Il declino della cultura scientifica

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Il declino della cultura scientifica
problemi
ll declino della cultura scientifica
Giovanni Vittorio Pallottino
Da una parte usiamo sempre più
tecnologia, dall’altra temiamo la scienza
come responsabile della distruzione
di una natura benigna e idilliaca.
Una perdita di razionalità che ci lascia
in balia di falsi miti. Come recuperare
nella didattica delle discipline scientifiche
la consapevolezza del sapere scientifico
come sapere profondamente umano?
L
La cultura scientifica oggi, per dirla in breve, è in ribasso. Sia
per quanto riguarda il livello delle conoscenze possedute dal
pubblico, sia in termini di status, cioè di percezione complessiva del suo ruolo nell’ambito della società. In Italia certamente, ma anche in gran parte del mondo industrializzato. E ciò si
verifica, paradossalmente, proprio in un periodo in cui al progresso delle conoscenze derivante dalle attività di ricerca
scientifica si accompagna, in stretta derivazione e come mai
nel passato, la diffusione di ritrovati tecnologici di sempre più
largo e comune impiego. Un esempio a questo proposito, forse banale ma certamente illuminante, che riguarda nello specifico il nostro Paese, è nell’assai maggiore impiego dei telefoni cellulari rispetto all’uso dei calcolatori e di Internet nel confronto con quanto avviene in altri paesi. Che denota la piena
disponibilità ad avvalersi dei nuovi ritrovati a livello di mera
utenza, contro una più scarsa tendenza a farne uso quando ciò
richieda un minimo di impegno intellettuale.
Un indicatore quantitativo della caduta di status della scienza è rappresentato dal declino delle iscrizioni ai corsi universitari di materie scientifiche durante l’ultimo decennio, in
Italia e negli altri paesi europei come pure negli Stati Uniti,
solo in parte alleviato dalla crescita di popolarità delle lauree
in informatica. Un altro indicatore è costituito dalla tendenza verso la riduzione degli investimenti pubblici nella ricerca scientifica, in atto da qualche tempo in vari paesi, notando peraltro che in Italia ciò costituisce elemento di maggiore
pericolosità data l’esiguità di questi fondi.
Alla caduta di status contribuiscono vari elementi, non ultima la repulsione verso la scienza e la tecnologia intese come
fonte di pericoli per l’uomo, veri o supposti che siano, come
nel caso del dibattito sul nucleare di qualche tempo fa o a
proposito delle più recenti vicende della «mucca pazza», dell’uranio impoverito e dell’elettrosmog. Repulsione il più delle volte aprioristica, derivante da scarsità di conoscenze e,
soprattutto, da profonde debolezze nella capacità critica di
valutare i fatti. Repulsione amplificata anche dall’approccio
generalmente seguito dai media, che per forza di cose tendono a «far notizia», evidenziando spesso i pericoli meno
dannosi a spese di una corretta informazione.
Alla repulsione verso la scienza e la tecnologia contribuisce
grandemente anche una visione idilliaca e soprattutto «statica» dell’ambiente naturale, che oggi è assai diffusa. Da un lato la natura benigna e incontaminata, dall’altra le distruzioni perpetrate dall’uomo con le sue attività derivanti dalle conoscenze scientifiche. Ma se è vero che i disastri prodotti dalle attività umane sono una dolorosa realtà, è anche vero che
proprio dal progresso delle conoscenze è derivato un sensibile aumento della qualità della vita dell’uomo in gran parte
del mondo.
Del resto la visione di una natura ideale, immutabile, dotata di
un clima perennemente stabile e con stagioni che si susseguono sempre uguali, fa parte del mito piuttosto che della realtà.
