latino - Nuove Scuole

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latino - Nuove Scuole
PROGRAMMA CLASSE V LICEO CLASSICO
LATINO
L’ETA GIULIO CLAUDIA.
FEDRO.
SENECA.
LUCANO.
PERSIO
PLINIO IL VECCHIO
PETRONIO
QUINTILIANO
MARZIALE
PLINIO IL GIOVANE
TACITO
APULEIO
LA LETTERATURA CRISTIANA
TERTULLIANO
MINUCIO FELICE
SANT’AGOSTINO
L’Età Giulio-Claudia
Tiberio
Augusto non ha avuto eredi diretti poiché tutti coloro che egli designava
inspiegabilmente moriva prima di potergli succedere. Così quando morì
nel 14 Tiberio, figlio della terza moglie di Augusto, prese il suo posto. Il
suo regno venne valutato dagli storici in maniera contraddittoria poiché
Velleio Patercolo lo esaltò con toni adulatori, mentre Tacito lo descrisse
come un tiranno ipocrita tenebroso e crudele. In realtà egli seguì
inizialmente una politica moderata cercando un punto d’equilibrio tra le
istanze del Senato e le pressioni del popolo, limitò le spese, rafforzò i
confini dell’impero e inviò in Oriente contro i Parti il nipote Germanico.
Si pensa infatti che Tiberio, ossessionato dal potere fece uccidere il
nipote, suo successore, in modo da non avere eredi e potesse rimanere
unico imperatore. Col passare del tempo infatti egli assunse posizioni
sempre più rigide e arrivò addirittura ad incriminare per lesa maestà gli
avversari politici in modo da poterli eliminare. Nel 27 si ritirò in
isolamento volontario a Capri, ma questo fece accrescere il potere del
prefetto del pretorio Seiano che volle organizzare un colpo di Stato che
però venne scoperto dall’imperatore che lo fece uccidere nel 31 d.C..
Caligola
Quando Tiberio morì nel 37 gli successe il figlio di Germanico Caligola
che gli storici definiscono come un uomo malvagio e perverso dal
comportamento instabile e stravagante. Ebbe uno scontro con il Senato
tanto che pian piano gli tolse il potere che aveva e al suo posto ci fu
l’esercito che sostenne l’imperatore. Caligola inoltre voleva abbandonare
il principato, instaurato da Augusto, per avviare una monarchia assoluta
di tipo orientale nella quale il re era anche un Dio vivente. Dopo solo 4
anni di regno fu ucciso dai pretoriani.
Claudio
Nel 41 i pretoriani acclamarono imperatore lo zio di Caligola, Claudio.
Gli storici come Tacito lo criticano come debole di carattere indulgente ai
piaceri e succube delle sue mogli come Messalina, terza moglie, e
Agrippina, la quarta. Era un uomo molto colto e aveva grandi capacità
organizzative: egli infatti rafforzò il dominio di Roma e ampliò l’impero
con la conquista della Britannia. Inoltre snellì l’apparato burocratico
imperiale, dividendolo in vari uffici, affidati ai suoi liberti di fiducia, e
attuò un’intensa politica di opere pubbliche come la costruzione del porto
Claudio a Ostia e il prosciugamento del lago del Fucino. Nel 48 fece
giustiziare la terza moglie Messalina, bellissima ma i facili costume che
congiurò contro di lui e sposò la nipote Agrippina, che gli fece adottare
suo figlio Nerone, che voleva far diventare imperatore e probabilmente fu
lei a ucciderlo col veleno nel 54.
Nerone
Quando Nerone diventò imperatore ebbe la reggenza di sua madre,
Agrippina, e del filosofo Seneca e Burro, comandante dei pretoriani e
infatti la sua politica restò moderata e tesa a guadagnarsi il favore sia dei
senatori che del popolo. Quando ebbe l’età per governare, forse sotto il
consiglio di Seneca fece uccidere la madre nel 59 e la sua prima moglie,
Ottavia. Inoltre la sua politica cambiò: fece forse uccidere il prefetto del
pretorio Burro, che fu sostituito da Tigellino che gli rimase sempre
fedele, volle instaurare una monarchia assoluta di tipo orientale,
ostacolato però dal Senato. Egli però riuscì comunque a mandare avanti
iniziative degne di nota come una riforma monetario, con la quale fece
abbassare il valore delle emissioni monetarie in oro e argento, aiutò le
classi più povere e rilanciò le attività economiche. Tacito lo definisce
come un tiranno megalomane presuntuoso e ambizioso, sadico e privo di
ogni scrupolo o remora morale. Si presume sia stato lui a far appiccare
l’incendio scoppiato a Roma nel 64 che distrusse gran parte della città e
che fornì all’imperatore il pretesto per perseguitare i cristiani che
considerava nemici del genere umano.
Nel 65 i nemici dell’imperatore organizzarono una congiura mirata ad
ucciderlo per sostituirlo con Pisone tanto che fu soprannominata la
Congiura dei Pisoni, però Nerone ne fu informato e dei cospiratori alcuni
furono giustiziati altri dovettero suicidarsi. Il malcontento però continuò a
causa delle ingenti somme di denaro finalizzate alla ricostruzione di
Roma e alla edificazione della reggia imperiale, la Domus Aurea, tanto
che alla fine scoppiò una ribellione da parte dei governatori delle
province occidentali e Nerone non potendo fuggire si fece uccidere da
uno schiavo.
Dall’anno dell’anarchia alla dinastia Flavia
Nel 69 si colloca l’anno dell’Anarchia militare nel quale l’esercitò
acclamò tre imperatori insieme: Galba, Odone e Vitellio, ma alla fine
scelsero Vespasiano che diede inizio alla dinastia Flavia con i suoi due
figli Tito e Vespasiano anche se quest’ultimo si comportò da tiranno.
FEDRO
Il suo nome greco è Φαίδρος (Phaidros); non è invece certo se il nome in
lingua latina fosse Phaedrus o Phaeder. Il latinista francese Louis Havet,
curatore nel 1895 di una nota edizione delle Favole, suggerì la forma
Phaeder sulla scorta di alcune iscrizioni [1] ma la forma latina Phaedrus è
attestata in Cicerone e, in particolare, nei titoli – sia pure aggiunti
posteriormente – di tre favole e in Aviano. Egli è pertanto identificato
comunemente con Phaedrus.
Quanto al luogo di nascita, Fedro stesso afferma di essere nato sul monte
Pierio, luogo di nascita delle Muse, che al tempo faceva parte della
Macedonia; però egli sembra anche alludere alla Tracia come sua patria,
vantata come terra di poeti.[6] È certo che il monte sorgeva in prossimità
del confine trace e alla fine del I secolo, una rettifica dei confini delle due
province lo ridusse in Tracia.
Fedro nacque intorno al 15 a.C. e giunse giovanissimo a Roma come
schiavo, forse a seguito della violenta repressione, operata dal console
Lucio Calpurnio Pisone, della rivolta avvenuta in Tracia nel 13 a.C. La
sua venuta a Roma ancora bambino è stata dedotta dalla sua affermazione
[7]
di aver letto da bambino il Telephus, una tragedia ora perduta di Ennio;
ma non si può escludere, per quanto poco probabile, che egli abbia potuto
già studiare latino in Macedonia, e pertanto la questione della data della
sua venuta a Roma resta insoluta.
Che egli sia stato uno schiavo familiaris, appartenente cioè alla familia di
Augusto, e poi emancipato da questo imperatore è attestato nella
titolazione manoscritta della sua opera, Phaedri Augusti liberti Fabulae
Aesopiae; si deduce che il suo nome, dopo la liberazione, deve essere
stato Gaius Iulius Phaedrus, dal momento che i liberti assumevano il
praenomen e il nomen del loro patrono.
Se Fedro fu effettivamente portato giovanissimo a Roma, potrebbe aver
studiato alla scuola dell'erudito Verrio Flacco, tenuta nel tempio di
Apollo che sorgeva sul Palatino
dove studiavano anche i nipoti di
Augusto, Gaio e Lucio, e di quest'ultimo, secondo un'ipotesi potrebbe
esser poi divenuto pedagogo, acquisendo quei meriti che, insieme con
l'ascesa sociale, lo avrebbero portato alla libertà.
Come Fedro stesso ci informa, il ministro di Tiberio, Seiano, lo fece
processare, sospettandolo di allusioni sgradite ai potenti. Ne uscì tuttavia
indenne, forse anche per la caduta in disgrazia e la morte del prefetto, e
poté continuare a scrivere indisturbato fino al regno di Claudio (41-54), a
un liberto del quale, Fileto, è dedicato uno dei suoi ultimi componimenti,
o forse anche fino al regno di Nerone (54-68).
LE OPERE
I cinque libri superstiti delle Fabulae consistono di 102 componimenti
compresi in cinque diversi codici:
•
il codice A, o Codex Pithoeanus, cosiddetto perché già
appartenente all'umanista Pierre Pithou (1539-1596), risalente al IX
secolo;
•
il codice R, o Codex Remensis, perché proveniente da Reims, del
IX secolo, è andato perduto in un incendio nel 1774;
•
il codice D, o Charta Danieli, perché già appartenente all'umanista
Pierre Daniel (1530-1603), del IX o X secolo, frammentato,
proviene dal convento di Fleury ed è conservato nella Biblioteca
Vaticana;
•
il codice N, o Codex Neapolitanus, prodotto dall'umanista Niccolò
Perotti verso il 1470 da codici perduti;
•
il codice V, o Codex Vaticanus Urbinas 368, del XVI secolo,
derivato forse da N
Altre 32 favole – non comprese nei 5 libri canonici, ma certamente
autentiche - sono contenute nella cosiddetta Appendix Perottina, tratta nel
XV secolo dall'umanista Niccolò Perotti da codici ora perduti.
SENECA
Lucio Annéo Seneca, figlio di Seneca il Vecchio, nacque a Cordoba,
capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane fuori
del territorio italico, in un anno di non certa determinazione; i fratelli
erano Novato e Mela, padre del futuro poeta Lucano. Le possibili date
attribuite dagli studiosi sono in genere tre: il 3 a.C., il 4 a.C. o l'1 a.C.;
sono tutte ipotesi possibili che si fondano su vaghi accenni presenti in
alcuni passi delle sue opere Particolare De tranquillitate animi e
Epistulae ad Lucilium. La famiglia di Seneca, gli Annei, ha origini
antiche ed è Hispaniensis, cioè non originaria della Spagna, ma
discendente da immigrati italici, trasferitisi nella Hispania Romana nel II
secolo a.C., durante la fase iniziale della colonizzazione della nuova
provincia. La città di Cordoba, la più famosa e grande di tutta la
provincia, aveva assimilato fin dalle origini l'élite economica e
intellettuale della popolazione italica; intensi erano i suoi rapporti con
Roma e la cultura latina.
I DIALOGHI.
