L`ospite * Quando dal giardino dov`era intento a
Transcript
L`ospite * Quando dal giardino dov`era intento a
L’ospite * Quando dal giardino dov’era intento a piantar fresie, Antonio si girò d’istinto per guardare verso casa e vide l’amico cercare al suo interno, la porta d’ingresso e le finestre erano perennemente aperte, pensò che gli occhi lo stessero tradendo. Per venti lunghi anni aveva atteso con preoccupazione un segno che egli esistesse, da quella lontana mai dimenticata sera d’estate, l’orizzonte turchino, un’aria gradevole che gli frugava tra le maniche larghe e il collo aperto della camicia. Nell’imminenza di partire per il Brasile, Anselmo lo aveva chiamato dall’aeroporto per dirgli che andava via per un intero anno, forse due. Anselmo partiva così all’improvviso, la sua stimata competenza di ingegnere lo portava lontano, nella terra degli indios, con l’incarico importante di dirigere la costruzione di una grande diga sul Rio delle Amazzoni. Antonio aveva vissuto la partenza dell’amico come avesse perso una parte importante di sé, l’unica del resto con cui intratteneva un costante e intenso dialogare. Incredulo, Antonio si lasciò cadere dalle mani bulbi e piantatoio e si diresse verso casa. Quando s’incontrarono sulla soglia dell’ingresso, il silenzio dell’amico subìto e sofferto per vent’anni non impedì ad Antonio di abbracciarlo. 7 Giulio Rapposelli ‒ Anselmo, tu qui! È incredibile. ‒ Ti trovo bene, so che me ne vorrai per non essermi fatto vivo per tanto tempo, ne hai tutto il diritto ‒ disse subito Anselmo. ‒ Ho pensato anche che ti fosse capitato qualcosa ‒ riprese Antonio e sbarazzato del tutto il proprio risentimento lo accolse infine con il cuore largo ‒ ma ora sei qui, vieni, siediti ‒ gli dice conducendolo verso il tavolo candido del giardino ‒ cosa ti offro? ‒ Un tè va bene ‒ rispose senza fretta Antonio che era per metà distante dalla circostanza in cui si trovava. Anselmo non si era dilungato nel raccontare gli eventi della sua vita trascorsa in giro per il mondo, nonostante l’amico ne fosse avido e glielo chiedesse a più riprese. Così, nel bel mezzo del loro parlare chiese ad Antonio se poteva ospitarlo per qualche tempo. Alla disponibilità pronta dell’amico, Anselmo precisò: ‒ Pensavo di alloggiare in giardino, preferisco, le notti ormai sono calde; vi troverò di certo un ricovero ‒ e già pensava a quel bell’arancio che si trova in fondo al giardino, sotto il quale aveva giocato da bambino quando la sua famiglia andava a far visita a quella di Antonio. Evitando poi di far caso allo stupore dell’amico che di sicuro pensava alle strane abitudini che si possono prendere vivendo in paesi lontani, si giustificò ‒ ho bisogno di star solo, di riflettere. Antonio, seppure ancora nel pieno della meraviglia lo rassicurò: ‒ Nessuno ti disturberà, puoi contarci. 8 L’ospite All’estremo margine del giardino, al confine con il bosco, si ergeva un grande albero d’arancio, il cui tronco già alla base era diviso in quattro braccia possenti, mentre in alto e tutt’intorno le foglie formavano un tetto fitto e impenetrabile. Prima che fosse sera, Anselmo attraversò due delle quattro grandi braccia dell’arancio come fossero le colonne di un tempio ed in quel medesimo istante tra quelle quattro splendide verdi colonne, sotto il tetto di foglie profumate Anselmo spalancò finalmente le porte dei sensi e la sua anima. Anselmo in quei vent’anni aveva vissuto. Aveva costruito ponti e dighe, deviato il corso di fiumi, tracciato strade nel deserto per raggiungere oasi, aveva anche amato molte donne ma nel profondo lo stringeva una malinconia, come se quella parte