pregi e difetti delle radici identitarie in italia e nel
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pregi e difetti delle radici identitarie in italia e nel
Anno IV - Numero 27 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 9/16 Settembre 2011 nuovo UN CAMPANILE E’ PER SEMPRE PREGI E DIFETTI DELLE RADICI IDENTITARIE IN ITALIA E NEL MONDO Il Fenomeno A centocinquanta anni dall’unità della penisola, c’è chi dubita sul superamento del campanilismo Vive l’Italia dei cento campanili Ma oggi le differenze possono innescare processi di crescita e non di scontro Ida Artiaco “Fatta l’Italia, ora facciamo gli italiani”. Fiumi di inchiostro sono stati versati per precisare l’attribuzione di questa celebre frase, di Camillo Benso Conte di Cavour secondo alcuni, più probabilmente di Massimo d’Azeglio secondo altri, o addirittura di Giuseppe Garibaldi. Quello che importa, però, è il vero significato di queste parole, che bene esprimono le perplessità dei grandi protagonisti del Risorgimento, all’indomani della nascita dello Stato Unitario. E centocinquant’anni dopo quell’epocale evento c’è ancora chi quei timori di mancata unificazione, non a livello politico, ma dei sentimenti e delle tradizioni, ce li ha ancora. L’Italia, si sa, è “la terra dei cento campanili”, per l’attaccamento a volte esagerato e gretto alle tradizioni e agli usi della propria città, che spesso trasforma le differenze in divisioni e mette gli uni contro gli altri. Da qui, rivendicazioni territoriali, giurisdizionali, culturali ed economiche proprie del campanilismo, che contraddistingue la nostra storia, prima ancora che l’Italia fosse unita politicamente, quando forze politiche e religiose, anche straniere, hanno continuamente straziato con confi- PRIMATO Il campanile del Duomo di Mortegliano, in provincia di Udine, è il più alto d’Italia, con i suoi 113 metrio di altezza ni diversi la nostra penisola. Da sempre gli italiani, di tutte le età e condizioni sociali, si sono dimostrati intimamente legati al proprio campanile, quella struttura che si staglia al di sopra degli altri edifici e per questo, oltre alla connotazione religiosa, riveste un ruolo simbolico e si propone quale elemento di identificazione, per sineddoche, col centro abitato in cui esso si trova e con le persone che all’ombra vi abitano, con il proprio lin- guaggio, le proprie tradizioni, la propria storia. Ma, come ha affermato lo storico Fernand Braudel, nella ricchezza e densità di città della realtà italiana è anche il segno della sua “insigne debolezza”. Quel che rendeva affascinante il Bel Paese, la pluralità di tradizioni, di culture e linguaggi, ha costituito un elemento di volubilità rispetto a quel “cemento” sociale che ha caratterizzato la storia di altre grandi nazioni europee. Spesso, infatti, l’esasperato at- taccamento al proprio campanile è sconfinato in un eccesso di rivalità nei confronti di paesi vicini. Pare che proprio il termine “campanilismo” sia attribuibile, come origine, al rapporto burrascoso fra due comuni oggi in provincia di Napoli, San Gennaro Vesuviano e Palma Campania. Il campanile del primo centro venne privato di orologio verso levante, dove vi era il confine con l’altro paese, proprio perché gli abitanti Parla Roberto Gervaso, che sull’Italia dei Comuni ha scritto con Montanelli Esistono solo tanti pezzi di Stato Roberta Casa «La storia del nostro paese è una storia regionale». Ne è convinto Roberto Gervaso, giornalista, storico e scrittore, al quale abbiamo chiesto il vero significato di una parola che trova ragion d’essere nella storia medievale, di grande attualità ancora oggi. Gervaso, sentiamo spesso dire che esiste un’unica Italia, ma tanti campanili. Quanto è vera questa affermazione? C’è una definizione giusta per la parola campanilismo? «La spiegazione non può prescindere dalla storia del nostro paese. Dopo le invasioni barbariche, in Italia cominciarono a formarsi i primi Comuni, più o meno intorno all’anno Mille. Queste prime ‘comunità’, formate da persone di un certo ceto sociale (quella che in futuro sarà chiamata borghesia), si riunivano per difendere i loro interessi proprio intorno al campanile della chiesa del Comune. Non intorno a una semplice torre. 2 9 Settembre 2011 E la scelta di un simbolo sacro anziché politico rimarca l’importanza della fede per i primi ‘cittadini’. Il campanile diventò dunque emblema del Comune, un simbolo architettonico di individualismo. Ogni borgo, ogni Comune aveva le sue caratteristiche, le sue mode, la sua lingua, i suoi co- puzzle deve combaciare con gli altri. Ma ciò non è mai avvenuto. Anche quando nel 1861 si ebbe l’Unità d’Italia, all’unità geografica non è corrisposta quella del popolo. Il borgo continuava a riconoscersi nel campanile, perché di fatto fu lasciato fuori. L’Unità fu possibile solo grazie all’azione di «Il campanile è diventata un’istituzione egoista, che difende solo i propri interessi. L’italiano non sente le istituzioni» stumi; e il termine campanile riuniva tutte queste cose e diventava un connotato, una specie di vessillo, di stendardo». Il popolo italiano sembra essere sempre più diviso, e la storia ci spiega il perché. Ma quale prezzo paga oggi il nostro paese a causa di questa ‘separazione in casa’? «Oggi in Italia lo Stato non c’è. Il campanile è solo un pezzo di Stato, che come in un un elité di 20 mila persone, soprattutto lombarde e piemontesi, formata da professionisti, proprietari terrieri, avvocati, intellettuali. Non c’era neanche un contadino. L’80 per cento degli italiani fu lasciato in disparte. Ancora oggi noi paghiamo caro il prezzo di questa mancata Unità, e lo si è visto nei giorni dei tiepidi festeggiamenti per il Centocinquantenario. La gente non ha ‘sentito’ l’avvenimento, per molti si è trattato solo di un giorno di festa qualunque». Pensa che in futuro sia possibile creare un vero popolo italiano? «Il problema è che proprio chi dovrebbe formare coscienza e animo italiani pensa prima a sé stesso anziché allo Stato. Quando sentiamo i nostri rappresentanti esprimersi in un linguaggio basso, scurrile, quando li vediamo eccedere – per utilizzare un eufemismo – in Parlamento, capiamo che è ancora più difficile pensare che queste persone possano formare un popolo, infondergli unità. Ognuno pensa a sé stesso, guardando sempre e comunque al proprio campanile. Gli italiani non hanno mai avuto un vero e proprio ‘senso di patria’. Il campanile è diventata un’istituzione egoista, che difende sempre i propri interessi, anziché gli ideali. L’italiano non sente le istituzioni. Cosa vuole che gli importi del tricolore, dell’inno di Mameli? Questa è la verità». di quest’ultimo non potessero leggere l’ora. Da allora il passo prima agli scontri tra fazioni opposte, poi alle partigianerie esasperate e alle chiusure localistiche è stato breve. Come dimenticare le faide storiche tra famiglie o fazioni politiche, fino ai campanilismi delle contrade senesi, che ancora oggi appassionano e eccitano gli animi al pari delle tifoserie calcistiche? Nonostante l’origine tutta meridionale, il fenomeno si è rivelato più forte al Nord, dove si trovano