È solo da circa diecimila anni che la temperatura terrestre ha
assunto un valore più alto dei periodi precedenti ed è diventata relativamente stabile, ed è proprio in questo periodo che
l’uomo ha inventato l’agricoltura, la città e via dicendo. Ma
anche nel corso degli ultimi millenni, e non certo per responsabilità dell’uomo, il clima è cambiato: l’umido e fertile Sahara, per esempio, si è trasformato in un arido deserto; mille anni fa la Groenlandia era una terra verde che i vichinghi poterono colonizzare, ma in seguito i loro discendenti furono condotti all’estinzione da un graduale peggioramento del clima;
qualche secolo addietro il clima in Europa era assai più freddo di oggi, tanto che, come narrano le cronache, d’inverno il
Po gelava e poteva essere attraversato da carri di mercanzie.
Quanto alla benignità della natura, basterà ricordare le eruzioni vulcaniche e gli impatti sulla Terra di grandi meteoriti,
che provocarono estinzioni di massa delle specie viventi. A
uno di questi ultimi, peraltro, dobbiamo particolare considerazione dato che segnò la fine del dominio dei sauri e l’inizio
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di quello dei mammiferi, aprendo così la strada alla comparsa dell’Uomo.
Ma vi sono altre cause ancora, più sottili e profonde, per le
quali la scienza è oggi considerata estranea.
La perdita dell’unità della cultura
e il conflitto fra scienza e senso comune
L’unità tradizionale della cultura, che da sempre aveva accompagnato lo sviluppo della società umana, si è infranta
nel secolo scorso, come pose in evidenza C.P. Snow in un memorabile saggio1 del 1959, ancora oggi fonte di riflessioni2. Le
conseguenze sono pesanti. Infatti secondo il grecista Bruno
Gentili «Uno dei motivi cardine dello stato di crisi della cultura contemporanea è il fatto che sembra essersi perduta la
pretesa ad un sapere unitario. La vita della nostra società è
come fratturata in due mondi contrapposti che tendono a
ignorarsi vicendevolmente e parlano linguaggi diversi: quello scientifico tecnico e quello letterario umanistico»3. Una
delle principali preoccupazioni di Gentili riguardava la preferenza data nella Scuola a una preparazione di natura tecnico-professionale, come causa precipua del crescente fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, inteso soprattutto come
perdita di capacità di riflessione critica e d’inquadramento
storico e di valori di riferimento, nell’inseguimento dell’utile immediato. Ma questo, in realtà, non ha a che vedere né
con l’una né con l’altra delle due culture d’oggi, ma piuttosto con una formazione puramente utilitaristica e perciò priva di validi riferimenti culturali.
Il problema di fondo, in realtà, è un altro, cioè la ricomposizione dell’unità culturale attraverso un armonico bilanciamento dei portati delle due culture, in particolare riconoscendo piena cittadinanza e pieno valore ad entrambe, come
tuttavia non molti «umanisti» sono oggi disposti ad ammettere. Mantenere la separazione fra le due culture, in particolare sottintendendo uno status inferiore per quella scientifica, e continuare nella formazione di personalità prive dell’uno o dell’altro riferimento costituisce un reale pericolo per il
futuro. E questo è certamente un compito primario della
Scuola: una sfida assai difficile da affrontare e certamente
non da risolversi a livello di battaglie per le ore d’insegnamento da assegnare alle diverse discipline.
Ma come si è giunti a questa separazione? Assai probabilmente da quando, attorno all’inizio del secolo scorso, la visione della realtà proposta dalla scienza è mutata profondamente rispetto a quella del rassicurante determinismo di
Pierre Simon de Laplace.
Gli sviluppi della scienza all’inizio del Novecento condussero infatti a un preoccupante, e per molti inaccettabile, allontanamento dal senso comune per il ruolo preminente assunto dai fenomeni casuali rispetto a quelli causali con lo svi24
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luppo delle nuove meccaniche (statistica prima e quantistica
poi), per la perdita del concetto di tempo assoluto con la teoria della relatività, e poi anche con il riconoscimento della
realtà e delle conseguenze del caos deterministico. Mentre
ad ulteriore allontanamento fra scienza e senso comune, con
forti e del resto motivate preoccupazioni anche di natura etica, hanno condotto in epoca più recente gli straordinari progressi delle scienze biologiche.
Alla separazione fra le due culture si è poi accompagnato anche il disincanto verso la scienza. Ha preso inizio quando ci
si è resi conto che la scienza fornisce risposte che non sono
mai definitive, ma sempre provvisorie in quanto suscettibili
di falsificazione; che spesso fornisce più risposte alternative,
ciascuna con un suo diverso grado di fondatezza, e che in
determinate occasioni essa stessa pone l’uomo davanti a
quesiti cui risulta difficile trovare risposta. Il disincanto, d’altra parte, si è trasformato in repulsione da quando certi sviluppi della scienza, in particolare della fisica nucleare, hanno consentito la realizzazione e poi l’impiego di armi di distruzione di massa senza alcun precedente nelle vicende
umane. La radioattività, in particolare, desta sgomento all’uomo comune anche in quanto sfugge completamente ai
nostri sensi e quindi ci appare assolutamente innaturale, come se si trattasse davvero del mostruoso prodotto di una
scienza impazzita. Mentre gli scienziati sanno – ma che siano i soli a saperlo? – che si tratta di un fenomeno assai diffuso in natura, che siamo circondati da sostanze naturali radioattive, ben presenti del resto anche nel nostro corpo, che
l’energia di cui disponiamo proviene tutta, in ultima analisi,
dalle reazioni nucleari che si sviluppano nel Sole e che addirittura lo sviluppo della vita, attraverso l’evoluzione, è debitore ai meccanismi della radioattività.
Inoltre, quanto più la scienza dimostrava il suo potere nelle
applicazioni tecnologiche tanto più cresceva anche il timore
delle conseguenze della sconfitta del naturale da parte dell’artificiale, del resto già prefigurata nei miti e nelle letteratura, dal Golem del rabbino Loew a Frankestein di Shelley e
Ed Hal di Kubrik. Mentre a questi timori si univano quelli di
chi associa il potere della scienza a quello del «grande fratello» orwelliano o anche, nel mondo globalizzato, a quello delle società multinazionali. Insomma con una percezione complessiva della scienza fra alterità e pericolosità.
Le conseguenze
Conseguenza primaria del distacco fra la scienza e la cultura
prevalente, che della scienza ignora i fondamenti epistemologici e soprattutto l’apparato metodologico, ancor più dei
contenuti fattuali, è una perdita netta di razionalità per la so-
1. Charles Percy Snow, Le due culture, Feltrinelli, Milano 1964.
2. Carlo Bernardini, Tullio De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture,
Editori Laterza, Roma 2003.
3. Bruno Gentili, Cultura umanistica e scienza. Un confronto con la grecità, Prolusione al Congresso internazionale di studi classici, Pisa 24-29 Agosto 1989.
cietà nel suo complesso. Avviene così che un patrimonio ricchissimo, che da Galileo in poi aveva ampiamente dimostrato la sua potenza, resta inutilizzato: non soltanto ai fini individuali ma anche a quelli collettivi, quando si consideri il
modestissimo impatto della cultura scientifica, intesa in senso metodologico, sulla conduzione della cosa pubblica da
parte dei governi4.
La perdita di razionalità si manifesta in molti comportamenti, ben oltre la futile fiducia nelle mistificazioni dell’astrologia o di altre superstizioni, come ad esempio la credenza nelle proprietà terapeutiche dei magneti o di certe pietre preziose5. Pensiamo alla fiducia con cui tanti s’impegnano, nel
gioco del lotto, alla rincorsa dei numeri ritardatari, utilizzando magari appositi programmi per calcolatore che aggiungono una nota di alta tecnologia a una scelta demenziale.
Oppure alle mode dietetiche che incessantemente si susseguono con messaggi alternati sul ruolo essenziale o sulla pericolosità di questo o quel tipo di alimento, generalmente
con assai scarsi fondamenti scientifici.
Ma la perdita di razionalità si manifesta in modo particolarmente insidioso, come si è detto prima, nelle valutazioni del
rischio associato all’impiego di determinate tecnologie. E qui
il problema sale di tono perché va a investire la funzionalità
della regola essenziale della convivenza civile, cioè della democrazia. E appare certamente assai più delicato oggi che
nel passato, dato che l’impiego di tecnologie derivate dai
progressi della conoscenza è giunto a permeare la società in
tutti i suoi aspetti con un ruolo destinato a crescere ulteriormente nel futuro. Come si può, insomma, affidare scelte importanti a una comunità sociale priva dei necessari elementi
di giudizio? Non si tratta, certamente, di restringere il diritto a esercitare le scelte ai soli competenti (e sarebbe anche
difficile poi stabilire quali essi siano). Ma piuttosto di fare in
modo di fornire alla generalità della popolazione gli strumenti concettuali e fattuali per scelte oculate.
Gli errori, del resto, si pagano. Un caso esemplare in cui si è
manifestata una sequenza di decisioni disinformate è quello
dell’energia, che dobbiamo approvvigionare all’estero, caso
unico in Europa, per l’87% del nostro fabbisogno, con un
onere finanziario rilevantissimo e con una pericolosa dipendenza da aree geopolitiche instabili. Una delle scelte più rovinose a tal proposito fu quella di non seguire il resto d’Europa nella scelta nucleare, a seguito dell’interpretazione che
il governo dell’epoca volle dare ai risultati del referendum
popolare svoltosi nel 1986 (che peraltro non riguardava l’opzione della chiusura delle nostre centrali). In quell’occasione
scegliemmo di rinunciare a produrre energia nucleare, ma
non certamente a farne uso, dato che il 15% dell’elettricità
che consumiano (impiegata anche nei siti che si proclamano
«denuclearizzati») proviene dalle centrali nucleari di altri
Paesi, non molto lontane dalle nostre frontiere.
Un’altra questione in cui la scarsa cultura scientifica del Paese, e conseguentemente dei suoi governanti si manifesta pericolosamente è quella dei finanziamenti per la ricerca scientifica, che costituiscono un investimento essenziale ai fini del
futuro del Paese. Qui, dato lo stato sottocritico, da decenni,
problemi
dell’impegno pubblico6, qualsiasi riduzione si traduce in
strangolamento. Desta preoccupazione, inoltre, il ventilato
intento di deprimere la spesa per la ricerca di base a vantaggio di quella orientata a risolvere problemi di diretto interesse per il Paese. Queste intenzioni, a prima vista sanissime, rivelano invece pesanti carenze culturali in chi le formula. Perché gran parte delle innovazioni che hanno cambiato la faccia al mondo da due secoli a questa parte – dalla pila di Volta all’elettromagnetismo, dalla penicillina alla superconduttività, dal WWW al sistema di posizionamento globale GPS
– sono il frutto, assai spesso del tutto inatteso7, di ricerche libere, svolte semplicemente per accrescere il patrimonio delle conoscenze umane. E del resto se non si acquisiscono delle conoscenze di base risulta poi assai difficile impiegarle
nelle applicazioni.
Si parla oggi di società dell’informazione, per la ricchezza
delle informazioni a cui tutti hanno sempre più agevole accesso. E anche di società della conoscenza, per il valore essenziale che questa riveste. Ma l’informazione, che oggi c’investe con un flusso crescente, tale addirittura da saturare le
nostre capacità ricettive, non è certamente conoscenza se non
si possiedono gli strumenti concettuali per fare innanzitutto
delle scelte e poi per trasformarla in sapere, non soltanto
operativo ma anche critico.
Le scienze e la scuola
Osserviamo preliminarmente che elementi di cultura scientifica trovano posto nei programmi della Scuola, più o meno a
tutti i livelli e in tutte le sue articolazioni. Tuttavia i risultati
di questa presenza risultano poi generalmente debolissimi,
sia che si consideri la frazione degli allievi che poi intraprende studi universitari in ambito scientifico o tecnico sia
per quanto riguarda, come qui più ci interessa, la generalità
dei diplomati.
Per quanto riguarda i primi, ci si può limitare a osservare
che a fronte di programmi di tutto rispetto, di libri di testo
generalmente ben fatti e di ampia copertura (per fare un
esempio, le 1000-1500 pagine di un tipico corso di Fisica per
4. Gianfranco Legitimo, Giovanni Vittorio Pallottino, Il filo di Arianna, Editoriale
Pantheon, Roma 2001.
5. Del resto anche sul sito Web ufficiale dell’Enel si può trovare una trattazione sulla
cristalloterapia dove si apprende fra l’altro che: «La struttura molecolare delle pietre –
geometricamente perfetta – entra in risonanza nel nostro campo magnetico producendo uno scambio energetico propizio per il nostro benessere».
6. L’impegno dell’Italia nella ricerca scientifica e tecnologica si colloca attorno alla metà
della media europea in termini relativi, sia per spesa che per numero di ricercatori.
7. Le nanotecnologie, uno dei settori di ricerca più promettenti in termini di applicazioni pratiche, hanno origine dall’osservazione del tutto inattesa, compiuta nei laboratori IBM, che la stessa tecnica usata negli ultramicroscopi in grado di osservare la materia con dettaglio al livello degli atomi poteva anche essere usata per spostare queste
particelle costruendo oggetti artificiali di dimensioni atomiche.
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il Liceo scientifico), all’atto dell’ingresso nell’università il livello formativo medio nella matematica e nelle scienze risulta estremamente modesto, negli ultimi anni in particolare tale da richiedere inizialmente precorsi o altri corsi integrativi di base e poi anche un certo abbassamento, rispetto
al passato, del livello dei corsi dei primi anni degli studi
universitari.
Ma l’aspetto più preoccupante, come si è detto, riguarda la
formazione di tutti gli altri, cioè di quelli che non saranno
più esposti a materie scientifiche perché non proseguiranno
gli studi o sceglierannno corsi universitari in altri ambiti. Di
quel poco che rimane nelle teste dei ragazzi dopo la scuola,
quasi nulla riguarda la scienza, nei confronti della quale, anzi, la percezione prevalente è quella di alterità. Il fenomeno,
del resto è ben documentato dai risultati di indagini internazionali da cui emerge che la preparazione degli studenti italiani è particolarmente debole proprio nella matematica e
nelle scienze (OCSE-PISA).
Lasciamo agli esperti del settore la spiegazione di questa
anomala asimmetria, limitandoci a formulare qualche ipotesi. Una di queste riguarda i particolari problemi che deve affrontare l’insegnamento delle scienze con riferimento alle
preconcezioni di «scienza ingenua», o di senso comune, dei
ragazzi, per cui la difficoltà di costruire è accompagnata, anzi preceduta, da quella di smontare. Un altro elemento di difficoltà riguarda i riferimenti usuali della vita comune, inclusi i giornali e la televisione, che offrono solo scarse occasioni
di collegamento con i contenuti delle discipline scientifiche
scolastiche, certamente assai meno frequenti rispetto alle discipline umanistiche. E a ciò si aggiunge l’assorbimento dall’esterno del senso di estraneità della scienza, percepita come
qualcosa di astruso, che non riguarda per nulla la generalità
della gente ma soltanto una ristretta categoria di persone,
dato che si può vivere benissimo facendone a meno. Ma ulteriori difficoltà provengono dalle modalità d’insegnamento
usuali. E qui un punto chiave è il seguente: la scienza va insegnata in modo strettamente disciplinare, cioè mirando a
formare scienziati o ingegneri, oppure con minori preoccupazioni di copertura8, cercando piuttosto di promuovere
qualche forma di alfabetizzazione scientifica della generalità
degli allievi?
Le proposte che vengono avanzate nel dibattito attualmente
in corso sull’adeguamento della didattica delle scienze sono
numerose e a volte anche, come è naturale, contrastanti fra
loro. Un esempio di contrasto è quello fra l’approccio «divulgativo» seguito da Hazen e Trefil9 per cui l’alfabetizza26
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zione scientifica riguarda la conoscenza che occorre per capire i problemi di interesse per la società, l’approccio «operativo», per cui invece non si può comprendere la scienza se
non si fa della scienza, e l’approccio più «disciplinare», sostenuto per esempio dall’American Association for the Advancement of Science, secondo il quale la scienza va insegnata così come è praticata al meglio. E d’altra parte, considerando
gli impetuosi progressi delle conoscenze negli ultimi decenni, il problema diventa spesso quello di decidere cosa non insegnare piuttosto che cosa insegnare, anche a fronte di programmi che spesso sono concepiti come fotocopie in versione ridotta di quelli universitari.
Ma il problema diventa anche quello di «come» insegnare.
A tal proposito viene messa in discussione l’idea che la
scienza costituisca un corpo di conoscenze, essenzialmente
teoriche, che sic et simpliciter va trasmesso agli allievi, ma
viene anche criticata la presentazione della scienza come
una serie sistematica e dettagliata di risposte, senza che vi
sia reale comprensione delle domande corrispondenti, e soprattutto con scarso livello di motivazione da parte dei discenti.
Un punto chiave, infatti, è quello di suscitare la curiosità,
l’interesse e la motivazione degli allievi, senza trascurare
anche gli aspetti di natura ludica. A questo fine possono giocare un ruolo essenziale i collegamenti fra i contenuti disciplinari e l’esperienza diretta dei ragazzi, in particolare quella legata alla vita comune, che offre più che ampie occasioni
al riguardo, cercando cioè di spiegare «perché accade ciò
che accade»10. E sarebbero utilissimi anche i collegamenti
con le tecnologie, che per una somma di motivi (valgono ancora certi pregiudizi di antica origine? Vi sono debolezze conoscitive a tal proposito?) non trovano generalmente molto
spazio nell’insegnamento delle scienze. L’argomento delle
tecnologie, d’altra parte, offre lo spunto per affrontare una
varietà di problemi di indubbio rilievo scientifico, di grande
rilevanza sociale e con forti riferimenti alle informazioni
provenienti dal mondo dei media, in contesti che sono generalmente interdisciplinari e che consentono anche di esaminare i legami e gli intrecci fra la scienza e la tecnologia.
Ma un ruolo importante è anche quello giocato dall’inquadramento storico e filosofico dei contenuti disciplinari, con
particolare riferimento ai processi, generalmente tutt’altro
che lineari, che hanno condotto allo sviluppo di idee chiave
della scienza o di determinati risultati, come fattore dello
sviluppo di un pensiero critico autonomo. Come è necessario affinché all’alfabetizzazione scientifica si accompagni
anche consapevolezza.
Giovanni Vittorio Pallottino
Università «La Sapienza», Roma
8. A tale proposito si può rifrasare come segue la nota dichiarazione di Peano: «È un
vero delitto contro l’umanità tormentare i poveri alunni ... per assicurarsi che essi sappiano cose che la generalità del pubblico istruito ignora».
9. Robert M. Hazen, James Trefil, Science Matters: Achieving Scientific Literacy, 1990,
trad. it. La scienza per tutti. Guida a una formazione scientifica di base, Longanesi, Milano 1996.
10. Andrea Frova, Perché accade ciò che accade, BUR Rizzoli, Milano 1995.