più importante di sé fosse stata esclusa dal suo vivere, lasciata inascoltata. Ora all’interno dell’arancio, in quell’abbraccio di rami e fronde, sentì spandersi nel petto e invaderlo un’innocenza, un’umiltà, ed esse erano come porte che aprendosi gli consentivano di accedere a nuove consapevolezze, a nuove esperienze. Tutto ciò era nuovo per Anselmo. Quella tensione per il cambiamento, quella volontà di rinnovamento del pensiero e dell’anima gli avrebbero consentito di sentire e vivere in modo nuovo, profondo, più legato ai bisogni dell’anima che a quelli della cultura angusta e deviata del suo tempo. Egli aveva avuto fin dall’infanzia una disposizione a credere nell’immutabilità delle cose. Così aveva creduto a lungo che scolari e insegnanti dovessero restare 9 Giulio Rapposelli tali per sempre con quella inaccettabile disparità di sapere e di potere. Non bastava che la ragione gli mettesse continuamente sotto gli occhi che tutto cambia e molte cose a volte anche rapidamente. Il succedersi del giorno e della notte, il rincorrersi delle stagioni, la cadenza dei compleanni, la morte del verdone che teneva chiuso in gabbia e poi della nonna, ma soprattutto le partenze. Egli a tutti questi segni di mutamento non dava molto peso, mentre quella sua profonda convinzione poggiava su un tipo particolare di immutabilità che rafforzava il suo insolito modo di pensare. Il lupo non restava forse lupo? la quercia, quercia e il rosmarino, rosmarino? E il cielo stellato non era forse sempre lo stesso, come i muri vecchi della sua casa? Anselmo vede scivolare davanti a sé tra l’erba un serpente, non ha paura, prova solo curiosità. L’animale gli era passato vicino con il lungo corpo sinuoso. Non vi era stato un rumore, non uno schivarsi reciproco, un attimo dopo, di quell’incontro, non restava il minimo segno. La fugacità di quell’esperienza gliene ricordava un’altra, straordinaria, vissuta in Africa, anch’essa consumata d’un lampo. Anselmo quella notte aveva raggiunto Maresh nella sua casa che già distante dalla città s’inoltrava nella savana, dove nelle notti di luna arrivano i ruggiti delle tigri in amore. Fu una notte magica, di quelle con quell’atmosfera che sai non si ripetono. Si viveva la perfezione. Distesi sul letto, nudi, fianco contro fianco e tra me e il cielo blu della notte carico di stelle, vi era lei, il suo corpo agile di seta, le sue gambe snelle 10 L’ospite sollevate ad arco su cui si riverberava la luna. In quegli attimi ogni desiderio, ogni necessità erano appagati. Quella notte seppi che esisteva un’altra dimensione del vivere. La mattina dopo, nel cantiere della grande strada che avrebbe attraversato il deserto, nella polvere sollevata dai camion che portavano pietre ed asfalto e il rombo delle ruspe e del rullo compressore, era tutto finito. Giunta la notte, Anselmo si era fatto un giaciglio di foglie e vi si era accomodato. Solo molto tardi, dopo avere ascoltato a lungo sé e il mondo che gli era intorno fu sopraffatto dal sonno. A volte l’anima di un uomo deve giungere allo stremo perché egli decida di raccogliere le forze e puntare verso la liberazione. E l’anima di Anselmo lontano dalla sua terra, dall’Italia, in quel vagare per tanti anni nei tre continenti, intento solo a gettar ponti e costruire dighe, a deviare il corso di fiumi, a collegare mari con foreste, isole con terraferma, oasi con capitali poste oltre il deserto, e le notti bastavano appena a riprendere le forze, si era prosciugata mano a mano fino a diventare secca come pietra di cava. Così, col passare del tempo Anselmo aveva perso se stesso e quella capacità di agire pieno che dà