i campanili più grandi d’Italia: primo tra tutti, quello del Duomo di Mortegliano, in provincia di Udine, seguito dal Torrazzo di Cremona e dal Campanile di San Pietro di Alessandria. Ma è proprio oggi, quando la globalizzazione genera interdipendenze e commistioni inedite, soprattutto in seguito al fenomeno dei flussi migratori dai paesi più poveri del mondo, che le storiche differenze culturali italiane possono essere rivitalizzante in un quadro nuovo. In una Italia in cui parte sempre più rilevante della popolazione è costituita da immigrati, la sfida delle istituzioni e dei singoli cittadini può essere la valorizzazione della pluralità culturale, innescando processi di comunicazione e non di scontro. IN LETTERATURA Gli improperi di Dante le dolcezze del Fogazzaro ■ TOSCANA «Ahi Pisa, vituperio delle genti…» recita Dante nel XXXIII Canto dell’Inferno. Il campanilismo del poeta fiorentino è uno dei primi esempi nella storia della letteratura italiana: la celebre contrapposizione tra Firenze e Pisa viene ripresa da Dante nella sua opera più importante, a sottolineare quanto le due città fossero antagoniste già nei primi secoli dell’anno Mille. ■ LOMBARDIA Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni celebra con descrizioni sapienti le bellezze paesaggistiche della Lombardia seicentesca, la stessa regione che gli diede i natali. Già l’incipit del romanzo, con il celebre «Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…» ben rappresenta l’attaccamento appassionato alla terra d’origine. ■ SICILIA Nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il Principe di Salina esprime l’animo fortemente ‘campanilista’ dell’autore: protagonista delle vicende narrate, egli incarna lo spirito della sicilianità. I cambiamenti avvenuti nell’isola nel corso della storia hanno adattato il suo popolo agli ‘invasori’, senza modificarne essenza e carattere. Il presunto miglioramento apportato dal nuovo regno appare al principe come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché il popolo siciliano e l’orgoglio che lo contraddistingue rimarranno immutati. ■ VENETO In Piccolo Mondo Antico Antonio Fogazzaro, come scrisse Gallarati Scotti, «ha scoperto le pure sorgenti della sua sincerità e della sua ispirazione. L’accento nuovo egli l’ha trovato in una più intima comunione con gli ideali che gli erano stati trasmessi dai suoi padri; con gli uomini e la terra della sua infanzia». Un elogio degli umili cittadini delle montagne. R. C. Reporter nuovo I Precedenti I contrasti tra città hanno spesso le proprie radici nella Storia, nell’economia e nella politica Rivali, dallo stendardo allo sfottò Guelfi, ghibellini, città marinare, maschere tradizionali e proverbi Davide Maggiore Non solo campanili. A svettare sui tetti dei borghi storici italiani sono anche le torri. Costruite, come a San Gimignano, dalle potenti e ricche famiglie locali di un tempo per simboleggiare il proprio prestigio, nel confronto con vicini e avversari. E destinate dunque a diventare anche simboli di divisione. Molti tratti del campanilismo italiano, e molti dei contrasti storici tra città, rioni e borgate, possono in effetti essere fatti risalire proprio all’epoca delle pietre di cui campanili e torri sono fatti. Contese destinate poi ad attraversare i secoli, e a riemergere, nella forma diversa (e più innocua) dell’orgoglio municipale, anche ai giorni nostri. Magari dimenticando che allora, dai cosiddetti ‘secoli bui’ in poi, la posta in gioco era ben diversa. Le rivalità locali, magari secolari (come quella tra Perugia e Assisi di cui fece le spese il futuro San Francesco, allora giovane uomo d’armi), si inserivano all’interno di uno scontro di proporzioni nazionali, il più celebre di quelli che avrebbero attraversato la penisola per secoli. Guelfi contro ghibellini, che innalzavano le loro fortezze, rispettivamente, a maggior glo- ETERNA CONTESA Una rievocazione della battaglia di Montaperti tra guelfi e ghibellini ria del potere papale o di quello imperiale, in lotta tra loro per la supremazia. Ma anche l’economia ha pesato nel disegnare l’Italia dei campanili. È stato il caso delle repubbliche marinare: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, impegnate a lungo in conflitti per guadagnarsi il controllo dei mercati dell’Oriente. E, anche una volta diventata marginale la Via della Seta, portate dal ricordo di un passato nobile allo scontro con i meno blasonati vicini. Come l’orgogliosa Pisa, i cui è proverbiale l’inimicizia con Livorno. ‘Colpevole’ di essersi facilmente sottomessa, a differenza della rivale, all’odiata dinastia fiorentina dei Medici, che l’aveva persino circondata di bastioni. Anche quando non si inseriscono in quadri di grande respiro, però, gli scontri tra campanili hanno spesso ragioni tutt’altro che ideali. Può trattarsi di un interesse al primato ‘geografico’ come avviene per Cagliari e Sassari, o sullo Stretto tra messinesi e abitanti di Reggio Calabria. O di conflitti, si sarebbe detto in passato, ‘di classe’, come accade in molte città divise tra una parte vecchia (che si rappresenta come ‘aristocratica’) e un nucleo nuovo sorto, in anni più recenti, più a valle (e abitato dal popolo che vive di mercato, artigianato, lavoro della terra e, in seguito, industria). Gli esempi più celebri sono Bergamo (il velenoso paragone tra la parte ‘alta’ e quella ‘bassa’ è presente fin dalla commedia dell’Arte con il dualismo tra Brighella e Arlecchino), e, immancabilmente, una cittadina della Toscana (zona ‘regina’ delle fazioni). È Fucecchio, in cui la rivalità tra nobili ‘insuesi’ e più popolari ‘ingiuesi’ (cioè, rispettivamente, abitanti dei borghi ‘per in su’ e ‘per in giù’) è stata in parte superata solo dall’ammirazione per il celebre concittadino Indro Montanelli. Pacificatore ideale, perché ingiuese di padre e insuese di madre. Che a far esplodere lo scontro siano state questioni strategiche, di prestigio o più semplicemente materiali, però, oggi queste radici storiche sono per lo più dimenticate. E restano nascoste dalle manifestazioni spicciole e attuali del campanilismo. Dallo sfottò (tipico quello sulla minore intelligenza del rivale, in cui eccelle, ancora una volta, lo spirito toscano), allo slogan, al detto popolare (il più celebre è naturalmente: «meglio un morto in casa che un pisano all’uscio», di marca labronica). Insomma, in ogni rivalità locale si è passati dalla sfida a chi costruisse la torre più alta, (bloccata a San Gimignano da un’apposita legge), a quella su chi, tra i rivali, dimostra di avere la lingua più pronta. IL SIMBOLO Un affresco a Palazzo Medici sulla risposta di Pier Capponi a Carlo VIII: "Se voi suonerete le vostre trombe noi suoneremo le nostre campane". A fianco, campane della fonderia Marinelli Giulia Cerasi Se si parla di campanilismo non si può non pensare ad Agnone. Con la sua storia, le sue tradizioni culinarie e artigiane, Agnone (che nella parlata locale suona “agneun”) è un comune di circa 5mila abitanti adagiato tra i monti dell’alto Molise, in provincia di Isernia. Gli agnonesi, forti della presenza di numerose chiese dal grande interesse