Eucaristia dono di comunione… per la vita quotidiana
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Eucaristia dono di comunione… per la vita quotidiana
Eucaristia dono di comunione… per la vita quotidiana PAOLA DAL TOSO Segretaria generale della Consulta nazionale delle Aggregazioni laicali Colgo l’occasione innanzitutto per dire grazie all’Azione Cattolica, un grazie di tutto cuore: molti di voi sono impegnati anche nell’animazione, nel sostegno alla vita delle Consulte diocesane delle Aggregazioni laicali, localmente, là dove questa realtà esiste. Esprimo la più viva riconoscenza veramente con il cuore ringraziando anche l’Associazione in generale: il Presidente prof. Franco Miano ha scelto in questi due ultimi anni di impegnarsi, di coinvolgersi personalmente aggiungendo ai numerosi impegni che comportano questo servizio, anche la sua presenza nella partecipazione alle riunioni del Comitato Direttivo della Consulta nazionale delle Aggregazioni laicali. Inoltre, il grazie va anche a quello che è stato il concreto appoggio, sostegno ed aiuto materiale, anche di tipo organizzativo, che l’Azione Cattolica ha messo a disposizione sia in occasione delle due Assemblee della Consulta nazionale delle Aggregazioni laicali che abbiamo svolto a livello nazionale (21 novembre 2009 e 29 maggio 2010), sia in occasione dell’incontro del Regina Coeli dello scorso 16 maggio che abbiamo promosso come Consulta. Grazie proprio con il cuore perché queste credo siano le cose concrete attraverso le quali si vive, si cresce, si sperimenta la comunione. Ho accettato volentieri quest’invito e vi propongo alcune riflessioni con tutti i limiti che personalmente ho rispetto al tema, che non è mio, in quanto mi occupo di pedagogia, di storia dell’educazione della pedagogia, quindi, di questioni educative. Vi metto a disposizione quelle che sono le mie personali riflessioni che nascono non solamente dal servizio al quale sono stata chiamata a fine marzo 2009, ma anche dalla mia esperienza associativa, nell’ambito scout e più precisamente dell’Agesci (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani). Ci tengo a ricordare che la mia prima formazione è stata nell’Azione Cattolica: sono stata beniamina ed aspirante; l’entrata negli scout è stata successiva. Il contributo che vi offro ve lo presento anche con un po’ di emozione: sono abituata a parlare in pubblico, non ho problemi di chiacchiera, però, quello che vi dirò alla fine intuirete perché mi emoziona. Siamo tornati abbastanza di recente dalle ferie, durante le quali ci sarà capitato di camminare in montagna non da soli e di raggiungerne la cima non con una scalata in solitaria bensì in gruppo; magari si è trattato di una meta piuttosto impegnativa. Che cosa rimane di quest’esperienza, quali sono i due elementi che io voglio sottolineare? Sicuramente salire su una cima è impegnativo, ci vuole fiato, costa fatica. E se si raggiunge una vetta con altri ciò implica camminare insieme condividendo il ritmo, il passo degli altri - e non abbiamo tutti lo stesso passo -, anzi dell’ultimo, incoraggiandolo e magari portandogli lo zaino oppure alleggerendolo perché qualche volta capita che soprattutto i neofiti infilino nello zaino l’armadio, cioè tutto un insieme di cose che non servono ed a quel punto l’unica soluzione per arrivare alla cima è quella di spartirsi il peso. Quando, però, siamo arrivati in cima ciò che ci rimane di quest’esperienza, che portiamo nel cuore non credo sia la fatica, anche se ognuno si potrà ricordare di aver anche sudato, di aver fatto le vesciche perché ha messo per la prima volta gli scarponi, per di più nuovi di zecca. Quello che di certo resta è la bellezza che si può gustare da quella cima, il panorama a 360 gradi che dalla sommità di un colle, di una montagna