senso e gioia al vivere. Per questo era tornato nella sua terra, dal suo amico fraterno, per ritrovarsi, nutrire finalmente l’anima affamata e vivere. In tutti quegli anni, egli si era sentito sempre più alla mercé di quegli stati d’animo in cui ci si percepisce molto simile ad un’alga che galleggia, priva di coscienza, senza passato né futuro, privo di un 11 Giulio Rapposelli progetto che vada al di là del quotidiano e che conti e dia un senso più ampio al vivere. Quella mattina il sole l’aveva sorpreso nel sonno entrando a fatica nella fitta chioma dell’arancio. L’odore delle foglie aveva colpito gradevolmente le sue narici come fosse un profumo salutare, un tonico che lo rendesse più forte. Ripiegato su di sé come una fiera tra le foglie, aveva sentito battere il proprio cuore. Si mise ad ascoltarlo con timore; fu allora che ebbe la certezza di vivere e seppe allo stesso tempo quanto fosse fragile la vita. Rivolgendo l’attenzione su di sé, egli si rendeva consapevole della gran quantità d’organi e dell’estrema complessità delle funzioni che agivano all’interno del proprio corpo. A volte egli si concentrava su una di esse, a volte le ascoltava tutt’insieme, quando ciò accadeva ne nasceva un suono che era l’autentica melodia della vita. In certe ore del giorno, dall’arancio arrivava un mormorio, era Anselmo che dialogava con l’albero che l’ospitava, oppure con i vegetali nati lì intorno, oppure con gli insetti che gli facevano costante compagnia. Il giorno che volgeva al termine era stato un rincorrersi di emozioni forti e di esperienze inattese e straordinarie. Esse l’avevano fatto vibrare di commozione. La luce si sollevò oltre le cime del bosco per defluire poi gradualmente oltre l’orizzonte. Fu in quell’incertezza, in quel tempo sospeso tra giorno e notte che prese a cadere la pioggia. Scese sulla terra assetata, eppoi giù fin nel letto del torrente situato nel cuore del bosco. Bagnò gli alberi e le verdure, così che le lumache tornassero a vivere e 12 L’ospite le rane a saltar fuori dalla terra al primo sfarsi in fanghiglia. Per ore scese benefica su ogni cosa. Tutto si lasciò abbracciare ed abbracciò la pioggia. Ed anche Anselmo la benedisse, e si lasciò bagnare ed abbracciare, e seppe più che mai come l’acqua dispensasse la vita e disponesse alla pace. La lasciò scendere su di sé, sul viso, sulle mani, mormorò alla pioggia che l’amava. Ormai erano diversi giorni che Anselmo viveva all’interno dell’albero. Come pure aumentava di giorno in giorno la sua sensibilità. Un albero con quattro grandi fusti è una pluralità, e Anselmo a momenti gli si rivolgeva come ad una famiglia. ‒ In te c’è la perfezione – diceva ‒ perché sei ad un tempo uno e quattro. Anselmo lo osservava. Il primo tronco guardava ad occidente, così la sua chioma non vede il sole del mattino versare l’oro sul mondo, ma il pomeriggio l’ha tutto su di sé e se ne inebria e poi lo rincorre con passione e malinconia e se ne scalda fino a quando l’ultimo raggio non cade oltre la grande pianura che si immerge nel mare. Nel crescere spinge i suoi rami verso l’esterno, evitando così gli altri tre fusti che gli sono vicini per non soffocarli e farsi a sua volta del male. E poi è anche accorto a crescere proprio quanto gli altri, per non sbilanciare l’albero in una delle quattro direzioni. Il secondo gli è di fronte. Tutte le sue foglie e la linfa che vi corre all’interno sono in attesa del mattino. Quando arriva, tutto se stesso flette verso oriente, è un saluto, un atto religioso in cui si conferma il rinnovarsi e la continuità della vita. Tutto ciò senza il bisogno di pensiero per essere vissuto. 13