artistico e di una tradizione di figure di secondo piano della letteratura italiana (da Marino Ionata ad Alessandro Apollonio, da Ippolito Amicarelli a Luigi Gamberale), non di rado rinvendicano con ostinato orgoglio le proprie origini. Ma il campanilismo agnonese è anche una questione etimologica. Perché è proprio in questa terra che ha sede una delle aziende più antiche del mondo che fabbrica, appunto, campane. La Pontificia Fonderia Marinelli è stata fondata nel Reporter nuovo Ad Agnone la fonderia che produce il simbolo dell’attaccamento al proprio paese Quei rintocchi dicono appartenenza 1339, quando Nicodemo Marinelli, detto “Campanarus”, fuse una campana di circa 2 quintali per una chiesa del frusinate. E’ nata così una tradizione millenaria, fatta di segreti che i fonditori si tramandano ininterrottamente, di padre in figlio. Ad Agnone, ancora oggi, per realizzarne una si usano le stesse tecniche dei maestri del Medioevo e del Rinascimento. Elementi essenziali per la riuscita delle campane, il cui ciclo di lavorazione varia da trenta a novanta gior- ni, sono lo spessore, il peso, il diametro e l’altezza, il tutto nel rispetto di proporzioni ben stabilite. Ma quella di fondere le campane è un’arte antica, che risale probabilmente al popolo cinese, anche se non si conosce il momento preciso a partire dal quale la campana è stata usata come richiamo di fede. E dal 1924 la fonderia Marinelli, su concessione di Papa Pio XI, può vantare il privilegio di poter scolpire lo Stemma Pontificio. L’azienda agnonese è di- ventata così la fonderia del Vaticano, tanto che Giovanni Paolo II l’ha visitata nel marzo del 1995. Descrizione metaforica di un innamoramento, annuncio di un giorno di festa, ma anche - in passato - segnalazione di un pericolo come un incedio o un grosso temporale, il rintocco delle campane della fonderia Marinelli risuonano in tutto il mondo: da New York a Pechino, da Gerusalemme al Sud America, fino alla Corea. Ad Agnone sono state fuse la campana per il Santuario di Lourdes nel centenario dell’apparizione (1958), la commemorativa del primo centenario dell’Unità d’Italia (1961), la campana del Concilio Vaticano II (1963), quella della “Perestrojka” per lo storico incontro del Papa con Gorbaciov (1989), fino a quella del Giubileo del 2000 che pesa ben cinque tonnellate. L’attività dei fonditori agnonesi è dunque intrecciata intimamente con la nostra storia, come un grande libro che rievoca i fatti, i personaggi, i momenti. Ma la campana è anche uno strumento musicale, con cui si eseguono veri e propri concerti. Ogni campana, infatti, ha una vera e propria “voce”, ossia una nota, i cui procedimenti per ottenerla erano già stati descritti da Diderot nell’Encyclopedie. Per i Marinelli la campana “è compagna dell’uomo, elemento della sua storia, figlia della sua cultura, voce del suo cuore”. E proprio alla campana, accanto alla fonderia, hanno dedicato un museo. Perché, da simbolo della divisione e della rivalità, la campana agnonese può diventare l’emblema di un Paese che, a 150 anni dalla sua unificazione, ancora fatica a trovare la propria identità. 9 Settembre 2011 3 Il Futuro Blog, social network e telefoni smartphone: la tecnologia esalta l’attaccamento al territorio Tutti in Rete, arroccati nel “glocale” Il web non ha spazzato via la cultura stracittadina, l’ha rafforzata SMARTPHONE Vivere le appartenenze Notizie più vicine Le battaglie del campanilismo moderno si combattono anche sul campo della tecnologia mobile. Oltre all’acerrima rivalità tra Apple e Microsoft, che è diventata una vera e propria lotta di “stili di vita”, l’ultima frontiera del campanilismo multimediale è quella delle app. Sono tantissime le applicazioni per smartphone, iPhone o Blackberry, che aiutano gli utenti a conoscere meglio il territorio che li circonda e a sentirsi parte di questo o quel “campanile”. Grazie alla tecnologia geolocal, che consente in qualsiasi momento di rintracciare la posizione esatta del proprietario di un telefono acceso, questi software aiutano gli utenti a trovare negozi e altri servizi nelle vicinanze e soprattutto li mettono in contatto con altre persone che in quel momento si trovano nella stessa zona. Tra le applicazioni più famose ci sono AroundMe per iPhone, che permette di avere all’istante indicazioni sugli esercizi commerciali (e non solo) presenti nei dintorni, e Ubinav, che trasforma un Blackberry in un navigatore satellitare. Ma l’app mobile e web più diffusa è senz’altro Foursquare: grazie a questo servizio più di due milioni di persone nel mondo interagiscono via cellulare solo con gli utenti individuati dal satellite nella stessa città. La crisi dell’editoria cartacea ha in parte cambiato l’organizzazione dei media locali. Se prima i giornali erano orgogliosamente indipendenti dalle testate delle province confinanti, oggi sinergie ed economie di scala prevalgono sul campanilismo cartaceo. È il caso, ad esempio, delle Gazzette di Mantova, Reggio Emilia e Modena, tre testate del gruppo Espresso che hanno unito le pagine nazionali lasciando alle notizie dai singoli territori una parte marginale. Stesso esperimento, nel campo delle freepress, per Leggo, gruppo Caltagirone editore: delle 24 pagine del quotidiano gratuito solo due sono dedicate alla cronaca locale, con notizie dalle 15 redazioni sparse sul territorio italiano. Grazie all’aumento delle frequenze televisive con il passaggio al digitale terrestre, invece, la concorrenza delle tv locali sul territorio intraprovinciale è rimasta piuttosto alta. Lo stesso vale per Internet: i bassi costi di realizzazione di una testata online consentono anche ad aggregati territoriali piccolissimi di creare un proprio giornale, fatto di notizie di quartiere e appuntamenti locali. Dalla “Padania” alle Isole, vale la pena di citare Alperiodic.net, «comünicazion virtüal in lumbard insübrich», e Logosardigna.sar, portale esclusivamente in lingua sarda con tanto di dizionario «sardu-italianu». BLOG Un etere tricolore «Finché vivrò amerò una sola bandiera» è solo uno dei tanti blog dedicati a un “campanile”, che popolano la Rete. Scritto da un ragazzo salernitano, il diario è interamente dedicato alle vicende della provincia campana: dalla commemorazione del terremoto dell’Irpinia alle partite della Salernitana Calcio. Un’anomalia del web? Macché: di blog “campanilisti” l’etere tricolore, il cosiddetto “.it”, è pieno. Da Predoi, che si vanta di essere la «città più a nord d’Italia», al comune di Lampedusa e Linosa, che dall’altro capo dello stivale si mostra al popolo del web attraverso un sito ricco di immagini e racconti dedicati esclusivamente alle due isole siciliane. Non solo pubblicità positiva, però. Dai campanili delle chiese alla Rete, infatti, il legame col territorio si fa ancora più forte quando si tratta di difendere la propria identità culturale da quella del “vicino”. Un esempio: la storica rivalità tra le città di Pisa e Livorno, che dalle torrette in mattoni è migrata sul web. Il primato di ironia e goliardia va senz’altro al blog “pisamerda.wordpress.com”, che vanta l’archivio completo di «tutti i video contro i