si può ammirare, la visione dei grandi orizzonti, la bellezza del paesaggio. La comunione è fatica, ma anche qualcosa di bello. Non arriva così, non piove dal cielo come la manna, non è il semplice mettere insieme le forze. È qualcosa di più. La fatica ci educa a tirar fuori ciò che è essenziale, nella fatica di salire in montagna, di portare lo zaino, eliminiamo quelli che possono essere i pesi in più ed individuiamo ciò che è fondamentale, che ci serve, che è importante avere per raggiungere quell’obiettivo che ci siamo dati insieme, è un allenamento a purificarci, a discernere ciò che è essenziale. Sottolineo l’esperienza dello stare 1 insieme, del fare comunione cercando ciò che è essenziale, e, quindi, ciò che ci unisce più che ciò che ci divide. Aggiungerei che la comunione è anche un dono, a cui forse non pensiamo. Mi piace questo pensiero di Tonino Bello: «La comunione noi l’andiamo cercando con le smanie organizzative e ancora non abbiamo capito che essa è dono di Dio, non il risultato dei nostri sforzi o frutto delle nostre tecniche di collaborazione o prodotto delle nostre abilità manageriali» 1 . La comunione è un dono: ognuno di noi ha fatto esperienza di appartenenza ad un gruppo, dove ha preso avvio la sua partecipazione associativa, che continua a vivere. La giunta diocesana che animate come presidenti vi fa sperimentare la dimensione della comunità. Allora, domando: mi rendo conto che la comunità è un dono di cui ringraziare continuamente? Ma non è la comunità ad essere donata a me, piuttosto, mi è stato regalato di appartenere a questa comunità nonostante tutti i problemi interni, che mi fanno arrabbiare, nonostante le magagne, le rogne che ogni gruppo può avere? Tutte quelle incomprensioni, la poca chiarezza, le differenze, le incompatibilità di carattere, le eccessive “testardaggini” che talvolta sfociano in discussioni accese, in un clima polemico ma non costruttivo: tutto ciò che ci porta ad essere pronti a criticare, poco disponibili a rimboccarci le maniche per gli straordinari, a parlare, discutere, confrontarci insieme…. Quante volte andiamo in bestia?! Ci è più facile bisticciare, esprimere giudizi su comportamenti personali, giudicare, fare il processo, intestardirci, irrigidirci, rompere amicizie e vivere la frattura, il contrasto tra di noi. Questa benedetta comunità va accettata ed amata con le sue pecche, così com’è. Quante volte, invece, la sera ringraziamo e preghiamo per le persone che sono al nostro fianco in quest’esperienza di gruppo, di comunità, che ci sono state donate? Dovremmo vivere le nostre relazioni a qualsiasi livello, dal piccolo gruppo d’appartenenza alla dimensione diocesana, a quella associativa nazionale, con questo spirito: la comunità è un dono, un privilegio che mi è stato dato e di cui essere, in un certo senso, fieri di appartenervi e gelosi nel coltivarlo, nell’esserne custodi e non, invece, contribuire a disgregarlo oppure a metterlo in crisi o distruggerlo. Cosa significa comunità? Cosa significa vivere la fraternità, la condivisione? Il contributo di ognuno è necessario, così è altrettanto necessario accettare e sentirci impegnati a rispettare le decisioni comunitarie, anche se su di esse ci troviamo in disaccordo. Occorre aiutarci a capire che per il bene della comunità mi possono essere chiesti dei sacrifici, di rinunciare al nostro personalismo. Se viviamo la comunità secondo aspettative troppo personali, finiamo per distruggerla: scivoliamo nell'accusare continuamente gli altri perché non sono come noi li vorremmo. Nel parlare della comunione non posso non fare riferimento all’esperienza stessa della comunione, nella sua concretezza. È un dono in cui credere e del quale anche meravigliarci, stupirci. E ve lo dico come segretaria della Consulta nazionale delle