immediatamente senza conseguenze sulle dimensioni finali della fresatura. Un grosso errore si manifesta con il blocco della fresa contro una parete corticale: a questo punto, eseguiti gli opportuni accertamenti radiologici, l’operatore può correggere la direzione della fresatura senza conseguenze poiché le frese di diametro maggiore asporteranno le tracce dell’errore iniziale. In ogni caso, tutto lo svolgimento della manovra di fresatura è sempre sotto controllo tattile. Le dita della mano sinistra controllano che il movimento della fresa avvenga nell’ambito del tessuto osseo 6 (*) È possibile passare a una misura di viti più corta. Si suggerisce di usare un osteotomo della misura della vite che si intende adoperare. (*) L’impianto, essendo transmucoso, necessita di un collo che raggiunga la superficie buccale. Poiché si hanno gengive di spessore variabile, la misura approntata si adatta mediamente a tutte le zone della bocca. avvertendo le vibrazioni che segnalano l’avvicinamento della fresa alla superficie. La percezione dell’aumento dell’intensità delle vibrazioni permette di correggere in tempo l’eventuale sconfinamento nei tessuti molli. Questa eventualità è molto remota se si adotta lo schema di fresatura che abbiamo esposto, ma si può ben capire come il controllo tattile sia fonte di tranquillità per il Chirurgo. Riassumendo, la tecnica di fresatura a gradini a bassa velocità permette una sicurezza molto spinta in relazione atre fatti fondamentali: • ELIMINAZIONE DI EVENTUALI GROSSI ERRORI DIREZIONALI INIZIALI TRAMITE LA FRESA PILOTA; • ELIMINAZIONE DI PICCOLI ERRORI MEDIANTE FRESATURA A GRADINI AUTOCENTRANTE FRA LE CORTICALI; • CONTROLLO TATTILE DELLE VIBRAZIONI DELLA FRESA. Da ultimo, la fortuita fenestrazione anche se improbabile, può essere corretta con l’applicazione di un impianto più corto del previsto (*), se la fenestrazione è apicale; oppure, con apertura di un lembo e ricopertura dell’esposizione dell’impianto con materiale osteoriproduttore ed eventuale membrana. La fresa procede affondando e risalendo per brevi tratti con un leggero movimento di saliscendi, questo serve a far defluire i residui di tessuto osseo che non devono accumularsi sull’apice o nella scanalatura laterale; questa serve per fare defluire la soluzione fisiologica e non per raccogliere e accumulare il residuo di tessuto osseo. Il movimento di saliscendi deve essere anch’esso moderato controllando che la soluzione fisiologica fluisca con regolarità e in abbondanza, asportando così il residuo. Il reflusso della soluzione fisiologica dal manipolo è il segnale che vi è un’ostruzione che va prontamente rimossa. L’operazione di fresatura preliminare non richiede uso di forza bruta, richiede solo pazienza e attenzione alla direzione della fresa e al flusso della soluzione fisiologica. La penetrazione è più lenta nello stadio della fresa con diametro maggiore che è l’ultimo a impegnarsi nel tessuto. La fretta e l’impazienza sono le peggiori nemiche di quest’operazione. Si consiglia manipoli con riduzioni elevate, 1/70, 1/260. Con queste riduzioni si può disporre della potenza nominale del micromotore, evitando fastidiose interruzioni dell’operazione. La fresa viene fatta affondare sino alla tacca desiderata rispetto alla gengiva. La tacca apicale corrisponde alla lunghezza dell’impianto, le altre due tacche servono come riferimento della quantità dell’affondamento dell’impianto. L’impianto è progettato per essere iuxtagengivale (*), per tenere il giunto fuori dallo spazio biologico. La possibilità di affondarlo esiste, ma entro limiti precisi determinati dalla terza tacca della fresa. Si tenga presente che tutte le operazioni protesiche sono tanto più difficili quanto più si è profondi. In genere una profondità compresa fra la prima e la seconda tacca, riferendosi al bordo gengivale vestibolare, consente un’estetica eccellente e un’ottima gestione igienica della linea di giunzione fra impianto e corona. EVENTUALI DIFFICOLTA’ Se si è studiato il caso in modo completo, con un’eventuale TAC, ispezionando l’osso con il calibro osseo collimatore in vari punti sucNELL’OPERAZIONE DI cessivi e facendo i sondaggi necessari, non si incontrano difficoltà. FRESATURA È bene tenere presente quali siano