pisani scovati sul web» e soprattutto una raccolta di scatti fotografici che, forse in modo un po’ incauto, ritraggono la scritta che dà il nome al blog. 4 MEDIA LOCALI 9 Settembre 2011 PUZZLE ON LINE L’Italia resta divisa anche sul web, ma c’è chi prova a unirla G lobalizzazione e iperlocalizzazione: due fenomeni opposti che convivono nello stesso universo, quello del World Wide Web. Se da un lato la Rete ha ridisegnato i confini nazionali, dall’altro ha rafforzato quelli locali. Nel mondo 2.0, che tende a diventare un enorme villaggio globale dove lo stesso concetto di distanza è rivoluzionato, le identità culturali che riescono a mantenersi integre sono proprio quelle iper-locali, proprie di piccoli mondi di provincia. Un trend che oggi ha anche un nome: glocale, termine coniato dal sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman come fusione di globale e locale. Glocalizzare, cioè, significa favorire l’interazione tra persone di uno stesso territorio attraverso tecnologie proprie della comunità globale. Non stupisce, allora, che la filosofia glocal abbia mantenuto inalterato uno degli elementi tipici della cultura stracittadina: il campanilismo, l’affermare la superiorità delle proprie radici soprattutto a scapito di un modello altro, ritenuto inferiore, con il quale instaurare un confronto sempre più agguerrito e radicale. Naturalmente, il modello più immediato con il quale confrontarsi e scontrarsi non può che essere quello del vicino. La cultura campanilista non è scomparsa con la Rete, non è stata spazzata dalla globalizzazione. Ha solo cambiato muta, adattandosi ai nuovi mezzi di comunicazione, ai nuovi codici della interazione. Così l’ombra del campanile diventa virtuale, assume la forma dei diari on line, dei blog che raccontano la vita del territorio, esaltandone le bellezze architettoniche, paesaggistiche, la cultura. Orgogliobresciano.org si propone, ad esempio, di perseguire «la tutela e la (conseguente) valorizzazione di tutti gli aspetti della cultura bresciana, i quali edificano e mantengono vitale la nostra identità» per «far germogliare e rafforzare nei cuori e nelle menti dei Bresciani il loro senso di ap- Così l’ombra del campanile diventa virtuale partenenza alla propria terra». Diariodifirenze.it, VocediLucca.it, Livorno.wordpress.com sono altri esempi di diari digitali di territori molto vicini e, se si vuole, similari. Eppure ognuno dei blogger o comitati attivi nella difesa della cultura delle rispettive realtà giurerebbe che la sua è unica, e nella maggior parte dei casi più affascinante delle vicine. Se si rimane alla pagina scritta e diffusa tramite la rete, è possibile analizzare numerose di queste “testatine”, dalle quali traspare la volontà di affermare in termini positivi la propria identità, mantenendo una certa dignità di fondo. Dal piemontese Torinoblog.it al siciliano Orgogliopeloritano.it ognuno di questi diari diffonde la cultura del proprio territorio e lascia lo sfottò al vicino in secondo piano, se non, in qualche caso, assente del tutto. Discorso parzialmente diverso, invece, va fatto per la più popolare piattaforma “social”: Facebook. Il mondo creato da Mark Zuckerberg è popolato da pagine che accanto al nome della città italiana presa di mira presentano la parola “odio”, “merda”, “deve sprofondare” e altre gentilezze di questo tipo. C’è chi si augura, ad esempio, che un nuovo terremoto, dopo quello del 1908, sconvolga la città di Messina. Per fortuna, anche sulla piattaforma di Facebook non mancano utenti che utilizzano le potenzialità del nuovo strumento per promuovere l’unione, piuttosto che l’arroccamento cieco sulla propria identità. È il caso, ad esempio, di Giovanni Addante, che tramite il social network cerca di far decollare il progetto “Passione calcio Puglia”. L’obiettivo è quello di creare una squadra di calcio che unisca le tifoserie di baresi, leccesi, foggiani e tarantini. L’obiettivo prefissato è il raggiungimento di 30.000 adesioni su Facebook, per l’acquisto di una squadra di calcio esistente o la creazione di un nuovo Club “Internazionale” della Puglia. Un modo per dare «un calcio al campanilismo». Pagina a cura di Federica Ionta e Enrico Messina FACEBOOK Le pagine “contro” Saranno pure fittizie molte identità presenti su Facebook, edulcorate le storie raccontate nei post, “gonfiate” le reazioni di divertimento o indignazione, di gioia come di sgomento che si leggono sul social network. Ma tra gli elementi che si mantengono autentici svetta l’attaccamento alla propria città, “urlato” alla rete tramite le pagine con le quali questa o quella città si proclama migliore della vicina. In una parola, campanilismo. Ma social, come i tempi impongono. Lo scontro virtuale fra vicini è una spina dorsale che unisce tutta l’Italia presente sul network, dalla Sicilia al Piemonte, passando per la Calabria, Puglia, Campania, Abruzzo, poi su verso Toscana, Emilia Romagna, arrivando fino in Piemonte. Così la pagina “Odio Catania” assomiglia inesorabilmente a quella “Odio Siena” e all’altra “Odio Piacenza”: stessi toni da curva, stesse (presuntuose) affermazioni di superiorità da parte degli animatori. Solo che nel primo caso a firmare le pagine sono ragazzi di Palermo, nel secondo di Pisa e nel terzo di Cremona. Quasi in tutte le regioni il copione si mantiene uguale. Ma da Facebook arriva anche la sorpresa che non ti aspetti: sono il migliaio di persone che hanno cliccato “mi piace” in pagine come “No al Campanilismo”, “Quelli che si sono rotti della rivalità fra Pescara e Chieti”, “W l’Italia unita”. Reporter nuovo Politica Da Amintore Fanfani a Giancarlo Galan il potere guarda sempre più agli interessi locali Scelte di cortile dai veto-players Il campanilismo si istituzionalizza e diventa il nuovo ago della bilancia Marco Cicala Narra la leggenda che nel 1963 Amintore Fanfani disegnò di suo pugno, con un tratto rosso, la curva per avvicinare l’Autostrada del Sole ad Arezzo, la sua città natale; Clemente Mastella, che nella natia Benevento aveva qualcosa di simile a un regno, il campanile lo aveva messo addirittura nel simbolo del suo partito; gli onorevoli di tutti i colori politici si mobilitano a colpi di interrogazioni parlamentari quando le loro squadre del cuore vengono penalizzate dagli arbitri. E ancora, per restare ai giorni nostri, la prima dichiarazione del neo ministro della Cultura ed ex governatore del Veneto Giancarlo Galan è stata: «L’unico festival del cinema dovrebbe essere a Venezia. Quello di Roma dovrebbe scomparire». Storie di interessi locali che si sovrappongono a quelli del Paese. E che spesso li superano, in sfregio a una collettività di cui la politica, soprattutto quella nazionale, dovrebbe essere al servizio. Il campanilismo in politica nasce con la politica stessa. E non si è mai estinto. Anzi, si è radicalizzato diventando un vero e proprio manifesto. È la Lega Nord probabilmente il più grande esempio di questo per- LOCALISMI La Lega Nord come gli altri porta l’acqua al proprio mulino corso, primo partito locale che è riuscito conquistarsi un posto al sole a livello nazionale, diventando l’ago della