Aggregazioni laicali, nelle quali mettiamo in gioco, condividiamo la ricchezza, la grandezza della nostra singola esperienza associativa, di quello che siamo e abbiamo. Potrei raccontare come nelle telefonate precedenti o successive alle riunioni, gli altri componenti del Comitato Direttivo CNAL, con i quali si è sviluppato un po’ più di feeling, mi stuzzicano, mi sostengono, mi chiamano per dirmi: “Paola, da sorella, ti suggerisco di chiamare quella persona”, per riparare a quella battuta poco felice che mi è uscita di bocca o il tono magari un po’ rigido che ho avuto, per ricuperare il rapporto con quella persona. Nel Comitato Direttivo tocco con mano come ogni persona mi aiuta proprio perché il singolo ha fatto suo uno stile diverso in relazione alla propria esperienza associativa. Queste modalità diverse ma molto vivaci non sono un limite, un ostacolo, ma un’occasione di crescita, contribuiscono alla ricchezza dell’esperienza di comunione vissuta in concreto. Fare esperienza di comunione vuol dire prima di tutto incontrarci, cioè vivere l’esperienza dell’accoglienza che per me è uno stile, non è semplicemente “Aggiungi un posto a tavola”, è fare spazio, è ascoltare l’altro che ha un linguaggio diverso dal mio. Grazie a Dio, non siamo tutti uguali, qualche volta è più facile cercare il codice simile. Ma accogliere vuol dire far spazio, tacere 1 D. T. Bello, La Chiesa del grembiule, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1998, p. 27. 2 ed ascoltare, perché abbiamo bisogno di conoscerci reciprocamente, di entrare in relazione, di stabilire un rapporto, costruire dei ponti. Da questo punto di vista come aggregazioni, associazioni, movimenti, stiamo facendo strada, anche se molta ne abbiamo ancora di fronte. Entrare in relazione non è ancora sufficiente: condividere progetti, mete implica assumerci delle responsabilità non da dividere matematicamente (per cui se siamo in due: fifty-fifty, metà io - metà tu). Il criterio è altro: ognuno condivide e mette a disposizione le sue energie, le sue forze per quello che ha e non gli vado a fare i conti in tasca, misurando con la bilancia o al centimetro con il metro quanto mette in gioco. Se, ad esempio, volendo quantificare, mi dà il venti per cento, significa che è il massimo che può dare. Costruiamo la comunità mettendo insieme le forze che abbiamo nella convinzione che quando la sofferenza o il dolore è condiviso, diminuisce. Quando si cammina in montagna si fa fatica, ma se abbiamo al nostro fianco uno che fa una battuta, oppure insieme si chiacchiera, o si canta - ovviamente se abbiamo il fiato di farlo -, ciò ci aiuta, ci incoraggia lo sguardo di uno che si gira e ci dice: “Dai forza, manca poco”. Se invece condividiamo una ricchezza, questa si moltiplica. È necessario riscoprire questi elementi, tenendo conto che c’è necessità di tempo, di darci tempo. Ricordate il Piccolo Principe? È il tempo che tu hai dedicato alla tua rosa che rende quel fiore, quella rosa diversa, diventa significativa per te. La comunione è un dono che occorre anche coltivare, costruire e ci chiede di coinvolgerci e ciò domanda energie, fatica, tempi, senza avere la preoccupazione dell’orologio alla mano. Quando si vive l’esperienza della comunione, si percepiscono anche i propri limiti ed è fondamentale avere la capacità, l’umiltà di riconoscere i propri errori anche involontari, in buona fede, per chiedere perdono secondo la regola della correzione fraterna (cfr. Matteo al capitolo 18, 15-17). Quante volte è più facile rimproverare, giudicare, incolpare, accusare piantare grane! Quando qualcosa non funziona nel gruppo, prima di dirlo pubblicamente, o andare in giro a pettegolare, a sparlare alle spalle, vado dall’interessato, ne parlo di persona, in modo riservato, privatamente, vado ad