gli errori possibili in modo da 25 26 6 neutralizzarli senza conseguenze negative. Se, dopo aver iniziato l’intervento con il bisturi opercolatore, o con un’incisione crestale, la situazione anatomica non è chiara, sollevate un lembo e operate a cielo aperto. Il danno provocato dall’apertura del lembo, è tanto maggiore quanto più la cresta ossea è sottile. Se la cresta ossea è molto sottile per un tratto importante si deve ricostruire la parete ossea mancante con materiale osteoriproduttore ed eventuale membrana. Ciò premesso, risulta importantissimo scollare il lembo mucoperiosteo solo dal lato vestibolare, in modo che almeno dal lato linguale il circolo periosteo-corticale resti integro. L’esecuzione della cavità deve, quindi, risparmiare la corticale palatale in modo che non si debba eseguire una plastica ricostruttiva anche dal lato palatale. Durante il passaggio della fresa pilota, è possibile incontrare una forte resistenza: questo fatto indica con certezza la presenza di una corticale che ostacola la manovra di fresatura. Manovre di forzatura sono controindicate. Può verificarsi lo sfondamento della corticale con eventuali possibili complicanze, ma può anche prodursi la frattura della fresa se la manovra viene forzata oltre ogni limite. La situazione va studiata con la massima calma; stabilito, con l’aiuto di una Rx endorale, quale sia la corticale contro cui si è impegnata la fresa, si potrà variare la direzione di quel tanto che basta a provocarne il disimpegno. Questa manovra non deve essere eseguita forzando lateralmente la fresa, ma estraendola e variandone la direzione a partire da una zona più superficiale. Il passaggio della successiva fresa a gradini, regolarizza la cavità pilota eliminando le imperfezioni dovute al cambio di direzione. Se è la fresa a gradini a impegnarsi nella corticale, si devono distinguere tre differenti situazioni: 1. LA FRESA SI IMPEGNA PRECOCEMENTE URTANDO LATERALMENTE NELLA CORTICALE: • si devia l’angolo di fresatura fino a superare l’ostacolo. Può essere necessario ricorrere a una fresatura a gradini preliminare di diametro inferiore a quello previsto. Può essere necessario accorciare l’impianto (per es., inserire un 10 anziché un 13 mm). Evidentemente, se la correzione fallisse, si può cambiare sede all’impianto; 2. LA FRESA SI IMPEGNA NELLA CORTICALE LATERALMENTE QUANDO È SCESA OLTRE LA METÀ: • si devia l’angolo di fresatura sino a superare l’ostacolo. Se la manovra non riuscisse si opta per un impianto più corto del previsto (es., un 10 anziché un 13 mm); 3. ERRORE DI DIREZIONE CHE SI MANIFESTA CON UN IMPEGNO IN UNA CORTICALE, PROPRIO NELL’ULTIMA FASE DELLA FRESATURA E CHE COMPORTA LO SCONFINAMENTO IN UNA ZONA EXTRA-OSSEA INDESIDERATA: • in questo caso si valuta attentamente la portata dello sconfinamento e si agisce di conseguenza. Se la penetrazione è avvenuta nel canale vascolare mandibolare, si inserisce l’impianto in una posizione più superficiale possibile e comunque non da sconfinare nel canale vascolo nervoso. È importante documentare tale situazione con una Rx endorale. A tale scopo evitare di affondare l’osteotomo, evitare di maschiare ed evitare di forzare l’inserimento. In alternativa, si usa 6 OSTEOTOMIA DELLA CAVITA’ A GRADINI (*) La tecnica progressiva è fondamentale perché consente di affrontare in sicurezza la foratura di un osso molto compatto. Si impiegano fresa sonda e frese agradini crescenti, fino al raggiungimento del diametro occorrente. Si opera con l’alesatore del calibro che precede il diametro definitivo impiegando per ultimo quello definitivo. un impianto più corto e più largo, adattando la cavità, rifacendo l’osteotomia, usando (ad esempio) un impianto 5 x 10 in luogo di un 4,5 x 13 inizialmente previsto. Altri tipi di sconfinamento verso i seni mascellari, nelle fosse nasali o verso logge muscolari che provochino in sostanza la semplice estroflessione delle membrane limitanti non richiedono particolari accorgimenti. Lo sconfinamento dalla mandibola nella loggia sottolinguale è un evento potenzialmente pericoloso per la presenza di strutture vascolari importanti. Grande attenzione deve essere posta onde evitare questo tipo di incidente. Le caratteristiche della fresa (va assolutamente rispettato