bilancia per le sorti del governo. Nato come federazione di movimenti autonomisti regionali ha da subito battuto il ferro sui sentimenti indipendentisti del suo bacino di riferimento, quello settentrionale, propagandando presunti vantaggi derivanti da una secessione. Alternando folklore ad amministrazioni locali efficienti, la Lega ha intrapreso un percorso evolutivo che l’ha incanalata su binari istituzionali e, contestualmente a un incremento costante dell’elettorato e dunque di peso politico, ha permesso al Carroccio di proporre e attuare riforme volte principalmente al benessere della cosiddetta “padania”. Un analogo caso, forse meno rilevante politicamente ma più radicato sul territorio, è quello legato al Sudtiroler Volkspartei (Partito Popolare Sudtirolese), che per statuto rappresenta gli interessi delle minoranze tedesca e ladina della provincia au- tonoma di Bolzano. I valori di riferimento sono quelli dell’autonomismo ma anche della tutela della lingua, tanto che nel l’SVP non ammette nel proprio partito cittadini che si sono dichiarati di madrelingua italiana. Realtà piccola ma influente, come dimostrato recentemente. Approfittando di una situazione parlamentare complessa che vede il governo in sofferenza alla Camera, il Sudtiroler avrebbe sfruttato il peso dei suoi tre deputati per ottenere, in cambio dell’astensione al voto di fiducia del 14 dicembre 2010 al governo Berlusconi, la suddivisione della gestione del parco nazionale dello Stelvio tra enti regionali anziché a livello statale, approvata dal Consiglio dei Ministri il 22 dello stesso mese. Nonostante le smentite ufficiali di rito, l’episodio in piccolo è rapportabile ai costanti veti che la Lega impone al governo su questioni sensibili al Carroccio (immigrazione, federalismo, sicurezza), pena la caduta della maggioranza. E’ la nuova frontiera delle minoranze rilevanti, i cosiddetti “veto players”, che da partiti caratterizzati da una forte ideologia si trasformano in partiti finalizzati a interessi locali, istituzionalizzando il campanilismo. Ma non è solo il Nord ad esprimere tali realtà. Anche nel meridione gli ultimi anni hanno visto il proliferare di partiti politici volti a difendere gli interessi locali. Quello di maggiore successo è il Movimento per le Autonomie (Mpa), fondato nel 2005 da Raffaele Lombardo, attuale governatore della Sicilia. Nato da una costola dell’Udc siciliana, l’Mpa si è subito presentato come l’alternativa alla Lega, partito con cui condivide alcuni valori fondativi e con il quale nel 2006 venne stipulato un accordo definito il “Patto delle Autonomie”. Il fondatore dell’Udeur rivendica la paternità di un simbolo che non tramonta Mastella: ‘Il campanile, c’est moi’ Il problema è la dialettica, non le rivendicazioni Jacopo Matano Se c’è un partito che ha il campanile nel cuore (e nel simbolo), questo è l’Udeur. Dalla sua fondazione nel 1999, la formazione politica nata dalle ceneri dell’Udr e dalle liti sull’eredità democristiana porta l’effige dell’italico sciovinismo dentro il logo, e nella prima pagina dell’organo di stampa (che si chiama, appunto, “Il Campanile”). Oggi il nome dell’Udeur è cambiato – si è aggiunto il sottotitolo “Popolari per il Sud” – e il partito ha modificato piattaforma e organi dirigenti, ma il campanile resta lì. Il suo fondatore, Clemente Mastella, candidato a sindaco di Napoli, spiega perché non può farne a meno. Mastella, com’è nato il simbolo del suo partito? «L’idea è mia. Il campanile era, nelle mie intenzioni, la parrocchia nella quale ci si in- Reporter nuovo contrava per discutere di politica e società, un luogo di scambio, un monumento – simbolico – su cui si potesse salire per rendersi conto di quello che capitava nelle zone limitrofe. Ma anche un modo accomuna oggi molte forze politiche. Ma in alcuni casi siamo costretti. La ragione ha un nome e un cognome: Lega Nord. Il Carroccio è ormai predominante in ogni atto, in ogni gestualità politi- I Popolari per il Sud sono lo specchio del Paese. Mi spetterebbe una medaglia per ciò che ho fatto per la mia parrocchia per testimoniare l’esistenza di una realtà territoriale e politica, per dire al mondo “ci siamo anche noi”. Rappresentava, dunque, il campanilismo. Ma in modo pacifico”». Nato a Ceppaloni come “Udeur”, il partito del campanile si chiama oggi “Popolari per il Sud”. Siete un esempio di come le ideologie abbiano lasciato il posto alle istanze territoriali. «È una trasformazione che ca di governo e maggioranza. Il sud rischia così di essere in balia di una situazione drammatica, senza una rappresentanza concreta, forte e rumorosa che faccia da contrappunto. Non si può abbandonare il campanile». I partiti del territorio, però, sono fatti per pensare soltanto alle proprie istanze. Questo non rischia di trasformare la politica in un agone di egoismi? «Oggi c’è questo rischio, ma il problema è la dialettica, non il contenuto delle rivendicazioni. Vede, quando è nato l’Udeur il confronto, nel mondo politco, era ancora veramente democratico. E il campanile, la rivendicazione delle istanze territoriali, era legato ad alcuni valori che erano quelli di una solidarietà spiccata, un apertura verso l’altro, uno scambio reciproco di opinioni, anche aspro, ma sempre caratterizzato da un “garbo” democratico. Tutto questo non c’è più». La Dc, nella prima repubblica, era un partito “modello” in quanto a campanilismo. Molti erano gli esponenti politici che, da Roma, facevano di tutto per favorire il proprio collegio. Lei, da ex democristiano, non sarà stato da meno. Cosa ha fatto per la sua parrocchia? «Ho fatto moltissime cose ORGOGLIO Mastella con il vecchio logo del suo partito. Nel nuovo c’è ancora il campanile per Ceppaloni e per la provincia di Benevento, e le rivendico tutte. Pensiamo all’università, che non sarebbe mai sorta senza il mio intervento. Pensiamo alla scuola di magistratura, che ho fatto trasferire sempre a Benevento quando ero ministro della Giustizia. Credo che la “medaglia al campanile” mi spetti di diritto». Non è che i napoletani, magari più campanilisti di lei, decideranno di non votarla perché è di Ceppaloni? «Vede, il mio è un campanile orientato verso tutto il mezzogiorno, un Sud di cui Napoli è indiscutibilmente la capitale culturale, sociale, politica. Parlando di me, dunque, userei una metafora calcistica. Posso dire di essermi fatto le ossa a Ceppaloni, di aver partecipato agli allenamenti nelle giovanili a Benevento e di essere pronto per giocare nel Napoli. Credo che il pubblico mi apprezzerà, anche se di un altro campanile». 