ascoltare le sue ragioni e cerco di correggerlo perché ho fiducia in lui, nella sua capacità di recuperare e di cambiare. Ed ho anche l’umiltà di riconoscere che anch’io posso aver compiuto qualche errore. Se non mi ascolterà, allora ecco: “Vai, prendi un’altra persona con te ed andate insieme”. Certamente una persona più autorevole, di cui l’altro ha fiducia e da cui non si sente giudicato. E se poi neanche questo funziona, allora: “portalo all’assemblea”, arriverò a coinvolgere tutta la comunità ed eventualmente denunciare il problema. C’è bisogno di chiederci reciprocamente perdono per ritrovare l’unità, che ci sta a cuore. Un altro elemento volevo ricordarvi: mi ha suscitato una certa impressione l’invito rivolto da papa Benedetto XVI al Convegno Ecclesiale di Verona: “Ama l’associazione tua ed ama quella altrui come fosse la tua”. Allora nel 2006, mi sembrava qualcosa di bello ma impossibile. L’esperienza nella Consulta nazionale mi dà la possibilità di comunicarvi che sto sperimentando la bellezza dell’esperienza altrui. Ciò richiede il conoscerci, l’entrare in relazione, condividere un po’ di tempo, un po’ di occasioni per imparare ad apprezzare il dono dell’altro, stimarlo. Siamo fratelli. Negli scout i lupetti e le coccinelle cantano «Siamo d’uno stesso sangue, fratellino, tu ed io»: è questa un’espressione da riscoprire nel senso simbolico più profondo. Se ci riconosciamo fratelli, perché figli di uno stesso Padre, insieme possiamo fare anche qualcosa, lavorare insieme come associazioni anche a livello locale, in rete, riuscire a realizzare un gioco di squadra dove ognuno ha dei compiti alla sua portata, nel quale condivide le proprie forze, le capacità particolari, nella certezza che quello che lui ha può essere messo a disposizione di un altro, sentendosi indispensabile come si fa in un gioco di squadra. Quando delle Associazioni riescono a mettersi insieme, a lavorare in rete - e credo che da questo punto di vista abbiamo delle possibilità perché il tema dell’educazione al centro degli Orientamenti pastorali che ci vede impegnati per il prossimo decennio 2010-2020, ci dà la possibilità di fare e di dire qualcosa a livello sociale -, possono avere una ricaduta a livello sociale. Lo stare insieme, il vivere la comunione anche tra Associazioni ha una ricaduta a livello sociale. Significativo mi pare il paragone che papa Paolo VI fa della comunità: è come suonare una sinfonia 3 dove ciascuno suona la sua nota, ma tutti suonano la stessa musica 2 . Non mancano le possibilità per una musica da suonare insieme! Vivere la comunità, la fraternità, la condivisione implica la consapevolezza che il contributo di ognuno è necessario, così è altrettanto necessario accettare e sentirsi impegnati a rispettare le decisioni comunitarie, anche se su di esse posso trovarmi in disaccordo. Occorre aiutarci a capire che per il bene della comunità mi possono essere chiesti dei sacrifici, di rinunciare al mio personalismo… Su cosa fondiamo la comunione? Concludo con un riferimento personale. Quest’anno non ho fatto le ferie, mi sono saltate all’ultimo momento ed ero molto nera perché volevo fare un’esperienza di preghiera, a cui ci tenevo, ma mi sono iscritta tardi e mi è saltata. In questa settimana avrei anche preparato e meditato il contributo da presentarvi oggi. Si tratta di un’esperienza di preghiera e di cammino nelle zone meridionali della Francia, sui Caussess, nel parco delle Cevenne oppure in zone desertiche italiane di Toscana, Sicilia, Puglia. È alla portata di tutti, ma anche un po’ particolare: una settimana camminando, con lo zaino sulle spalle, mangiando solo riso. È un’esperienza anche di penitenza, si porta tutto quello che serve per una settimana nello zaino e si cammina nel deserto, in zone non abitate, proprio per vivere