il basso numero di giri: 70-100 rpm max), sono tali da rendere inequivocabile il contatto fra fresa e corticale specie mandibolare. Se l’osso è fragile e delicato, il numero di giri va ulteriormente abbassato fino a 10-20 rpm. In questo modo la sensibilità manuale non viene falsata dalla velocità e impedisce errori di valutazione; a velocità così basse anche l’eventuale danno da sconfinamento nei tessuti molli viene limitato. L’operazione successiva alla formazione della cavità a gradini è l’osteotomia che permette la rettifica della cavità. Quest’operazione è il cardine portante che assicura precisione e permette la ripetibilità. La tolleranza rispetto alle dimensioni dello strumento è sicuramente inferiore a 5 micron se si opera in un terreno sufficientemente consistente. Perciò vi sono delle limitazioni legate alla consistenza dell’osso. Il processo di osteotomia manuale è valido nell’osso D1-D2-D3 (*) mentre non lo è più nell’osso di densità D4, la cui estrema rarefazione non assicura una resistenza adeguata al tipo di forze che si applicano. In alternativa può essere eseguita una foratura a gradini di diametro inferiore a quella prevista, dopo di che può essere eseguita una osteotomia oculata e delicata della cavità con l’osteotomo del calibro previsto. Nell’osso D4, regione del tuber, a volte mandibola distale e in alcuni casi di osteoporosi, non viene dunque usato l’osteotomo alesatore. La diagnosi sulla densità dell’osso viene presto eseguita. Infatti quando durante la fresatura, si ha la sensazione di penetrare nella mollica del pane fresco, o del legno di balsa, si è in presenza di osso D4, troppo morbido per usare l’osteotomo. L’osteotomo non si usa anche in quei casi in cui la corticale superficiale presenta un certo spessore, ma la spongiosa è così rarefatta da presentare una consistenza D4; in un terreno così soffice la fresatura a gradini asporta già di per sé la quantità di tessuto che dovrebbe essere poi asportata con l’osteotomo. L’operazione di osteotomia inizia con l’inserimento dell’osteotomo nella cavità a gradini, dove alloggia per un tratto considerevole senza esservi forzato. La rotazione avviene manualmente con un’apposita chiave a tamburo, impugnata tra il pollice e l’indice in opposizione. Scelta la chiave più idonea alla situazione anatomica, si imprime all’osteotomo un movimento rotatorio esercitando una pressione minima di discesa. In genere è sufficiente la pressione esercitata dall’appoggio della mano sulla chiave. La forza di rotazione è quella che serve a superare la resistenza dell’osso; con un movimento dolce e progressivo si ottiene un avanzamento rotatorio, privo di scossoni, assiale ed efficace. 27 EVENTUALI DIFFICOLTA’ Nell’osso di maggiore densità o in seguito a una forzatura dell’osteotomo nella cavità, può accadere che lo strumento non afNELL’USO fondi pur ruotando libero oppure che si impunti e non ruoti. Se lo DELL’OSTEOTOMO 6 L’osteotomia avviene correttamente per asportazione successiva di porzioni di tessuto osseo dalle pareti della cavità preliminare, quindi sono suggerite molte rotazioni e scarsa pressione verticale. L’osteotomo tende a impegnarsi spontaneamente; l’asportazione di modeste quantità di materiale dalle pareti consente l’applicazione di forze lievi e un ottimo controllo del movimento. L’osteotomo alesatore, nelle zone di maggior densità ossea, può essere estratto dopo un certo numero di rotazioni. Si possono così togliere i residui ossei dalle scanalature che possono essere conservati in una soluzione di antibiotico e riutilizzati in caso di operazioni di osteoplastica, anche in associazione ad altro materiale osteoriproduttore. L’osso spongioso fresco opportunamente trattato espone una grande quantità di cellule osteogeniche. Queste possibilità, fanno dell’osteotomo alesatore il miglior mezzo di prelievo di tessuto osseo per omotrapianto. In genere, a titolo puramente indicativo, nell’osso D1 si richiedono quattro operazioni di pulizia dell’osteotomo, nell’osso D2 se ne richiedono due o tre, nell’osso D3 ne è richiesta una o nessuna se si ha la sensazione che l’osteotomo giri eccentricamente. Così come nell’osso particolarmente duro si può fresare con frese a gradini in progressione di misure, anche l’osteotomo può essere usato con lo stesso accorgimento. Ciò è indicato in due casi: 1) se si vuole raccogliere osso da innestare successivamente: si fresa una cavità a gradini ristretta per allargarla successivamente usando un osteotomo dopo l’altro e raccogliendo tutto il residuo; 2) in un osso particolarmente duro, effettuata la fresatura a gradini (per esempio per un impianto diametro 4,5 x 13 mm), si usa prima l’osteotomo diametro 3,5 x 13 mm e poi diametro 4 x 13 mm e da ultimo diametro 4,5 x 13 mm. L’osteotomia progressiva in osso compatto ha lo scopo di allargare la sezione apicale e conicizzarla in modo da rendere facilmente inseribile l’osteotomo successivo. È buona norma che l’osteotomo venga immerso in soluzione antibiotica (Iincomicina) prima di ogni reintroduzione nella cavità. Raggiunta la profondità stabilita, cioè stessa tacca di riferimento della fresa a gradini, l’operazione di osteotomia è terminata. L’esame dello strumento chirurgico rivela se nelle scanalature è presente residuo di tessuto osseo. Se il residuo manca risulta ovvia la sua presenza nella cavità dalla quale è fondamentale che venga rimosso (pulizia con cucchiaio chirurgico e lavaggio con soluzione fisiologica). strumento non riesce a progredire in verticaIe (osso moIto compatto), bisogna rimuovere lo strumento e ripassare più volte l’ultima fresa a gradini impiegata, poi si riapplicherà l’osteotomo. È consigliabile nei casi di osso molto compatto un’osteotomia graduale. E’ assolutamente controindicato l’uso di chiavi a leva per il movimento dell’osteotomo come pure il tentativo di ricorrere a pseudomotorizzazioni improvvisate. Queste non permettono il controllo dell’assialità della rotazione e danneggiano irreparabilmente la cavità. È possibile (in particolare nella zona del settimo inferiore e 28 6 talvolta anche in quella superiore) che l’osteotomo, dopo essersi regolarmente impegnato nella cavità, dia la sensazione d’iniziare una rotazione non assiale. La sensazione è nettissima poiché la chiave a tamburo amplifica il movimento oscillatorio della rotazione non assiale. La manovra va immediatamente interrotta perché si sta provocando un allargamento indebito della cavità. All’immediata interruzione non deve far seguito nessuna altra manovra di rettifica della cavità se non passare direttamente al montaggio dell’impianto previa pulizia e lavaggio della cavità stessa. Nella metodica chirurgica della guarigione primaria è fondamentale OPERAZIONI DI PULIZIA non provocare pressioni idrauliche nell’osso. I residui dell’osteotomia E LAVAGGIO DELLA devono essere accuratamente rimossi per non venire compressi contro le pareti dalle successive operazioni. Il solo lavaggio con CAVITA’ OPERAZIONI DI MASCHIATURA soluzione fisiologica non è sufficiente a distaccare il residuo coagulato dalle pareti e/o dal fondo della cavità. L’asportazione dei residui ossei si pratica con un cucchiaio chirurgico del numero zero. Attenzione all’effettiva rimozione sull’osteotomo dei residui mancanti sull’osteotomo; con il cucchiaio in un secondo momento si esegue un’esplorazione della cavità che deve confermare consistenza delle sue pareti e del suo fondo. L’azione del cucchiaio è finalizzata alla sua pulizia e le pareti non devono essere raschiate con forza, ma ripulite con delicatezza. Si procede poi al lavaggio della cavità con soluzione fisiologica (una siringa da 20 cc). L’ago della siringa deve essere di sezione opportuna. È consigliabile procedere a un secondo lavaggio con lincomicina. (*) Il maschiatore è in titanio, poiché strisciando nell’osso per imprimergli la madrevite può lasciare qualche residuo, che è preferibile sia di ossido di titanio. Il maschiatore si usa in tutti i casi di osso consistente, cioè compreso tra le densità D2 eD3; non si usa mai nell’osso corticale o molto duro, cioè di densità D1 e in quello molto morbido D4. Nel tessuto di densità D1 si usano gli appositi impianti pallinati (la pallinatura è un processo meccanico che incide una superficie, generalmente metallica, con microsfere di diametro calibrato e di materiale definito) e non plasmati 3,5 x13 e 4x13 chiamati impianti da corticale, con la filettatura di dimensione ridotta. (**) Si definisce tale una superficie rivestita di titanio plasma spray commercialmente puro. (***) È inesatto affermare che non c’è necrosi. E più esatto dire che si provoca una necrosi molto limitata perché con l’uso del maschiatore si evita l’aumento della pressione e quindi fenomeni di ischemia. Quando si taglia un tessuto una certa quantità di necrosi è inevitabile. Nel Protocollo Chirurgico PHI è previsto l’uso di un maschiatore (*) che intaglia, nelle pareti della cavità, l’elica principale dell’impianto. L’uso del maschiatore evita alterazioni della struttura dell’impianto (fenomeni dovuti alla torsione, alle relative eventuali deformazioni dell’esagono interno che potrebbero compromettere la precisione dell’innesto della sovrastruttura) ed evita principalmente che l’eventuale automaschiatura effettuata dalla superficie plasmata (* *) dell’impianto catturi e trascini strutture filamentose biologiche provocando così fenomeni d’ischemia e/o di necrosi (* * *) del tessuto circostante. Il maschiatore favorisce il deflusso dei fluidi organici nel modo più opportuno e consente altresì la raccolta e l’alloggiamento nella cavità di frustoli o di eventuali residui fra i filetti. Anche il maschiatore, come l’osteotomo, si usa correttamente solo in un tessuto di densità sufficiente, il che equivale a un tessuto D2-D3. Nel tessuto con densità D1-D4 non deve essere usato, come pure nei casi in cui non viene eseguita l’osteotomia e rettifica della cavità. Lo strumento maschiante viene introdotto nella cavità per alcuni millimetri senza alcuna forzatura. Viene poi fatto ruotare manualmente con l’apposito manipolo in arnite (PET) impugnato tra pollice e indice in opposizione. Quando il maschiatore è correttamente impegnato nel tessuto, si rimuove il manipolo e si passa a un manipolo in titanio di dimensioni opportune. Il maschiatore viene avvitato dolcemente nella cavità, con movimenti alternativi di va e vieni sia per eliminare le tensioni nel tessuto sia per dar modo ai liquidi re29 OPERAZIONI DI INSERIMENTO DELL’IMPIANTO (DURATA OPERAZIONE 10 MIN. CIRCA) 6 (*) Se nell’inserire l’impianto lo si è toccato con i guanti o lo si è fattostrisciare contro le mucose del paziente, l’impianto deve essere scartato e sostituito con un altro. 30 flui di risalire all’esterno senza comprimere il tessuto osseo midollare. Il maschiatore viene fatto avanzare al raggiungimento della tacca di segnalazione prescelta. Se la resistenza all’avanzamento è molto bassa a causa della bassa densità del tessuto osseo, non è necessario completare l’operazione di maschiatura: ci si arresta a uno-due millimetri dalla tacca prescelta. L’operazione di automaschiatura va effettuata solo se la densità ossea raggiunge il livello D2-D3. Infatti lo sforzo di torsione può alterare la struttura cristallina del titanio puro, compromettendone le prestazioni meccaniche e predisponendolo alla frattura. Può accadere che il maschiatore si impegni fortemente nel tessuto e non riesca ad avanzare; ciò può essere dovuto alla conicità della filettatura e alla densità dell’osso che sinergicamente determinano un’eccessiva resistenza all’avanzamento, oppure all’impegno della filettatura contro una corticale ossea. In questo caso si attende qualche attimo, si ruota indietro e si riprova; nell’eventualità si può ricorrere a una chiave a tamburo di diametro maggiore riprovando la manovra. È importante che tutto avvenga con la massima delicatezza; gli avanzamenti devono essere modesti e sempre prontamente seguiti da ritorni; i movimenti devono essere lenti perché rapidi movimenti alternativi di va e vieni possono provocare riscaldamento del tessuto. Quanto descritto è di fondamentale importanza la cui portata aumenta se si incontra una forte resistenza alla maschiatura. Nel caso in cui anche con una chiave a tamburo di diametro maggiore non si termina la maschiatura per aumento della resistenza, si passa alla leva usandola (se possibile) con maggior cautela. In genere la leva viene impiegata in posizioni difficili da raggiungere e solo nelle fasi finali della maschiatura. È controindicato l’uso della leva prima che si siano impegnati nella cavità almeno i due terzi del maschiatore. Il controllo della leva può rivelarsi problematico se viene applicato fuori protocollo. Un uso improprio può alterare in modo grave la morfologia della cavità, comprimendo e necrotizzando le aree circostanti. Maggiore è la resistenza del tessuto osseo all’operazione di maschiatura tanto più è importante che questa venga portata a termine correttamente. Se tuttavia il maschiatore si impuntasse definitivamente senza cedere alle manovre descritte, si deve ripassare più volte nella cavità l’osteotomo. Con questo strumento si deve ripetere pazientemente l’osteotomia, procedere di nuovo ai lavaggi e riprendere la maschiatura. Per l’osso di tipo D1 (corticale con spongiosa densa) o francamente corticale, esistono particolari impianti che non prevedono l’uso del maschiatore. Nell’osso D2-D3, la maschiatura non presenta problemi. La cavità preparata deve essere lavata con una soluzione antibiotica di lincomicina. L’impianto, estratto dalla confezione, viene immerso in un recipiente sterile di vetro o di titanio contenente la soluzione antibiotica. In subordine, si può siringare direttamente la soluzione antibiotica all’interno della busta primaria contenente l’impianto. L’antibiotico si adsorbe sulla superficie al plasma spray di titanio, formando una pellicola protettiva che ne evita il contatto di superficie con l’atmosfera e con i fluidi organici della bocca nonché con la gengiva stessa (*). Evitare il contatto con materiali estranei 6 (**) Il titanio plasmato, anche se trattiene meccanicamente la placca, dall’aria dà luogo alla formazione di una placca gram-positiva che non è aggressiva verso i tessuti. POSIZIONAMENTO DELLA VITE-TAPPO DI GUARIGIONE e/o infetti è di vitale importanza per le stesse caratteristiche della superficie al plasma spray di titanio. Infatti la ruvidità della superficie è estrema, come si può osservare anche a occhio nudo. Qualsiasi deposito di materiale vi si annida così tenacemente da rendere impossibile una sua completa rimozione (**). Anche il nostro sistema immunitario può impiegare tempi lunghissimi a eliminare depositi da questa superficie. Tenere presente che nell’aria di città sono presenti disciolti idrocarburi incombusti in grado di ricoprire con un film mono o pluri molecolare tutto l’impianto. Il passaggio nel campo operatorio è comunque il momento in cui è massimo l’inquinamento della superficie sia per le goccioline di Flugger sia per i fluidi della cavità orale e per i tessuti molli con cui può venire a contatto. La protezione della superficie è una precauzione necessaria per mantenere al massimo la pulizia. Per la scelta del materiale di protezione vale quanto già detto per l’antibiotico. L’impianto viene inserito nella cavità, previa aspirazione dei liquidi. Si alloggia all’incirca sino al colletto senza particolari manovre, successivamente lo si fa ruotare con il manipolo sino a impegnarlo nella filettatura della parete. Sostituito il manipolo in arnite (PET) con una chiave a tamburo di diametro adatto, si procede lentamente all’avvitamento, con movimenti alternativi di va e vieni onde evitare le tensioni meccaniche nel tessuto osseo e per dar modo ai liquidi di defluire all’esterno. Questa manovra inizia quando l’impianto si è già impegnato nella cavità quasi del tutto; l’avvitamento è libero e non richiede alcuno sforzo. L’impianto s’innesta nell’accoppiamento conico con l’osso verso la fine. Circa 2-3 mm prima che raggiunga la posizione finale, si avverte una certa resistenza che costringe ad applicare una certa forza di rotazione. La resistenza avviene all’inizio dell’automaschiatura apicale. Terminata l’automaschiatura apicale (corrispondente a 2-3 giri completi dell’impianto) si raggiunge la posizione prevista. L’impianto si impegna in modo tale che è impossibile proseguire l’avvitamento, a meno di non voler produrre fratture. L’impianto in posizione di accoppiamento conico rifiuta meccanicamente un ulteriore affondamento. La copertura dell’impianto nel presente protocollo prevede diverse soluzioni che devono essere messe in relazione alle necessità cliniche che si possono presentare. La situazione prevista come normale è quella in cui la vite-tappo raggiunge la superficie esterna della gengiva. Ciò permette un condizionamento della gengiva stessa che a sua volta consente l’esecuzione di una buona protesi sia per la presa di impronte ben leggibili sia per ottenere un buon profilo emergente della corona protesica. La situazione normale prevista è quella in cui il bordo esterno del collo dell’impianto è compreso fra la superficie della corticale ossea e la superficie esterna della gengiva. Se si tratta di avvitare un tappo in titanio, mettere una goccia di silicone per impianti sulla punta del cacciavite; si evita così la sua accidentale caduta nella bocca del paziente. Per avere prolungata assenza di fermentazione nella cavità, inumidire del cotone idrofilo con glutarolo, avvolgerlo su uno strumento canalare per endodonzia e introdurlo nella cavità, facendolo ruotare più volte in modo da bagnare le pareti della cavità stessa. Il glutarolo è un antibatterico 31 6 7 (*) Tra i casi più ricorrenti d’insuccesso, c’e la scarsa igiene orale del paziente. Altrepossibili cause sono: infezioni, scarsita del tessuto osseo fruibile e/o cattiva qualità dell’osso residuo e tecnica chirurgica insufficiente e/o inadeguata. CARICO DEGLI IMPIANTI 32 che rimane attivo per circa 30 giorni. Messo del silicone sulla porzione filettata della vite-tappo, la si avvita. Il silicone, mentre sigilla la cavità dell’impianto impedendo il passaggio di fluidi tra interno ed esterno, evita anche il suo svitamento. Dopo il serraggio della vitetappo, l’eccedenza di silicone viene aspirata o rimossa con cotone CONDIZIONI POST-OPERATORIE Il paziente dopo l’intervento non avverte dolore o ne avverte poco per circa 6-8 ore anche in assenza di analgesici. Di norma, dopo 23 giorni, può essere applicato un provvisorio ben scaricato che non interferisca con l’impianto. In caso di assoluta necessità, il provvisorio può essere approntato immediatamente. Mettere molta cura nello scaricare la parte che interessa gli impianti; inoltre, si deve provvedere a che nei primi 2-3 giorni (e non oltre) il paziente usi gel alla clorexidina nella protesi prima di collocarla in sito. Il tipo di alimentazione della prima giornata è di preferenza semifluido e freddo. Per i giorni successivi la dieta è libera. Dopo la prima giornata il paziente deve provvedere obbligatoriamente a una delicata operazione di pulizia degli impianti (*), operazione che assume man mano le caratteristiche della normale igiene orale. A una settimana dall’intervento il paziente viene rivisto per controllare se i tappi di guarigione siano stabili e nell’occasione, si possono togliere gli eventuali punti di sutura. Estrema attenzione va dedicata al controllo del provvisorio, che deve presentare un buon adattamento e nessuna interferenza con gli impianti. La morfologia delle trincee dev’essere adatta a non generare effetti di suzione della gengiva con proliferazioni indesiderate attorno alle coperture. È bene far compiere al paziente qualche ciclo masticatorio e movimentidi disclusione in protrusiva edi lateralità. Il controllo successivo può essere fatto dopo altri 15/20 giorni; in quest’occasione si controlla la risposta degli impianti alla percussione in varie direzioni: il suono così ottenuto con uno strumento metallico deve essere acuto. Un suono grave riscontra la presenza di tessuto molle all’interfaccia. Si ripetono, sempre con grande attenzione alle interferenze, le operazioni di controllo dei provvisori e quelle riguardanti le coperture degli impianti. Eseguiti gli eventuali adattamenti, si aggiorna il paziente per la presa delle prime impronte protesiche. Gli impianti PHI nei casi protocollari, dopo un periodo minimo di tre mesi (in genere la guarigione avviene intorno ai 30 giorni perché è una guarigione primaria che assomiglia totalmente alla guarigione di una frattura semplice) possono essere caricati sia nella mandibola sia nella mascella. Se insorgono complicazioni che consigliano di applicare il concetto di prudenza, il periodo di guarigione dev’essere prolungato in base alla gravità della patologia del paziente. NOTE ...................................... ...................................... ...................................... ..................................... ..................................... ...................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... ..................................... .................................... 33