9 Settembre 2011 5 Sport & Tradizione Tifoserie negli stadi: l’appartenenza alla squadra conta più della famiglia e della patria Un vivere tra folklore ed eccessi Coreografie spettacolari ma anche raccapriccianti episodi di violenza Raffaele d’Ettorre Scontri senza quartiere, dove il quartiere diventa la propria tifoseria, il colore della maglia, la curva di appartenenza: barriere impenetrabili, che da sempre avvelenano le dispute sportive in campo, calamitando costantemente i riflettori mediatici su episodi di ferocia inaudita. Il campanilismo calcistico, in Italia, sembra essere scolpito nel dna dei tifosi: duro a morire perché spesso il senso di appartenenza alla squadra scolpisce barriere ideologiche che si sostituiscono alla famiglia e alla patria, diventando addirittura religione. La risultante più immediata di questo processo è un tifo appassionato allo stadio, coreografie spettacolari nelle curve, striscioni e cori spesso ingegnosi e fulminanti nella loro devastante ironia. Il campanilismo calcistico però non è solo folklore. C’è un lato torbido, una dimensione macabra, nella pratica quasi mafiosa, che emerge prepotentemente a dispetto dello sport. Maggio 2010, vigilia di LazioInter. La Roma è in corsa scudetto con i nerazzurri, i capi ultrà della tifoseria laziale minacciano la dirigenza: «Se non battete l’Inter siete finiti». L’intimidazione arriva per po- LO SFOTTO’ I tifosi laziali ironici consegnano lo scudetto nelle mani dell’Inter ai danni dei cugini giallorossi sta, accompagnata da un proiettile di grosso calibro. La Lazio regalerà all’Inter, giocando senza opporre resistenza alcuna, il lasciapassare per lo scudetto, togliendolo così alla Roma. Qui il campanilismo investe i vertici della dirigenza, modificando la sostanza del gioco del calcio. «Lo sai che sei un uomo morto?»: l’intimidazione, solitamente riservata ai giornalisti “scomodi” nei regimi dittatoriali, arriva dritta in faccia al cronista Catapano, in margine alla partita tra Chievo e Roma. «Qui non possiamo farti niente, ma ormai sei segnato»: l’avvertimento è di un capo ultrà romanista, le minacce sono concrete. Questa dimensione fosca del campanilismo affonda le sue radici direttamente nelle curve degli stadi. Di fatto, gli scontri “partigiani” fra le diverse tifoserie sono spesso sfociati nelle domeniche italiane in veri e propri episodi di guerriglia urbana, dipingendo alcuni dei peggiori affreschi della cronaca nera italiana. Gli accoltellamenti tra milanesi e cremonesi, nel 1984, costarono la vita al diciottenne Marco Fonghessi, rossonero ucciso “per un equivoco” da altri tifosi milanisti. A Firenze, nel giugno del 1989, la Fiorentina sfida il Bologna. Alcuni teppisti lanciano una molotov sul treno che sta riportando a casa i bolognesi: l’esplosione sfigura in pieno viso il quattordicenne Ivan Dall’Olio. Nel 2001, il messinese Antonio Currò, 24 anni, muore dopo l’ esplosione di una bomba carta in Messina-Catania. Nel 2003 allo stadio Partenio, nella partita Avellino-Napoli, le curve si scontrano con violenza disumana. Sergio Ercolano finisce in un fossato, sbatte la testa e muore a soli 20 anni. In Italia, finora, l’unica risposta trovata per arginare il fenomeno del tifo violento è stata l’adozione di misure sempre crescenti di ordine pubblico. In questo modo si è delegato alle Forze dell’Ordine il compito di contenere, reprimere e punire il tifo violento. Il risultato, però, non è stato quello sperato. La tensione intorno ai campi da gioco è aumentata, il conflitto ha trovato una nuova dimensione: non più (o non tanto) tra ultrà delle opposte tifoserie, ma tra ultrà e Forze dell’Ordine. In questo senso, l’idea di “istituzionalizzare” i supporter con la cosiddetta “Tessera del tifoso” ha avuto risvolti tutt’altro che felici. «Tesserato infame dichiarato», «Abbonato servo dello Stato»: con questi slogan sinistri, gli ultrà (che la tessera non l’hanno mai fatta, eppure ogni domenica riescono ad intrufolarsi in curva) hanno ormai dichiarato guerra allo Stato. IL TIFO Piazza del Campo si riempie per assistere alla corsa. A fianco, i cavalli delle Contrade dell’Onda e della Selva Lorenzo d’Albergo Il canape è appena caduto: le contrattazioni tra i fantini sono concluse. Ora bisogna solo domare al meglio le fiammanti monoposto dal motore impazzito. I cavalli, cavalcati rigorosamente a pelo, senza sella, sono quasi incontrollabili: il “bibitone”, un mix di sostanze eccitanti, li trasforma in schegge impazzite. Negli attimi che precedono l’inizio della corsa, qualcuno ha venduto il suo onore per poche migliaia di euro e ne dovrà render conto a fine palio ai contradaioli che lo hanno ingaggiato, qualcun altro ha provato ad assicurarsi la gloria a suon di bigliettoni. Gli zoccoli scalpitano sulla terra di Piazza del Campo, che per 60 interminabili secondi trattiene il fiato. D’altronde del possibile esito della corsa si è parlato per dodici mesi e si parlerà per tutto il prossimo anno. Funziona 6 9 Settembre 2011 Il Palio di Siena: un esempio di scontro fra contrade che si ripete da sempre Ventre a terra per essere amici così dal 1644, due volte l’anno nel periodo estivo. Il racconto del Palio di Siena potrebbe fermarsi ai retroscena (neanche fosse organizzato in transatlantico) che i telecronisti Rai snocciolano in diretta nazionale, agli accordi economici sottobanco, alle gelosie e alle botte da orbi tra contrade rivali. Ma la competizione tra rioni nasconde qualcosa di più. Lo sa bene Gianluca, 29 anni, un’adolescenza e un’infanzia passata sotto i colori dell’Istrice. Al termine di una delle tante riunioni alle quali il contradaiolo doc deve essere presente, racconta perché, se sei nato a Siena, al Palio non si sfugge: «È un’esperienza totalizzante. Se guardo alla storia personale di alcuni dei miei compagni, mi accorgo che qui, senza partecipare alle attività organizzate dalla contrada, sarebbe difficile farsi una vita». Già, perché dal servizio di pre e post-scuola alla discoteca pomeridiana per i liceali, tutto passa per i colori che si sceglie di difendere e sostenere, «e se ne sei fuori, a una certa età è perfino più difficile trovare un lavoro in città». Così, le 17 contrade, a volte consorelle, più spesso nemiche, che si spartiscono la città smettono di essere un pittoresco residuato tardo rinascimentale. L’appartenenza a una di queste, che sia la poco invidiata “nonna” o la fresca vincitrice del palio, rappresenta il cartellino da visita del vero senese. Qualcosa che differenzia da chi vive fuori dalla cinta muraria della cittadina toscana. Un’unità che traspare anche nel racconto di Mario, della contrada della Chiocciola: «Anche gli scontri tra ragazzotti, le “rimbossolate” al limite tra due territori nemici, fanno parte del palio. Ricordo di essermi scontrato con tanti amici della Tartuca, amici veri, e certo non ci si risparmiava. Poi, a Palio finito, ci si ritrovava al bar di confine e ci si offriva da bere». Insomma, come scriveva il poeta fiorentino Mario Luzi, «Il Palio è il Palio. Nessuna interpretazione sociologica, storica, antropologica, potrebbe spiegarlo. Sublimazione e dannazione insieme del fato in ogni singolo senese e della sua cittadinanza. Rogo furente della senesità, in ogni caso impareggiabile conferma di essa». Dietro a quei due minuti di corsa forsennata per portarsi a casa il Palio e il piatto d’argento in cui si fa mangiare il ronzino vincente, si nasconde una Siena più complessa di quello che il telespettatore medio può immaginare. Una città diversa da tutte le altre, con il suo particolarissimo tessuto sociale, nel quale prima di potersi definire senese, bisogna essere contradaioli. Reporter nuovo Cucina & Cinema Il super-chef Colonna: «C’è