l’incontro con Dio. A me piace quest’esperienza, che ho ripetuto tante volte, perché lì io sono costretta a non distrarmi: che mi piaccia o no, non posso essere un’anguilla, non posso scappare al mettermi faccia a faccia davanti a Dio. La giornata inizia così: alla mattina c’è una meditazione proposta da qualcuno del gruppo, un laico, in genere su un brano del Nuovo Testamento; segue un’ora di silenzio, un’ora approssimativa perché si cammina senza orologio; celebriamo la Messa e poi cartina alla mano topografica e bussola. Adesso siamo qui e stasera ci diamo appuntamento là: ognuno fa quello che vuole, cioè può andare da solo, in coppia, in gruppo, si cammina come si vuole, magari ci si incontra per strada. Nella più grande libertà uno sceglie il percorso che vuole, inventandosi l’itinerario perché non sono tanti i sentieri segnati, può fare l’azimut, qualche volta conviene tagliare, qualche altra volta si sbaglia ed allora si fa strada in più. Quando si arriva al punto fissato cosa succede? Ognuno butta giù lo zaino e nessuno si preoccupa di togliersi gli scarponi e di curarsi i piedi, le vesciche, ma la comunità viene prima delle mie esigenze personali. L’attenzione alla dimensione del gruppo precede i miei bisogni: ognuno a seconda dell’orario in cui arriva, va a prendere i sassi per fare quel minimo di base per il fuoco, chi va a far la legna, chi accende il fuoco e lo alimenta, chi cucina il riso per la cena. E se qualcuno non arriva, si è preoccupati e quando finalmente appare all’orizzonte, lo si vede da lontano, gli si va anche incontro ad accoglierlo, portandogli lo zaino. Quando ci siamo tutti, tiriamo un respiro di sollievo. Se qualcuno manca e qualche volta capita per tanti motivi (si sbaglia la strada, per la stanchezza non ce l’hai fatta), dorme fuori e si spera che raggiunga il gruppo la mattina dopo. La giornata al goum (parola araba che indica una comunità che si alza e cammina) inizia con la meditazione, il silenzio, la preghiera, la celebrazione della Messa: sono il pane quotidiano che ci permette di camminare: da lì viene la forza. Ho compreso il significato profondo dell’espressione del Padre nostro: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Ho imparato che possiamo pregare così: “Signore, dacci il pane per oggi. Ti chiedo il pane per la vita di oggi, per arrivare fino a sera”. Se ci crediamo, se abbiamo fede, il Signore ci dà il pane, ciò di cui abbiamo bisogno oggi, così come ha mandato la manna al popolo che camminava nel deserto [cfr. Esodo 16]. A chi voleva prenderne in più per metterla via, l’accumulava per gli altri giorni successivi, capitava che se la ritrovava imputridita, la manna faceva i vermi, non era più utilizzabile. Il Signore ha insegnato loro a vivere giorno per giorno, prendendone quanto basta per un solo giorno, mentre siamo portati ad 2 Nel discorso rivolto alle capo dell’Associazione Guide Italiane il 3/8/1971, papa Paolo VI afferma: «La cita comunitaria: come è bello questo! Gustatelo finché potete! Passeranno gli anni e ricorderete questi momenti e proverete la suggestione di una armonia, di una sinfonia dove ciascuno suona la propria nota, ma tutti la stessa musica, l’armonia degli spiriti», G. Morello, F. Pieri (a cura di), Documenti pontifici sullo scautismo, Ancora, Milano 1991, p. 229. 