I Dialogi di Seneca sono dieci, distribuiti in dodici libri:
1. Ad Lucilium de providentia;
2. Ad Serenum de constantia sapientis;
3. Ad Novatum De ira in tre libri;
4. Ad Marciam de consolatione;
5. Ad Gallionem de vita beata;
6. Ad Serenum de otio;
7. Ad Serenum de tranquillitate animi;
8. Ad Paulinum de brevitate vitae;
9. Ad Polybium de consolatione;
10. Ad Helviam matrem de consolatione.
I TRATTATI
Il De beneficiis risale al periodo 58-62 ed è scandito in sette libri,
sviluppa il concetto di "beneficenza" come principio coesivo di una
società fondata su una monarchia illuminata. Sembra che sia stata
composta quando Seneca si era reso conto del fallimento dell'educazione
morale di Nerone. Concetto fondamentale dell'opera è il seguente: il
beneficium è un atto di generosità consapevole. Il "De beneficiis" è
rivolto ad Ebuzio Liberale, un amico che Seneca frequentò soprattutto
durante gli anni successivi al ritiro a vita privata.
Seneca analizza il dare ed il ricevere, la gratitudine e l'ingratitudine;
mette in luce i forti limiti connessi all'istituto tipicamente romano dei
favori reciproci, determinati dai diffusi rapporti clientelari tra i cittadini,
ed elabora una nuova concezione di beneficium - favore disinteressato,
che possa basarsi su un sentimento di giustizia e non sulla speranza di
essere ricambiati. Egli ricorda inoltre come il desiderio di vendetta debba
essere estirpato dal proprio animo, poiché il vero sapiens è consapevole
del fatto che sia bene restituire al prossimo ciò che da lui riceviamo
tranne quando egli ci fa un torto. In tal caso, la patientia, sopportazione
stoica derivante dalla propria superiorità alle questioni terrene, è la virtù
da coltivare.
In un passo di quest'opera egli paragona gli uomini ad un popolo di
mattoni, che messi in coesione l'uno sull'altro si sostengono a vicenda e
reggono la volta dell'edificio della società.
Il De clementia
Il De clementia ("La clemenza") fu composto tra il 55 e il 56 e ci è giunto
incompleto (non è chiaro se incompiuto o mutilo).
L'opera è indirizzata a Nerone, da poco divenuto imperatore, di cui
Seneca elogia la moderazione e la clemenza, definita come la
"moderazione d'animo di chi può vendicarsi" o l' "indulgenza", e che
invita a comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Seneca
non mette in discussione il potere assoluto dell'imperatore, ed anzi lo
legittima come un potere di origine divina. A Nerone il destino ha
assegnato il dominio sui suoi sudditi, ed egli deve svolgere questo
compito senza far sentire su di loro il peso del potere.
Questa tesi trova il supporto filosofico nella dottrina politica stoica,
secondo cui la monarchia è la forma di governo migliore, all'unica
condizione che il sovrano sia sapiente, e trattenendo i suoi sentimenti più
violenti, sappia esercitare con temperanza il suo potere.
Le Naturales quaestiones
Sviluppate in sette libri le Naturales quaestiones, sono state composte
nell'ultima parte della vita di Seneca. L'edizione a noi giunta non è
integrale e differisce quasi sicuramente dall'edizione originale per ordine
e composizione. Interessante è il fatto che per molti versi, Seneca appare
ben poco stoico e più vicino a considerazioni di tipo platonico, anche se
Seneca non rinnegherà il suo stoicismo. Principi "platonici" possono
essere ritrovati soprattutto nella prefazione al primo libro, nella quale si
avverte un forte contrasto tra anima e corpo (visto come prigione
dell'anima) e dalla caratterizzazione trascendentale di Dio privo di
corporeità e non immanente. Questi, principalmente, sono gli argomenti
su cui Seneca si sofferma:
•
1.libro: I fuochi - Gli specchi
•
2.libro: Lampi e folgori
•
3.libro: Le acque terrestri (completo)
•
4.libro: il Nilo - Neve, pioggia, grandine
•
5.libro: I venti
•
6.libro: I terremoti
•
7.libro: Le comete
Innanzitutto per comprendere appieno il testo è necessario capire che lo
scopo che Seneca si prefigge, non è quello di raccogliere ordinatamente
ogni conoscenza dell'epoca (cosa che invece possiamo intendere almeno
in parte nel Naturalis historia di Plinio il vecchio) bensì quello di liberare
l'uomo
dalla
paura
e
dalla
superstizione
intorno
i
fenomeni
naturali,compiendo così una operazione simile a quella di Lucrezio nel
suo De rerum natura (seppur con le dovute differenze ed eccezioni).
Affrontando il testo, troviamo fin dalla già citata al primo libro una chiara
presa di posizione di Seneca : nella quale si scopre l'intento primo
dell'opera : permettere all'uomo, una volta scevro dalle false credenze che
avvolgono la natura , di ascendere ad una dimensione più divina. Di
particolare importanza sono il paragrafo 8-9: Hoc est illud punctum quod
tot gentes ferro et igne dividitur? O quam ridiculi sunt mortalium
termini! ("È tutto qui quel punto [la Terra, ndt] che viene diviso col ferro
e col fuoco fra tante popolazioni? Oh quanto ridicoli sono i confini posti
dagli uomini!"), nel quale l'anima libera oramai dalla sua fisicità,
comprende l'inutilità degli affanni, dell'avidità e delle guerre.
Spesso quest'opera viene tacciata di poca scientificità, tuttavia viene da
domandarsi se si può parlare di scientificità: anche se per certi versi
Seneca mostra alcuni atteggiamenti "scientifici", quali l'osservazione
diretta, la riflessione razionale posteriore ad essa e la discussione di
eventuali altre teorie, per Seneca la conoscenza è solo un mezzo per
elevarsi sino a Dio; molto spesso, inoltre, l'autore divaga in
argomentazioni e questioni di tipo morale o religioso e non sono rare le
parti propriamente "filosofiche".
Le Epistole a Lucilio: la lettera filosofica come genere letterario
Seneca, nella produzione successiva al ritiro dalla scena politica (62),
volse la sua attenzione alla coscienza individuale. L'opera principale della
sua produzione più tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae
morales ad Lucilium, una raccolta di 124 lettere divise in 20 libri di
differente estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario
argomento indirizzate all'amico Lucilio (personaggio di origini modeste,
proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche
politico-amministrative, di buona cultura, poeta e scrittore).
È un'opera sulla quale c'è una discussione se siano vere e proprie lettere
inviate da Seneca a Lucilio o una finzione letterale. Verosimilmente si
tratta di un epistolario reale (varie lettere richiamano quelle di Lucilio in
risposta), integrato da lettere fittizie (quelle più ampie e sistematiche),
inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L'opera, che è
giunta incompleta e risale al periodo del disimpegno politico (62-63),
sebbene l'idea di comporre lettere di carattere filosofico indirizzate ad
amici viene da Platone e da Epicuro, costituisce sostanzialmente un
unicum nel panorama letterario e filosofico antico, e Seneca è
perfettamente consapevole di introdurre un nuovo genere nella cultura
letteraria latina. Il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune
pratica epistolare, anche da quella di tradizione più illustre, rappresentata
da Cicerone. Seneca prende come esempio Epicuro, il quale, nelle lettere
agli amici, ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e di
educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio.
Le lettere di Seneca vogliono essere uno strumento di crescita morale.
Riprendendo un topos dell'epistolografia antica, Seneca sostiene che lo
scambio epistolare permette di istituire un colloquium con l'amico,
fornendo un esempio di vita che, sul piano pedagogico, è più efficace
dell'insegnamento dottrinale. Seneca, proponendo ogni volta un nuovo
tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione
dell'amico discepolo, lo guida al perfezionamento interiore (per lo stesso
motivo, nei primi tre libri, Seneca conclude ogni lettera con una sentenza
che offre uno spunto di meditazione. Le sentenze sono tratte da Epicuro,
anche se Seneca non si dichiara suo seguace. Egli sostiene, infatti, che
ogni massima moralmente valida è utile, da qualsiasi fonte provenga).
Lo scrittore ritiene l'epistola lo strumento più adatto per la prima fase
dell'educazione spirituale, fondata sull'acquisizione di alcuni principi
basilari, più tardi, con l'accrescimento delle capacità analitiche del
discendente e del suo patrimonio dottrinale, sono necessari strumenti di
conoscenza più impegnativi e complessi. La forma letteraria si adegua,
quindi, ai diversi momenti del processo di formazione e le singole lettere,
col procedere dell'epistolario, divengono sempre più simili al trattato
filosofico.
Non meno importante dell'aspetto teorico è l'intento esortativo: Seneca
vuole non solo dimostrare una verità, ma anche invitare al bene. Il genere
epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia priva di
sistematicità e incline alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi
etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti per lo più dall'esperienza
quotidiana, sono svariati, e nella varietà, nell'occasionalità e nel
collegamento fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità
con la satira, soprattutto oraziana. Seneca parla delle norme cui il saggio
si deve attenere, della sua indipendenza e autosufficienza, della sua
indifferenza alle seduzioni mondane e del suo disprezzo per le opinioni
correnti e propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla
meditazione, al perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione
sulle debolezze e i vizi propri e altrui.
La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi lo
porta ad esprimere una condanna del trattamento comunemente riservato
agli schiavi, con accenti di intensa pietà che hanno fatto pensare al
sentimento della carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta
profondamente aristocratica, e lo stoico che esprime pietà per gli schiavi
maltrattati manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per
le masse popolari abbrutite dagli spettacoli del circo. Nelle Epistole,
l'otium è costante ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste
dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca
della sapienza, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il
loro benefico influsso sulla posterità.
L'opera senechiana, e soprattutto le “Epistulae ad Lucillium”, si inserisce
in quel momento storico durante il quale il principato con gli ultimi
esponenti della famiglia Giulia stava soffocando le libertà civili e
riducendo il senato, un tempo garante del diritto, a semplice strumento
sottoposto alla volontà del principe. Si capisce perciò il desiderio di
Seneca di scrutare entro la propria coscienza e in essa ricercare i motivi
fondamentali delle virtù, e quindi della libertà interiore, attingendo al
pensiero di Platone e di Aristotele, ma soprattutto di Epicuro e della
scuola stoica. Un Seneca alla ricerca del superamento delle remore
negative del suo tempo per proiettarsi in un'area universale, ridiventando
così padrone di se stesso. Forse un pessimismo celato e rivolto all'inerzia?
I critici, almeno in un primo momento, se lo sono chiesto; tuttavia non si
può escludere che egli abbia operato negli anni della sua maturità per
evitare gli equivoci, le contraddizioni e ogni forma di egoismo,
proiettando nel contempo la persona, data la ricchezza dello spirito, oltre
il tempo. Quasi un porsi nella dimensione divina, per cui i beni terreni,
fonte di egoismi e di ingiustizie, vengono annullati. E al loro posto ecco
la persona conscia della sua dignità. Di qui le tante lettere al suo
discepolo e amico, Lucilio, quasi proiezione di se stesso, o almeno di
come avrebbe voluto essere. A sostegno di tutto ciò la filosofia, vista
come regola di vita.
Molti i critici e gli studiosi che vedono negli ultimi scritti di Seneca un
allineamento, inconsapevole, alle tesi fondamentali della dottrina paolina;
e più tardi quasi ispiratori delle “Confessioni” di Sant'Agostino. Ed è
significativo che il pensiero di Seneca nel tempo attuale attragga molte
persone e non pochi studiosi alla ricerca di più vasti valori inerenti
all'esistenza umana, così da sfuggire alle molteplici sollecitazioni che,
tramite i media, cercano di spingere verso un superficiale edonismo.
LE TRAGEDIE
Le tragedie ritenute autentiche sono nove (qualche dubbio sussiste per
l'Octavia), tutte di soggetto mitologico greco.
•
L'Hercules furens è costruito sul modello dell'Eracle euripideo:
Giunone provoca la follia di Ercole. In conseguenza a ciò l'eroe
uccide moglie e figli. Una volta rinsavito, determinato a suicidarsi,
egli si lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene
a purificarsi.
•
Le Troades è la contaminazione dei soggetti di due drammi
euripidei, le Troiane e l'Ecuba. La tragedia rappresenta la sorte
delle donne troiane prigioniere e impotenti dì fronte al sacrificio di
Polissena, figlia di Priamo e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore
e Andromaca.
•
Le Phoenissae è l'unica tragedia senecana incompleta, improntata
sulle Fenicie di Euripide e sull'Edipo a Colono di Sofocle. La
vicenda ruota attorno al tragico destino di Edipo e all'odio che
divide i suoi figli Etèocle e Polinice.
•
La Medea naturalmente si rifà a Euripide e forse anche a
un'omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio. La tragedia
narra la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata
da Giasone e assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui.
•
La Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell'Ippolito,
di una tragedia perduta di Sofocle e della quarta delle Heroides
ovidiane: tratta dell'incestuoso amore di Fedra per il figliastro
Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio
alle seduzioni della matrigna, la quale, per vendetta, ne provoca la
morte denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito.
•
L'Oedipus, ispirato all'Edipo Re sofocleo, narra il mito tebano di
Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e sposo della madre
Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità egli reagisce
accecandosi.
•
L'Agamemnon, si ispira, assai liberamente, all'omonimo dramma di
Eschilo. La tragedia rievoca l'assassinio del re, al ritorno da Troia,
per mano della moglie Clitennestra e dell'amante Egisto.
•
Il Thyestes rappresenta una vicenda mitica già trattata in opere
perdute di Sofocle, Euripide e Ennio. Atreo animato da odio
mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica
con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al
fratello ignaro le carni dei figli.
•
Nell'Hercules Oetaeus (Ercole sull'Eta, il monte su cui si svolge
l'evento culminante del dramma) modellato sulle Trachinie di
Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per
riconquistare l'amore di Ercole innamoratosi di Iole, gli invia una
tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro
d'amore e in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole
si uccide ed è assunto fra gli dei.
Le tragedie di Seneca sono le sole opere tragiche latine pervenute in
forma non frammentaria, costituiscono quindi una testimonianza preziosa
sia di un intero genere letterario, sia della ripresa del teatro latino tragico,
dopo i vani tentativi attuati dalla politica culturale augustea per
promuovere una rinascita dell'attività teatrale. In età giulio-claudia (27
a.C.–68 d.C.) e nella prima età flavia (69–96) l'élite intellettuale senatoria
ricorse al teatro tragico per esprimere la propria opposizione al regime (la
tragedia latina riprende ed esalta un aspetto fondamentale in quella greca
classica, ossia l'ispirazione repubblicana e l'esecrazione della tirannide).
Non a caso, i tragediografi di età giulio-claudia e flaviana furono tutti
personaggi di rilievo nella vita pubblica romana.
Le tragedie di Seneca erano, forse, destinate soprattutto alla lettura, il che
poteva non escludere talora la rappresentazione scenica. La macchinosità
o la truce spettacolarità di alcune scene sembrerebbero presupporre una
rappresentazione scenica, mentre una semplice lettura avrebbe limitato,
se non annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico. Le varie
vicende tragiche si configurano come scontri di forze contrastanti e
conflitto fra ragione e passione. Anche se nelle tragedie sono ripresi temi
e motivi delle opere filosofiche, il teatro senecano non è solo
un'illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina
stoica, sia perché resta forte la matrice specificamente letteraria, sia
perché, nell'universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina
stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le
passioni e arginare il dilagare del male.
Alle diverse vicende tragiche fa da sfondo una realtà dai toni cupi e
atroci, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e
una portata universale. Un rilievo particolare ha la figura del tiranno
sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla
clemenza, tormentato dalla paura e dall'angoscia. Il despota offre lo
spunto al dibattito etico sul potere, che è importantissimo nella riflessione
di Seneca. Di quasi tutte le tragedie senecane, restano i modelli greci, nei
confronti dei quali Seneca ha una grande autonomia che però presuppone
un rapporto continuo col modello, sul quale l'autore opera interventi di
contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione nell'impianto
drammatico.
Il linguaggio poetico delle tragedie ha origine nella poesia augustea
(cospicua la presenza di Ovidio), dalla quale Seneca mutua anche le
raffinate forme metriche, come il particolare tipo di senario, già adottato
dal teatro tragico augusteo. Le tracce della tragedia latina arcaica si
avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza alla
frase sentenziosa, isolata, in netto rilievo, alimentata soprattutto dal gusto
retorico del tempo.
La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi
(un verso per ogni personaggio) ed in una costante influenza della
retorica
asiana,
percepibile
nella
continua
tensione,
nell'enfasi
declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione nelle tinte fosche e
macabre. Spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta
mediante l'introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello
sviluppo scenico isolando singole scene come quadri autonomi, estraniati
dal contesto della dinamica teatrale (forse "pezzi di bravura" destinati ad
esser letti nelle sale di recitazione). Uno stile che costituisce un
documento tra i più rappresentativi del gusto letterario contemporaneo.
Una decima tragedia, l'Octavia, rappresenta la sorte di Ottavia, la prima
moglie di Nerone da lui ripudiata, perché innamorato di Poppea, e fatta
uccidere. Sì tratta quindi di una tragedia di argomento romano, ossia una
praetexta (l'unica rimasta), ma è certamente spuria, sia perché lo stesso
Seneca vi compare come personaggio del dramma, sia perché la
descrizione della morte di Nerone (avvenuta nel 68, tre anni dopo quella
di
Seneca),
preannunciata
dall'ombra
di
Agrippina,
è
troppo
corrispondente alla realtà storica, inoltre l'autore, che mostra grande
familiarità con l'intera produzione di Seneca, trasferisce nella tragedia
brani versificati tratti dalle opere filosofiche. L'Octavia quindi, fu scritta
in un ambiente vicino a Seneca e pochi anni dopo la sua morte (70-80
d.C.).
ANALISI E RAPPRESENTAZIONE DELLE TRAGEDIE
Seneca mostra nelle sue tragedie il lato forse più sconosciuto della sua
personalità, l'altra faccia di quel vir sapiens et bonus suicidatosi per la
giusta causa della libertà, di quel saggio stoico che andava predicando
l'imperturbabilità, la giustizia e il Bene.
La tragedia è un tipo di rappresentazione teatrale molto antico;
l'etimologia del termine, trágos ("capro") e odé ("canto"), rimanda al
canto dei capri, ovvero al coro composto dai seguaci di Dioniso
mascherati da capri. Si sappia che le fattezze caprine, ma soprattutto
quelle dei satiri e dei fauni, vennero prese in prestito dall'iconografia
paleocristiana per la rappresentazione del demonio.
Ritornando sui nostri passi, le tragedie senecane, spesso a sfondo mitico e
con personaggi presi in prestito dalla tradizione mitica e tragediografa
greca, si configurano infatti come uno studio oculato e preciso dei
comportamenti umani, soprattutto per quanto riguarda le esperienze del
Male e della morte. In esse Seneca parla infatti di uccisioni (anche
all'interno del gruppo familiare o a danno di amici), di incesti e di
parricidi, di rituali di magia nera, di maledizioni e di predizioni quanto
mai macabre, di cerimonie di sacrificio e di atrocità d'ogni genere, di crisi
d'ira e di gesti incontrollabili, di atti di cannibalismo e di azioni nefaste,
di insane passioni e di un uso folle e spregiudicato della violenza. Nelle
tragedie senecane domina insomma incontrastato l'irrazionale e il Male.
A testimonianza di ciò si nota che Seneca non ricorre all'uso del deus ex
machina (ovvero dell'entrata in scena, soprattutto sul finire dello
spettacolo, di un dio "volante", sostenuto per mezzo di una fune da un
complesso sistema di carrucole: da qui appunto ex machina) per mezzo
del quale solitamente si aveva la risoluzione pacifica del dramma (il lieto
fine) oltre che la giustificazione del Male compiuto nell'azione. Questo
perché le sue tragedie ci offrono uno spaccato di vita (chiamarla
quotidiana sarebbe un po' troppo azzardato) nella quale non c'è né
rimedio né soluzione alle atrocità commesse. I personaggi sono, in questo
senso, comunque condannati: ad esempio Fedra è inevitabilmente
destinata al suicidio, in preda al rimorso per l'incesto col figliastro
Ippolito. Prototipo maligno per eccellenza è però Medea, colei che invoca
rabbiosa e vendicatrice le forze del Male per abbattere e distruggere ogni
cosa in modo da rendersi giustizia, dopo essere stata ripudiata da Giasone
che in cambio sposa Creusa.
Nelle tragedie di Seneca si assiste quindi ad un completo rovesciamento
dei punti di vista, secondo cui ciò che apparirebbe naturalmente privo di
senso, anomalo e degenerato, finisce per apparire del tutto normale, oltre
che lecito. Le anime malate che egli rappresenta sembrano inoltre aver
perduto una volta per sempre il senno, ovvero la ragione, senza la quale il
mondo sembra essere diventato preda di ombre e di mostri in completa
balia del Male e delle forze dell'inferno.
L'Apokolokyntosis
Il Ludus de morte Claudii (o Divi Claudii apotheosis per saturam) è
generalmente
noto
col
nome
di
Apokolokyntosis,
(parola
che
implicherebbe un riferimento a kolòkynte, cioè la zucca, forse come
emblema di stupidità) parodia della divinizzazione di Claudio decretata
dal senato romano alla sua morte. Nel testo di Seneca non si parla di
zucche e l'apoteosi non ha luogo; il termine andrebbe dunque inteso non
come "trasformazione in zucca", ma come "deificazione di una zucca, di
uno zuccone". Tacito (Annales, XIII 3) afferma che Seneca aveva scritto
la laudatio funebris dell'imperatore morto (pronunciata da Nerone), però,
in occasione della divinizzazione di Claudio, che aveva suscitato le ironie
degli stessi ambienti di corte e dell'opinione pubblica, potrebbe aver dato
sarcastico sfogo al risentimento contro l'imperatore che lo aveva
condannato all'esilio (l'opera sarebbe del 54).
Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo
nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, incontra Augusto che
inizia a raccontare tutti i misfatti del suo impero e lo condannano invece a
discendere, come tutti i mortali, agli inferi, dove egli finisce schiavo di
Caligola e da ultimo viene assegnato da Minosse al liberto Menandro:
una condanna di contrappasso per chi aveva fama di esser vissuto in
mano dei suoi potenti schiavi. Allo scherno per l'imperatore defunto
Seneca contrappone, all'inizio dell'opera, parole di elogio per il suo
successore, preconizzando nel nuovo principato un'età di splendore e di
rinnovamento.
Claudio viene rappresentato come violento, claudicante e gobbo: Seneca
calca la mano sui suoi difetti fisici, ribaltando l'attitudine celebrativa di
certi scritti con una forma profondamente irriverente.
MARCO ANNEO LUCANO
Marco Anneo Lucano (Cordova, 3 novembre 39 – Roma, 30 aprile 65) è
stato un poeta romano. Figlio di Marco Anneo Mela, era nipote di Lucio
Anneo Seneca e, grazie all'influenza dello zio, entrò alla corte di Nerone,
in onore del quale proclamò, in una gara poetica di cui risultò vincitore, le
Laudes Neronis.
Fu questo il periodo più lucente della vita di Lucano. Il suo poema, la
Pharsalia (ma nei manoscritti è intitolato Bellum civile, "La guerra
civile") fu anche acclamato.
Le sorti del poeta, tuttavia, mutarono radicalmente quando cadde in
disgrazia presso l'imperatore. Le cause di tale mutamento nei rapporti fra
i due non sono chiare. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i motivi
risiedessero in un risentimento personale; altri vi hanno visto una logica
conseguenza del precedente allontanamento dello zio Seneca; altri ancora
hanno imputato la causa principale alla posizione filorepubblicana
assunta da Lucano nella sua opera.
Nel 65 Lucano prese anche parte alla congiura di Pisone. Quando essa
venne scoperta, egli fu costretto al suicidio a soli 25 anni, nonostante gli
fosse stata promessa l'immunità in cambio della denuncia della madre;
suo padre fu proscritto e sua madre riuscì a fuggire da Roma. Alla sua
vedova, Polla Argentaria, Stazio dedicò una delle Silvae.
Di Lucano resta l'opera principale, il poema epico in esametri Pharsalia
(noto anche con il titolo Bellum Civile), in dieci libri, rimasto incompiuto
per la morte dell'autore. Lucano utilizzò molto probabilmente come fonti
storiche Tito Livio, Asinio Pollione e Seneca il Retore: tutti storiografi
filo-repubblicani; anche se molti studiosi hanno riscontrato distorsioni e
deformazioni dei fatti storici apportati dal poeta (soprattutto alla luce dei
confronti con il De Bello Civili di Cesare). Lucano elimina del tutto
l'apparato divino (in contrasto con la tradizione dei poemi epici), poiché
si tratta di una vicenda storica e recupera in parte l'elemento
"meraviglioso" con l'introduzione di sogni, visioni, profezie, eventi
naturali, pratiche magiche. L'opera è però atipica sin dalla scelta del tema,
poiché tutti i poeti latini che si erano occupati di vicende storiche lo
avevano fatto con l'intento di celebrare Roma e la sua grandezza; Lucano,
al contrario, presenta la guerra civile come un evento funesto che ha
innescato la decadenza della Roma repubblicana. La condanna di Lucano
è violenta; non si è trattato di una guerra normale, ma di una guerra plus
quam civile, poiché Pompeo e Cesare sono legati da vincoli di parentela.
Il numero e la varietà delle altre composizioni perdute di cui si ha notizia
indicano un'eccezionale precocità artistica, unita a una notevole
versatilità. Dai titoli delle opere perdute trapela l'adesione ai gusti
neroniani: antichità troiane e poesia di intrattenimento, ricca di spunti
occasionali e raffinata nella fattura. Pharsalia è il titolo dell'unica opera
rimastaci del poeta latino Lucano. Nei manoscritti che la tramandano è
sempre citata come Bellum civile ("La guerra civile"), ma il titolo esatto
dovrebbe essere proprio Pharsalia, in base a quello che lo stesso Lucano
dice nel IX libro:
(LA)
(IT)
« Pharsalia nostra / vivet, et a
« La nostra Pharsalia / vivrà e da
nullo tenebris damnabitur aevo »
nessuna epoca sarà condannata
all'oblio »
(Pharsalia, 985 ss.)
Il poema epico di Lucano è certo incompiuto e si arresta al X libro.
Argomento dell'opera è la guerra civile che oppose Cesare a Pompeo e
che ebbe nella battaglia di Farsalo il suo punto culminante (raccontato da
Lucano nel VII libro).
Fonti di Lucano furono Tito Livio, Asinio Pollione e Seneca il Vecchio.
La Pharsalia, nella letteratura latina, rappresenta un poema atipico.
Innanzitutto mancano gli interventi divini nelle decisioni e nelle azioni
umane, caratteristici nei poemi epici e storici precedenti. Il poeta inoltre
canta un avvenimento che egli stesso condanna, e che riconosce come
una tragedia nella storia di Roma: ben diversi erano i poemi precedenti
che cantavano la gloria dell'Urbe. Il racconto, poi, procede senza alcuna
regolarità narrativa: gli episodi vengono selezionati, diluiti o riassunti, a
seconda delle necessità del poeta, che imposta quindi in maniera alquanto
soggettiva (non mancano neppure i commenti ai singoli episodi) tutta la
sua opera.
La Pharsalia fu una delle fonti più preziose per Dante Alighieri, che
spesso la citò nella Divina Commedia.
PERSIO
Il poeta nasce a Volterra, Etruria, intorno al 34, da una famiglia piuttosto
agiata, non di nobili origini,appartenente all'ordine equestre. All'età di
dodici anni si trasferisce a Roma per seguire le lezioni di celebri maestri
tra cui principalmente Quinto Remmio Palemone. Dopo soli quattro anni
diviene allievo del filosofo stoico Lucio Anneo Cornuto a cui si deve non
solo l'impronta stoica nella futura formazione di Persio ma gli offre
inoltre l'occasione di conoscere intellettuali come Lucano, Seneca, Trasea
Peto, Cesio Basso i quali influiscono notevolmente sulla sua persona
sotto ogni aspetto culturale. Dal carattere piuttosto sensibile e riservato,
con una buona dose di forte rigore morale, si dedica completamente ai
suoi studi supportato dalla madre, dalla sorella e da una zia paterna, nella
sua biblioteca contenente più di settecento volumi. Nel 62 d.c muore
presso una sua villa alla Spezia, secondo alcuni in seguito ad una grave
malattia che colpisce lo stomaco, all'età di ventotto anni. In realtà la
notizia suona per alcuni come un autoschediasma derivato dalle Satire: la
circostanza della sua morte potrebbe essere semplicemente un'espressione
metaforica per indicare che il poeta aborriva il vizio. La sua opera viene
in seguito revisionata da Cesio Basso e Lucio Anneo Cornuto prima di
essere pubblicata; molte parti, ritenute pericolose a causa del carattere
fortemente polemico verso la politica neroniana, sono state di
conseguenza eliminate.
OPERE
Del suo ampio corpus poco ci è giunto: scrisse sei satire su vari
argomenti tra cui la vera religione, il conosci te stesso, ripresa dal greco
Γνῶθι σεαυτόν, l'avarizia, la libertà del sapiente, la funzione della poesia,
la presunzione dei potenti.
•
I "coliambi" (14 vv) hanno un vero e proprio valore
programmatico: l’autore vi sostiene che il suo intento è quello di
educare moralmente i suoi lettori, polemizza aspramente contro le
mode letterarie del tempo, volte esclusivamente a scopo di piacere
ed intrattenimento, e rivendica orgogliosamente l’originalità della
sua poesia e della sua ispirazione.
•
Nella prima satira ripudia la consuetudine delle declamationes
(esecuzioni pubbliche in cui si faceva sfoggio della propria
conoscenza letteraria fine a sé stessa).
•
Nella seconda satira attacca le incoerenze dei religiosi che
ripongono tutto nei loro Dei senza tentare essi stessi di liberarsi del
male che li attanaglia.
•
Nella terza satira propone la necessità di studi rigidi e severi
perché possano essere formativi.
•
Nella quarta satira sottolinea l'importanza di conoscersi secondo i
principi stoici, e la futilità degli affari pubblici.
•
Nella quinta satira riprende i precetti stoici e da suggerimenti sul
come liberarsi delle passioni. Questo è uno dei tratti caratteristici di
Persio, che nelle sue satire racchiude anche una funzione
pedagogica. Essa si configura come un elogio al maestro Anneo
Cornuto.
•
Nella sesta satira afferma che la vera libertas non è un dato
esteriore, proprio di un particolare ceto sociale o politico, bensì
essa dipende dall'anima. Affermazione che richiama la frase di
Seneca:
« La libertà è affrancamento dalle passioni »
(Seneca)
La satira di Persio si pone dunque come fustigazione del malcostume
della società del suo tempo. Auspica a un ritorno in se e manifesta
l'importanza di conoscere se stessi, prima di intraprendere qualsiasi cosa e
in particolare di criticare gli altri, cosa che i romani di allora sanno fare
fin troppo bene.
PLINIO IL VECCHIO
Gaio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio (Como, 23 –
Stabia, dopo l'8 settembre[1] 79), è stato uno scrittore romano.
Era proprio del suo stile descrivere le cose in diretta, dal vivo, ed egli è
per noi un vero cronista dell'epoca. Morì infatti tra le esalazioni sulfuree
dell'eruzione vulcanica del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei,
mentre cercava di osservare il fenomeno vulcanico più da vicino. In suo
onore viene usato il termine di eruzione pliniana per definire una forte
eruzione esplosiva, simile appunto a quella del Vesuvio in cui perse la
vita.
La Naturalis Historia, che conta 37 volumi, è il solo lavoro di Plinio il
Vecchio che si sia conservato. Quest'opera è stata il testo di riferimento in
materia di conoscenze scientifiche e tecniche per tutto il Rinascimento e
anche oltre. Plinio vi ha infatti registrato tutto il sapere della sua epoca su
argomenti molto diversi, quali le scienze naturali, l' astronomia, l'
antropologia, la psicologia o la metallurgia.
OPERE
L'elenco delle opere di Plinio ci è fornito dal su o stesso nipote:
•
De iaculatione equestri, libro sull'arte di tirare stando a cavallo,
frutto della sua esperienza di ufficiale di cavalleria.
•
De vita Pomponii Secundi, due libri sulla vita di Pomponio
Secondo, poeta tragico a cui era legato da amicizia.
•
Bella Germaniae, venti libri sulle guerre di Germania, che
servirono a Tacito per i suoi Annales.
•
Studiosus, tre libri sulla formazione dell'oratore tramite lo studio
dell'eloquenza.
•
Dubius sermo, otto libri sui problemi di lingua e grammatica che
presentavano oscillazioni ed incertezze nell'uso, tenute in gran
conto dai grammatici posteriori.
•
A fine Aufidii Bassi, trentuno libri di storia che riprendevano la
narrazione dove aveva concluso Aufidio Basso, ovvero dalla morte
dell'imperatore Claudio.
•
Naturalis historia, trentasette libri che formavano un'opera
enciclopedica di larghissimo respiro, l'unica rimastaci per intero.
PETRONIO
Tacito, nei suoi Annali XVI, 18-19, parla diffusamente di un certo C.
Petronio, senza per altro fare alcun riferimento a lui come autore del
Satyricon.
« Soleva egli trascorrere il giorno dormendo, la notte negli affari o
negli svaghi; la vita sfaccendata gli aveva dato fama, come ad altri
l'acquista un'operosità solerte; e lo si giudicava non un gaudente e uno
scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dilapidano il loro
patrimonio, ma un uomo di lusso raffinato. Le sue parole e le sue
azioni, quanto più erano libere da convenzioni e ostentavano una certa
sprezzatura, tanto maggior simpatia acquistavano con la loro parvenza
di naturalezza. Come proconsole in Bitinia tuttavia, e poi come
console, egli seppe mostrarsi energico e all'altezza dei suoi compiti.
Tornato poi alle sue viziose abitudini (o erano forse simulazione di
vizi?) venne accolto tra i pochi intimi di Nerone, come maestro di
raffinatezze, nulla stimando Nerone divertente o voluttoso, nello
sfarzo della sua corte, se non avesse prima ottenuto l'approvazione di
Petronio. Di qui l'odio di Tigellino, che in Petronio vedeva un rivale a
lui anteposto per la consumata esperienza dei piaceri. Egli si volge
quindi a eccitare la crudeltà del principe, di fronte alla quale ogni altra
passione cedeva; accusa Petronio di amicizia con Scevino, dopo aver
indotto con denaro un servo a denunciarlo, e avergli tolto ogni mezzo
di difesa col trarre in arresto la maggior parte dei suoi schiavi »
Segue la descrizione della sua morte:
« In quei giorni Nerone si era spinto in Campania, e Petronio, spintosi
fino a Cuma, venne qui trattenuto. Egli non sopportò di restare oltre
sospeso tra la speranza e il timore; non volle tuttavia rinunciare
precipitosamente alla vita; si tagliò le vene e poi le fasciò, come il
capriccio gli suggeriva, aprendosele poi nuovamente e intrattenendo
gli amici su temi non certo severi o tali che potessero acquistargli
fama di rigida fermezza. A sua volta li ascoltava dire non teorie
sull'immortalità dell'anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e
versi d'amore. Quanto agli schiavi, ad alcuni fece distribuire doni, ad
altri frustate. Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur
imposta, avesse l'apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non
aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per
Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una
particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe,
citando i nomi dei suoi amanti, delle sue donnacce e la singolarità
delle sue perversioni: poi, sigillatolo, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi
il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone »
(Traduzione di A. Rindi, Milano 1965)
Poche altre notizie aveva dato in precedenza Plinio il Vecchio, per il
quale «il consolare T. Petronio, in punto di morte, per odio di Nerone
spezzò una tazza marina che gli era costata 300.000 sesterzi, per evitare
che la ereditasse la mensa imperiale», mentre Plutarco riprende da Tacito
la notizia del testamento di Petronio indirizzato a Nerone, nel quale
rinfacciava «ai dissoluti e agli scialacquatori grettezza e sudiciume, come
Tito Petronio fece con Nerone».
Si tende a risolvere la discordanza del praenomen, Caius in Tacito e Titus
in Plinio e Plutarco, a favore del Titus, ritenendo il Caius un errore di
amanuense. Il Rose, in particolare, ritiene di identificare nello scrittore il
Titus Petronius Niger che fu console suffetto nell'anno 62 o 63. [3]
Né Tacito, però, né Plinio e Plutarco identificano il personaggio
condannato da Nerone con l'autore del Satyricon: lo ipotizzano per primi
l'umanista Giuseppe Giusto Scaligero verso il 1570 e il tipografo e libraio
di Orléans Mamert Patisson nel 1575.
[4]
Le motivazioni addotte a favore
di tale identificazione risiedono in una serie di motivi:
•
il cognomen «Arbiter», presente nei codici del romanzo, coincide
con l'appellativo di «arbiter elegantiae» del cortigiano;
•
l'esser morto in una sua villa a Cuma, in Campania, conferma la
famigliarità dello scrittore con questa regione, come si rileva nel
romanzo;
•
alcuni personaggi citati - il cantante Apellete, il citareda Menecrate e il
gladiatore Petraite sono personaggi realmente vissuti nella prima metà del I
secolo; la lingua, i riferimenti culturali e anche la situazione sociale che
emerge dal romanzo rispecchia i caratteri di quel secolo.
Satyricon
L'opera racconta le vicissitudini di Encolpio, il giovane protagonista,
Gitone, il suo amato efebo, e dell'infido amico-nemico Ascilto.
L'antefatto, soltanto deducibile, racconta di un oltraggio commesso da
Encolpio nei confronti della divinità fallica Priapo, che da lì in poi lo
perseguita provocando al protagonista una serie di insuccessi erotici.
La narrazione tradotta si apre con una discussione tra Encolpio e il retore
Agamennone sul tema della decadenza dell'eloquenza. Il protagonista poi
s'allontana per cercare il suo convivente Ascilto, che ritrova in lupanare.
Qui i due sono forse coinvolti in un'orgia. Scampatene, Encolpio
apprende che Ascilto s'è unito col suo amato Gitone. Da qui la rivalità dei
due personaggi che, separatisi, intraprendono due percorsi diversi, per poi
ricongiungersi in breve tempo.
I due fanno a Napoli, o forse Pozzuoli, i conti col sacrilegio commesso
nel tempio di Priapo: la sacerdotessa interrotta durante il rito costringe
Encolpio, Ascilto ad un'orgia come metodo di redenzione. In questa è
coinvolto anche Gitone, che poi viene spinto ad unirsi con la settene
Pannichide. Terminato la vicenda, ritornano tutti a casa.
Il racconto da qui si sposta a casa di Trimalcione, un liberto arrichitosi
immensamente attraverso l'attività commerciale. Qui s'apre la scena della
"cena". Occupando quasi metà dell'intero scritto pervenutoci, l'episodio
costituisce la parte centrale dell'opera. Al convivio sono ospiti, oltre ai tre
giovani, anche vari personaggi dello stesso rango di Trimalchione. La
portata del cibo è spettacolare e altamente coreografica, accompagnata da
giochi acrobatici dei servi del padrone di casa e da racconti tra i
commensali. I convitati intrattegono poi una lunga conversazione, che
tocca i più svariati argomenti: la ricchezza e gli affari di Trimalcione,
l'inopportunità dei bagni, la funzione del funerale, le condizioni
climatiche e l'agricoltura, la religione e i giovani, i giochi pubblici, i
disturbi intestinali, il valore del vetro, il destino, i monumenti funebri, i
diritti umani degli schiavi. Tutto offre uno spaccato vivace e colorato,
non senza punte di chiara volgarità, della vita di quel ceto sociale.
In seguito, Encolpio, allontanatosi dagli altri due compagni, incontra
Eumolpo, un vecchio letterato che, notato l'interesse di Encolpio per un
quadro raffigurante la presa di Troia, gliene declama in versi il resoconto
(è la celebre Troiae halosis). I due diventano quindi compagni di viaggio,
rivali in amore a causa di Gitone e dopo una serie di avventure, che li
vedono viaggiare per mare e rischiare anche la vita, si ritrovano, insieme
nella città di Crotone, dove Eumolpo si finge un vecchio danaroso e senza
figli, ed Encolpio e Gitone si fanno passare per i suoi servi: così essi
scroccano pranzi e regali dai cacciatori di eredità.
Nei frammenti successivi, Eumolpo recita un brano epico, in cui viene
descritto il Bellum civile ("La guerra civile") fra Cesare e Pompeo, e
successivamente si legge di Encolpio che, per l'ira di Priapo, diventato
impotente, è vittima di una ricca amante che si crede disprezzata da lui e
lo perseguita. Eumolpo, invece, scrive il suo testamento dove specifica
che gli eredi avranno diritto alle sue ricchezze solo se faranno a pezzi il
suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo.
MARCO FABIO QUINTILIANO
Marco Fabio Quintiliano nacque a Calagurris Iulia Nasica nella Spagna
Tarraconensis all'incirca nel 30-40 d.C. Si trasferì in tenera età a Roma
dove poté seguire lezioni di Remmio Palèmone e di Servilio Nonanio.
Inoltre poté conoscere e quindi ascoltare il retore Domizio Afro, e
Seneca. Finiti gli studi ritornò in Spagna dove poté restare fino al 68
esercitando la professione di maestro di retorica; in seguito a quella data
venne ricondotto a Roma da Sulpicio Galba che in quel medesimo anno
divenne imperatore. Giunto a Roma nel 68, vi esercitò probabilmente
l'avvocatura e soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica,
con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben
dirsi la prima cattedra statale in assoluto. L'imperatore gli accordò un
onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando un concreto riconoscimento
all'importanza dell'arte retorica nella formazione della gioventù e del
futuro "ceto dirigente" in vista della creazione del consenso. Dopo
vent'anni d'insegnamento, decise di abbandonare l'incarico e si dedicò alla
stesura in un primo momento di un dialogo in cui espose la propria
posizione sulla crescente corruzione dell'arte dell'eloquenza (l'opera
perduta De causis corruptae eloquentiae), e poi dell'opera più importante,
L'Institutio oratoria.
Ma se la vita pubblica di Quintiliano fu abbastanza agiata, quella privata
fu turbata da gravi sventure domestiche, come la morte della moglie
giovanissima e di due figli.
Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito;
Domiziano lo incaricò nel 94 dell'educazione dei suoi nipoti, cosa che gli
valse gli "ornamenta consularia", ovvero il titolo di console, nonostante
non avesse mai rivestito nel corso della propria vita questa carica.
Morì nel 96 d.C.
Instituto Oratoria
Ma il suo capolavoro - dedicato a Vittorio Marcello, funzionario della
corte di Domiziano per l'educazione del figlio Geta - è l'Institutio
oratoria (93-96 d.C.), cioè "La formazione dell'oratore", che compendia
l'esperienza di un insegnamento durato vent'anni (dal 70 al 90 ca).
Il titolo dell'opera proviene dallo stesso autore, da un'espressione
contenuta in una lettera al suo editore Trifone posta a premessa
dell'opera. Si tratta di un vero e proprio manuale sistematico di pedagogia
e di retorica, in 12 libri, pervenutoci integro.
Il I libro fa parte a sé, trattando di problemi vari di pedagogia relativi
all'istruzione "elementare" (una novità assoluta nel panorama culturale
antico): dalla scelta del maestro, al modo di insegnare i primi elementi di
scrittura e lettura, dalla questione se sia più utile l'istruzione pubblica o
privata, al modo di riconoscere e invogliare le capacità dei singoli
discepoli, e così via.
Il II, invece, chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori
"optimi", né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari a
praticare declamazioni attinenti alla vita reale (e a puntare comunque alla
"sostanza delle cose"), con un linguaggio semplice ed appropriato.
I libri dal III al VII trattano della "inventio" e della "dispositio", cioè lo
studio degli argomenti da inserire nelle cause e l'arte di distribuirli;
i libri dall'VIII al X, dell' "elocutio", ovvero della scelta dello stile e
dell'orazione. Il X libro insegna i modi di acquisire la "facilitas", cioè la
disinvoltura nell'espressione; qui, prendendo in esame gli autori da
leggere e da imitare, Quintiliano inserisce un famoso excursus storicoletterario sugli scrittori greci e latini, preziosa testimonianza sui canoni
critici dell'antichità (ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente
retorico).
L'XI libro parla della "memoria" e dell'"actio", cioè dell'arte di tenere a
mente i discorsi e di porgerli.
Il XII (la parte "longe gravissimam", "di gran lunga più impegnativa"
dell'opera) presenta, infine, la figura dell'oratore ideale: le sue qualità
morali, i principi del suo agire, i criteri da osservare, il vir bonus dicendi
peritus di catoniana memoria.
L’ORATORE TOTALE
Pur nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato,
Quintiliano ripropone così il modello di oratore di età repubblicana, di
stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell'oratoria per un nuovo
spazio di missione civile il vero scopo di Quintiliano, in cui si risolve la
problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata nel XII libro e
tacciata – così ingiustamente – di servilismo: ma non si dimentichi, a tal
proposito, che egli doveva effettivamente molto alla dinastia Flavia (in
particolare a Domiziano, addirittura osannato come sommo poeta) e che
poi apparteneva a quel mondo di "provinciali" che avevano un vero e
proprio culto per l'imperatore, simbolo per loro dell'ordine e del
benessere.
Insomma, l'oratore perfetto deve avere, secondo il nostro autore, una
conoscenza a dir poco "enciclopedica" (filosofia, scienza, diritto, storia),
ma dev'essere - oltre che un "tuttologo" - anche un uomo onesto, "optima
sentiens optimeque dicens" [XII, 1, 25], o - come disse già Catone - "vir
bonus dicendi peritus".
Tuttavia, nel predicare questo ritorno a Cicerone, Quintiliano non
realizzava che ciò esigeva anche il ritorno alle condizioni di libertà
politica di quel tempo: in ciò sta il segno più evidente del carattere
antistorico (se non "utopistico") del classicismo vagheggiato dal nostro.
MARZIALE
Le notizie biografiche su Marziale provengono principalmente dai
numerosi cenni autobiografici contenuti nella sua opera. Sappiamo che
nacque a Bilbilis, una cittadina della Spagna Tarragonese, allora
assoggettata all'Impero Romano, fra il 38 e il 41 d.C. e che ebbe la sua
prima educazione a Tarragona, sotto la guida di grammatici e retori. Nel
64 si recò a Roma, sperando di farvi fortuna come era accaduto ad altri
letterati della regione quali Seneca, Lucano, Quintiliano. A Roma, Nella
capitale imperiale, si indirizzò, secondo gli auspici dei genitori, alla
professione di avvocato verso la quale provava un'insanabile avversione
dedicandosi contemporaneamente alla poesia.
Verso l'80, in occasione dell'inaugurazione dell'Anfiteatro flavio,
Marziale pubblicò il primo libro di epigrammi detto Liber de spectaculis
(sugli spettacoli del Colosseo) che gli procurò delle lodi. Grazie a questo
primo successo ebbe dall'imperatore Tito lo ius trium liberorum, che
comportava una serie di privilegi per i cittadini che avessero almeno tre
figli, nonostante - a quanto pare - il poeta non fosse nemmeno sposato. Il
successore di Tito, Domiziano, confermò i privilegi concessi dal fratello.
Verso l'anno 84 o 85 comparvero altri due libri di epigrammi: "Xenia"
(doni per gli ospiti) e Apophoreta (doni da portar via alla fine del
banchetto), composti esclusivamente di monodistici.
I primi di due libri di epigrammi delusero le aspettative del poeta che si
ritirò per alcuni mesi a Forum Cornelii (Imola), ospite di un potente
amico. Lì pubblicò il suo terzo libro ma poi lo riprese la nostalgia di
Roma, ambiente variopinto e multiforme, fonte di ispirazione della sua
poesia.
Dopo l'assassinio di Domiziano nel 96, sotto i principati di Nerva e poi di
Traiano si instaurò a Roma un clima morale austero. Marziale tentò di
ingraziarsi i nuovi governanti, ma i suoi epigrammi mal si conciliavano
con il nuovo orientamento del potere. Inoltre probabilmente egli era
ormai troppo noto per i suoi passati rapporti con l'odiato predecessore di
Nerva. Nel 98, infine, compì il viaggio di ritorno alla città natia. Tra il 90
e il 102 pubblicò complessivamente altri otto libri di epigrammi.
Liber de spectaculis
Chiamato anche Liber spectaculorum, nell'edizione del filologo Gruterus
del 1602, fu pubblicato nell'80 e rappresenta la prima raccolta di
epigrammi di cui abbiamo notizie (nessun epigramma giunto fino a noi
sembra essere precedente a questa data). La raccolta contiene 33 o 36
epigrammi in distici elegiaci che descrivono i vari spettacoli offerti al
pubblico in occasione dell'inaugurazione del Colosseo ad opera
dell'imperatore Tito,figlio di Vespasiano.
Xenia e Apophoreta
Nell'edizione che suddivide i lavori di Marziale in quindici libri, queste
due raccolte costituiscono rispettivamente il XIII e XIV libro, secondo
l'ordine in cui sono riportati nei manoscritti, benché criteri interni
rendano quasi certa la loro seriorità rispetto al I libro. Sono composti
esclusivamente di epigrammi in distici elegiaci. I titoli (o lemmata) che
menzionano l'oggetto descritto di volta in volta furono dati dall'autore
stesso.
I "doni per gli ospiti" (xenia) sono una raccolta di 127 (124 e 3
introduttivi) epigrammi che accompagnavano, appunto, i doni che ci si
scambiava durante i Saturnali.
I "doni da portar via" (apophoreta), invece, sono quelli (221 più due
introduttivi) che accompagnavano i doni destinati ai commensali alla fine
di un convito. Bisogna sapere che tali doni venivano sorteggiati tra gli
invitati: da questo fatto potevano derivare talvolta situazioni curiose o
comiche (ad esempio: un pettine assegnato a un calvo) su cui il poeta
poteva sbizzarrirsi divertendo i lettori.
PLINIO IL GIOVANE
Plinio nacque a Como nel 61 da una famiglia di rango equestre molto
ricca. Suo padre morì quando lui era ancora bambino e Plinio fu affidato
ad un amico di famiglia, Virgilio Rufo. In seguito venne adottato dallo
zio, Plinio il Vecchio, fratello di sua madre. Nel 83 muore anche la madre
e lui eredita tutto il patrimonio di famiglia. Studia a Roma alla scuola di
Quintiliano e del retore greco Nicete Sacerdote. Si dedicò principalmente
alla retorica e all'avvocatura. S'interessò, grazie all'influenza dello zio, sia
allo stile lineare di Cicerone che a quello magniloquente dell'asianesimo.
Nel 79 assistette all'eruzione del Vesuvio dal lato opposto del Golfo di
Napoli in cui perse la vita il celebre parente.
Inizia così la sua carriera insieme all'amico Tacito percorrendo tutte le
tappe del cursus honorum. Tra l' 89 e il 90 ricopre il Tribunato della
Plebe ed entra in senato; provenendo da una famiglia di cavalieri sarà
perciò il primo della sua famiglia. Sotto Domiziano non fa carriera
(l'imperatore muore nel 96), mentre sotto Traiano riprenderà la sua
carriera diventando soprintendente del tesoro. Nel 100 diventa console
supplente e per un paio di mesi ne ricopre la carica. Tiene in senato il
discorso "Panegirico Traiano", la cui successiva pubblicazione però sarà
diversa dall'orazione originale, perché posta a revisione. Insieme a Tacito,
nello stesso anno, sostiene un'accusa contro Mario Prisco. Nel 103
difende due ex governatori accusati di appropriazioni eccessive. Nel 105
diventa Curator: magistrato delle Acque del Tevere e della Cloaca
Maxima.
Probabilmente, grazie non solo al proprio talento, ma anche alla propria
ricchezza e alle amicizie con i potenti, la sua carriera fu tra le più
brillanti, e riuscì a diventare prefetto all'erario di Saturno, cioè uno dei
cassieri dell'impero. Alla fine della sua vita fu governatore in Bitinia dal
111 al 113, anno in cui probabilmente morì.
L'epistolario
L'opera maggiore a noi pervenuta di Plinio il Giovane è una raccolta di
epistole (247 suddivise in nove libri più 121 aggiunte in seguito in un
decimo libro) scritte fra il 96 e il 109. Fra gli studiosi si è a lungo
discusso sull'origine e sullo scopo di queste epistole; oggi si tende a
credere che la maggior parte delle lettere non siano un artificio letterario,
ma che si tratti di lettere realmente spedite, frutto di un carteggio con
amici e colleghi, talvolta scritte per occasioni particolari (come notizie,
raccomandazioni, ecc.), altre volte per ragioni sociali (inviti, scambi di
opinione, etc.), oppure per ragioni descrittive (celeberrima è la cronaca
dell'eruzione del Vesuvio del 79).
L'opera è dedicata all'amico Setticio Claro:
« Frequenter hortatus es, ut epistulas, si quas paulo curatius
scripsissem, colligerem publicaremque. Collegi non servato temporis
ordine - neque enim historiam componebam -, sed ut quaeque in
manus venerat. »
Plinio afferma di aver adempiuto alle richieste dell'amico che lo esortava
a raccogliere le lettere scritte "paulo curatius" (con maggior cura). Si
tratta dunque di un epistolario letterario, scritto nel preciso intento di
pubblicarlo. Le epistole non saranno raccolte cronologicamente bensì "ut
quaeque in manus venerat" (così come mi capitano sotto mano). Oltre ai
primi nove libri, ne esiste un altro che contiene il carteggio che Plinio
tenne con l'imperatore Traiano durante il governo della Bitinia. Questa
raccolta fu pubblicata postuma, forse per iniziativa di qualche amico di
Plinio, meno probabilmente grazie a Traiano stesso, che avrebbe voluto,
con esso, proporre un manuale d'esempio di buona amministrazione. Il
libro, che contiene anche le risposte dell'imperatore, è in ogni caso un
documento
eccezionale
per
la
conoscenza
dell'amministrazione
provinciale in età imperiale. Fra queste lettere, sono particolarmente
famose quelle relative ai cristiani (epistole 96 e 97), nelle quali Plinio
parla in prima persona (essendo stato incaricato da Traiano stesso di
reprimere i cristiani), informando l'imperatore sui suoi dubbi su come
procedere nelle modalità d'inchiesta nei loro confronti. Plinio non prende
affatto le difese dei Cristiani, come fece lo scrittore Tertulliano, ma
sostiene invece la causa dei Romani. Per lui è ovvio che l'autorità
dell'Impero vada rispettata, ed è altrettanto ovvio che chi si rifiuta di
farlo, come facevano i cristiani, sia un pericoloso esempio di ribellione da
punire senza alcuna pietà. Anzi, Plinio trova gli atti compiuti dai cristiani
del tutto eccentrici e ridicoli scriverà infatti,
« Li interrogavo chiedendo se fossero cristiani. [...] Vi furono altri
adepti di una tale follia [...] »
(Plinio, Lettere, x, 96 )
e si augura di riuscire a riportare la popolarità della religione politeista
romana come nei tempi gloriosi della Repubblica, come richiesto
dall'imperatore stesso. In queste lettere si trovano testimonianze del fatto
che si tenevano regolari processi, oltre alle comuni pratiche di polizia (in
questo caso, contro i Cristiani). Dato che Plinio era il propretore, spettava
a lui l'autorità di far eseguire queste procedure nei confronti di coloro che
venivano denunciati. Plinio però ammette di non avere alcuna esperienza
in merito e chiede consiglio all'imperatore, affermando di non sapere se
trattare diversamente i bambini dagli adulti, di interrogare più volte
coloro che confessavano e poi eventualmente mandarli a morte, e di dare
la possibilità agli accusati di dimostrare di non essere cristiani, venerando
le immagini degli dei e facendo sacrifici a quella dell'imperatore. Riporta
inoltre delle dichiarazioni dei cristiani in merito a quelle che i delatori
indicavano come loro "colpe" (Plinio afferma che i cristiani dichiararono
di incontrarsi in un giorno stabilito-la domenica- prima dell'alba, di
cantare inni a Cristo, quindi di dividersi, per incontrarsi in seguito per
mangiare del cibo e giurare di non commettere alcun tipo di delitto). Si
nota che i cittadini romani avevano diritto ad essere giudicati a Roma,
mentre gli altri venivano condannati direttamente sul posto. Plinio non è
un persecutore spietato: sa infatti che i veri cristiani (che per lui sono
quelli davvero pericolosi) non rinnegano la loro fede, e quindi lascia
liberi coloro che, per paura, sono pronti a farlo. Nella lettera 96, Plinio sa
che i templi ricominciano ad essere frequentati e i "sacra sollemnia" a
riprendere vigore dopo una lunga interruzione.
Le altre opere
Di Plinio ci è pervenuto anche un Panegirico a Traiano, che venne
pubblicato nel X libro: esso, originariamente, era il discorso che Plinio
pronunciò per ringraziare Traiano quando fu eletto console. Il discorso
effettivamente pronunciato fu poi riveduto, corretto e ampliato, tanto da
occupare, da solo, quasi la metà del X libro delle epistole. Questa è
l'unica delle orazioni pervenuteci di Plinio il Giovane: in essa, Plinio
raccomanda ai futuri imperatori di seguire l'esempio di Traiano per agire
in concordia con il Senato e il ceto equestre per il bene dell'impero.
Non ci sono pervenute altre orazioni di Plinio il Giovane: sappiamo però
che i suoi discorsi pronunciati in tribunale ed al Senato furono tali da
essere accostati a quelli dell'amico Tacito.
Plinio fu, probabilmente, anche un poeta, ma la sua collezione di liriche
non è arrivata sino a noi, ad eccezione di due frammenti pubblicati fra le
epistole. Probabilmente, si trattava di poesie scritte in età giovanile.
TACITO
Le opere di Tacito contengono molte informazioni sul suo mondo, ma i
particolari sulla sua vita sono limitati. Anche il suo prenome è incerto.
Quel poco che conosciamo deriva dagli indizi sparsi nel corpus del suo
lavoro, dalle lettere del suo amico e ammiratore Plinio il Giovane, da
un'iscrizione trovata a Mylasa in Caria e da ipotesi. Tacito nacque nel 56
o nel 57 d.C. da una famiglia equestre. Il suo praenomen è un mistero: in
alcune lettere di Sidonio Apollinare ed in alcune vecchie e scritti poco
importanti il suo nome è Gaius, ma nel manoscritto principale della
tradizione il suo nome è Publius. L'ipotesi di Sextus non ha trovato
seguito. Il luogo e la data esatti della sua nascita non sono conosciuti.
Come molti altri autori latini proveniva dalle province: dall'Italia centrale
(Terni), dall'Italia del Nord, dalla Gallia Narbonese o, addirittura,
dall'Hispania.
Il disprezzo mostrato da Tacito per gli arrampicatori sociali ha portato
all'ipotesi che la sua famiglia provenisse da un ramo sconosciuto della
gens patrizia Cornelia, ma nessun Cornelius si è mai chiamato Tacito.
Ancora, le famiglie aristocratiche più antiche in gran parte erano state
distrutte nel caos determinato dalla conclusione della Repubblica, ed è
chiaro che Tacito deve la sua posizione sociale agli imperatori Flavii.
L'ipotesi che egli discendesse da un liberto non ha trovato nessun
supporto oltre alla sua dichiarazione, in un discorso inventato, che molti
senatori e cavalieri discendono da liberti (Annales 13, 27), e tale ipotesi è
stata prontamente abbandonata. Suo padre può essere il Cornelio Tacito
che era procuratore della Gallia Belgica e della Germania. Un figlio di
questo Cornelio Tacito è citato da Plinio il vecchio come esempio di
sviluppo e di invecchiamento anormalmente veloci (Naturalis historia 7,
76), implicando una morte prematura. Ciò significa che questo figlio non
era Tacito, ma il suo fratello o cugino - il Cornelius maggiore Tacito può
essere uno zio, piuttosto che suo padre. Da questo legame e dall'amicizia
bene attestata fra Plinio il giovane ed il Tacito più giovane, gli studiosi
traggono la conclusione che le due famiglie erano di categoria, facoltà e
origini simili: ceto equestre, ricchezza significativa, famiglie provinciali.
La possibile origine spagnola del Fabius Iustus al quale Tacito dedica il
Dialogus suggerisce un legame con la Spagna. La sua amicizia con Plinio
indica nell'Italia del Nord il luogo della sua origine. Nessuna di queste
prove è conclusiva. Gneo Giulio Agricola potrebbe conoscere Tacito per
altri motivi. Marziale dedica un componimento a Plinio (10, 20), ma non
a Tacito che era più famoso. Nessuna prova esiste che gli amici di Plinio
dell'Italia del Nord abbiano conosciuto Tacito, né le lettere di Plinio
suggeriscono che i due uomini abbiano condiviso una provincia.
L'opposto, in effetti: la prova più forte è nella lettera 23 del libro 9, che
riferisce come a Tacito sia stato chiesto se fosse italiano o provinciale e
alla sua risposta poco chiara, un po' oltre gli sia stato chiesto se fosse
Tacito o Plinio. Poiché Plinio proveniva dall'Italia, Tacito deve provenire
da un'altra provincia e la Gallia Narbonese è l'ipotesi più probabile.
La sua discendenza, la sua abilità oratoria e la sua simpatia occasionale
per i barbari che hanno resistito alla lex romana (per esempio, Annales 2,
9), hanno condotto qualcuno a suggerire che provenisse da una famiglia
celtica.
Infine si ricorda una tradizione tarda che, rifacendosi ad un passo
dell'Historia Augusta relativo alla vita dell'imperatore romano Claudio
Tacito (275 - 276), attribuisce i natali dello storico alla città di Terni.
Opere
Cinque sono le opere attribuite a Tacito che sono sopravvissute, almeno
in una parte sostanziale di esse. Le date sono approssimative e le ultime
due (le sue opere "maggiori"), hanno comunque richiesto alcuni anni per
essere completate:
•
98: De vita et moribus Iulii Agricolae ("La vita e le usanze di
Giulio Agricola")
•
98: De origine et situ Germanorum ("L'origine e la posizione dei
Germanici")
•
102: Dialogus de oratoribus ("Dialogo sull'oratoria")
•
105: Historiae ("Le storie")
•
117: Annales o Ab excessu divi Augusti ("Annali")
APULEIO
Lucio Apuleio, o Apuleio da Madaura (Madaura, 125 – 180 circa), è
stato uno scrittore, filosofo, retore, mago e alchimista romano di scuola
platonica.
= Nacque a Madaura, piccolo ma importante avamposto romano
nell'odierna Algeria, attorno al 125 d.C. Il prenome Lucio, dato da alcuni
codici, è sospetto, poiché coincide con quello del protagonista-narratore
del romanzo apuleiano. Il padre, che fu anche duovir iuri dicundo (cioè
console, la più alta magistratura municipale) della città, lasciò a lui e al
fratello una eredità di quasi 2 milioni di sesterzi. I primi studi,
grammaticali e retorici, li fece a Cartagine, dove fu forse iniziato al culto
di Esculapio, corrispettivo romano del dio greco della guarigione
Asclepio. Poté quindi approfondire poesie, geometria, musica, e
soprattutto filosofia ad Atene, dove fu certamente iniziato a vari culti di
una certa importanza tra i quali quello dei misteri Eleusini. La vita di
Apuleio fu caratterizzata da un grande amore per i viaggi: brillante
conferenziere e curioso d'ogni scienza, filosofia o culto, fu a lungo una
specie di clericus vagans del suo tempo. Si recò a Roma dove fu iniziato
al culto di Osiride e di Iside e praticò con successo l'avvocatura. Sulla via
di Alessandria, Apuleio sostò a Oea (l'odierna Tripoli), dove si imbatté in
un vecchio compagno di studi, Ponziano; approfittò della sua ospitalità e
fu coinvolto in una storia che avrebbe lasciato un segno indelebile nella
sua esistenza, sin qui felicemente errabonda. Ponziano aveva una madre,
Emilia Pudentilla, vedova, non bella ma con un considerevole
patrimonio: egli volle che Apuleio, fidato amico e, in quanto filosofo,
indifferente alla ricchezza, la sposasse. Apuleio a lungo recalcitrò, ma
alla fine cedette e sposò la donna, e alla morte di Ponziano i parenti di
Pudentilla, per timore di perdere la ricca eredità, gli intentarono un
processo, accusandolo di aver sedotto la donna con le sue arti di mago. Il
processo si celebrò a Sabratha tra la fine del 158 e gli inizi del 159 d.C ed
espose Apuleio persino al rischio della pena capitale, a causa della lex
Cornelia de sicariis et veneficis. Dopo essere stato assolto grazie alla sua
famosa Apologia, Apuleio fissò la sua dimora a Cartagine, dove forse
rimase fino alla morte. Carico di gloria per i molti libri scritti e per le
statue erette in suo onore, fu anche per un anno sacerdote della provincia:
una carica di grande prestigio, religiosa e civile insieme, a cui era affidato
il culto dell'imperatore e di Roma, ma anche funzioni di governo e di
rappresentanza. Poiché dopo il 170 non si ebbero più sue notizie, la sua
morte è avvolta nel miste
Le opere
Apuleio scrisse moltissimo: di tutto, in versi e in prosa, in greco e in
latino, anche se molto è andato perduto. Dal punto di vista prettamente
letterario, dei Carmina amatoria ci restano 2 epigrammi conservati in
Apologia 9, dei Ludicra ancor meno, degli Hymi in Aesculapium e della
produzione in greco non è rimasto nulla. Della prosa latina, vastamente
enciclopedica, si son perse sia opere scientifiche (De arboribus, De
piscibus, De re rustica, Naturales quaestiones, De musica, De
arithmetica) sia di filosofia (De mundo, De Platone et eius dogmate, De
deo socratis) che di varia erudizione (Quaestiones conviviales, De
republica, De proverbiis, Epithome historiarum, Hermagoras), nonché
una traduzione del Fedone platonico. In compenso, parte di ciò che ci è
giunto sotto il suo nome non è autentico, pur rientrando nella sua ottica di
indagatore curioso dei culti misterici e dei segreti della natura. Si sono
salvate, tuttavia, alcune importanti opere a carattere filosofico-scientifico,
una raccolta di conferenze, schede, estratti d'interesse letterario, sia
narrativo che retorico neosofistico (Florida, l'Apologia, e soprattutto gli
undici libri del romanzo delle metamorfosi).
LA LETTERATURA CRISTIANA
La letteratura cristiana consiste in quel corpus di opere originate
dall'avvenimento cristiano, dalla figura di Gesù e dalla sua incidenza
nella storia
Nella letteratura cristiana antica convergono due distinti filoni:
•
la letteratura giudaica
•
la letteratura greco - latina della tradizione classica.
Letteratura giudaica
È un corpus di scritti accumulato nei secoli (non corrisponde alla Bibbia
che è un concetto teologico astratto), e comprende:
•
la Torah, gli scritti sulla Legge, corrispondenti ai primi cinque libri
dell'attuale Antico Testamento noti anche come Pentateuco;
•
i Libri dei Profeti o Neviìm, sviluppatisi nel corso dei secoli;
•
i Libri Sapienzali e i Libri Storici;
•
Talmud e Mishnah;
•
la Septuaginta o LXX o Settanta, traduzione in greco degli scritti
suddetti effettuata ad Alessandria in seno alla diaspora ebraica, tra
il III secolo a.C. e il II secolo a.C., ad uso della civiltà giudeoellenistica. Antiche parole greche assumono nuovi significati
semantici, tra cui "giustizia" che indica l'intervento salvifico di
Dio. La LXX diviene "Bibbia" per i primi cristiani delle comunità
paoline, cn (non pervenute): già nel I secolo la LXX non viene più
menzionata nel mondo ebraico. Anche autori come Filone di
Alessandria, apprezzati dai cristiani, subirono la medesima
rimozione dalle fonti giudaiche.
Esistono inoltre due filoni che risentono dell'influenza ellenistica, la
letteratura omiletica e la letteratura apocalittica.
Letteratura omiletica
Il culto sinagogale comprendeva per gli ebrei in esilio l'insegnamento
delle Sacre Scritture tramite lettura in pubblico del testo, ed omelia (o
commento omiletico) con funzione esegetica. L'esegesi omiletica durante
la predica liturgica diverrà l'attuale Liturgia della Parola.
Letteratura apocalittica
La letteratura apocalittica esprime l'attesa escatologica e la conseguente
apocalisse intesa cone rivelazione degli avvenimenti futuri e finali, al fine
della salvezza eterna; un esempio è il Libro di Daniele, soprattutto nei
capitoli finali. Si sviluppa nel tardo giudaismo del II secolo a.C., e ci
testimonia la volontà ed il bisogno di conoscere il futuro da parte di un
popolo oppresso e disperato.
La letteratura cristiana è ricca di apocalissi, la più nota è l'Apocalisse di
Giovanni, la cui escatologia differisce dalle precedenti perché associa
Gesù alla figura del Messia, unto da Dio (si noti come anche Ciro II di
Persia fu detto messia, poiché unto da Dio per aver liberato gli ebrei dalla
schiavitù babilonese).
Cosa confluisce nella letteratura cristiana
Uno dei dilemmi che si posero i primi cristiani fu cosa mantenere dei libri
sinora considerati di culto: mantenere la LXX? I testi giudaici servono al
culto cristiano o no? Vi furono prese di posizione discordi, radicali o
meno; il diteista Marcione ad esempio fu un sostenitore del rifiuto
radicale, poiché sosteneva che il Dio ebreo narrato nell'Antico
Testamento non fosse il il vero Dio dell'Amore, rivelato col Cristo nel
Nuovo Testamento, e riteneva Paolo di Tarso unico autentico apostolo.
Il canone biblico si costituisce tra il I e il II secolo, formando una Bibbia
composta da AT e NT, attraverso tagli, scelte e conflitti interpretativi in
particolare tra il 160 e il 180.
Il cristianesimo assorbe gran parte dei testi e dei generi giudaici, tra cui il
romanzo, pur mantenendo un rapporto polemico.
TERTULLIANO
Tertulliano nacque a Cartagine verso la metà del II secolo (intorno al
155) da genitori pagani (patre centurione proconsulari, figlio di un
centurione proconsolare) e, dopo essere stato verosimilmente iniziato ai
misteri di Mitra, compì gli studi di retorica e diritto nelle scuole
tradizionali imparando il greco.
Dopo aver esercitato la professione di avvocato dapprima in Africa e in
seguito a Roma, ritornò nella città natale e probabilmente verso il 195 si
convertì al cristianesimo. Nel 197 scrisse la sua prima opera, Ad nationes
("Ai pagani").
Presi gli ordini sacerdotali, adottò posizioni religiose molto intransigenti
e nel 213 aderì alla setta religiosa dei montanisti, nota proprio per la sua
intransigenza e il suo fanatismo.
Negli ultimi anni della sua vita abbandonò il gruppo per fondarne uno
nuovo, quello dei Tertullianisti. Quest'ultima setta era ancora esistente
all'epoca di Sant'Agostino, che riferisce di averla fatta rientrare nell'alveo
dell'ortodossia. Le ultime notizie che si possiedono su Tertulliano
risalgono al 220. La sua morte si data dopo il 230.
È considerato un grande teologo cristiano e introduce la teologia trinitaria
attraverso una terminologia latina rigorosa. A lui si deve il concetto di
"persona", fondamentale anche nella civiltà occidentale, che ci permette
di vedere ogni uomo come partecipe della natura umana ma nello stesso
tempo persona unica e inalienabile. Come Dio è unico e distinto in
Persone divine che sono "relazioni sussistenti", il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo, allo stesso modo ogni uomo partecipa alla natura umana
ma è distinto nella sua dignità di persona. Questo è il germe che
distruggerà le disuguaglianze "pagane" e permetterà l'invenzione cristiana
degli Ospedali. Tertulliano è un grande teorico e un acuto pensatore che
assume un posto di rilievo nel panorama letterario del suo tempo.
È attribuita a Tertulliano la famosa locuzione latina Credo Quia
Absurdum. In realtà la frase esatta è "Natus est Dei Filius; non pudet,
quia pudendum est: et mortuus est Dei Filius; prorsus credibile est, quia
ineptum est" (De Carne Christi) che si traduce in: "Nato Figlio di Dio;
non si vergogna, perché v'è da vergognarsi: e il Figlio di Dio è morto:
che è del tutto credibile, poiché è del tutto incredibile".
MINUCIO FELICE
Del Minucio Felice uomo sappiamo ben poco: è però certo che nacque
nella Numidia, quasi sicuramente a Cirta (quindi conterraneo ed amico di
Frontone, maestro di Marco Aurelio), che visse per quasi tutta la sua
esistenza a Roma, che fu un avvocato molto ricco e che la sua vita si
svolse nel II secolo dopo Cristo.
Grande esponente della letteratura apologetica (secondo, in quanto a
fama, al solo Tertulliano), scrisse il dialogo Octavius, che ci è pervenuto,
e un romanzo didascalico, il De fato, che invece non è arrivato ai giorni
nostri.
L’OCTAVIUS
l dialogo dell'Octavius si svolge sul lido di Ostia fra tre personaggi: il
pagano Cecilio, il cristiano Ottavio (da qui il titolo dell'opera) e Minucio
stesso. Ottavio rimprovera aspramente Cecilio per un gesto di adorazione
ad una statua del Dio Serapide e Cecilio propone di esporre le reciproche
ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia.
Tuttavia, Minucio non esprimerà alcun giudizio perché non ce ne sarà
bisogno: dopo le due orazioni (quella di Cecilio contro il Cristianesimo e
quella di Ottavio in suo favore, ma contro il Paganesimo), infatti Cecilio
si rende conto della pochezza e della falsità della sua tesi, ammettendo di
buon grado la sconfitta.
Considerazioni
Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono in tutti gli apologeti,
compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente,
al politeismo; i Cristiani non sono colpevoli dei misfatti di cui sono
calunniosamente accusati dai pagani; se i pagani comprendessero le
istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi
si convertirebbero subito.
Ma Minucio, a differenza di Tertulliano, è scrittore fine e delicato perché
fonda la sua argomentazione sulla logica e sulla amabile conversazione.
Egli si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita con abbondanza
scrittori classici, astenendosi invece dai riferimenti della Bibbia.
SANT’AGOSTINO (AGOSTINO D’IPPONA)
Agostino d'Ippona (latino: Aurelius Augustinus Hipponensis; Tagaste,
13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) fu un filosofo, vescovo e
teologo romano. Padre, Dottore e santo della Chiesa cattolica, è
conosciuto semplicemente come sant'Agostino, detto anche Doctor
Gratiae (Dottore della Grazia). Secondo Antonio Livi è stato «il
massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno
dei più grandi geni dell'umanità in assoluto
La sua opera più celebre sono le Confessioni. A lui si rifanno numerose
forme di vita religiosa, tra i quali l'Ordine di Sant'Agostino (OSA),
chiamato degli Agostiniani: diffusi in tutto il mondo, insieme agli
Agostiniani scalzi (OAD) e agli Agostiniani Recolletti (OAR),
costituiscono nella Chiesa cattolica la principale eredità spirituale del
santo di Ippona, alla cui Regola di vita si ispirano anche numerose altre
congregazioni, oltre ai Canonici Regolari di Sant'Agostino. Alcune
Chiese scismatiche africane, fenomeni a metà tra le cosiddette Piccole
Chiese ed il sincretismo (in particolare quelle fornite di successione
apostolica), sorte nel corso del XIX e del XX secolo, si sono auto-definite
Agostiniste, in considerazione della origine africana del santo.
De civitate Dei
L'opera (il cui titolo tradotto letteralmente significa:"Riguardo la città di
Dio) fu scritta dopo l' evento storico che sconvolse il mondo romano
ovvero il Sacco di Roma da parte dei visigoti guidati da Alarico I nel 410;
Il mondo civile accoglie l'evento come una inaudita profanazione, con
stupore e paura. Agostino apprese la notizia mentre faceva la spola tra
Cartagine, dove si stava svolgendo un concilio, ed Ippona, la sua sede
episcopale. Presto gli arrivarono alle sue orecchie le accuse dei pagani
contro il Dio cristiano che non ha saputo difendere l'Urbe, ed assistette
all'arrivo dei profughi con i loro racconti raccapriccianti. La grande
occasione data dall'evento lo sollecita a riflettere con tutte le facoltà di
pensiero e di immaginazione sul senso della vita e della storia. E nel 412
comincia appunto l'opera che lo impegnerà per una dozzina di anni e
diverrà uno dei pilastri della cultura occidentale.
L'opera appare come il primo tentativo di costruire una visione organica
della storia dal punto di vista cristiano, principalmente per controbattere
le accuse della società pagana contro i cristiani.
In essa, vengono messe a confronto le due città, una celeste (appunto la
Città di Dio) e una terrena (la Città del Uomo) , l'una uniformata ai
principi del cristianesimo, l'altra impregnata di paganesimo, per
dimostrare la superiorità e sostenere l'inevitabile trionfo finale della
prima sulla seconda.