un posto per tutte le regioni nella squadra azzurra del piatto» Ma il mio Totti resta il cacio e pepe Per questo ho il titolo di “Ottavo re di Roma”. No alla guerra olio-burro Andrea Andrei «Partire dalle proprie origini. Sempre. Poi cavalcarle e diventare cittadini del mondo. Pensare locale e agire globale». È la sua ricetta migliore, quella più importante. E dire che lui, di ricette, se ne intende. Eh sì, perché Antonello Colonna, uno dei più grandi chef italiani, è partito dalla cucina romana con la quale è cresciuto, l’ha re-interpretata e ha conquistato il mondo. Ha aperto locali a New York, ha partecipato e organizzato eventi di portata internazionale. Eppure, in barba a qualsiasi snobismo, la cosa di cui va più fiero è una: «Mi chiamano l’ottavo re di Roma, per il mio cacio e pepe». Lei è considerato uno degli ambasciatori della cucina negli Stati Uniti. Se dovesse scegliere un piatto che rappresenti al meglio il gusto tipico della cucina italiana, quale sceglierebbe? «Nel mondo, l’amatriciana e la carbonara sono dei capisaldi. Lo dico sempre: l’amatriciana sta al Pantheon DELIZIE Lo chef Antonello Colonna, il “Cacio e Pepe” e un interno del suo ristorante nel palazzo delle Esposizioni a Roma come la carbonara sta al Colosseo. Qualsiasi tour operator mostrerebbe a un turista questi due monumenti. Difficilmente, nell’illustrare le meraviglie dell’Italia culinaria, si parla del risotto alla milanese». Diciamoci la verità, lei è un po’ di parte... «Se fossi stato un’artista e se fossi nato in Tibet, le mie opere avrebbero preso ispirazione dai quei luoghi, da quella cultura. Io ho ereditato la cucina romana, che di per sé non è un patrimonio particolarmente raffinato. È il popolo. È il pastore, che cucinava con quello che aveva a disposizione per sostentarsi, non per fare alta cucina. Più che essere di parte faccio marketing. Devo per forza parlare male del ragù alla bolognese, no?». A proposito di contrasti, la “sfida” fra la cucina del nord e quella del sud si potrebbe riassumere in “burro” contro “olio”. Lei da che parte sta? «Se unissimo nord, centro e sud, avremmo una squadra con la quale potremmo sfidare il mondo intero. Coinvolgendo i miei più grandi col- leghi del Piemonte, della Lombardia, del Friuli, dell’Emilia, della Toscana, del Lazio, della Campania della Calabria, della Sicilia. L’unione di queste forze rappresenta un patrimonio inestimabile, degno della tutela dell’Unesco. Certo che se poi dovessimo giocare un campionato nazionale a sedici squadre, sicuramente difenderei il mio olio dal burro. Ma dal punto di vista di un professionista, non è possibile parlare male del burro. È esattamente quello contro cui combatto ogni giorno». Con tutti questi localismi in cucina, come fa a mettere d’accordo i gusti delle persone? «Mettere d’accordo i gusti della gente è difficile. La cucina è una scienza che non ha mai avuto punti fermi. È stata sempre fatta da interpretazione. Certo, oggi, con la commercializzazione della cucina, c’è l’illusione che chiunque possa essere un cuoco. Così come, nel calcio, tutti si sentono allenatori. La cucina, purtroppo, da questo punto di vista è diventata un elettrodomestico». Dai maestri del neorealismo le mille immagini e realtà che ci raccontano Film, tessere del mosaico Italia La Roma di Rossellini e Visconti e gli emuli di oggi Chiara Aranci La Sicilia di Visconti, la Roma di Rossellini e quella di De Sica, le risaie delle campagne vercellesi di De Santis, le diverse ambientazioni geografiche di Paisà di sempre di Rossellini, la Milano di Antonioni sono spaccati dell’Italia di quegli anni. Ognuno ne ritrae un angolo e gli italiani iniziano a conoscersi senza doversi spostare. Il neorealismo è stato una vetrina dell’Italia divenuta patrimonio del cinema mondiale e i nostri divi di allora, icone senza tempo. Ci ha messo davanti un’Italia in divenire, segnata dall’esperienza della guerra ma con volontà di riscatto. Le storie narrate ci hanno fatto emozionare, sognare e sperare, ma soprattutto credere che nonostante tutto, si poteva andare avanti e costruire un’Italia diversa. Andare al cinema negli anni ’50 e ’60 era un evento molto sentito per chi andava, con la propria famiglia o con gli amici. Le emozioni davanti ai capolavori indiscussi di quegli anni erano autentiche, e dal nord al Reporter nuovo sud l’Italia era unita nel nome di Visconti, De Sica, Antonioni, De Santis, Rossellini e dei grandi attori che quel momento ci ha regalato. L’Italia di quei film raccontava la realtà, fatta di miseria e dramma ma anche quella delle persone comuni, che cercavano con un sorriso di rappresentare l’enorme sforzo e impegno che il bel Paese stava facendo per ri- mille tessere del mosaico Italia. Il movimento neorealista fu d’ispirazione per i registi della nuova generazione: Fellini come Pasolini. Seppure profondamente diversa la loro produzione è spiccatamente diversa, entrambi hanno attinto a quel periodo per poi fare cinema a proprio modo. Dalle commedie recenti come “Basilicata Coast to Co- Nella Grande Guerra di Monicelli i contrasti di campanile si stemperano in un ideale comune a esaltazione della Patria prendersi dalla guerra. I bambini vengono utilizzati dai registi per dire ai grandi cosa fare, le ambientazioni sono girate per la maggior parte in esterni nelle campagne desolate, o nelle città ancora martoriate dalla guerra. Per gli interni si ricorre agli studi di Cinecittà, che diviene il perno su cui grandi registi si incontrano e si scontrano, dove riflettono sulla poetica cinematografica e sugli stili da adottare. Così i film del neorealismo divengono le ast” di Rocco Papaleo, dove viene ritratta una regione bella quanto inesplorata come la Basilicata che fa da sfondo in un’avventura di alcuni amici che decidono di attraversarla come fosse la leggendaria route 66 americana, coast to coast, come pure “Respiro” del giovane Emanuele Crialese, ambientato nella splendida isola di Lampedusa, ritraggono l’Italia di oggi con le sue paure, le sue ansie ma pur sempre con una fotografia che riempie d’orgoglio l’essere italiani. E come dimenticare il campione d’incassi dello scorsa stagione “Benvenuti al Sud” di Luca Miniero, un frizzante ritratto dell’italianità dal nord al sud. E dal passato rimane attuale l’insegnamento dell’intramontabile “La Grande Guerra” di Mario Monicelli. Nel film due grandissimi del nostro cinema, Albero Sordi e Vittorio Gassmann, dando un calcio al campanilismo, interpretano due commilitoni, un romano e un milanese, chiamati a combattere nella Prima guerra mondiale. Diversi di carattere e di origini i due sono uniti dalla mancanza di qualsiasi ideale e dalla volontà di evitare i pericoli della battaglia per salvare la pelle. Ma quando ci sarà da salvare la Patria, non si tireranno indietro e fieri del loro essere italiani, si immoleranno per la nobile causa. E allora che si parli pure di campane e campanilismi. Ci piace sentirci e riconoscerci diversi davanti agli altri, ben consapevoli che in certi momenti le campane possono tacere. NEOREALISMO Gassman e Sordi ne “La grande guerra” REALTA’ I protagonisti di “Basilicata coast