4 accaparrare, accumulare, a riempirci di tante cose, dal frigorifero al conto in banca, a programmare il nostro futuro. Impariamo a chiedere per oggi, vivendo questa giornata: “Signore, fammi vivere l’oggi, aiutami ad arrivare a questa fino a sera, rendimi disponibile, aiutami a vivere la fede oggi fino a questa sera. Mi basta che tu mi stia vicino”. Chiediamogli la grazia di vivere bene il quotidiano, l’oggi, di arrivare bene fino a questa sera, di credere che lui è il pane di vita eterna. “Rendimi disponibile, senza peccato, fammi giungere santo fino a sera”. Non lasciamo trascorre l’oggi. Andiamo incontro alla giornata con un largo sorriso spendendo tutte le nostre energie per l’oggi, dando tutto noi stessi a Dio ed ai fratelli. Non so se sarò capace di essergli fedele in eterno, ma intanto fino a stasera; l’importante è avere la tensione fino a stasera. Non mi importa sempre, ma oggi, nella certezza che ogni giorno il Signore mi dà la manna. E senza dimenticare che tutto questo ha anche una prospettiva di futuro: non c’è solo l’oggi, ci sarà anche un futuro. Che cosa può significare tutto questo? Ecco la domanda: come vivere la comunione giorno per giorno senza dimenticare la prospettiva futura, come vivere un’esperienza di comunione senza chiuderci nel nostro orticello, dove rifugiarci perché nel piccolo gruppo è bello stare tutti insieme appassionatamente, in questo ghetto si va d’accordo… Sappiamo che quando viviamo questo tipo di esperienza, che porta alla chiusura in se stessi, il gruppo è destinato a crepare, a morire… Come vivere l’oggi senza perdere di vista il domani, il futuro? Come vivere il progetto dell’oggi senza correre il rischio di perderci nel progettare? E, viceversa, come vivere l’oggi in modo non fine a se stesso, della serie carpe diem, vivo alla giornata e non mi preoccupo del futuro? Come vivere la comunione oggi sapendo che questa è un’esperienza parziale di comunione, che questa si costruisce e si costruirà ancora? Come viverla nella concretezza dell’oggi, ma guardando lontano, al futuro, avendo davanti grandi orizzonti. Vivere la quotidianità, investendo sul futuro. Condivido con voi questa sintesi finale, questi ultimi passaggi perché è quanto avevo chiesto come suggerimento, consiglio, quando ho capito che non mi sarebbe stato possibile partecipare all’esperienza del goum. In previsione del contributo che mi avete chiamato a proporvi, avevo domandato a Don Francesco 3 di vederci. Il dono che ho ricevuto è stato quello di incontrarci lunedì 16 agosto; due giorni dopo, mercoledì 18, sarebbe partito il goum, che Don Francesco attendeva per tutto un anno, perché per lui era l’esperienza più importante di preghiera a tu per tu con Dio, nel deserto apparentemente spoglio di tutto, dove, proprio per questo, è possibile l’incontro con il Padre. Nelle prime ore di domenica 22 agosto immagino quale sia stato l’incontro che lui ha avuto col buon Dio. Con quell’aria un po’ sorniona ed ironica, - è uno che sorrideva e sapeva anche far sorridere -, quando si è trovato faccia a faccia col buon Dio, davanti a Lui Don Francesco avrà protestato, avrà tentato di dire: “Ma dai, Signore. Ma non potevi farmi fare una fine un po’ più dignitosa, un pochino più onorevole, che mi facesse più onore? Scambiarmi per un cinghiale? Ma proprio un cinghiale?” E subito dopo si sarà immediatamente corretto e avrà detto: “Eh, scusami, Signore mio. Ti chiedo scusa perché in fin dei conti io sono una bestia, sono una bestia di uomo, sono una bestiaccia e Tu non potevi essere più geniale. Mi hai sorpreso chiamandomi all’incontro con te dal goum!”. Se avesse potuto scegliere, certamente don Francesco che era pronto, “con i calzari ai piedi e la bisaccia pronta”, avrebbe chiesto di incontrare il Signore Gesù Cristo lungo la strada, nel deserto del goum. Regalo a voi questa sintesi finale che sono le ultime parole che ho ascoltato da Don Francesco, che mi ha espresso per voi, le ho raccolte e ve le dono perché me le ha lasciate per voi e sono dirette proprio a tutti voi. 3 Don Francesco Cassol (23/7/1958-22/8/2010) è stato vice assistente Giovani di Azione Cattolica e dell’Azione Cattolica Ragazzi della diocesi di Belluno-Feltre. È stato colpito a morte al Pulo di Altamura, mentre stava dormendo al raid goum. 5