to coast” 9 Settembre 2011 7 All’Estero Tanti i “campanili” nel mondo, ma a volte come in Spagna e in Irlanda sfociano nel terrore Ventisei cantoni e c’è anche di peggio E nelle barzellette lo sciocco è sempre l’altro. Presi di mira gallesi e polacchi Emiliana Costa Con ventisei cantoni e quattro lingue nazionali, la Svizzera ha conquistato negli anni la palma di paese europeo più campanilista. E se questo primato può far storcere il naso a qualcuno, il nostro vicino d’Oltralpe non se ne cura, vantando un caleidoscopio di culture e tradizioni diverse, specchio e orgoglio di ogni singolo campanile elvetico. Dalla provincia di Berna - la più estesa con i suoi seimila chilometri quadrati – al minuscolo semicantone di Basilea. Tra le ricorrenze più celebri, la festa del tiro di Aarau, la manifestazione federale dei costumi a Svitto e quella dei tamburi e pifferi a Interlaken. Ma gli otto milioni di abitanti svizzeri non sono gli unici detentori, nel vecchio continente, di un multiculturalismo cresciuto all’ombra del campanile. Anche in Gran Bretagna, a quattro ore di treno dalla capitale, fiorisce una storica civiltà celtica cresciuta nel grembo della corona britannica. Si tratta della Scozia, una regione dagli usi e costumi completamente diversi da quelli dei “cugini” londinesi. Guai a confondere un inglese - ai raduni delle Highlands, giochi durante i quali i concorrenti si sfidano al tiro alla fune, al lancio del martello e a gare di atletica leggera. Senza dimenticare l’inimitabile kilt, il gonnellino a quadri inventato nel ‘700 da Thomas Rawlinson e oggi indossato, soprattutto, durante le cerimonie Guai a confondere un inglese con un abitante di Edimburgo, potrebbe sembrare allo scozzese quasi un insulto con un abitante di Edimburgo, potrebbe sembrare a quest’ultimo quasi un insulto. Gli scozzesi tengono molto alla loro bandiera, sotto la quale sono germogliate una serie di variopinte tradizioni. Dalla cornamusa - lo strumento aerofono a sacco, dal suono inconfondibile ed emozionante ufficiali. Dal “campanile culturale” si scivola facilmente in quello dello sfottò. Se gli inglesi considerano irlandesi, scozzesi e gallesi troppo ruspanti e bevitori incalliti, gli americani non hanno fatto sconti agli amici polacchi, dipingendoli come sciocchi e poco istruiti. Men- tre i francesi hanno inventato una serie infinita di barzellette sul poliglotta popolo belga. Ci sono, però, delle volte in cui l’attaccamento eccessivo a una bandiera sfocia nel sangue. E’ il caso del terrorismo basco propugnato dall’Eta. Dal 1958 a oggi l’organizzazione armata ha compiuto numerosi attentanti in nome della secessione dal governo spagnolo. Stessa sorte per l’Irlanda del nord, dove da anni gruppi di scissionisti lottano per l’indipendenza da Londra. Tragica la situazione nella regione sudanese del Darfur, piegata da un interminabile conflitto contro l’esercito lealista. In Sri Lanka la guerra civile è terminata tre anni fa. In questo caso il governo cingalese avrebbe avallato un vero e proprio genocidio per impedire la creazione di uno stato Tamil nel nord del paese. Un caso a sé negli Stati Uniti. Qui la sfida è il primato nelle università In lizza Nobel, sport, presidenti E per Harvard, Barack Obama vale doppio punteggio Ilaria Del Prete Non è difficile individuare per le strade di Roma un americano che abbia fatto il college. Si distinguono per il loro abbigliamento. Dal cremisi delle t-shirt di Harvard, al blu di quelle di Yale, al giallo oro delle felpe di Berkeley, gli statunitensi sfoggiano con fierezza i simboli della loro università di appartenenza. Come se in quegli indumenti feticcio fossero racchiuse le loro origini e il loro orgoglio. In un paese in cui i campanili da far suonare sono pochi, il campanilismo assume forme ben diverse da quelle consuete, e anziché essere espressione dell’attaccamento alla propria città d’origine si trasforma in celebrazione delle università che si frequentano o si sono frequentate. Così come in Italia esistono le rivalità tra contrade o fazioni opposte di una stessa area geografica, in America la competizione si sviluppa tra campus e campus. La battaglia più aspra è senz’altro quella tra Harvard e Yale, due delle più ambite 8 9 Settembre 2011 All’attacco Crimson verso Bulldogs nella sfida del The Game università della Ivy League (lega che accomuna gli otto atenei privati più prestigiosi dello stato). Acerrimi nemici nelle competizioni sportive, i Crimson e i Bulldogs si sfidano ogni anno alla fine del campionato nel The Game, la partita di football più attesa dagli allievi delle due rivali: vincere questo match è di gran lunga più importante che ottenere un punteggio più alto nell’intero campionato. Altro terreno di sfida tra le due storiche università è la Harvard- Yale Regatta: la sfida in canoa tra gli allievi è la competizione sportiva studentesca più antica degli Usa. Attualmente, gli studenti di Harvard sembrano i più in forma, detengono infatti il titolo annuale per The Game e, con 91 vittorie, il record per le regate. Ma non è solo lo sport a infervorare gli animi di studenti, accademici e alumni (gli ex allievi). C’è accesa rivalità anche sui grandi cervelli, e la guerra si combatte a colpi di premi Nobel. In realtà esisto- no diversi criteri per conteggiare il numero di studiosi insigniti del premio, ed è dunque difficile stabilire quale università detenga il primato. Se si prendono in considerazione non solo i laureati e i ricercatori di un ateneo, ma anche i suoi insegnanti (sia premiati durante il periodo di docenza che prima o dopo), la prima in classifica è la Columbia University di New York, con 97 premi Nobel divisi nelle sei sezioni previste dal riconoscimento dell’Accademia di Svezia. Seguono, con 88, l’Università di Chicago, e con 77 il Mit, Massachusetts Institute of Technology. Se alla Columbia ha studiato il filosofo Bertrand Russell, premio Nobel per la letteratura nel 1950, a Yale ha insegnato l’economista Joseph Stiglitz (che però si è laureato al Mit), premiato nel 2001. Infine, motivo di fregio sono i presidenti americani che si sono formati in un ateneo anziché un altro. È ancora una volta Harvard ad avere il primato: l’ultimo leader è Barack Obama, anche premio Nobel per la pace nel 2009. TRADIZIONI Dall’alto, la festa del tiro ad Aarau in Svizzera e suonatori di cornamusa agli Highlands games in Scozia I CUGINI INGLESI Sempre più Oxford-Cambridge Oxford e Cambridge, due facce dell’eccellenza universitaria made in England. La sana rivalità che vige tra i due atenei è pari solo alla loro antichità, e si manifesta sia tramite le classifiche annuali stilate dalla commissione paragovernativa Research Assessment Exercise - in cui ormai Cambrige ha sorpassato Oxford - sia nella competizione sportiva. Anche in madrepatria come negli Usa a decretare il migliore tra i due è la Oxford-Cambridge Boat Race, la gara di canottaggio che anima le acque del Tamigi con le vogate di otto atleti per squadra. Il titolo nel 2011 se l’è aggiudicato Oxford, ma Cambridge rimonta sui premi Nobel: 87 a 57. I. D. P. Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo