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Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari
Centro Studi Nazionale
CORSO DI FORMAZIONE
PROFESSIONALE
Dispense per moduli didattici standard
Centro Studi Nazionale ANACI
ANACI – Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari
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INDICE
1
Il condominio in generale
(Carlo Patti)
pag.
4
2
L’amministratore
(Luigi Salciarini)
pag.
22
2
bis
La Legittimazione processuale passiva dell’amministratore di condominio
alla luce della attuale giurisprudenza delle Sezioni Unite
(Tortorici, Ginesi, Piscitelli)
pag.
42
3
L’assemblea
(Ferdinando della Corte - Fabio Gerosa)
pag.
46
4
Il Regolamento di condominio – Le Tabelle millesimali
(Marco Saraz)
pag.
56
5
Le controversie
(Bruno Piscitelli)
pag.
70
6
Le innovazioni
(Antonio Mele)
pag.
76
7
I contratti (appalto e assicurazione)
(Benedetta Coricelli e Alfonso Del Sorbo)
pag.
84
8
La ripartizione delle spese
(Massimo Ginesi)
pag.
94
9
Gli impianti condominiali
(Gian Luca Samoggia)
pag.
110
10
Contabilità e rendiconto condominiali
(Carlo Parodi)
pag.
122
11
La gestione dei dipendenti
(Antonio Pazonzi)
pag.
134
12
Problematiche fiscali
(Pietro Abbiati)
pag.
150
13
Aspetti relazionali e formazione psicologica
(Giuseppe D’Amore)
pag.
162
14
Elementi di tecnica delle costruzioni – piscine
(Francesco Burrelli)
pag.
168
15
Compravendita e locazione immobiliari
(Gian Vincenzo Tortorici - Francesca Raia)
pag.
180
16
Evoluzione del mercato immobiliare e property management
(Maurizio Voi)
pag.
204
17
Cenni di Diritto penale e processuale
(Floria Carucci)
pag.
210
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MODULO N. 1
Il condominio in generale
(Carlo Patti)
1.1 - Comunione e condominio: Collocazione sistematica.
Il condominio negli edifici è un istituto relativamente moderno, disciplinato dalla legge solo a
seguito del fenomeno di progressiva aggregazione delle persone in edifici di certe dimensioni, di
regola nei centri urbani.
L’istituto della comunione o comproprietà fra più soggetti è invece conosciuto fin dai tempi
antichi; era conosciuto il fenomeno della comunione che si verifica quando due o più soggetti sono
contemporaneamente proprietari del medesimo bene.
Nel nostro Codice Civile, risalente al 1942, la parte relativa alla disciplina del diritto di proprietà
contiene norme che regolano per la gran parte la proprietà individuale.
Un gruppo di norme, contenute negli articoli da 1100 a 1116 c.c., disciplina quella particolare
forma di proprietà che è la comunione.
Un altro gruppo di norme, contenute nei successivi articoli da 1117 a 1139, regola invece quella
particolare forma di comunione, che è il condominio.
Il concetto di comunione è molto vicino al fenomeno del condominio dal quale, però, si discosta
per alcune importanti differenze che è opportuno evidenziare.
La comunione si ha quando due o più soggetti sono proprietari del medesimo bene, inteso nella
sua interezza, ciascuno per una quota ideale del tutto; il condominio, invece, prevede in aggiunta
la contemporanea esistenza di beni di proprietà esclusiva (piena ed assoluta) con beni o parti
comuni dell’edificio, rispetto ai quali ogni singolo condomino è comproprietario di una quota ideale.
La coesistenza di questi due insiemi è inscindibile per quanto appresso si dirà sul vincolo che li
lega.
Il condominio negli edifici può definirsi nel codice civile come una particolare e speciale forma di
comunione.
E’ importante evidenziare che nell’ultimo articolo di quelli applicabili al condominio (1139) è
previsto che “per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme
sulla comunione in generale.“
Tale norma oltre a rendere applicabili al condominio alcune delle regole previste per la
comunione, dimostra lo stretto collegamento che esiste tra le due fattispecie, grazie al quale si
ritiene che il condominio costituisca una ipotesi particolare di comunione.
Per completare il quadro normativo applicabile al condominio occorre ricordare le norme
previste negli articoli dal 61 al 72 delle “disposizioni per l’attuazione del codice civile”. Si tratta di
regole specifiche aventi lo stesso valore di quelle contenute nel codice civile, le quali, peraltro, si
occupano di regolare importanti aspetti della gestione dell’immobile.
Nel tradizionale concetto di condominio si verifica una divisione della proprietà per “piani
orizzontali” l’uno all’altro sovrapposti: nell’edificio, infatti, le porzioni di piano in proprietà esclusiva
sono sovrapposte sui diversi piani ed insistono sul medesimo suolo.
Altra differenza tra la comunione ed il condominio è che in quest’ultimo le quote di comproprietà
sull’insieme dei beni comuni devono rispecchiare determinati criteri proporzionali legati alle
possibilità di godimento delle parti comuni a vantaggio delle unità immobiliari di proprietà esclusiva.
Appare opportuno evidenziare che il condominio è caratterizzato da un elemento oggettivo, o
materiale, ed un elemento soggettivo, o personale. Il primo elemento riguarda la consistenza fisica
del condominio, mentre il secondo si riferisce alle persone titolari dei diritti sulle parti comuni
dell’edificio. Le norme di legge sul condominio riguardano di volta in volta questi due aspetti.
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Va aggiunto che, a completamento della disciplina posta dalla legge, il condominio trova
un’altra fonte di norme nel Regolamento, che costituisce la sua legge “interna” e che verrà trattato
in apposito capitolo di queste dispense.
1.2 - L’elemento oggettivo - Beni e impianti comuni e le proprietà esclusive: l’art. 1117 c.c.
Nel condominio, come detto, coesistono due insiemi distinti di beni: da una parte quelli comuni,
e, dall’altra parte, quelli in proprietà esclusiva (appartamenti, negozi, locali, posti auto, ecc.).
Proprio il primo insieme di beni costituisce l’oggetto del condominio ed è composto dai beni
indicati dall’art. 1117 c.c. che, testualmente, recita:
“Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei piani o porzioni di piani di un edificio, se il
contrario non risulta dal titolo:
1. Il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, i lastrici solari, le scale, i
portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell’edificio
necessarie all’uso comune;
2. I locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento
centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;
3. Le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento
comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, e, inoltre le fognature e i canali di scarico, gli
impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto
di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini”.
La giurisprudenza ha chiarito che l’elencazione fatta da tale norma non è tassativa ma
“meramente esemplificativa”, con la conseguenza che può ben esistere un bene e/o un impianto
che, pur non indicato in tale elenco, sia da considerarsi comune (vale a dire, condominiale).
Per di più, nello stesso art.1117 si prevede che un “titolo contrario” possa disporre in maniera
diversa: possa, cioè qualificare come esclusivo un bene che, altrimenti, dovrebbe essere
considerato appartenente a tutti i condomini.
La giurisprudenza ha ampiamente affrontato le problematiche derivanti dalla lettura dell’art.
1117 c.c. al fine di individuarne l’esatto significato e funzionamento, giungendo a fissare i seguenti
principi:
a) presunzione di comunione un bene che risulta compreso nell’elenco dell’art. 1117 c.c. si
“presume” comune.
b) condominio parziale il bene, pur essendo compreso in tale elenco, può non essere
condominiale se la sua “destinazione strutturale e oggettiva” (cioè, l’utilità fornita
indipendentemente dal comportamento dei condomini) è a favore solo di una parte del
fabbricato.
In tale ultima ipotesi, i proprietari della parte del fabbricato sono i soli proprietari del bene la cui
utilità è a loro destinata.
Per fare un esempio, la scala compresa in una delle due ali del fabbricato appartiene soltanto ai
proprietari delle porzioni di piano che utilizzano la scala come accesso.
c) verifica della destinazione funzionale se un bene non è compreso nell’elenco dell’art. 1117 c.c.,
la sua proprietà va individuata attraverso la “destinazione strutturale e oggettiva”, con la
conseguenza che il bene sarà condominiale se fornisce utilità a tutto il fabbricato (e viceversa).
d) “titolo contrario” un titolo contrario (cioè un contratto stipulato con l’accordo unanime di tutti i
partecipanti al condominio) può disporre diversamente rispetto all’art. 1117 c.c. stabilendo, per
esempio, che un bene a destinazione condominiale appartenga solo ad alcuni condomini (come
nel caso del lastrico solare esclusivo).
Il suddetto titolo contrario può essere individuato nel “primo atto di trasferimento di un’unità
immobiliare dall’originario unico proprietario a un altro soggetto” (Cass. 30 agosto 2004, n.
17397), oppure negli “atti di acquisto dei singoli appartamenti o delle altre unità immobiliari” ed
anche nel “regolamento di condominio accettato dai singoli condomini.” (Cass. 16 febbraio
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2005, n. 3102).
In ogni caso, il titolo contrario deve essere approvato da tutti i condomini.
1.2.1 - I singoli beni ed impianti condominiali
Riguardo all’elenco di beni e di impianti contenuto nell’art. 1117 c.c. è necessario svolgere
qualche ulteriore precisazione.
Infatti, sulle tipologie indicate nella norma la giurisprudenza ha svolto un ampio lavoro di
approfondimento, conseguendo importanti risultati di chiarezza dei quali è necessario dar conto in
quanto è solo con riferimento ai beni ed agli impianti comuni che l’assemblea o l’amministratore
possono decidere o compiere i necessari atti di gestione.
Premettendo che, in tale materia, stante la notevole eterogeneità dei casi, non è mai possibile
esaurire tutte le possibili fattispecie, qui di seguito saranno illustrate alcune delle ipotesi più
importanti.
1.2.2 - Beni necessari all’uso comune (art. 1117 n.1 c.c.)
Il suolo - Indicato nell’art. 1117 c.c. come bene comune, non è il semplice “livello di campagna”
bensì, più esattamente, il piano dove poggiano le fondamenta dell’edificio posto, il più delle volte,
al di sotto della superficie visibile del terreno. Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che “ suolo
su cui sorge l’edificio” deve intendersi la porzione di terreno su cui viene ad insistere l’intero
fabbricato e, immediatamente, la parte inferiore di esso, conseguendone che i condomini sono
comproprietari non della superficie al livello di campagna, che, a causa dello sbancamento e della
costruzione del fabbricato, più non esiste, ma della superficie del terreno sulla quale posano le
fondamenta” (Cass. 24 agosto 1998, n. 8346).
Il sottosuolo - Elemento assai importante in quanto nello stesso vengono spesso installati
numerosi impianti (condominiali e/o privati) è individuato in base all’art. 840 c.c.
In applicazione di tale norma “lo spazio sottostante al suolo su cui sorge un edificio in
condominio, in mancanza di titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini,
deve considerarsi di proprietà comune, indipendentemente dalla sua destinazione” (Cass. 19
marzo 1996, n. 2295).
Le fondazioni - Con tale termine ci si riferisce alla parte della struttura dell’immobile che ha il
compito di sorreggere l’edificio.
Si tratta, solitamente, di pilastri o plinti di cemento armato posti nel terreno i quali, peraltro, sono
da considerarsi condominiali a prescindere dalla loro posizione (potrebbero, infatti, trovarsi anche
all’interno di locali esclusivi, evidentemente sotterranei, non perdendo, per tale circostanza, la
natura condominiale).
Per la loro esatta individuazione in loco è spesso necessario l’intervento di un tecnico che
sappia individuare esattamente lo specifico manufatto.
I muri maestri - In tal caso, l’art. 1117 c.c. intende riferirsi esattamente ai “muri portanti”, cioè
alle pareti che, allo stesso modo delle fondazioni, svolgono il compito di sorreggere lo stabile.
Anche in questo caso è ininfluente la posizione del bene che rimane condominiale anche se posto
all’interno di proprietà privata.
Negli edifici moderni (realizzati con struttura in cemento armato) non vi sono muri portanti e la
loro funzione è svolta dai c.d. “ritti e architravi”, i quali, di conseguenza, sono da considerarsi
comuni.
In quest’ultimo caso, i muri perimetrali dell’edificio (c.d. facciate o pannelli esterni) sono
equiparati ai muri portanti (e, quindi, qualificati come condominiali) in quanto forniscono un’utilità a
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tutto il fabbricato.
In questi termini si sono pronunciati i Giudici, precisando che “nella nozione di muri maestri di
cui all’art. 1117 c.c. rientrano i pannelli esterni di riempimento fra pilastri in cemento armato, i
quali, ancorché la funzione portante sia assolta principalmente da pilastri ed architravi, sono
anch’essi eretti a difesa degli agenti atmosferici e fanno parte della struttura e della linea
architettonica dell’edificio” (Cass. 9 febbraio 1982, n. 776)
La struttura di copertura del fabbricato - La struttura posta alla sommità dell’edificio ed avente la
funzione di copertura è condominiale, sia essa composta da un tetto (composto da elementi
inclinati o arcuati) sia da un lastrico (piano orizzontale, accessibile o meno).
E’ importante precisare che la copertura appartiene a tutti i condomini a prescindere dalla
posizione delle proprietà esclusive. E’ comune, quindi, anche ai proprietari delle porzioni di piano
non ad esso sottostanti.
La questione riveste importanza quando si tratta di eseguire il restauro di una sola falda del
tetto che copre solo una parte delle unità immobiliari sottostanti.
Le scale - Sono comuni in quanto permettono l’accesso ai locali comuni ed alle porzioni di piano
in proprietà esclusiva. Sono condominiali anche tutti gli elementi che le compongono (gradini,
ringhiere, parapetti, struttura portante, piani di collegamento, pianerottoli) nonché qualsiasi
accessorio sia posto a loro servizio o abbellimento.
Non è corretto suddividere la proprietà delle scale per piani, ma esse sono in comproprietà tra
tutti i condomini per tutta la loro estensione.
I portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici - Sia il portone, sia gli ambienti che servono da
accesso al fabbricato e da collegamento con le scale sono considerati comuni. Le caratteristiche
costruttive di tali opere sono, ancora una volta, irrilevanti: ciò che conta ai fini della loro
condominialità è sempre e solo la funzione svolta a favore di tutto il fabbricato.
I cortili - Non sono costituiti solo dall’area scoperta posta all’interno del fabbricato, ma anche
dalla colonna d’aria ad essa sovrastante e suscettibile di utilizzazione separata. In considerazione
di ciò, la funzione del cortile è duplice e consiste, da una parte, nell’utilizzo della superficie, e,
d’altra parte, nel fornire aria e luce ai vani che su di esso si affacciano.
Il Supremo Collegio, infatti, ha affermato che “nell’individuazione delle cose comuni
contemplate dall’art. 1117 c.c., per cortile deve intendersi lo spazio scoperto, e quindi la superficie
calpestabile, con la sovrastante colonna d’aria, la cui primaria funzione è quella di assicurare aria
e luce alle unità immobiliari che su di essa si affacciano” (Cass. 26 gennaio 1998, n. 714).
1.2.3 - Locali destinati ai servizi comuni del condominio (art.1117 n.2 c.c.)
I locali per i servizi - Sono ricompresi nell’insieme dei beni comuni i locali destinati ai servizi
comuni dei quali viene riportata un’elencazione avente, anche in questo caso, carattere
esemplificativo; “i locali per la portineria e l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il
riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune”.
La norma opera una distinzione tra la proprietà dei locali e quella degli impianti in essi
contenuti. Può, quindi, accadere che il locale e l’impianto appartengano a soggetti diversi, come si
verifica, per esempio, quando, nel concreto, un impianto condominiale è situato in un locale di
proprietà esclusiva.
1.2.4 - Beni e impianti che servono all’uso comune (art.1117 n.3 c.c.)
I servizi comuni - Viene indicata una presunzione di comproprietà per “le opere, le installazioni, i
manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i
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pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature, e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua,
per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli
impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini”.
E’ importante sottolineare come l’impianto è comune a prescindere dalla sua posizione
all’interno del fabbricato e che è da considerarsi tale fino al punto in cui si dirama verso la proprietà
esclusiva.
Tale particolare regola si giustifica con il fatto che, dopo la diramazione, l’impianto fornisce
utilità solo ad una parte dell’edificio, ed in particolare ai locali di proprietà esclusiva del singolo
condòmino. Il concetto è ribadito dalla Cassazione, secondo la quale “devono ritenersi
condominiali anche gli impianti allocati in spazi di proprietà individuale, purché destinati al servizio
dell’intero edificio” (Cass. 23 giugno 1960, n. 913).
I principi su esposti valgono per qualsiasi tipo di impianto, compreso quello idrico, quello
fognario, l’impianto per il riscaldamento e di ascensore.
1.2.5 - Il rapporto tra proprietà comuni e proprietà esclusive. La destinazione
funzionale e strumentale. L’indivisibilità
Come visto, nel condominio coesistono due insiemi di beni: comune ed esclusivo.
Tali insiemi, tuttavia, non sono indipendenti tra loro ma sono legati da un vincolo specifico che
determina ben precise conseguenze giuridiche e, quindi, anche l’applicazione di regole particolari.
Si afferma, infatti, che l’insieme delle cose ed impianti comuni compresi nell’edificio è
strumentale al godimento delle proprietà esclusive, con destinazione stabile e necessaria dei primi
al servizio delle seconde.
In altri termini, i beni comuni hanno una stabile “destinazione funzionale” a favore dei beni
esclusivi, la quale, peraltro, è riconosciuta dalla legge negli articoli 1118 e 1119 c.c. nei quali viene
stabilita l’impossibilità di sottrarsi al pagamento delle spese per la conservazione e anche la
indivisibilità dei beni comuni.
Ad esempio, le scale, come l’ascensore, servono al godimento e alla fruizione degli
appartamenti posti ai piani superiori, il cortile è destinato a dare aria e luce a tutti gli appartamenti,
l’impianto centralizzato di riscaldamento serve a rendere gradevole la permanenza in casa nei
mesi freddi, e via dicendo.
Sotto una prospettiva diversa, si può affermare, perciò, che la quota di comproprietà spettante a
ciascun condomino sulle parti comuni costituisce un accessorio inseparabile della proprietà
esclusiva sulla porzione di piano, al cui valore millesimale è commisurata.
Per la medesima ragione le parti comuni, essendo legate da un nesso di necessaria
strumentalità al godimento delle parti di proprietà esclusiva, non sono divisibili, fatte salve le
eccezioni previste dalla legge. Con la divisione delle parti comuni, si andrebbe infatti a vanificare
l’essenza stessa del condominio che è proprio basato sulla relazione di accessorietà fra parti
comuni ed esclusive.
E’ per tale ragione che si ritiene comunemente che la vendita dell’unità immobiliare non possa
essere separata dalla contemporanea cessione dei diritti sulle parti comuni.
Naturalmente questa necessaria e stabile coesistenza tra proprietà esclusive (in proprietà
indviduale) e parti comuni (comproprietà) non impedisce ai condomini di godere e di disporre delle
rispettive proprietà in modo pieno ed esclusivo. Nel far ciò, i partecipanti al condominio incontrano
due limiti che sono rappresentati rispettivamente dall’obbligo di non invadere le sfere private degli
altri partecipanti, e dal divieto di eseguire nel piano o porzione di piano di proprietà esclusiva opere
che rechino danno alle parti comuni dell’edificio (art. 1122 c.c.).
Il condominio, così come delineato dalla legge, è formato dunque da una struttura complessa
nella quale coesistono beni soggetti ad un regime giuridico differenziato (cioè, a regole
parzialmente diverse) e in cui l’interesse collettivo tende a prevalere sugli interessi individuali dei
singoli. Le regole tipiche della proprietà individuale (insistente sulle porzioni di piano di cui i singoli
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sono titolari) convivono, infatti, con quelle proprie della comunione (che ha ad oggetto i beni e gli
impianti di cui l’intera collettività condominiale usufruisce), dando vita a reciproche interferenze.
1.2.6 - Costituzione e scioglimento del condominio
Il condominio si costituisce (cioè, viene ad esistenza per la legge) in molteplici modi.
Il caso più ricorrente è quello in cui l’originario ed unico proprietario (solitamente, il costruttore)
trasferisce la proprietà delle singole unità immobiliari (porzioni di piano) che compongono
l’immobile a soggetti terzi che, in tal modo, divengono condomini a tutti gli effetti di legge.
La nascita del condominio è un effetto automatico di legge e non è necessario che venga
“certificata” da uno specifico atto (nè privato, nè pubblico/amministrativo).
E’ importante sottolineare che, verificatasi automaticamente la costituzione del condominio, si
applicano (allo stesso modo, automaticamente) tutte le regole previste dagli artt. 1117/1139 c.c.
Nella pratica, i modi più frequenti sono tre:
1) un singolo soggetto, unico proprietario dell’edificio composto da più unità immobiliari, vende la
prima porzione di piano;
2) più soggetti acquistano un terreno, vi edificano un immobile e assegnano a ciascuno, in
proprietà esclusiva, una porzione di piano;
3) più soggetti ereditano pro indiviso un edificio composto da più unità immobiliari e,
successivamente, procedono ad una divisione (per atto notarile) attribuendo le singole unità
immobiliari a ciascuno degli eredi.
Così come nasce, il condominio può sciogliersi.
L’ipotesi è prevista dall’art. 61 delle disposizioni di attuazione del codice civile secondo cui
“qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari
diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio
può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato”.
Lo scioglimento, dunque, potrà essere realizzato solo se l’edificio o il gruppo di edifici possano
dividersi in parti aventi caratteristiche di edifici autonomi. Si tratta, quindi, di una caratteristica
strutturale ed architettonica dell’edificio indipendente dalla volontà dei condomini.
Per far ciò occorre una decisione dell’assemblea condominiale da adottarsi con la maggioranza
degli intervenuti in assemblea rappresentanti almeno 500 millesimi.
Lo scioglimento del condominio può anche essere chiesto al Giudice, a patto, tuttavia, che i
condomini richiedenti costituiscano almeno un terzo dei comproprietari della parte dell’edificio della
quale si chiede la separazione.
1.2.7 - Il condominio parziale, il condominio minimo ed il supercondominio
A corollario di quanto sopra, va precisato che nel condominio, è possibile che alcuni beni e/o
impianti comuni appartengano in comproprietà solo ad alcuni dei condomini.
Ciò può avvenire in due distinte ipotesi:
a) il bene o l’impianto è destinato (oggettivamente e strutturalmente) a servizio ed utilità di una
parte dell’edificio;
b) un titolo contrario attribuisce la proprietà di un bene o di un impianto ad un gruppo dei
condomini.
Tale eventualità è ormai riconosciuta pacificamente dalla giurisprudenza secondo la quale
“deve ritenersi legittimamente configurabile la fattispecie del condominio parziale ex lege tutte le
volte in cui un bene risulti, per obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio
e/o al godimento in modo esclusivo di una parte soltanto dell’edificio in condominio, parte oggetto
di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento
di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene” (Cass. 25 settembre 2006, n.
20873).
Nel caso di bene in condominio parziale, le decisioni sulla gestione e sulla conservazione
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spettano solo ai condòmini che partecipano alla comunione parziale e non agli altri.
Il “condominio minimo”, invece, si verifica quando la collettività condominiale è composta da due
soli partecipanti.
Su tale particolare figura, vi è stata a lungo incertezza se applicare le norme sulla comunione
ordinaria (artt. 1110/1116 c.c.) o la disciplina sul condominio (artt. 1117/1139 c.c.), le quali ultime
comportano rilevanti conseguenze specialmente in ordine alle maggioranze minime per le
deliberazioni dell’assemblea.
Il dilemma è stato di recente risolto dalla Suprema Corte la quale ha precisato che “la disciplina
dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio
minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti... con riguardo alle disposizioni che
regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l’impossibilità di
applicare, in tema di funzionamento dell’assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna
norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all’unanimità”
(Cass., sezioni unite, 31 gennaio 2006, n. 2046).
Ulteriore ipotesi è quella del c.d. condominio complesso o supercondominio, che si verifica
quando un insieme di edifici, di solito costituiti in condomini autonomi, hanno in comune beni,
servizi, locali o spazi aperti, tutti funzionali all’utilizzazione e al godimento, da parte dei singoli
partecipanti, delle parti di loro esclusiva proprietà.
Il supercondominio consente la razionalizzazione dell’uso e della gestione collettiva degli spazi
e dei servizi destinati a soddisfare esigenze comuni di coloro che abitano in edifici distinti.
Il fenomeno è in espansione, specialmente nell’odierna realtà edilizia, che vede spesso
nascere, nelle zone di espansione urbana alle periferie delle grandi città, complessi residenziali in
cui trovano posto, oltre alle usuali strutture abitative, anche giardini, parchi giochi, piscine, impianti
ed attrezzature sportive.
Dal punto di vista del diritto, la fattispecie è stata riconosciuta dalla giurisprudenza che ne ha
stabilito i connotati e le regole di gestione, affermando che “la nozione di condominio in senso
proprio è configurabile non solo nell’ipotesi di fabbricati che si estendono in senso verticale ma
anche nel caso di costruzioni adiacenti orizzontalmente (come in particolare le cosiddette case a
schiera); per i complessi immobiliari, che comprendono più edifici, seppure autonomi, è rimessa
all’autonomia privata la scelta se dare luogo alla formazione di un unico condominio, oppure di
distinti condomini per ogni fabbricato, cui si affianca in tal caso la figura di elaborazione
giurisprudenziale del supercondominio, al quale sono applicabili le norme relative al condominio in
relazione alle parti comuni, di cui all’art. 1117 c.c., come ad. es. le portinerie, le reti viarie interne,
gli impianti dei servizi idraulici o energetici dei complessi residenziali, mentre restano soggette alla
disciplina della comunione ordinaria le altre eventuali strutture, che sono invece dotate di una
propria autonomia, come per es. le attrezzature sportive, gli spazi d’intrattenimento, i locali di
centri commerciali inclusi nel comprensorio comune” (Cass. 18 aprile 2005, n. 8066).
1.3 - L’elemento “soggettivo”
Accanto alla parte materiale ed oggettiva della realtà condominiale si colloca un altro aspetto di
non minore importanza, che è quello soggettivo, ossia quello relativo al condòmino, titolare di diritti
esclusivi o comuni, e di molteplici obblighi.
1.3.1 - Diritti e doveri dei condomini ed utilizzazione delle parti e servizi comuni
L’art. 1102 c.c. che, come visto, sebbene dettato in materia di comunione trova applicazione
anche in ambito condominiale (art. 1139 c.c.), dispone che “ciascun partecipante può servirsi della
cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso secondo il loro diritto”.
Il singolo condomino, quindi, ha diritto di utilizzare qualsiasi bene o impianto comune ma, nel far
ciò, è tenuto a rispettare i limiti previsti dalla suddetta norma.
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Infatti, da una parte non può usare il bene per fini diversi da quelli corrispondenti alla sua natura
ed alla sua qualità (per esempio, non è consentito il parcheggio sulle zone verdi), e, dall’altra parte,
deve consentire un uso quanto meno paritario agli altri compartecipanti (per esempio, costituisce
un abuso illegittimo occupare gli spazi destinati a parcheggio in maniera prevaricante,
impedendone l’utilizzo agli altri condomini).
L’art.1102 c.c., secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale, consente al
condòmino di usare la cosa comune in modo da ritrarne ogni possibile e lecita utilità, ed anche
un’utilità peculiare o più intensa rispetto a quella della generalità dei condòmini.
Ciò deve pur sempre avvenire nel rispetto del triplice limite posto dalla legge: il divieto di
alterare decoro estetico dell’edificio, il divieto di pregiudicare la statica e la sicurezza dell’edificio e
il divieto di impedire agli altri condòmini di usare la cosa comune secondo il proprio diritto, nonché
il divieto di alterare la destinazione della cosa comune.
La norma consente al singolo condomino anche l’effettuazione (in via autonoma e senza
autorizzazione dell’assemblea) di modificazioni o migliorie ai beni ed impianti comuni purchè nei
limiti suddetti e senza pregiudicare la stabilità, il decoro e la sicurezza dello stabile (come previsto
anche dall’art. 1120 c.c.).
Laddove il condòmino travalichi questi limiti imposti dalla legge, la modifica deve ritenersi
illegittima se non autorizzata dall’assemblea.
Mentre la disposizione di cui sopra riguarda l’utilizzo delle cose comuni, l’art.1122 c.c.,
impedisce poi al singolo condòmino di eseguire nella propria unità immobiliare esclusiva opere che
possano recare danno alle parti comuni.
1.3.2 - Il condomino apparente
La c.d. teoria del “condomino apparente” afferisce alla problematica della individuazione dei
soggetti legittimati alla partecipazione delle riunioni condominiali e, di conseguenza, obbligati alla
corresponsione degli oneri necessari per la gestione del condominio. Essa presuppone che taluno
si comporti, in maniera costante ed inequivoca, quale condomino, così da indurre gli organi
condominiali a ritenere in buona fede che tale condotta sia conforme alla situazione di diritto. Si
può, sinteticamente, affermare, che ad una giurisprudenza favorevole all’apparenza se ne è
sostituita una, più recente, di segno nettamente opposto.
Riguardo alle spese è stato però puntualizzato (Cass. n. 6187/94) che è passivamente
legittimato, rispetto all’azione giudiziale per il recupero della quota di competenza, il vero
proprietario della porzione immobiliare e non anche chi possa apparire tale (come uno dei coniugi
che curi personalmente ed attivamente la gestione della proprietà dell’altro coniuge) difettando, nei
rapporti fra il condominio ed i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l’operatività del principio
dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dei terzi in buona fede.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza dell’8 aprile 2002, n.
5035, hanno sostanzialmente sgombrato il campo dalle polemiche negando ogni valore alla teoria
dell’apparenza e sancendo la prevalenza dei princìpi di pubblicità ed effettività. La conseguenza,
nient’affatto trascurabile, di un simile orientamento è che l’amministratore del condominio dovrebbe
effettuare costantemente ricerche presso gli organi preposti al fine di garantire l’aggiornamento
dell’anagrafe condominiale.
L’amministratore deve farsi carico dell’attività necessaria per accertare la titolarità del diritto di
proprietà del cespite presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari a nulla rilevando la mala fede
del soggetto che si comporta da condomino ma che disconosce tale qualità solo nel momento in
cui viene chiamato al pagamento degli oneri condominiali.
1.3.3 - Il supercondominio
Il “supercondominio” è un tipo particolare di comproprietà e si verifica allorquando esista una
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pluralità di edifici-condomìni i quali, facendo parte di complessi residenziali aggregati di più o meno
vaste dimensioni, hanno anche spazi e servizi comuni come viali di accesso e di transito, impianti
di illuminazione, di scarico fognario, piscine o servizi sportivi, spazi verdi attrezzati, portierato e
vigilanza e, in generale quant’altro sia destinato come accessorio al funzionamento del gruppo di
edifici.
La comunione dei beni in supercondominio si realizza invece fra tutti coloro che, essendo
proprietari di una unità immobiliare all’interno degli edifici facenti parte del complesso, hanno
anche la compartecipazione all’utilizzo e al godimento dei beni e dei servizi comuni al complesso
di edifici.
Deve inoltre essere ben distinta la comproprietà delle parti comuni del condominio quale singolo
edificio da quella delle parti del supercondominio.
E’ ben possibile che si realizzi una fattispecie di supercondominio anche quando due autonomi
edifici in condominio, abbiano in comune un solo bene, come il viale di accesso o la centrale
termica.
Norme applicabili - La giurisprudenza si è posta il problema di quale sia la normativa applicabile
al supercondominio; è sostanzialmente concorde nel ritenere che al supercondominio, vadano
applicate le norme sul condominio e non quelle sulla comunione in generale. Si ritiene infatti che al
supercondominio possano essere estese tali norme trattandosi di una fattispecie analoga a quella
del condominio.
Regolamento - E’ possibile che il supercondominio abbia un regolamento delle parti comuni
supercondominiali. Tale regolamento può essere fornito all’origine dal costruttore del complesso a
coloro che acquistano un’unità immobiliare in uno dei condomìni che ne fanno parte (regolamento
contrattuale) ovvero può essere deliberato dai partecipanti alla comunione in un momento
successivo.
Nel regolamento del supercondominio potranno essere contenute tutte le norme per il
funzionamento di questa comunione, dall’assemblea dei partecipanti all’amministrazione, dalla
ripartizione delle spese all’amministrazione e via dicendo.
Ove il Regolamento della comunione supercondominiale non esista ovvero, pur esistendo, non
detti certe norme per il suo funzionamento, si applicano le norme sul condominio (artt.1117-1139
c.c.).
L’assemblea - Non si deve incorrere nell’equivoco di considerare che il supercondominio è una
comunione “fra edifici” o “fra condomìni” e che l’assemblea è formata dagli amministratori dei
condomìni che fanno parte del supercondominio. La Corte di Cassazione ha stabilito che è
radicalmente nulla la clausola di regolamento del supercondominio che stabilisce che l’assemblea
sia formata dagli amministratori delle singole palazzine: ciò perché le norme che riguardano la
composizione ed il funzionamento dell’assemblea non sono derogabili (Cass.6-12-2001 n.15476).
Se l’assemblea è formata da tutti i partecipanti alla comunione supercondominiale è necessario
pertanto che tutti ricevano una regolare convocazione contenente l’elencazione delle materie da
discutere.
Riparto delle spese - La comproprietà dei beni comuni comporta che le spese di manutenzione
ordinaria e straordinaria, deliberate ed approvate dall’assemblea, debbano essere ripartite in
qualche modo tra tutti i comproprietari. Se esiste un Regolamento contrattuale del
supercondominio è probabile che in esso venga indicato un criterio di ripartizione delle spese.
Talvolta i Regolamenti supercondominiali indicano una ripartizione di spese per gruppi di
condòmini: viene attribuita ad esempio una percentuale ai residenti della Palazzina A, un’altra ai
residenti della palazzina B e via dicendo. La ripartizione interna della spesa attribuita a ciascun
gruppo può essere poi commisurata ai millesimi di appartenenza all’edificio (Tab.A), oppure
distinta in parti uguali fra i partecipanti del gruppo.
Altre volte il Regolamento stabilisce che le spese del supercondominio si ripartiscono in parti
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uguali fra tutti i partecipanti.
Se il Regolamento non esiste, ovvero non disciplina la ripartizione delle spese, si devono
applicare, come visto, le norme sul condominio. La conseguenza è che le spese, in mancanza di
un diverso criterio, si ripartiscono in parti uguali, come dettato dall’art.1101 comma 1 c.c.
L’amministrazione del supercondominio - Da quanto detto fin qui appare chiaro che il
supercondominio comporta obblighi e oneri di gestione non indifferenti e tanto maggiori quanto più
è esteso e complesso il supercondominio. Sarà allora opportuno provvedere alla nomina di un
amministratore che andrà scelto dall’assemblea dei partecipanti al supercondominio con i criteri
dettati dal Regolamento supercondominiale, oppure, in mancanza, dalle norme in materia di
condominio. L’amministratore del supercondominio curerà la gestione delle parti supercondominiali
e, in generale avrà poteri ed obblighi conformati su quelli dell’amministratore di condominio, fatta
sempre salva ogni diversa previsione del Regolamento supercondominiale.
1.4 - Posti auto e parcheggi
Consideriamo l’argomento dei parcheggi e dei posti auto da un punto di vista strettamente
condominiale, trattando alcuni casi che si verificano nella pratica e che sono stati considerati dalla
giurisprudenza.
1.4.1 - Parcheggio abusivo della vettura nel cortile condominiale
E’ un’ipotesi tutt’altro che rara quella del condòmino che parcheggia la propria vettura nel cortile
condominiale (non adibito a parcheggio) per lunghi periodi. La Corte di Cassazione, con sentenza
24-2-2004 n.3640 ha affermato che tale condotta costituisce un abuso poiché manifesta
l’intenzione del condòmino di occupare in modo stabile una parte dello spazio comune in via
esclusiva. Tale condotta è contraria all’art.1120 c.c. che vieta al condòmino di alterare la
destinazione d’uso del bene e di impedirne l’uso agli altri condòmini. Nel caso in esame la sosta
continua in uno spazio limitato è stata ritenuta illegittima in quanto abusiva.
1.4.2 - Chiusura del posto auto in box
Ci si è chiesti se sia possibile, per il condòmino titolare esclusivo di un posto auto nell’area
condominiale riservata a parcheggio, recintare lo spazio ovvero trasformarlo in box. La Corte di
Cassazione (Sent.5933/91) ammette tale recinzione, ove ciò non sia vietato dal Regolamento
condominiale e sempre che tale modifica non entri in conflitto con i limiti posti dall’art.1102 cod.civ.
Quando però tale modifica comprometta o alteri le facoltà di utilizzazione da parte degli altri e in
particolare violi la percorrenza, l’aerazione, l’illuminazione, la facilità di manovra, essa non è
consentita.
1.4.3 - Delimitazione del posto auto nel cortile comune
La destinazione di una parte del cortile comune a posti auto (delimitati a mezzo di strisce
bianche) e l’assegnazione in uso esclusivo a ciascun condòmino di un posto auto significa solo
consentire un uso più intenso, specifico ed esclusivo della cosa e non comporta invece
assegnazione in proprietà della porzione di spazio comune, neanche se essa viene delimitata da
strisce di confine (Cass.22-11-2000 n.15108).
1.4.4 - Regolamentazione turnaria e delibere in merito
L’uso promiscuo del bene comune consiste nella possibilità di utilizzo anche contemporaneo del
bene da parte di tutti i condòmini secondo la loro quota di godimento. Laddove per le oggettive
dimensioni del bene ciò non sia possibile, occorre stabilire un uso turnario del bene mediante
l’elaborazione di un regolamento interno da predisporsi ad hoc, che stabilisca in modo chiaro le
modalità di utilizzazione del bene in capo a ciascuno.
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Il problema che in merito all’uso turnario è stato dibattuto in giurisprudenza è che esso possa
ledere il diritto che i condòmini hanno al pari uso del bene comune: ”Il pari uso della cosa comune
non postula necessariamente il contemporaneo uso da parte di tutti i partecipanti alla comunione
che resta affidata alla concreta regolamentazione per ragioni di coesistenza. La nozione di pari
uso del bene comune, pertanto, non è da intendersi nel senso di uso necessariamente identico o
contemporaneo, fruito cioè da tutti i condomini nell’unità di tempo e di spazio, perché se si
richiedesse il concorso simultaneo di tali circostanze si avrebbe la conseguenza dell’impossibilità
per ogni condòmino di usare la cosa comune tutte le volte che questa fosse insufficiente a tale
fine. La disciplina turnaria dei posti auto, quindi, lungi dal comportare l’esclusione di un condòmino
dall’uso del bene comune, è adottata per disciplinare l’uso di tale bene in modo da assicurarne ai
condòmini il massimo godimento possibile nell’uniformità di trattamento e secondo le circostanze
[…]” (Cass. 16-6-2005 n.12873).
In sostanza il godimento turnario, lungi dall’essere lesivo del diritto dei condòmini al pari uso del
bene, regola invece l’utilizzo dello stesso in modo da trarne ordinatamente il massimo utile
possibile nei casi in cui l’utilizzo contemporaneo è oggettivamente irrealizzabile.
1.4.5 - Utilizzo dei posti auto in funzione dei millesimi di proprietà
Il caso è tutt’altro che raro. I condomini ritengono di avere maggiore diritto all’utilizzo dei posti
auto condominiali in funzione della maggiore quota millesimale. Vale a dire che chi ha più millesimi
ha diritto di avere il posto più grande o quello più comodo per parcheggiare.
La giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere il diritto di utilizzo dei posti auto in
comunione pro indiviso in senso paritario anziché in senso millesimale. Si segnala a tal proposito
che la Corte di Cassazione con sentenza 7-12-2006 n. 26226 ha statuito: “La quota di proprietà,
quale misura del diritto di ogni condòmino, rileva relativamente ai pesi e ai vantaggi della
comunione ma non in ordine al godimento che si presume uguale per tutti, come ribadisce
l’articolo 1102 cod.civ. con il porre il limite del pari uso per cui nel caso di garage in comunione pro
indiviso, non potendosi considerare equivalenti i posti macchina sotto il profilo della comodità di
uso, il criterio di utilizzazione va stabilito, salvo accordo fra i condòmini, nel rispetto dell’articolo
1102 citato, il quale impedisce che alcuni condòmini facciano un uso, sotto il profilo qualitativo,
diverso rispetto agli altri: da qui l’illegittimità della delibera condominiale impugnata, nel fissare a
tempo indeterminato la situazione di vantaggio degli uni e di svantaggio degli altri”.
1.4.6 - Posto auto per disabile
Il problema è quello della tracciabilità di uno spazio riservato ai disabili nel tratto di terreno
comune antistante il condominio.
La materia è regolata dall’art.24 L.5-2-92 n.104 e dall’art.8.2.3 del D.M. Lavori Pubblici del 14-61989 n.236 che sanciscono il diritto del portatore di handicap alla fruizione di parcheggio riservato
posizionato nell’immediata adiacenza dell’ingresso all’edificio.
Tali disposizioni, poiché dirette alla salvaguardia di esigenze fondamentali della persona affetta
da disabilità poiché attuano il principio di solidarietà sociale di cui all’art.2 della Costituzione,
devono ritenersi prevalenti sulla disciplina privatistica in tema di utilizzo degli spazi comuni
condominiali di cui agli artt.1102 e 1120 c.c.
1.5 - Usucapione
Definizione - L’usucapione è un modo di acquisto del diritto di proprietà o di altro diritto reale
limitato sulla cosa. Essa si compie con il decorso di un periodo di tempo durante il quale il soggetto
esercita indisturbato il “possesso” sulla cosa.
Il possesso è il potere di fatto sulla cosa, corrispondente nel suo contenuto al diritto di proprietà,
o di altro diritto reale limitato come la servitù, ecc. Mentre il possesso è una situazione di fatto, la
proprietà è una situazione di diritto. Spesso infatti il titolo giuridico è dissociato dal fatto del
possesso.
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L’usucapione è un mezzo con il quale l’ordinamento giuridico, trascorso un certo numero di
anni, attribuisce al possessore il diritto corrispondente alla signoria esercitata sulla cosa.
Il diritto che per tanto tempo non è stato fatto valere nei confronti del possessore viene
cancellato o subisce una compressione.
Il decorso del tempo infatti acquista un peso tale da prevalere sulle ragioni del proprietario
rimasto inerte.
1.5.1 - Requisiti per l’usucapione
Per l’usucapione occorrono alcuni requisiti, quali:
1) Il possesso, come l’abbiamo sopra definito.
2) Il decorso del tempo, stabilito dalla legge: normalmente il periodo è di venti anni, ma in alcuni
casi particolari il periodo è più breve.
3) L’assenza di interruzioni nel possesso: affinché si compia l’usucapione è fondamentale che il
possesso si svolga per il tempo previsto in modo assolutamente pacifico e senza interruzioni,
che possono derivare sostanzialmente da atti di esercizio del diritto da parte del titolare (ad
esempio la domanda giudiziale di restituzione), o il riconoscimento del diritto fatto dallo stesso
possessore, o la privazione del possesso per oltre un anno (per fatto naturale o per fatto altrui).
1.5.2 - L’usucapione nel condominio
Normalmente i beni comuni sono fruiti dai condomini secondo l’ormai noto rapporto di “peculiare
utilità strumentale” delle parti comuni in favore delle unità immobiliari esclusive.
Il godimento delle parti comuni in capo a ciascun condòmino deve svolgersi secondo la propria
quota di comproprietà.
Tale godimento comprende anche le ipotesi in cui il godimento del bene sia particolare o più
intenso rispetto a quello degli altri condòmini
La Suprema Corte ha precisato che l’utilizzazione da parte del condomino, rispettando i limiti
visti, può avere luogo anche in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri
compartecipanti e in ogni caso l’uso più intenso o diverso da parte di uno dei partecipanti alla
comunione rispetto agli altri non vale di per sé a mutare il titolo del possesso e quindi ad attrarre la
cosa comune o parte di essa nella disponibilità del singolo comunista.
Comunque l’uso della cosa comune da parte del singolo condomino non può estendersi
all’occupazione permanente di una parte del bene comune, che potrebbe determinare l’
usucapione della parte occupata. Tuttavia non sono rari i casi in cui un condòmino arriva ad
utilizzare il bene comune in modo talmente esclusivo da privare completamente gli altri condòmini
del godimento secondo la loro quota.
Non è sufficiente che gli altri comproprietari si siano limitati ad astenersi dall’uso della cosa
(cosiddetta tolleranza), e non è sufficiente che gli atti di gestione compiuti dal condomino siano
quelli ordinariamente consentiti al comproprietario ovvero quelli che consistano in modificazioni per
ottenere il miglior godimento del bene.
Per potersi parlare di usucapione in tali casi occorre infatti che il condòmino abbia compiuto atti
di gestione incompatibili con la possibilità di godimento altrui, in modo tale da evidenziare, al di
fuori di una possibile altrui tolleranza, una inequivoca volontà di possedere il bene in via esclusiva,
impedendo agli altri ogni atto di godimento o di gestione. Ad esempio il condomino si appropria di
un locale comune apponendovi un lucchetto di cui detiene solo lui la chiave.
1.6 - Consorzi residenziali
Definizione - In materia condominiale la figura del Consorzio è un tipo minore che si riferisce a
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quei casi in cui un gruppo di proprietari di unità immobiliari in un complesso edilizio, sceglie di
gestire una serie di servizi collettivi nella forma consortile anziché in quella condominiale
disciplinata dalle norme del codice civile. Si tratta di una realtà ancora nuova, non molto trattata
dalla giurisprudenza se non per pochi punti salienti.
Il consorzio è previsto dal codice civile nella parte che disciplina le società (artt.2602 e ss. c.c.)
ed è una forma di organizzazione temporanea fra imprese per la disciplina o lo svolgimento di
determinate fasi dell’attività di impresa.
Tale figura è stata poi trasfusa e presa in prestito nella realtà condominiale con riferimento a
quelle ipotesi sopra dette di proprietà di servizi collettivi fra i partecipanti a complessi edilizi di
grandi dimensioni.
In sostanza la gestione di servizi e beni colettivi in comune viene disciplinata nella forma del
consorzio privilegiando un elemento “associativo di gestione” fra proprietari, piuttosto che
l’elemento della “comunione di godimento”.
Va però sottolineato che mentre nel consorzio vero e proprio è importante l’attività di impresa
finalizzata al profitto economico, il consorzio è finalizzato unicamente al godimento di beni in
comune.
Struttura del consorzio - I consorziati sono vincolati da un Regolamento (c.d. regolamento
consortile o statuto consortile) che viene richiamato nei singoli atti di acquisto delle rispettive unità
immobiliari e che ciascun consorziato si impegna a rispettare.
L’assemblea è anche in tale caso l’organo sovrano che adotta le decisioni nell’interesse
generale ed elegge l’organo di amministrazione, che nel Consorzio assume il nome di Consiglio di
amministrazione. Il Consiglio di amministrazione è formato da più consiglieri (è un organo
collegiale) ed è presieduto da un Presidente che normalmente ha poteri di direzione e di
rappresentanza del Consorzio anche in giudizio.
Disciplina applicabile - Da quanto precede potrebbe sembrare che il consorzio sia una
complicazione nella portata giuridica del godimento di beni o servizi in comune in un complesso
residenziale.
Dobbiamo però pensare, che, stante anche l’assenza di norme specifiche in tale materia,
l’autonomia negoziale dei comproprietari sia libera di decidere il godimento di un bene nella forma
ritenuta più consona. Tanto più che il consorzio di tipo residenziale è ancora una figura del tutto
nuova e in fase di formazione sulla base delle esigenze di gestione che si manifestano nel
momento attuale.
Così posta la questione, l’unica normativa applicabile al consorzio di tipo residenziale non potrà
certamente essere quella societaria dei consorzi di imprese (finalizzata come detto all’attività di
impresa ed al profitto economico che ne deriva), ma dovrà necessariamente essere quella dettata
in materia di godimento comune di un bene, come appunto disposta dalle norme in tema di
condominio.
In un primo momento la giurisprudenza (Cass. 18-7-84 n.4199) aveva ritenuto che il consorzio
fosse una forma mista tra un elemento associativo ed un elemento di godimento di beni comuni.
In un secondo momento la Corte di Cassazione si è orientata verso una più marcata
applicazione delle norme sulla comunione.
Ad oggi la giurisprudenza ha corretto il proprio indirizzo ed è nettamente orientata nel ritenere
che alla fattispecie del consorzio residenziale, fermo restando che si tratta di una figura del tutto
atipica e non appartenente alle forme societarie dell’attività di impresa, si applicano le norme
dettate in tema di condominio e non quelle sulla comunione.
1.7 Cooperative edilizie
Definizione - Le società cooperative sono un particolare tipo di società caratterizzate dal
cosiddetto “scopo mutualistico”, ossia si propongono la finalità particolare di svolgere la loro attività
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non per il lucro e il profitto in sé (come invece avviene per le società commerciali), ma per
soddisfare essenzialmente i bisogni dei soci mediante la collaborazione fra i soci stessi per il
raggiungimento dello scopo sociale.
Le cooperative edilizie sono un tipo particolare di cooperative, regolate da norme speciali, che
hanno lo scopo precipuo di provvedere alle esigenze abitative dei soci mediante la realizzazione di
beni immobili ed edifici costituiti da unità immobiliari che, in un momento successivo alla loro
realizzazione vengono assegnati ai soci in proprietà.
I partecipanti alla cooperativa edilizia si riuniscono in tale forma essenzialmente perché
interessati all’acquisto di una casa.
Vicende ulteriori e passaggio alla forma condominiale - Successivamente alla realizzazione
dell’immobile la cooperativa stessa procede all’assegnazione individuale degli alloggi prenotati dai
soci ed al frazionamento del mutuo indiviso eventualmente stipulato per le realizzazione
dell’immobile.
Una volta completati tali adempimenti la cooperativa ha esaurito il proprio oggetto sociale ed è
costituito il condominio vero e proprio, formato dai cessionari degli alloggi e della quota parte di
beni ed aree comuni.
Le obbligazioni già gravanti sulla cooperativa si trasferiscono sui soci-condòmini.
Da notare che per la costituzione del condominio derivante da cooperativa non occorrono
particolari formalità: il condominio esiste per il solo fatto della assegnazione delle unità immobiliari
e non necessita di atti formali. Tuttavia occorre fare attenzione alla presenza di un Regolamento
condominiale e che esso sia stato debitamente trascritto presso i registri immobiliari. Talvolta i
condomìni di alloggi edificati in cooperativa continuano ad utilizzare il Regolamento fornito dalla
cooperativa stessa e le tabelle di ripartizione delle spese ad esso allegate.
E’ assai importante verificare quindi che il Regolamento del condominio abbia i caratteri
“contrattuali” ossia che esso sia approvato da tutti i condomini in assemblea totalitaria oppure sia
stato richiamato e approvato nei singoli atti di acquisto.
Occorre inoltre verificare che esistano le necessarie tabelle millesimali, e che le stesse siano
tuttora rispondenti alle esigenze dei condòmini in relazione alla vita della nuova collettività
condominiale.
1.8 - Le distanze nel condominio
Definizione - Il concetto di distanze legali nel codice civile è legato alla regolazione dei rapporti
fra proprietà vicine o contigue allo scopo di garantire la pacifica convivenza ed il rispetto di
esigenze di igiene e salubrità oggi comunemente sentite.
Se la proprietà privata è il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”
esso deve però esercitarsi “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento
giuridico”. A questo importantissimo concetto enunciato dal Codice del 1942 si è poi aggiunto il
dettato della Costituzione repubblicana che, sancisce la “funzione sociale” della proprietà.
Ecco allora che l’esercizio delle facoltà proprietarie viene a subire delle limitazioni necessarie e
funzionali al raggiungimento di tale obiettivo.
Così vengono poste dal codice civile, tra le altre, norme sulle distanze minime da osservare fra
le costruzioni (art.873 c.c.), sulle distanze minime da rispettare per gli alberi, i canali e i fossi, i
pozzi, le cisterne, le fosse e i tubi, per le fabbriche e i depositi nocivi e pericolosi (artt.873-899 c.c.).
Altro gruppo di norme relative alle distanze legali è formato dagli artt.900-907 che regolano il
diritto del proprietario di godere di aria e luce, nel rispetto dell’esigenza di discrezione nei confronti
del vicino.
Questi limiti legali, in tema di distanze minime, possono essere derogati o modificati solo su
accordo tra vicini ovvero per usucapione o per destinazione del padre di famiglia.
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Utilizzo delle parti comuni e distanze legali - L’art.1102 c.c. consente al condòmino di usare la
cosa comune in modo da ritrarne un’utilità anche peculiare o più intensa rispetto a quella della
generalità dei condòmini, ma ciò pur sempre nel rispetto dei limiti posti dal rispetto del decoro,
della statica, e del pari diritto degli altri di usare la cosa comune nei limiti della propria quota,
nonché dal divieto di alterare la destinazione della cosa comune.
A prescindere da questi limiti, il Regolamento condominiale, in deroga all’art.1102 c.c., può
anche vietare di modificare la cosa comune da parte del singolo condòmino, ovvero stabilire
ulteriori e più specifici limiti.
Le eventuali limitazioni poste dal Regolamento all’uso dell’unità immobiliare esclusiva possono
anch’esse riflettersi sulle facoltà connesse all’uso delle cose comuni: si pensi ad esempio al locale
adibito a ristorante con conseguente installazione di impianti di ventilazione e di canne fumarie. Il
divieto regolamentare di fare un certo uso dei locali commerciali si riflette anche sul diritto di
utilizzare le cose comuni.
Il condòmino può apportare a proprie spese alla cosa comune le modificazioni necessarie al
miglior godimento della stessa, ma tali modificazioni sono soggette ai limiti di cui sopra.
A tutela delle parti comuni in caso di violazioni dell’art.1102 c.c. è possibile esperire una tutela
petitoria (cioè di restituzione del bene allo stato preesistente) e una tutela possessoria (di tutela del
possesso in capo agli altri condòmini). In ogni caso è fatto salvo il risarcimento del danno
eventualmente derivante da un indebito uso della cosa comune.
Contrasto fra le norme sull’utilizzo della parti comuni e quelle in tema di distanze - Talvolta le
norme sulle distanze e quelle sull’utilizzo dei beni condominiali confliggono.
Il condòmino può, ad esempio, utilizzare legittimamente il muro comune per apporvi dei tubi nel
rispetto dell’art.1102 c.c., ma può trovarsi a ledere il diritto del vicino al rispetto delle distanze
minime; nella fattispecie quelle imposte dall’art.889 c.c.: il tubo in questione quindi potrà
legittimamente essere installato sul muro comune, nel rispetto della distanza minima di un metro
(art.889 comma 2 cod.civ.), ma se lo spazio disponibile non è sufficiente si porrà il problema se sia
consentito o meno collocare il tubo: l’art.1102 c.c. lo consentirebbe, l’art.889 c.c. no.
Il problema da risolvere è quale delle norme deve prevalere: in sostanza, vince chi vuole
utilizzare il bene comune (nel rispetto limiti consentiti), oppure chi vuole imporre il rispetto delle
distanze minime di legge?
Soluzione del contrasto - Per risolvere il contrasto occorre fare riferimento alle pronunce della
giurisprudenza che in sostanza, e salvo quanto appresso si dirà per le finestre (o vedute) è
allineata sul concetto seguente.
Ove, in materia condominiale, non sia possibile conciliare l’applicazione delle norme in materia
di utilizzo consentito del bene comune con il rispetto delle distanze legali minime, prevale
l’applicazione delle norme dettate per il condominio. Queste norme sono infatti disciplina speciale
che, in caso di contrasto, prevalgono nell’applicazione rispetto a quelle generali dettate dal codice
civile in tema di distanze (Cass.II 9-11-2001 n.13852).
In altri termini per poter stabilire se entrambi i gruppi di norme siano applicabili, ovvero se le
norme in materia di condominio prevalgano su quelle in tema di distanze occorre avere riguardo
alla situazione concreta, ed in particolare alla concreta struttura dell’edificio, per verificare se essa
consenta una applicazione armonica di entrambi i gruppi di norme ovvero se imponga la
preferenza della disciplina condominiale per incompatibilità con quella dettata in tema di distanze
legali.
1.9 - Le servitù
La servitù consiste in un peso imposto ad un fondo (ossia un bene immobile) per l’utilità di un
altro fondo appartenente a diverso proprietario.
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Tralasciando le molteplici distinzioni normalmente trattate in dottrina, vanno evidenziati alcuni
elementi fondamentali:
a) Appartenenza dei fondi a proprietari diversi. Se due fondi appartengono al medesimo
proprietario non può esistere la servitù.
b) Realità e predialità delle servitù. Esse devono avere ad oggetto un peso imposto su un fondo
per l’utilità di un altro fondo, indipendentemente da chi siano di volta in volta i proprietari dei due
fondi. Se il peso viene imposto alla persona del proprietario non saremo di fronte ad una
servitù, bensì ad un’obbligazione.
c) Contiguità dei fondi servente e dominante. I due fondi devono essere contigui, ma non
necessariamente confinanti, al fine dell’esistenza della servitù.
1.9.1 - Art.1102 c.c. e servitù nel condominio
Con riferimento alla realtà condominiale, per inquadrare la materia delle servitù bisogna partire
in primo luogo dal concetto che nel condominio i beni immobili di proprietà esclusiva costituiscono
beni giuridicamente distinti da quelli di proprietà comune.
In sostanza il condominio è una particolare forma di comunione dove in capo ai partecipanti si
assommano la proprietà dell’unità immobiliare individuale e quella pro quota delle parti comuni
destinate ad uso servizio e godimento delle prime.
In secondo luogo occorre tenere ben presente che, se i beni comuni possono essere utilizzati
dal singolo condòmino in modo da ritrarne le utilità anche peculiari o più intense che siano
consentite nel rispetto però dei limiti imposti dall’art.1102 c.c., è anche vero che, laddove alla
proprietà comune venga imposto un peso che va al di là delle utilità consentite dall’art.1102 c.c.in
favore dell’unità immobiliare esclusiva, sussiste la creazione di una servitù.
In sostanza, per potersi configurare in ambito condominiale una servitù sui beni comuni in
favore di un bene esclusivo appartenente ad un singolo condòmino, è necessario che l’utilità
ricavata dal bene comune sia diversa da quella normalmente derivante dalla destinazione del
fondo comune e fruita da tutti i comproprietari ex art.1102 c.c.
Occorre allora tenere ben presente questo principio generale, come punto di confine del diritto
del condòmino: se egli utilizza il bene comune entro i limiti dell’art.1102 c.c. non crea un rapporto
di servitù.
Se invece impone sulla cosa comune un peso particolare a vantaggio della cosa propria che gli
consenta di godere del bene comune in modo difforme dalla sua destinazione modificandone la
destinazione, ovvero impedendo agli altri condòmini di farne parimenti uso secondo la loro quota
ovvero ancora attraendo la cosa comune nella propria sfera di disponibilità esclusiva, allora dà
origine ad una servitù.
1.9.2 - Costituzione delle servitù
I modi di costituzione delle servitù, ossia i modi in cui può nascere una servitù, sono quelli
contemplati dalla disciplina ordinaria del codice civile.
Il contratto - E’questo il caso della servitù costituita in un momento successivo alla nascita di un
condominio. La costituzione di una servitù per contratto richiede il consenso unanime di tutti i
condòmini (1000 mm) riuniti in assemblea, con atto da compiersi nelle forme richieste dalla legge.
Costituzione per regolamento condominiale - E’ possibile che le servitù vengano imposte già in
forma originaria dal Regolamento condominiale contrattuale. Il regolamento condominiale può
infatti contenere disposizioni che limitano l’uso delle unità immobiliari con l’imposizione di pesi a
carico di alcune unità a favore di altre. In tali casi si hanno appunto delle servitù.
Destinazione del padre di famiglia (artt.1061-1062 c.c.). Si ha questa ipotesi nel caso di un
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fondo, originariamente appartenente ad un unico proprietario e successivamente suddiviso fra
proprietari diversi. Le opere visibili e permanenti che esistono rispettivamente a favore e a carico
dei fondi separati costituiscono la servitù.
Tale servitù, non esistente prima della divisione dei due condomìni, si dice appunto costituita
per destinazione del padre di famiglia.
Usucapione. E’un modo di acquisto delle sole servitù “apparenti”, ossia quelle servitù che
presentano opere visibili e permanenti per il loro esercizio.
Rimandandosi alla trattazione specifica dell’usucapione nel condominio, possiamo qui dire che
l’usucapione del diritto di servitù si compie con il decorso del termine ventennale nel quale si sia
esercitata la situazione di fatto corrispondente al diritto di servitù in modo pacifico e ininterrotto.
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MODULO N. 2
L’amministratore
(Luigi Salciarini)
2.1 - Introduzione
La figura dell’amministratore di condominio è stata disciplinata dal Legislatore nel codice civile,
nel quale ne è prevista la nomina e ne sono regolati facoltà, competenza e doveri.
La ratio di tale espressa previsione risiede nel fatto che si è ritenuta necessaria ed utile la
presenza di un “gestore” ufficiale dei beni comuni. Non è un caso, infatti, che, a determinate
condizioni, la relativa nomina è stata prevista come obbligatoria.
A ben vedere, infatti, la gestione di un edificio in condominio (sia per la natura dei beni che lo
compongono, sia per la complessità dei rapporti che in esso si svolgono) dà vita, inevitabilmente,
ad una notevole quantità di problematiche che solo attraverso un approccio professionale e
competente possono essere risolte.
In altre parole, nel prevedere le regole di funzionamento del condominio, si è ritenuto che
l’amministrazione dello stesso dovesse svolgersi secondo precise direttive previste dalla legge
nell’interesse comune.
In tale contesto, il codice civile ha previsto più d’un articolo che riguarda l’amministratore con ciò
regolando, come si vedrà, tutti gli aspetti dell’incarico, dalla nomina alla revoca, dai diritti ai doveri.
2.2 - L’amministratore come mandatario dei condomini
Come sempre accade in ambito giuridico, il rapporto tra amministratore e condominio è stato
oggetto (da parte dei giudici e degli studiosi del diritto) di un continuo approfondimento effettuato
con lo scopo di individuare quali siano le regole ad esso correttamente applicabili.
Il risultato di tale valutazione è che oltre al gruppo delle norme più specificamente condominiali
(articoli dal 1117 al 1139 del codice civile), al suddetto rapporto si è ritenuto applicabile – con i
dovuti aggiustamenti necessari per accordarsi con le specifiche sue peculiarità – anche il gruppo di
regole previste per il contratto di mandato nel quale, secondo la legge, “una parte (mandatario) si
obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra (mandante)” (articoli 1703 e ss. c.c. Cass. 5 dicembre 2007, n. 25398; e Cass. 16 agosto 2000, n. 10815).
A ben vedere, infatti, l’amministratore condominiale viene effettivamente incaricato di compiere
una serie di “atti giuridici”, i quali non sono altro che le attività necessarie per la “gestione” dei beni
e degli impianti comuni facenti parte dell’edificio.
In conseguenza di ciò, nell’analizzare la figura dell’amministratore di condominio (e, in
particolare, quali siano le sue facoltà e i suoi doveri) dovrà essere considerato sia il primo, sia il
secondo gruppo di norme, dai quali entrambi scaturiranno le regole del caso specifico.
2.3 - L’amministratore obbligatorio e/o facoltativo
Come primo aspetto della disciplina sull’incarico di amministratore, va evidenziato che il codice
civile, all’art. 1129, prevede due differenti situazioni.
La norma testualmente dispone che “quando i condomini sono più di quattro, l’assemblea
nomina un amministratore
In termini più pratici, si può affermare che:
– negli edifici con meno di cinque condomini, la presenza/nomina dell’amministratore di
condominio è facoltativa (ma l’assemblea può ugualmente provvedervi; cfr. Cass. 3 gennaio
1966, n. 24);
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– negli edifici con più di quattro condomini, la presenza/nomina dell’amministratore è obbligatoria.
A tale proposito, è importate intendersi sull’esatto significato di “obbligatorietà”, che può essere
ben compreso solo tenendo presente che nell’edificio in condominio i rapporti giuridici che si
svolgono sono di natura principalmente “privatistica”.
Secondo tale impostazione, quando si afferma che l’amministratore è obbligatorio non vuole
intendersi che la sua presenza è, in ogni caso, “imposta” dall’esterno (per esempio, da un’autorità
pubblica), bensì che è diritto di ciascun condomino (il quale, quindi, può agire anche in via
autonoma) richiedere la nomina dell’amministratore, nel caso in cui i condomini siano più di
quattro.
Dal punto di vista pratico, l’effetto di tale regola è duplice:
– da una parte, verificate le condizioni di legge, l’assemblea è tenuta a nominare l’amministratore,
vi sia, o meno, una esplicita richiesta da parte dei condomini (anche se, ovviamente nel
concreto, la nomina dell’amministratore avviene sempre su impulso di uno o più condomini);
– da un’altra parte, se l’assemblea rifiuta di nominare l’amministratore (o tiene un atteggiamento
di indifferenza) anche un singolo condomino può richiedere all’Autorità giudiziaria di provvedere
in tal senso.
In particolare, va ricordato che la Corte Suprema ha espressamente fissato il criterio di calcolo
del numero dei condomini affermando che “l’obbligo della nomina dell’amministratore sorge dal
momento in cui i condomini dell’edificio - intesi come proprietari esclusivi, pro diviso, di una parte
(locale, appartamento, piano) dell’edificio medesimo - diventano cinque, o più, allorché, cioè in
conseguenza di acquisto per atto tra vivi, o di divisione, o anche di successione mortis causa, le
varie parti dell’edificio, suscettibili di proprietà esclusiva, risultino distribuite in proprietà separata
tra cinque o più persone.” (Cass. 19 ottobre 1961, n. 2246).
Come ultima precisazione sul punto, occorre sottolineare che - a prescindere dalle differenti
opinioni che gli studiosi di diritto hanno elaborato (e che hanno valore più teorico che pratico) - sia
l’amministratore obbligatorio, sia l’amministratore facoltativo esercitano i medesimi diritti e sono
sottoposti agli stessi doveri e responsabilità, senza che siano ammissibili differenze di disciplina
(cfr. Cass. 18 novembre 1981, n. 6115, nonché, per più ampie considerazioni, Cass. sez. un. 31
gennaio 2006, n. 2046, con nota di Terzago, “Quali norme disciplinano il cosiddetto «condominio
minimo»?”, in Immobili e Diritto, IlSole24Ore, 2006, fasc. 4, pagg. 29 e ss.).
2.4 - La nomina
Nella situazione normale (cioè, senza intervento del giudice), la nomina dell’amministratore
avviene attraverso una deliberazione dell’assemblea la quale, pertanto, dovrà essere regolarmente
convocata, riunirsi e deliberare, rispettando tutte le condizioni previste dalla legge per tale
operazione (per le quali si rimanda al modulo 3 “L’assemblea”).
Sul punto, vale solo la pena di precisare che tale l’assemblea dovrà essere convocata
dall’amministratore uscente (se presente), ovvero anche da un solo condomino (nel caso di
amministratore mancante o di prima nomina).
In altri termini, sia nel caso di presenza obbligatoria dell’amministratore, sia in quello di nomina
facoltativa, perché si abbia una valida nomina, è necessario che l’assemblea sia stata ritualmente
convocata a mezzo di valido e completo avviso di convocazione (data, luogo ed ora della riunione,
ordine del giorno, il tutto comunicato con debito preavviso), che siano stati invitati tutti i condomini
e che le operazioni assembleari si svolgano secondo l’usuale e preordinato ordine di discussione,
votazione, verbalizzazione ed invio del verbale (ai condomini assenti).
I requisiti per la nomina
Per lo svolgimento dell’incarico di amministratore di condominio – che riveste, senza ombra di
dubbio, una rilevante complessità professionale – né il codice civile, né alcuna legge speciale
prevedono particolari requisiti, o appartenenze/iscrizioni/incompatibilità, con la conseguenza che si
ritiene generalmente sufficiente che il soggetto nominato abbia piena capacità d’agire e cioè sia
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maggiorenne e non sia stato dichiarato interdetto o inabilitato.
Con riferimento al soggetto dichiarato fallito, anche se non sono espressamente previste regole
per gli effetti della dichiarazione di fallimento sull’eventuale nomina ad amministratore, si ritiene
che vi sia una preclusione che si ricava dal sistema di norme previsto per tale condizione. La
dichiarazione di fallimento, pertanto, impedisce sia la nomina, sia la continuazione nell’incarico.
A parte quanto sopra, può dirsi che non esistono altre preclusioni di sorta alla nomina, con il
che, secondo la normativa vigente, è valida la nomina ad amministratore di un condomino, di un
estraneo, di un cittadino straniero, ecc.
Un’ulteriore considerazione va fatta per l’impiegato statale o il dipendente pubblico per il quale
si ritiene non sussistano situazioni d’incompatibilità (Trib. Napoli 17 luglio 1960), neanche con
riferimento all’art. 60 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (“T.U. delle disposizioni concernenti lo
statuto degli impiegati civili dello stato”) in base al quale “l‘impiegato non può esercitare il
commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o
accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti
per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro
competente.” Infatti si ritiene che l’eventuale violazione di tale divieto non comporti effetti negativi
sulla nomina ad amministratore (che, rispetto al condominio, rimane valida) ma esclusivamente
conseguenze disciplinari per lo stesso dipendente pubblico nei confronti dell’Ente dal quale
dipende (cfr. Cass. 16 aprile 1980 n. 2478; e Cass 26 marzo 1977, n. 1192).
Le competenze per lo svolgimento dell’incarico
Riguardo alle “competenze” che lo svolgimento dell’incarico richiede, occorre sviluppare due
diverse considerazioni.
Secondo un’ottica formale, va evidenziato che, com’è noto (ed in precedenza detto), non è
necessario alcun requisito per la nomina, nemmeno dal punto di vista della qualificazione
personale dell’amministratore, dell’appartenenza ad un “albo” o “registro”, od anche del possesso
di un particolare titolo di studio.
Tuttavia, secondo un’ottica più sostanziale, non può ignorarsi che la complessità dello
svolgimento dell’incarico, che ormai ha assunto pienamente le vesti di una professione, richiede
concretamente il possesso di notevoli competenze che comprendono gli ambiti legale, tecnico,
psicologico, gestionale/organizzativo, e quant’altro, senza le quali il servizio reso ai condomini
potrebbe non essere consono ai criteri di diligenza previsti dal codice civile (cfr. art. 1710 c.c.,
applicabile all’amministratore in quanto mandatario).
Tali competenze, peraltro, risultano ancor più ampliate in una società come la contemporanea
dove i flussi di cittadini stranieri sono di rilevante portata ed investono tutte le nazioni, imponendo,
anche all’amministratore, di confrontarsi con culture diverse (con effetti anche nella gestione del
fabbricato, e, in particolare, nell’utilizzazione dei beni comuni).
In tale ottica, la conoscenza di usi e costumi dei popoli ed ancor di più, delle lingue straniere si
rivela – specialmente nelle metropoli – necessario (se non, addirittura, indispensabile) per un
efficace svolgimento dell’incarico.
Ad ultimo corollario, va precisato che, in difetto di previsione di legge, può intervenire il
regolamento di condominio il quale può essere utilizzato per prevedere particolari requisiti
obbligatori (per es., un titolo di studio, l’appartenenza ad un’associazione rappresentativa, una
particolare garanzia) per la nomina ad amministratore di condominio (si badi, solo per quel
particolare edificio). In tal caso, una siffatta clausola (anche se contenuta in un regolamento
“contrattuale”) ha natura strettamente regolamentare, in quanto è rivolta a disciplinare
l’organizzazione e la gestione del fabbricato, senza incidere sui diritti individuali dei singoli
partecipanti. Di conseguenza, la sua approvazione e/o modificazione non richiede il consenso di
tutti i condomini, ma può essere validamente disposta con deliberazione maggioritaria
dell’assemblea, ai sensi dell’art 1136 c.c. (Cass. 12 gennaio 1978, n. 124).
2.5 - La maggioranza per la nomina
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L’art. 1136 del codice civile prevede espressamente che la nomina dell’amministratore di
condominio avvenga con una specifica maggioranza.
Al suo comma 2, infatti, testualmente dispone che “le deliberazioni che concernono la nomina e
la revoca dell’amministratore... devono essere sempre prese con la maggioranza stabilita dal
secondo comma” in tal modo effettuando un espresso richiamo comma 2 dello stesso articolo nel
quale si legge che “sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.”
Si tratta di una di quelle “materie speciali” per le quali la legge impone un numero minimo
“qualificato” di condomini favorevoli (che esprimano anche una quantità minima di millesimi)
evidentemente in considerazione del fatto che la nomina dell’amministratore costituisce un
momento rilevante nell’ambito della gestione dell’immobile.
Particolare attenzione va posta all’esatto computo della maggioranza. Infatti, detta norma oltre a
prevedere il numero minimo (quorum) di metà dei millesimi (cioè, 500/1000), stabilisce, altresì, che
la nomina dell’amministratore debba avvenire con la maggioranza degli “intervenuti”.
Se sul calcolo di metà dei millesimi non sorge alcun particolare problema, qualche dubbio può,
invece, scaturire dall’individuazione dell’esatto significato del termine “intervenuti”; senza
addentrarci in complicati ragionamenti teorici, in questa sede il problema può essere risolto
tenendo presente le due seguenti regole:
a) la nomina dell’amministratore deve avvenire con il voto favorevole di almeno la maggioranza dei
condomini presenti (intervenuti) alla riunione, i quali siano portatori di 1/2 dei millesimi totali;
b) in ogni caso, la maggioranza dei condomini presenti non potrà essere inferiore ad 1/3 del
numero totale dei condomini partecipanti al condominio.
Quest’ultima precisazione si ricava da quanto affermato dalla Suprema Corte con la sentenza in
base alla quale “per le deliberazioni dell’assemblea in seconda convocazione concernenti le
materie indicate dall’art. 1136, comma 4, c.c., tra le quali la nomina dell’amministratore, il richiamo
alle maggioranze stabilite dall’art. 1136, comma 2, c.c., non vale ad estendere il quorum costitutivo
dell’assemblea in prima convocazione, ma importa che per la costituzione dell’assemblea, come
per l’approvazione di esse, è richiesta una maggioranza che rappresenti almeno la metà del valore
dell’edificio e che sia costituita dalla maggioranza degli intervenuti e da almeno un terzo dei
partecipanti al condominio.” (Cass. 26 aprile 1994, n. 3952).
2.6 - Figure particolari di nomina
Nomina di più amministratori per uno stesso condominio Può accadere che, nella pratica operativa, venga proposta o richiesta la nomina di più
amministratori di condominio per uno stesso stabile.
Secondo l’interpretazione migliore, l’ipotesi appare in contrasto con le vigenti regole di legge,
dal complesso delle quali si desume che la gestione del condominio è stata concepita per essere
affidata ad un soggetto singolo il quale, tra l’altro, riveste la funzione di rappresentante nei
confronti dei terzi estranei.
Tale impostazione è confermata dalla giurisprudenza la quale ha precisato che “è nulla la
delibera dell’assemblea condominiale con cui si sia proceduto alla nomina di più amministratori del
condominio in quanto in contrasto con l’art. 1129 c.c.” (Trib. Milano 15 marzo 1990, in Archivio
delle Locazioni e del Condominio, 1991, pag. 146).
Nomina di una società ad amministratore di condominio Con ancora maggiore frequenza, può accadere che si presenti la necessità che alle funzioni di
amministratore venga proposta la nomina di una società.
Le ragioni di una tale eventualità risiedono nel fatto che, non di rado, la professione di
amministratore è svolta con più efficacia con l’ausilio di un organismo societario (specialmente per
i vantaggi organizzativi che si ottengono attraverso la distribuzione del lavoro all’interno del
sodalizio, nonché, notoriamente, di ordine fiscale).
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Le tipologie di società potenzialmente interessate alla nomina sono sia quelle di persone (s.n.c.
e s.a.s.) sia quelle di capitali (principalmente, s.r.l.).
In un primo tempo, si è pensato che tale eventualità presentasse un problema di compatibilità
con la normativa condominiale prevista nel codice civile. Tale impostazione/interpretazione veniva
fondata sul fatto che nelle norme codicistiche sarebbe ravvisabile l’elemento della cd. “fiducia” in
base alla quale i condomini procedono alla nomina in considerazione delle caratteristiche personali
dell’incaricato (cioè, dell’amministratore stesso). Si è inoltre affermato, che in tale prospettiva,
sembrerebbero deporre anche altre norme del codice civile le quali presuppongono la circostanza
che l’amministratore sia una persona fisica (e non giuridica, qual è una società).
Su tale problematica, nella giurisprudenza si è sviluppato un contrasto piuttosto acceso, nel
quale, da una parte vi erano le pronunce della Suprema Corte che negavano la possibilità della
nomina di una società di capitali ad amministratore di condominio (cfr. Cass. 9 giugno 1994, n.
5608) e, dall’altra parte, si ponevano alcune Corti di merito favorevoli a tale possibilità (cfr. Trib.
Roma 31 maggio 1989 e Trib. Milano 18 novembre 2004, n. 13198).
Detto contrasto ha trovato una sua concreta definizione in una recente pronuncia della
Suprema Corte (Cass. 4 ottobre 2006, n. 22840), la quale, con riferimento a tale fattispecie, ha
puntualizzato che:
– la problematica che occorre risolvere è se la funzione di amministratore possa essere esercitata
da una persona giuridica e, precisamente, da una società di capitali o, per contro, debba
necessariamente essere svolta da una persona fisica;
– nel passato, la Suprema Corte (Cass. 9 giugno 1994, n. 5608, cit.) ebbe ad affermare che la
disciplina del condominio sembra supporre necessariamente la figura dell’ amministratore come
persona fisica; Tale affermazione sarebbe imposta dal fatto che l’incarico ad amministrare va
inquadrato nell’ambito del contratto di mandato, che è un istituto basato essenzialmente sulla
fiducia;
– a ben vedere, tuttavia, la dottrina più accreditata dubita del carattere fiduciario del mandato e,
cioè, che sia un contratto intuitu personae, nel quale cioè la considerazione della persona del
mandatario assumerebbe un particolare rilievo. In realtà, dall’analisi delle norme sul mandato
presenti nel codice civile tale caratteristica non si evince. Non vi sono, cioè, specifiche regole
che possano dirsi derivanti dal presunto elemento fiduciario;
– sotto altro aspetto, è certamente vero che il sistema non conosce disposizioni limitative della
capacità o della legittimazione della persona giuridica, se non nei casi tassativamente previsti.
Si deve affermare, invece, che la persona giuridica (per es., la società di capitali) ha capacità
giuridica piena e generalizzata e, comunque, può presentare coefficienti di affidabilità non
minori e diversi da quelli della persona fisica;
– per di più, nelle norme speciali, che regolano l’attività delle società concernenti
l’amministrazione di immobili (cfr., soprattutto, D. Lgs. 16 febbraio 1996, n. 104) è previsto
l’affidamento a società specializzate della gestione dei beni immobili dimessi dagli entri
previdenziali e, virtualmente, della “gestione dei servizi condominiali”;
– in conclusione, non solo, considerati i suddetti principi, è pienamente ammissibile il
conferimento dell’incarico di amministratore ad una società (anche di capitali) ma, in conformità
con l’evoluzione di tale figura, è ragionevole pensare che - avuto riguardo al continuo
incremento dei compiti - questi possano venire assolti in modo migliore dalle società (di servizi),
che nel loro ambito annoverano specialisti nei diversi rami.
L’orientamento è stato poi successivamente confermato da Cass. 25 gennaio 2007, n. 1627.
2.7 - La nomina dell’amministratore da parte dell’Autorità Giudiziaria
Nel caso in cui, ai sensi dell’art. 1129 c.c., la nomina dell’amministratore sia obbligatoria (vale a
dire, quando i condomini sono più di quattro) e l’assemblea non provveda ad incaricare alcun
soggetto, a ciascun singolo condomino è data la possibilità di ricorrere all’Autorità Giudiziaria
affinché emetta un provvedimento (di nomina) sostitutivo della volontà assembleare mancante.
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La norma che consente tale possibilità è contenuta nel comma 4 dell’art. 1105 c.c. (applicabile
al condominio in virtù del rinvio operato dall’art. 1139 c.c.), in base al quale “se non si prendono i
provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una
maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può
ricorrere all’autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può nominare un
amministratore.”
Il Tribunale provvede in Camera di consiglio con decreto (art. 737 c.p.c.), contro il quale è
possibile ricorrere in Corte d’appello (art. 739, comma 1, c.p.c.). Il procedimento rientra nella cd.
“volontaria giurisdizione” ed è finalizzato ad ottenere, non una “condanna”, ma un provvedimento
sostitutivo della mancata deliberazione dell’assemblea condominiale.
Occorre precisare che il ricorso ex art. 1105 c.c., all’Autorità Giudiziaria, può essere proposto
solo se si verifica una situazione di assoluta inerzia nel compimento dei necessari atti di gestione
dell’edificio (quale, per esempio, la nomina dell’amministratore) o per il (ripetutamente) mancato
raggiungimento delle necessarie maggioranze di legge. Altre e diverse contestazioni devono
invece essere proposte in via ordinaria, e danno luogo ad un normale procedimento contenzioso
(cfr. Cass. 20 aprile 2001, n. 5889; e Cass. 14 agosto 1997, n. 7613).
Rispetto a quello designato dall’assemblea, l’amministratore nominato dall’Autorità Giudiziaria
non presenta differenze di disciplina ed ha le medesime facoltà e doveri (Cass. 9 febbraio 1987, n.
571). Tuttavia, il Tribunale, ravvisandone i presupposti e le condizioni, può anche nominare un
amministratore destinato a occuparsi unicamente di uno o più atti specificamente individuati nel
provvedimento (decreto) di nomina.
2.8 - La conferma
Con maggiore precisione, si suole utilizzare il termine “conferma” nel caso in cui ad essere
nominato è l’amministratore già in carica per il precedente esercizio.
Tuttavia, nonostante l’utilizzazione di una diversa denominazione, il fenomeno è del tutto
identico quanto a regole ed effetti a quello della semplice nomina.
Riassumendo, quindi, anche nel caso della “conferma” dell’amministratore in carica, andranno
osservate le seguenti direttive:
– competente a decidere è l’assemblea;
– l’assemblea dovrà essere convocata dall’amministratore “uscente” a mezzo di regolare e
completo avviso di convocazione, spedito a tutti i condomini, che dovrà pervenire con debito
preavviso;
– l’assemblea dovrà decidere a seguito di discussione e votazione, con le maggioranze previste
dalla legge;
– di tutte tali operazioni dovrà essere redatto apposito e completo verbale che dovrà essere
trasmesso a tutti i condomini assenti dalla riunione.
Per quanto riguarda la maggioranza necessaria per la deliberazione di conferma, si ritiene che
valgano le stesse regole previste per la nomina (comma 2 dell’art. 1136 c.c., richiamato dal comma
4 della stessa norma): “sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.”
Sul punto, tuttavia, è opportuno evidenziare come una recentissima pronuncia del Tribunale di
Roma (15 maggio 2009, n. 10701, inedita) ritiene che, nel caso di “rielezione” dello stesso
amministratore, la fattispecie vada inquadrata nella disciplina prevista dall’art. 1135 c.c. il quale
stabilisce che l’assemblea dei condomini provvede alla conferma dell’amministratore, disponendo
maggioranze differenti per le due ipotesi. Da ciò ne deriverebbe che per la sola conferma
dell’amministratore in carica sarebbe sufficiente la maggioranza ordinaria prevista dal comma 3
dell’art. 1136 c.c. (“la deliberazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei
partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio”).
Si tratta di una sentenza certamente interessante, e che potrebbe aprire un generale
ripensamento nell’impostazione della giurisprudenza. Allo stato attuale, tuttavia, è consigliabile
attenersi alla regola ampiamente riconosciuta per la quale “la disposizione dell’art. 1136, comma
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4, c.c., la quale richiede, per la deliberazione dell’assemblea del condominio di edifici riguardante
la nomina o la revoca dell’amministratore, la maggioranza qualificata di cui al comma 2, è
applicabile anche per la deliberazione di conferma dell’amministratore dopo la scadenza del
mandato” (cfr. Cass. 4 maggio 1994, n. 4269; Cass. 5 gennaio 1980, n. 71; Cass. 29 luglio 1978,
n. 3797; Trib. Milano 17 giugno 1991, in Archivio delle Locazioni e del Condominio, 1992, pag.
384; Trib. Pavia 23 maggio 1988, ivi, 1989, pag. 342, Trib. Monza 19 febbraio 1986, ivi, 1986, pag.
284; e Trib. Pavia 30 novembre 1985, in Giurisprudenza di merito, 1986, pag. 546).
2.9 - La revoca e le dimissioni dall’incarico di amministratore
L’incarico ad amministrare può essere revocato “in ogni tempo” dall’assemblea, come stabilito
dall’art. 1129 c.c.
La ragione di una tale regola risiede nel fatto che, venuta meno la “fiducia” sulla quale si basa il
rapporto tra il condominio ed il soggetto incaricato della gestione, non vi è più ragione di
conservare vincoli da entrambe le parti.
In altri termini, l’amministratore di condominio può essere revocato senza che sia necessaria
l’esistenza di una “giusta causa”, cioè che si verifichi una qualche violazione dei suoi doveri di
incarico.
L’assemblea del condominio, pertanto, potrà procedere ad una revoca non solo in qualsiasi
momento (quindi, anche, a breve distanza dalla nomina stessa) ma anche senza doverne affatto
giustificare le ragioni (Cass. 28 ottobre 1991, n. 11472).
Oltre a ciò, può precisarsi che la revoca può avvenire anche “tacitamente” allorquando
l’assemblea proceda alla nomina di un nuovo amministratore, senza esplicitamente indicare la
revoca del soggetto precedentemente incaricato (Cass. 9 giugno 1994, n. 5608).
In applicazione di tali principi in base ai quali l’incarico ad amministrare permane al conservarsi
della reciproca fiducia tra le parti, medesime regole si applicano alle dimissioni che
l’amministratore ritenga di rassegnare, le quali non solo sono pacificamente ammesse ma possono
essere comunicate senza necessità di procedere ad una espressa giustificazione dei motivi che le
hanno determinate.
In altre parole, la “fiducia” tra condominio ed amministratore nominato vale sia per il primo che
per il secondo: entrambi, infatti, possono ritirarla ponendo fine unilateralmente al rapporto.
A tale proposito, tuttavia, è necessario ricordare che le dimissioni non spiegheranno
pienamente i loro effetti fino a quando il condominio non procederà ad una nuova nomina
(paragrafo 2.12 sulla “prorogatio imperii”).
2.10 - L’accettazione dell’incarico
Le regole sul condominio contenute nel codice civile non prevedono la necessità di
un’accettazione espressa dell’incarico da parte dell’amministratore nominato dall’assemblea.
In altri termini, una volta eletto, l’amministratore non è tenuto a rilasciare una dichiarazione nella
quale esprime il suo consenso allo svolgimento dell’incarico affidatogli.
Di conseguenza, sin dal momento della nomina il soggetto designato è investito di tutti i doveri
(e i poteri) inerenti alla sua carica (Trib. Genova 25 gennaio 1999, in Archivio delle locazioni e del
condominio, 1999, pag. 107) e, quindi, può effettuare tutte le operazioni di gestione che si rivelano
necessarie e rappresentare il condominio nei confronti dei “terzi” estranei, ed anche dei condomini
stessi.
Più precisamente, dal punto di vista operativo, possono presentarsi due differenti situazioni:
a) l’amministratore ha presentato un preventivo: in tal caso, questo documento può essere
considerato come vera e propria “offerta” di svolgimento dell’incarico nei confronti del
condominio, che si perfeziona con la semplice decisione di nomina da parte dell’assemblea (cfr.
art. 1326 c.c.), confermandosi, così, la non necessità di alcuna, ulteriore e successiva,
accettazione espressa;
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b) più raramente, l’amministratore non ha presentato alcun preventivo e viene nominato a sua
insaputa: in tal caso, sembra preferibile procedere ad un’accettazione dell’incarico che potrà
avvenire espressamente (con l’invio di una lettera ai condomini o al precedente amministratore),
oppure tacitamente con l’esecuzione concreta delle prime operazioni di gestione. Si badi,
tuttavia, che qualora si intenda rifiutare la nomina, per chiarezza di rapporti, è consigliabile
inoltrare per iscritto un rifiuto chiaro, ma, soprattutto, espresso.
2.11 - La durata dell’incarico
La durata dell’incarico è obbligatoriamente stabilita in un anno dall’art. 1129 c.c. La norma è
considerata inderogabile dall’art. 1138 c.c. con la conseguenza che i condomini non possono
stabilirne una diversa.
Ciò è escluso anche se la previsione di una durata maggiore è adottata dall’unanimità di tutti i
partecipanti al condominio (Trib. Napoli 21 marzo 1989, in Giurisprudenza italiana, 1990, I, 2, pag.
198).
Tuttavia, nel caso i condomini vogliano conservare lo stesso soggetto nell’incarico per più
esercizi successivi di bilancio, sarà sufficiente che l’assemblea proceda, anno per anno, ad una
conferma, la quale potrà essere effettuata (e rinnovata) un numero illimitato di volte.
2.12 - La cosiddetta “prorogatio imperii”
La durata dell’incarico è obbligatoriamente prevista in un anno, al termine del quale si verifica la
relativa cessazione dal mandato. Medesima cessazione si verifica nel caso di revoca da parte
dell’assemblea o di dimissioni da parte dell’amministratore.
Tali circostanze, tuttavia, non determinano l’automatico venir meno delle prerogative (poteri e
doveri) dell’amministratore il quale permane nelle sue funzioni fino a che l’assemblea non
provveda alla nomina di un nuovo incaricato.
La fattispecie - che viene denominata prorogatio imperii (cioè, proroga di poteri) - è stata
prevista allo scopo di impedire che il condominio rimanga privo di un soggetto incaricato della
gestione. Più precisamente, si è affermato che tale istituto “trova fondamento nella presunzione di
conformità alla volontà dei condomini e nell’interesse del condominio alla continuità dell’
amministratore” ed è “applicabile in ogni caso in cui il condominio rimanga privato dell’opera dell’
amministratore” (non soltanto, quindi nei casi di scadenza del termine annuale ma anche nel caso
di dimissioni, revoca o di annullamento per illegittimità della relativa delibera di nomina (cfr. Cass.
23 gennaio 2007, n. 1405; e Cass. 5 marzo 2006, n. 7619).
Secondo la Suprema Corte, infatti, la scadenza dell’anno dell’incarico non determina una
decadenza automatica dai poteri che avviene, per l’amministratore cessato, solo al momento della
sua sostituzione con nuovo incaricato (Cass. 24 gennaio 1994, n. 705)
L’amministratore cessato, il quale continua a gestire l’immobile in tale periodo di proroga,
conserva tutti i poteri al medesimo assegnati dalla legge, che continua ad esercitare con piene
facoltà “ordinarie” e “straordinarie” (Cass. 6 dicembre 1986, n. 7256).
Allo stesso modo, è sottoposto ai medesimi doveri la cui violazione comporta conseguente
identica responsabilità (Cass. 25 marzo 1993, n. 3588).
2.13 - Il compenso dell’amministratore
L’incarico di amministratore condominiale è, normalmente, svolto dietro compenso.
L’eventualità di un incarico gratuito riguarda, in realtà, rare situazioni a carattere bonario ed
amichevole, nelle quali la gestione dell’immobile è svolta spesso da uno dei condomini (non di
rado, a turno tra di loro).
Tale ultima ipotesi è pacificamente ammessa nella considerazione che lo stesso codice civile
(art. 1135 c.c.) indica come “eventuale” la “retribuzione” a favore dell’incaricato della gestione (cfr.
Cass. 16 aprile 1987, n. 3774).
Se, tuttavia, prendiamo in considerazione l’ipotesi “professionale” di svolgimento dell’incarico la
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retribuzione è costantemente prevista; in conseguenza, l’assemblea, all’atto della nomina, dovrà
procedere anche all’approvazione del compenso nella misura riconosciuta all’amministratore
designato; approvazione che, solitamente, avviene mediante l’accettazione del preventivo
presentato.
In tal senso, infatti, l’art. 1709 c.c., “presume” che il mandatario riceva un compenso per l’opera
prestata. Da ciò discende, quindi, che nel caso in cui nella deliberazione assembleare di nomina
non sia previsto l’ammontare del compenso, questo sia comunque dovuto e possa essere
determinato dal giudice secondo i criteri del citato art. 1709 c.c., cioè “in base alle tariffe
professionali o agli usi; in mancanza è determinata dal giudice.”
E’ buona norma, tuttavia, che il nominando amministratore indichi chiaramente nel preventivo
presentato l’ammontare delle sue competenze, con preciso riferimento alle singole attività in esso
comprese (e/o escluse e, quindi, da retribuirsi a parte).
Per quanto riguarda il compenso eventualmente spettante all’amministratore per il compimento
di attività straordinarie (nelle quali rientra anche l’assistenza alle riunioni ulteriori rispetto a quella
annuale di approvazione del rendiconto), la Suprema Corte ha precisato che “tra i compiti
dell’amministratore, enumerati dal codice, non è prevista la sua partecipazione all’assemblea,
ordinaria e straordinaria, in ragione dei rapporti di diritto e di fatto che tra l’amministratore e
l’assemblea intercorrono e avuto riguardo a ciò che comunemente avviene sulla base del
convincimento di osservare un imperativo giuridico, la sua presenza alle riunioni del collegio deve
ritenersi compresa tra i compiti istituzionali di amministratore. Siccome trattasi di attività connessa
con lo svolgimento delle funzioni amministrative e indispensabile per il loro compimento, la
partecipazione dell’amministratore all’assemblea, ordinaria e straordinaria, deve ritenersi
compensata dal corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico. Perciò, salva
diversa deliberazione, non deve essere retribuita a parte” (Cass. 12 marzo 2003, n. 3596). Il
principio è stato recentemente ribadito (cfr. Cass. 3 dicembre 2008, n. 28734) e comunque si
armonizza con l’impostazione generale delle regole previste per il compenso spettante al
mandatario (cfr. Cass. 25 febbraio 2000, n. 2149; Cass. 15 giugno 1999, n. 5932; e Cass. 16 aprile
1987, n. 3774).
Infine, nel caso in cui l’amministratore – cessato dalla carica per scadenza del termine previsto
dall’art. 1129 c.c. – continui ad esercitare i suoi poteri ad interim fino a che non venga sostituito da
altro amministratore nominato dall’assemblea, ha diritto, per tale periodo, a essere compensato
secondo le modalità e le quantità stabilite per il precedente incarico (Cass. 14 giugno 1976, n.
2214).
2.14 - Le attribuzioni dell’amministratore (poteri e doveri)
Il codice civile, con l’art. 1130, prevede espressamente le attribuzioni spettanti
all’amministratore di condominio, e fa ciò elencandole una per una al suo interno.
La norma riveste una particolare importanza per il soggetto incaricato della gestione in quanto è
in ottemperanza a ciò che essa prevede che dovrà svolgere le sue mansioni incappando, in caso
contrario, nelle (rilevanti) responsabilità derivanti dall’inadempimento dei doveri.
In tale ottica, infatti, non deve ignorarsi la circostanza che il codice prevede mansioni che sono
contemporaneamente sia poteri, sia doveri, e che, quindi, se, da una parte, assegnano una facoltà
all’amministratore, dall’altra parte, lo responsabilizzano.
In altri termini, l’amministratore non solo “può” compiere taluni atti, ma anche “deve” porli in
essere, allo scopo di assicurare all’immobile la migliore e più utile possibile gestione.
L’esecuzione delle deliberazioni dell’assemblea Tra i principali doveri dell’amministratore di condominio vi è quello dell’esecuzione delle
deliberazioni assembleari, per mezzo della quale viene concretamente realizzato ciò che i
condomini hanno deciso.
Sul punto, va precisato che ai sensi di legge, l’amministratore pone in essere direttamente (cioè,
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senza ordine dell’assemblea) le attività di ordinaria amministrazione per le quali la legge gli
attribuisce una competenza autonoma (Cass. 18 agosto 1986, n. 5068).
Le deliberazioni dell’assemblea, quindi, a rigore riguardano la straordinaria amministrazione,
vale a dire tutte quelle operazioni di gestione dell’edificio che sono imprevedibili e/o d’importo
rilevante (cfr. art. 1135 c.c.).
Nulla toglie, tuttavia, che l’amministratore sottoponga all’esame e all’approvazione
dell’assemblea ogni questione di gestione.
Il principio è confermato dalla Corte di Cassazione la quale ha affermato che “l’amministratore
che, per vincere la resistenza dei condomini o per sgravio di responsabilità, può rivolgersi
all’assemblea per provocare un provvedimento rientrante nella sua sfera di competenza” (Cass. 28
agosto 1975, n. 3024).
Ovviamente, una volta che l’assemblea si sia pronunciata, l’amministratore sarà tenuto ad
eseguire la delibera, ponendo in essere tutti gli atti necessari e utili affinché sia raggiunto il risultato
programmato.
Va tenuto ben presente, però, che il criterio per un corretto comportamento dell’amministratore
dev’essere sempre quello che porta a gestire utilmente il condominio, senza, quindi, provocare
danni o inconvenienti a causa di ritardi evitabili con l’ordinaria diligenza ed esercitando
autonomamente le facoltà al medesimo attribuite dalla legge.
Di più difficile soluzione è il problema se l’amministratore nell’eseguire le deliberazioni
dell’assemblea sia preventivamente tenuto a controllarne la conformità a legge, ovvero la presenza
di lacune, imperfezioni o invalidità nella decisione dei condomini.
La soluzione può essere trovata nel disposto dell’art. 1137 c.c. in base al quale la deliberazione
dell’assemblea dei condomini deve essere eseguita anche se impugnata davanti all’Autorità
Giudiziaria, a meno che quest’ultima, dietro espressa richiesta dell’impugnante, non ne abbia
disposto la sospensione (Cass. 13 febbraio 1996, n. 1093).
La cura dell’osservanza del regolamento Compito dell’amministratore è quello di curare l’osservanza di ogni prescrizione contenuta nel
regolamento dell’edificio, sia essa relativa alle operazioni di gestione considerate in generale, sia
essa relativa ai diritti, facoltà e doveri spettanti ai condomini.
E’ importante precisare che la giurisprudenza ritiene che tale obbligo gravante
sull’amministratore non riguardi solo i beni comuni, ma anche le proprietà esclusive (sulle quali, di
regola, non avrebbe competenza) in quanto anche con riferimento a queste ultime il regolamento
può prevedere vincoli posti per la tutela di interessi comuni (Cass. 11 febbraio 1985, n. 1131).
Medesimi principi si applicano anche nei confronti delle persone degli inquilini delle proprietà
esclusive, i quali, pur non rivestendo la qualifica di condomino, sono tenuti al rispetto del
regolamento (Cass. 21 settembre 1988, n. 5189).
La disciplina dell’uso delle cose comuni Tra i poteri/doveri dell’amministratore è compreso quello di stabilire la disciplina dell’uso delle
cose condominiali, nonché della prestazione dei servizi nell’interesse comune.
Nell’esercizio di tale facoltà, l’amministratore ha il potere di porre, in via autonoma, norme per
l’utilizzo dei beni comuni, con valore vincolante per i condomini.
Nel far ciò, tuttavia, egli deve rispettare il criterio del “miglior godimento” del bene o del servizio,
che non è altro che un’applicazione dei principi previsti dall’art. 1102 c.c., riguardo l’utilizzazione
dei beni comuni da parte dei condomini.
In ogni caso, il potere dell’amministratore del condominio di disciplinare l’uso dei beni comuni è
finalizzato ad assicurare che i condomini possano farne uso in modo paritario e non comprende
anche il potere di vietarne del tutto l’utilizzazione (Cass. 23 marzo 2006, n. 6567).
Il tutto, ovviamente, presupponendo che nel regolamento di condominio non esistano specifiche
norme, nel cui caso l’amministratore sarà tenuto ad applicarle direttamente.
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Per fare qualche esempio pratico, può affermarsi che, in esplicazione di tale facoltà,
l’amministratore può:
– disporre verifiche e controlli sulla funzionalità dei beni e servizi comuni (Cass. 29 ottobre 1975
n. 3655);
– stipulare un contratto di somministrazione del combustibile per il riscaldamento (Trib. Milano 17
dicembre 1987);
– disporre interventi conservativi sugli impianti (Cass. 17 maggio 1960, n. 1216);
– disporre il licenziamento del portiere (Cass. 13 agosto 1985, n. 4437).
La riscossione dei contributi Ai sensi del n. 3 dell’art. 1130, n. 3, c.c. l’amministratore è tenuto a riscuotere i contributi
necessari alla gestione dell’edificio.
E’ necessario che detta riscossione avvenga in base al preventivo di spesa e al relativo stato di
ripartizione approvati dall’assemblea (Cass. 11 novembre 1992, n. 12125).
Nel caso in cui, tuttavia, le spese e la relativa ripartizione siano stati approvati con il bilancio
consuntivo è da tale momento che l’amministratore ha il potere/dovere di riscuotere gli oneri di
gestione, rispettando le modalità (di quantità e di tempo) approvate dall’assemblea (Cass. 24
febbraio 1995, n. 2133).
In altri termini, l’amministratore può/deve procedere alla riscossione in base al bilancio
preventivo (approvato dall’assemblea) fino a che non venga sostituito dal bilancio consuntivo
(anch’esso debitamente approvato) (cfr. Cass. 29 settembre 2008, n. 24299).
Va precisato, infatti, che una volta avvenuta l’approvazione del consuntivo da parte
dell’assemblea, il debito a carico di ciascun singolo condomino si consolida definitivamente (Cass.
23 luglio 1988, n. 4751).
Al contrario, in mancanza dell’approvazione di un bilancio preventivo o di uno consuntivo
l’amministratore non è legittimato ad alcuna riscossione (Cass. 4 giugno 1999, n. 5449).
Per quanto riguarda le modalità di riscossione (per esempio, importo o scadenza rate), esse
sono di norma stabilite nella deliberazione di approvazione. Nel caso in cui ciò non avvenga sarà
l’amministratore a determinarle (e a comunicarle ai condomini) rispettando sempre le necessità di
gestione.
Nel caso della riscossione degli oneri condominiali, infine, l’attività dell’amministratore deve
rivolgersi esclusivamente nei confronti delle persone dei condomini, restando esclusa un’azione
diretta nei confronti degli inquilini delle proprietà esclusive, i quali risponderanno nei confronti del
loro locatore (Cass. 3 agosto 2007, n. 17039; 25 gennaio 2007, n. 1627; e Cass. 28 ottobre 1993,
n. 10719).
L’erogazione dei contributi Sempre ai sensi dell’art. 1130, n. 3, c.c., all’amministratore è attribuito il potere/dovere di
erogare i contributi riscossi per la conservazione dei beni e la prestazione dei servizi comuni. In
tale ambito, l’amministratore potrà validamente stipulare contratti con le ditte fornitrici del bene o
del servizio necessario all’effettuazione dell’ordinaria manutenzione.
Deve essere precisato, tuttavia, che l’amministratore non ha facoltà di “spendere” le somme
condominiali per una destinazione diversa da quella espressamente prevista dall’assemblea. Se
ciò avvenisse, si verificherebbe un “eccesso” di potere e l’atto resterebbe a suo carico, con
conseguente obbligo per l’amministratore medesimo, di restituire le somme così diversamente
impiegate (Trib. Roma 6 marzo 1987, in Temi romana, 1088, pag. 76).
In ogni caso, esorbita dalle sue prerogative la firma di effetti cambiari (Trib. Monza 23 marzo
1989, in Archivio delle locazioni e del condominio, 1990, pag. 81) e la stipulazione di un contratto
di mutuo (cfr. Cass. 5 marzo 1990, n. 1734).
Il compimento di atti conservativi Corso di formazione professionale
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All’amministratore è attribuito il potere/dovere di compiere gli atti conservativi delle cose comuni.
All’interno di tale categoria di atti suole ricomprendersi tutte quelle attività che hanno come scopo
quello di conservare l’integrità del patrimonio condominiale.
La giurisprudenza ha ampiamente analizzato la fattispecie, giungendo, tra l’altro, a
ricomprendervi:
– l’azione di nuova opera o danno temuto prevista dall’art. 1171 c.c. (Cass. 19 gennaio 1985 n.
152);
– i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
ed in particolare, la consegna della
documentazione condominiale da parte del precedente amministratore cessato dalla carica
(Pret. Milano, 28 marzo 1990, in Archivio delle locazioni e del condominio, 1991, pag. 643);
– l’azione volta all’eliminazione di opere illegittimamente realizzate dal proprietario confinante
(Cass. 4 maggio 2005, n. 9206);
– l’azione di risarcimento del danno, se riguardante i beni comuni (App. Napoli 19 febbraio 1990,
in Diritto e giurisprudenza, 1970, pag. 433);
In ogni caso, non potrebbe ritenersi rientrante nella predetta categoria di atti “conservativi”
l’eliminazione di un bene comune (neppure allorquando sia finalizzata al rispetto della normativa
antincendio), attività il cui compimento potrebbe essere disposto esclusivamente da una
deliberazione dell’assemblea condominiale (cfr. Cass. 23 gennaio 2007, n. 1382).
Sotto altro aspetto, si ritiene che, in tale ambito, vadano ricompreso anche il potere
dell’amministratore di compiere, autonomamente e senza necessità di previa autorizzazione da
parte dell’assemblea, gli atti e operazioni di amministrazione straordinaria urgenti.
Si tratta di una fattispecie prevista dall’ultimo comma dell’art. 1135 c.c. e che si riferisce a quelle
situazioni di fatto in cui vi è pericolo di danno a persone e/o a cose.
L’atto di amministrazione straordinaria così compiuto dall’amministratore è totalmente riferibile
al condominio, al quale occorre che l’amministratore medesimo riferisca in sede di assemblea, in
applicazione del generale obbligo di rendiconto (Cass. 19 novembre 1996, n. 10144).
Nel caso in cui manchi l’urgenza, gli atti posti in essere dall’amministratore sarebbero da
qualificarsi come “eccesso di potere” e, quindi, i relativi effetti rimarrebbero totalmente a suo
carico, senza produrre alcun vincolo nei confronti dei condomini (Cass. 7 maggio 1987, n. 4232).
In ogni caso, l’assemblea ben potrebbe ratificare tali ultimi atti di amministrazione straordinaria
(compiuti nonostante non fossero urgenti), in tal modo, riconoscendone pienamente gli effetti
(Cass. 27 dicembre 1963, n. 3226) e, in particolare, il rimborso, a favore dell’amministratore, delle
spese effettuate in tale occasione. La possibilità che l’assemblea proceda alla ratifica di atti
compiuti dall’amministratore al di fuori dei poteri al medesimo conferiti per legge è pacificamente
riconosciuta senza limitazioni (Cass. 7 febbraio 2008, n. 2864).
L’obbligo di rendere il conto della gestione L’ultimo comma dell’art. 1130 c.c., sancisce l’obbligo per l’amministratore di effettuare, a favore
del condominio, un’attività di rendiconto degli atti e delle operazioni di amministrazione, compiute
durante la gestione annuale.
Si tratta di un obbligo previsto in via generale per qualsiasi mandatario dall’art. 1713 c.c. che
non fa eccezione per l’amministratore.
La resa del conto deve avvenire in sede assembleare, senza possibilità che siano ritenute
valide altre forme equipollenti, né, tanto meno, che siano ritenute sufficienti forme di rendiconto
effettuate nei confronti dei singoli condomini (Cass. 5 aprile 1984, n. 2220, e Cass. 26 agosto
1998, n. 8460) i quali, tuttavia, conservano sempre la facoltà di procedere ad un controllo
preventivo della documentazione condominiale (Trib. Milano 30 novembre 1995, in Archivio delle
locazioni e del condominio, 1996, pag. 954).
Il rendiconto deve essere presentato alla scadenza del periodo di gestione, e l’assemblea non
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potrebbe pretenderlo anticipatamente (fatte salve eventuali particolari prescrizioni previste nel
regolamento di condominio).
Pur non essendo necessaria una redazione in rigorosa forma contabile, il rendiconto deve pur
sempre essere redatto in maniera intellegibile e tale da rendere sempre possibile il controllo
dell’assemblea sulle spese (suddivise per categorie) e sulla ripartizioni effettuate, nonché
sull’esatta corrispondenza di tali spese con i documenti giustificativi posti a corredo del bilancio
stesso (Cass. 7 luglio 2000, n. 9099).
In tale prospettiva, la Suprema Corte ha affermato il principio in base al quale il rendiconto
effettuato dall’amministratore debba essere ispirato a criteri di “semplicità e snellezza” (Cass. 30
dicembre 1997, n. 13100).
Come ulteriore requisito, la giurisprudenza ha individuato la necessità che siano ben distinte le
spese attinenti all’ordinaria amministrazione da quelle relative alla straordinaria, al fine di poter
permettere un’esatta ripartizione delle stesse tra usufruttuario, obbligato a pagare le prime e nudo
proprietario, tenuto a sostenere le seconde (Cass. 21 novembre 2000, n. 15010).
Con riferimento alle modalità di redazione del bilancio, è opportuno riportare un chiaro
pronunciamento del Supremo Collegio secondo il quale “l’amministratore di condominio, nella
tenuta della contabilità e nella redazione del bilancio, non è obbligato al rispetto rigoroso delle
regole formali vigenti per le imprese, essendo sufficiente che egli si attenga, nella tenuta della
contabilità, a principi di ordine e di correttezza e che, nel redigere il bilancio, appronti un
documento chiaro e intelligibile, con corretta appostazione delle voci dell’attivo e del passivo, che
siano corrispondenti e congrue rispetto alla documentazione relativa alle entrate e alle uscite”
(Cass. 28 aprile 2005, n. 8877; nonché, da ultima, Cass. 23 gennaio 2007, n. 1405).
2.15 - La rappresentanza del condominio
Ai sensi dell’art. 1131 c.c., l’amministratore ha la rappresentanza del condominio (e dei
condomini) nei confronti dei terzi e in giudizio.
Tale facoltà è concessa dalla norma nell’ambito di poteri e facoltà al medesimo attribuiti dall’art.
1130, significando ciò che, nel concreto, la rappresentanza dell’amministratore si esplica con
riferimento all’esecuzione delle deliberazioni dell’assemblea, all’applicazione delle prescrizioni del
regolamento, alla riscossione e all’erogazione dei contributi condominiali, e quant’altro in
precedenza illustrato.
L’effetto giuridico di tale rappresentanza è che le obbligazioni contratte dall’amministratore (se
ricomprese nei suddetti limiti) sono interamente ed immediatamente riferibili alle persone dei
condomini, i quali, però, non devono intendersi solidalmente responsabili al loro adempimento (ai
sensi dell’art. 1284 c.c.). La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 08/04/2008 n.
9148, capovolgendo la precedente interpretazione, ha infatti precisato che i condomini non
rispondono solidalmente per i debiti contratti a favore del condominio. II contratto, stipulato
dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini rappresentati e nei limiti
delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei rappresentati.
Ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della
pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della
prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa
disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che
1'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di
danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e
che 1'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si
inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il
difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità
individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i
singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò
premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal
criterio della parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni
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assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e
per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune
e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono
regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni
ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditari, in proporzione alle
loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione
alle quote ereditarie.
II contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini
rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei
rappresentati. Conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei
condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli,
secondo la quota di ciascuno.
Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le
obbligazioni contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguate alle esigenze di
giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.
Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con
l'amministratore del condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari
modi; ma appare preferibile il criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare
somme a volte rilevantissime in seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore.
Allo stesso tempo, non si riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito
tra condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell'adempimento.
La rappresentanza prevista dall’art. 1131 c.c. suole ripartirsi in quella sostanziale (o negoziale),
da una parte, ed in quella processuale, dall’altra parte.
La rappresentanza sostanziale/negoziale Come già detto, l’amministratore è da considerarsi un mandatario dei condomini (incaricato,
cioè, per loro conto, di effettuare un’insieme di atti di gestione dei beni comuni), con la
conseguenza che tra i condomini e l’amministratore medesimo si configura un rapporto di
rappresentanza volontaria derivante da un incarico (mandato) collettivo (Cass. 4 ottobre 1976, n.
3243).
In applicazione delle regole sulla rappresentanza, gli atti e dichiarazioni compiute dal
rappresentante si riferiscono al rappresentato, a condizione che vi sia la c.d. “spendita del nome”,
che, cioè, l’amministratore agisca esplicitando tale sua qualità, senza necessità, tuttavia, che ciò
avvenga con formule specifiche o particolari (Cass. 4 dicembre 1980, n. 6320; e Cass. 5 aprile
1982, n. 2085).
Per fare qualche esempio, agendo in rappresentanza del condominio, l’amministratore può
validamente sottoscrivere i contratti necessari per la gestione dei beni e degli impianti comuni,
nonché per l’assunzione di dipendenti (portiere, giardiniere, pulitori, ecc.), stipulare i contratti per la
somministrazione di carburanti per il riscaldamento o di energia elettrica per l’esercizio di taluni
impianti, o per l’esecuzione in appalto di lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria urgente.
In senso contrario, tuttavia, è stato affermato che l’amministratore, senza preventiva
autorizzazione assembleare, non è legittimato a stipulare il contratto di assicurazione del
fabbricato. Tale impostazione si fonda sulla considerazione per cui l’articolo 1130, comma 1,
numero 4), c.c., obbligando l’amministratore ad eseguire gli atti conservativi dei diritti inerenti alle
parti comuni dell’edificio, ha inteso chiaramente riferirsi ai soli atti materiali (riparazioni di muri
portanti, di tetti e lastrici) e giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi)
necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, tra i quali non può farsi rientrare il
contratto di assicurazione, perché questo non ha gli scopi conservativi ai quali si riferisce la
suddetta norma avendo, viceversa, come suo unico e diverso fine, quello di evitare pregiudizi
economici ai proprietari dell’edificio danneggiato (cfr. Cass. 3 aprile 2007, n. 8233).
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La rappresentanza processuale (in generale) La rappresentanza è la facoltà che l’amministratore ha di stare in giudizio per conto del
condominio. E’ importante sottolineare come nel caso della rappresentanza processuale i
condomini conservano pienamente un’identica facoltà e, pertanto, possono agire ed essere
chiamati in giudizio parallelamente all’amministratore (Cass. 16 settembre 1991, n. 9629).
Le due facoltà si incrociano e sovrappongono, coesistendo in ogni momento.
La rappresentanza processuale attiva La rappresentanza processuale attiva è costituita dal potere spettante all’amministratore di
promuovere (in veste di “attore”) una causa nell’interesse condominiale.
Secondo l’art. 1131 c.c. essa può essere esercitata nei limiti delle attribuzioni a lui attribuite
dalla legge (art. 1130 c.c.).
La giurisprudenza ha precisato il significato della norma, individuando alcune ipotesi specifiche
nelle quali l’amministratore può agire in giudizio:
– per pretendere l’esecuzione delle deliberazioni dell’assemblea (Cass. 29 ottobre 1975, n. 3655);
– contro i singoli condomini allo scopo di far eseguire una delibera dell’assemblea (Cass. 14
gennaio 1997, n. 278);
– per pretendere il rispetto del regolamento di condominio, in quanto, lo stesso amministratore,
essendo tenuto a curarne l’osservanza ex art. 1130, comma 1, n. 1, c.c., è anche legittimato
alla corrispondente azione (Cass. 26 giugno 2006, n. 14735; Cass. 6 agosto 1999, n. 8486; e
Cass. 21 ottobre 1978, n. 4767). In questo caso, l’amministratore è legittimato anche per far
valere in giudizio le norme del regolamento condominiale che disciplinano l’uso delle parti del
fabbricato di proprietà esclusiva (Cass. 29 aprile 2005, n. 8883);
– per far rimuovere le opere eseguite dal singolo condomino in violazione del regolamento (Cass.
21 ottobre 1978, n. 4767);
– per far cessare una destinazione delle proprietà esclusive vietata dal regolamento (Cass. 21
maggio 1979, n. 2915; e Cass. 8 aprile 1983, n. 2499);
– contro un condomino o un terzo che abusi dei beni comuni (Cass. 18 agosto 1969, n. 2987; e
Cass. 11 dicembre 1972, n. 3561) anche in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (Cass. 1 ottobre
2008, n. 24391);
– per riscuotere i contributi (Cass. 9 dicembre 2005, n. 27292; Cass. 5 gennaio 2000, n. 29; e
Cass. 8 agosto 2000, n. 10427);
– per esperire atti conservativi dei beni comuni, quali, ad esempio, le azioni cautelari, l’azione di
denuncia di nuova opera e danno temuto (Cass. 20 gennaio 1982, n. 369; e Cass. 11 dicembre
1972, n. 3561), e l’azione di reintegrazione ex art. 1168 c.c. (Cass. 27 luglio 2007, n., 16631;
Cass. 15 maggio 2002, n. 7063; Cass. 3 maggio 2001, n. 6190; Cass. 8 agosto 1990, n. 8053;
Cass. 14 maggio 1990, n. 4117);
– contro l’appaltatore, ex art. 1669 c.c., per “gravi difetti” a carico dei beni comuni (Cass. 6
febbraio 2009, n. 3040; Cass. 3 agosto 2007, n. 17038).
E’ importante precisare che, per tali azioni giudiziarie, l’amministratore non ha bisogno
dell’autorizzazione dell’assemblea è può agire direttamente decidendo autonomamente anche la
scelta del difensore incaricato (Cass. 15 maggio 1998, n. 4900).
In ogni caso, l’amministratore non può agire per azioni aventi carattere “reale”, che abbiano,
cioè, ad oggetto l’esistenza o la conformazione del diritto di proprietà o degli altri diritti reali (cfr.
Cass. 6 febbraio 2009, n. 3044, per quanto riguarda l’accertamento dell’esistenza di un diritto di
servitù; e Cass. 24 novembre 2005, n. 24764, per quanto riguarda l’accertamento l’accertamento
della contitolarità di un diritto reale d’uso; nonché Cass. 1 ottobre 2008, n. 24391; Cass. 24
novembre 2005, n. 24764 ; Cass. 3 aprile 2003, n. 5147; Cass. 20 gennaio 1998, n. 840; e Cass.
24 aprile 1993, n. 4856).
Per fare alcuni esempi, rientrano tra queste ultime, l’azione di rivendica della proprietà e quella
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di negazione di una servitù vantata da terzi. In particolare, l’amministratore non può agire in
giudizio per l’accertamento del vincolo di destinazione a parcheggio di appositi spazi in edificio di
nuova costruzione (ex L. n. 1150/1942), trattandosi di diritti spettanti non alla collettività
condominiale, bensì separatamente a ciascuno dei partecipanti (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3393).
Infatti, in caso di pretese concernenti l’affermazione di diritti di proprietà, anche comune, la
legittimazione ad agire in giudizio dell’amministratore può trovare fondamento soltanto nel
mandato conferito da ciascuno dei condomini al medesimo amministratore e non già - ad
eccezione della equivalente ipotesi di unanime positiva deliberazione di tutti i condomini - nel
meccanismo deliberativo dell’assemblea condominiale, che vale ad attribuire, nei limiti di legge e di
regolamento, la mera legittimazione processuale ex art. 77 c.p.c., presupponente peraltro quella
sostanziale. Ne consegue che, in assenza del potere rappresentativo in capo all’amministratore in
relazione all’azione esercitata, la mancata costituzione del rapporto processuale per difetto della
legittimazione processuale inscindibilmente connessa al potere rappresentativo sostanziale
mancante - vizio rilevabile anche d’ufficio, pure in sede di legittimità - comporta la nullità della
procura alle liti, di tutti gli atti compiuti e della sentenza (Cass. 13 marzo 2007, n. 5862; e Cass. 26
aprile 2005, n. 8570). Secondo una diversa impostazione, invece, affinché l’amministratore possa
validamente proporre azioni “reali” occorre una deliberazione assembleare che espressamente lo
autorizzi (cfr. Cass. 26 gennaio 2005, n. 1553).
Ad ultimo corollario di quanto sopra, è opportuno precisare che secondo la Suprema Corte il
conferimento da parte dell’assemblea condominiale all’amministratore del condominio del potere di
stare in giudizio in una controversia non rientrante tra quelle che può autonomamente proporre ai
sensi del comma 1 dell’art. 1131 c.c. può sopravvenire utilmente, con effetto sanante, dopo la
proposizione dell’azione (Cass. 13 dicembre 2006, n. 26689).
La rappresentanza processuale passiva Dal punto di vista passivo, la rappresentanza processuale attribuita all’amministratore si
configura come la facoltà di essere chiamato in giudizio (in veste di “convenuto”) in nome e per
conto del condominio.
Anche in questo caso, non vi è necessità di alcuna autorizzazione da parte dell’assemblea.
La nozione di legittimazione processuale passiva deve essere intesa in senso molto ampio,
ricomprendendosi in essa ogni azione intentata contro il condominio ed avente ad oggetto gli
interessi condominiali.
In altri termini, l’amministratore può essere chiamato in giudizio, senza limiti, per qualunque
azione concernente le parti comuni (Cass. 16 aprile 2007, n. 9093; Cass. 15 marzo 2001, n. 3773;
Cass. 17 maggio 2000, n. 6407; Cass. 2 dicembre 1997, n. 12204; Cass. 8 luglio 1995, n. 7544;
Cass. 23 gennaio 1995, n. 735; Cass. 6 dicembre 1986, n. 7256; e Cass. 26 agosto 1986, n.
5203).
Per fare qualche esempio, l’amministratore può essere citato in giudizio, riguardo a:
l’azione di rivendica della proprietà di un bene utilizzato dai condomini, sia essa esercitata da terzi
(Cass. 10 novembre 1976, n. 4132), sia essa esercitata da alcuni tra i condomini (Cass. 13
dicembre 2006, n. 26681: e Cass. 29 maggio 1976, n. 1950);
– controversie riguardanti l’esistenza o l’estensione di servitù a favore del condominio (Cass. 6
dicembre 1984, n. 6396; e Cass. 29 aprile 1982, n. 2717);
– azioni possessorie esercitate da un terzo a causa di lesioni imputabili alla collettività dei
condomini (Cass. 20 aprile 1995, n. 4461; e Cass. 21 marzo 1974, n. 804);
ogni azione avente ad oggetto l’impugnazione di una deliberazione dell’assemblea ai sensi dell’art.
1137 c.c. (Cass. 20 aprile 2005, n. 8286; Cass. 1 luglio 1997, n. 5843; e Cass. 11 agosto 1997, n.
7474).
Secondo le medesime modalità, la legittimazione passiva dell’amministratore sussiste anche
per tutti i gradi di giudizio successivi al primo (Cass. 4 maggio 2005, n. 9206).
In tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio dal
lato passivo ai sensi dell’art. 1113, secondo comma, cod. civ. non incontra limiti e sussiste, anche
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in ordine all’interposizione d’ogni mezzo di gravame che si renda eventualmente necessario.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente anche nel caso di scioglimento del
condominio sono tutti i singoli condomini a dover essere citati in giudizio (Cass. 23 gennaio 2008,
n. 1460; nonché Trib. Cagliari 24 marzo 1973, in Rivista giuridica dell’edilizia, 1974, I, pag. 59).
A corollario di quanto sopra, è necessario aggiungere che l’amministratore è legittimato
passivamente anche nel caso di condominio parziale, quando, cioè, il bene o impianto comune
appartiene ad un gruppo ristretto di condomini (Cass. 12 febbraio 2001, n. 1959; Cass. 21 gennaio
2000, n. 651; nonché Trib. Imperia 8 ottobre 2005, n. 246 in Banca dati “Il Codice degli Immobili –
cdrom”, IlSole24Ore, 2009).
Per un ulteriore approfondimento della materia, si rinvia all'apposito modulo redatto a cura del
Centro Studi Nazionale a seguito della ormai nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n.
18332 del 2010.
2.16 L’amministratore e la privacy
L’attività di amministrazione di un edificio in condominio comporta un costante “trattamento” di
“dati personali” appartenenti ai condomini.
Consideriamo infatti che, secondo il Codice in materia di protezione dei dati personali (cioè, il
D.Lgs. 20 giugno 2003, n. 196 – testo di legge di riferimento per la materia – cd. Codice privacy):
– il dato personale è “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od
associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi
altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”;
– il trattamento è “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza
l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la
conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il
raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione
e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”.
È quindi praticamente impossibile gestire un condominio senza interessare le regole previste da
tale Codice.
La normativa sulla privacy è particolarmente complessa ed una sua compiuta analisi non può
avvenire in questa sede; nella quale, tuttavia è ben possibile tracciare le principali linee guida per
una gestione del fabbricato che sia corretta anche sotto questo profilo.
I dati personali trattati nella gestione del condominio
Come detto, l’amministratore, in sede di gestione, si trova nella necessità di trattare una
molteplicità di dati personali. Per fare qualche esempio, si possono indicare quali “dati”, il nome e
cognome del condomino; la sua residenza/domicilio, eventualmente anche il suo numero di
telefono (necessario per interventi di manutenzione urgenti), il suo codice fiscale, a volte il suo
numero di partita IVA, i dati relativi alle sue coordinate bancarie; i dati relativi ai consumi, ecc.
Il trattamento dei dati “sensibili”
Secondo il Codice privacy i dati “sensibili” sono i “dati personali idonei a rivelare l’origine
razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche,
l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico
o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Come
può ben immaginarsi, nella gestione è possibile che anche tali dati siano trattati dall’amministratore
e ciò avviene, per esempio, nel caso in cui all’interno dello stabile vi siano proprietari con limitata
capacità d’agire (interdetti o inabilitati), nel caso di condomini portatori di handicap, oppure,
ancora, nel caso di gestione di una pratica di risarcimento qualora si siano verificati danni fisici ad
un condomino o ad un frequentatore dello stabile.
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Il consenso (non necessario) al trattamento
La regola generale (art. 23 del D.Lgs. n. 196/2003) è che “il trattamento di dati personali da
parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso
dell’interessato”. Nella gestione del condominio, tuttavia, si applicano le esclusioni previste dall’art.
24 in base alle quali il consenso non è richiesto quando il trattamento è necessario per adempiere
ad un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria; è necessario
per eseguire obblighi derivanti da un contratto del quale è parte l’interessato o per adempiere,
prima della conclusione del contratto, a specifiche richieste dell’interessato; riguarda dati
provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque. In altri termini,
l’amministratore può trattare (cioè, utilizzare) i dati dei condomini, sia perché è tenuto ad
adempiere i doveri al medesimo imposti dalla legge (cfr. art. 1130 c.c.), sia perché agisce
all’interno del contratto di mandato ad amministrare conferito dai condomini; sia perché molti dei
dati gestiti risultano dai rogiti notarili depositati presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari.
La comunicazione e la diffusione dei dati (ai condomini, ed ai terzi)
A tale proposito occorre precisare che la comunicazione dei dati ai condomini da parte
dell’amministratore – che avviene, normalmente, con la trasmissione a loro dei documenti di
gestione, quali, ad esempio, i bilanci, le convocazioni, le relazioni di gestione – è, secondo la
normativa sulla privacy, legittima in quanto tutti i condomini sono “contitolari” di tali dati. In altre
parole, tutti i partecipanti al condominio possono conoscere tutti i dati di gestione relativi all’edificio
(comprese le eventuali quote di morosità di ciascuno).
Diversamente, tuttavia, nell’ipotesi dei soggetti terzi (estranei al condominio). In tale caso, detti
soggetti non possono e non devono essere messi a conoscenza di tali dati, con la conseguenza
che ne è vietata la comunicazione a loro (quale, per esempio, l’invio di documenti contabili a
soggetti non condomini) e, a maggior ragione, la diffusione indiscriminata (come il caso di
esposizione in bacheca).
L’obbligo della cd. informativa (art. 13 Codice privacy)
Anche se, come visto, il consenso al trattamento non è richiesto, l’amministratore è sottoposto
all’obbligo di fornire al condomino l’informativa prevista dall’art. 13 del Codice privacy e che
riguarda alcune notizie sul trattamento dei dati personali. Nel caso del condominio, l’informativa
dovrà, ad esempio, indicare che la finalità del trattamento è costituita dalla gestione dell’immobile;
che il trattamento dei dati personali dei condomini è obbligatorio per poter effettuare le attività di
amministrazione e che, quindi, nel caso in cui il condomino rifiuti di comunicare i suoi dati personali
per l’amministratore sarà impossibile adempiere ai suoi doveri d’incarico, e, comunque, quant’altro
previsto nel citato art. 13.
Va precisato che l’ “informativa” dovrà essere resa “preventivamente”, cioè, prima di procedere
alla “raccolta” dei dati; momento che, nel caso dell’amministratore, deve identificarsi con le prime
attività dal medesimo effettuate in sede di assunzione dell’incarico. Può essere anche solo orale,
ma, per ovvie ragioni di precostituzione della “prova”, è preferibile che sia emessa per iscritto,
magari includendola nell’avviso di convocazione della prima assemblea.
La videosorveglianza
Il sistema di controllo della proprietà a mezzo di sistemi di ripresa video è, come tutti gli
amministratori sanno bene, molto gradito ai condomini i quali spesso insistono per una sua
installazione nelle parti comuni dell’edificio. La sua realizzazione, tuttavia, è sottoposta a rigide
regole e, se lecita dal punto di vista delle norme del codice civile, diviene di difficile attuazione se si
considerano le prescrizioni poste dal Codice sulla privacy. La materia è compiutamente regolata
da un articolato provvedimento generale del Garante della privacy datato 29 aprile 2004 (al quale
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si rimanda per una compiuta informazione), e che occorre tener ben presente al fine di una
corretta effettuazione, anche nel condominio, di un servizio di videosorveglianza.
Sinteticamente, può dirsi che in tale provvedimento si afferma che: a) il servizio di
videosorveglianza comporta un trattamento di dati ed in quanto tale deve essere effettuato nel
rispetto della legge (in primo luogo, del Codice sulla privacy, ma non solo); b) la sua installazione
occorre sia conforme ai principi di necessità, proporzionalità e finalità, in quanto viene posto un
rilevante vincolo per la libertà del cittadino; c) in tale prospettiva si deve evitare qualsiasi
utilizzazione eccessiva del sistema (per esempio, l’identificazione delle persone); d) tale sistema
può essere realizzato solo se è proporzionato rispetto al reale “rischio” presente nel concreto; e)
non è lecita l’installazione per meri fini di apparenza o di “prestigio”; f) e, soprattutto, gli impianti di
videosorveglianza possono essere attivati solo quando altre misure siano state previamente
valutate insufficienti o inattuabili; g) in ogni caso, deve essere rilasciata un’informativa che i luoghi
sono videosorvegliati.
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MODULO N. 2 BIS
La Legittimazione processuale passiva dell’amministratore di condominio alla luce della
attuale giurisprudenza delle Sezioni Unite
(Tortorici, Ginesi, Piscitelli)
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite n. 18332 del 2010, ha
sancito una lettura delle norme in tema di rappresentanza processuale dell’amministratore che
costituisce un radicale mutamento della interpretazione sino ad oggi consolidata e che impone una
seria riflessione e particolare attenzione all’amministratore per quelle cause che travalicano i limiti
delle sue attribuzioni così come delineate dall’art. 1130 c.c.
Ricordiamo che l’art. 1131 c.c. disciplina la rappresentanza processuale dell’amministratore sia
dal lato attivo, ovvero il suo potere di promuovere una lite nell’interesse del condominio, sia dal lato
passivo, ossia la sua capacità di resistere ad una lite promossa contro il condominio.
L’interpretazione giurisprudenziale corrente, sino alle recenti innovazioni introdotte dalla
sentenza in esame, affermava che l’amministratore – nell’ambito delle materie che l’art. 1130 c.c.
attribuisce alla sua competenza - può promuovere qualunque lite senza alcuna necessità di
autorizzazione assembleare mentre ha necessità di apposita delibera (così come disposto dall’art.
1136 quarto comma c.c.) per dar corso alle liti che riguardano materie che esorbitano dalla
previsione dell’art. 1130 c.c.: è quanto dispone il primo comma dell’art. 1131 c.c. relativamente alla
legittimazione attiva dell’amministratore e sotto tale profilo nulla è mutato alla luce del recente
intervento giurisprudenziale.
Gravi riflessi applicativi ha invece la sentenza per ciò che attiene alla legittimazione passiva,
disciplinata dal II comma dell’art. 1131 c.c. : l’interpretazione giurisprudenziale consolidata sino
all’agosto 2010, ovvero alla data di Cass. S.U. 18332/2010, riteneva che l’amministratore avesse
sempre legittimazione passiva, ovvero potesse essere sempre convenuto in giudizio nelle
controversie che riguardano il Condominio, e ciò anche per quelle che esorbitano le sue
attribuzioni ex art. 1130 c.c., con il solo obbligo – per queste ultime – di dare tempestivo
successivo avviso all’assemblea (art. 1131 terzo comma c. c.).
Si riteneva dunque che l’amministratore fosse sempre il legittimato passivo della domanda
altrui, quale rappresentante del condominio, che avesse sempre potere di rappresentare il
condominio e quindi di potersi validamente costituire e difendere in ogni controversia in cui il
Condominio fosse convenuto anche senza alcuna specifica delibera in proposito e che avesse
solo, per le cause che esorbitano dalle sua attribuzioni ordinarie, un obbligo di informativa da
rendere alla prima assemblea utile.
L’amministratore aveva ben chiaro che tale interpretazione consentiva di conferire
legittimamente mandato ad un difensore, di predisporre ogni utile iniziativa alla tutela delle ragioni
del condominio e di gestire la lite, salvo che l’assemblea una volta informata non decidesse in
maniera difforme (caso assai raro), senza alcun coinvolgimento personale atteso che quella
gestione processuale produceva i propri effetti in capo al condominio convenuto.
E’ pur vero che la norma di corretta amministrazione consigliava, ove vi fosse tempo sufficiente
prima dell’inizio della controversia (ovvero prima del termine ultimo per una utile costituzione in
giudizio) di convocare l’assemblea onde rimettere all’organo deliberante ogni decisione sulla
gestione della lite, ma il dato determinante è che non si riconduceva all’omissione di tale
passaggio alcuna conseguenza processuale né sostanziale a carico del Condominio né tantomeno
dell’amministratore.
Le sezioni unite della Cassazione hanno enunciato il seguente principio di diritto, che pone
anche solidissimi paletti al margine di azione dell’amministratore, “l'amministratore convenuto puo'
anche autonomamente costituirsi in giudizio ovvero impugnare la sentenza sfavorevole, nel
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quadro generale di tutela (in via d'urgenza) di quell'interesse comune che integra la ratio della
figura dell'amministratore di condominio e della legittimazione passiva generale, ma il suo operato
deve essere ratificato dall'assemblea, titolare del relativo potere. La ratifica, che vale a sanare con
effetti ex tunc l'operato dell'amministratore che abbia agito senza autorizzazione dell'assemblea, e'
necessaria sia per paralizzare la dedotta eccezione di inammissibilita' della costituzione in giudizio
o dell'impugnazione, sia per ottemperare al rilievo ufficioso del giudice che, in tal caso, dovra'
assegnare, ex art. 182 c.p.c., un termine all'amministratore per provvedere.”
La tesi pare ulteriormente confermata dall’ordinanza n.26015 della seconda Sezione Civile della
Cassazione depositata il 23/12/2010 con la quale viene fatta applicazione dei principi dettati dalle
sezioni unite e il Giudice rileva come “l'amministratore del condominio dell'edificio … non sia
documentato di essere stato autorizzato dall'assemblea, eventualmente in via di sanatoria, a
costituirsi nel giudizio di legittimita' e a proporre ricorso sicche' va disposto che vi provveda, in
applicazione dei principi enunciati da Cass. S.U 6 agosto 2010 nn. 18331 e 13332; assegna il
termine di giorni novanta dalla comunicazione di questa ordinanza per la rinnovazione delle
notificazioni dei ricorsi incidentali alla societa' Edilizia Alfa e per la produzione dell'autorizzazione
all'amministratore, da parte dell'assemblea del condominio dell'edificio sito in via ...., a costituirsi
nel giudizio di legittimita' e a proporre ricorso incidentale”
Atteso che la legittimazione passiva dell’amministratore rimane immutata sotto il profilo della
destinazione dell’atto, ovvero il terzo comunque dovrà notificare l’atto giudiziario al rappresentante
del condominio, cosa dovrà fare l’amministratore una volta che la notifica si sia perfezionata?
Potrà, ove sussistano ragioni di urgenza e necessità, anche costituirsi in via autonoma, ma
dovrà a quel punto munirsi quanto prima di una delibera che ratifichi il suo operato. Il giudice, in tal
caso, dovrà concedere un differimento dell’udienza ex art 182 c.p.c. per consentirgli di ottenere la
delibera di ratifica, in assenza della quale ogni atto compiuto sarà radicalmente nullo ed inefficace
sin dall’inizio.
Le linee applicative pratiche non possono tuttavia ignorare, né riescono a risolvere, le gravi
problematiche concrete che l’amministratore si troverà ad affrontare nella vita professionale
quotidiana dovendosi attenere al nuovo principio enunciato dalla corte. Pare utile, allo scopo,
sottolineare quanto segue:
1. Per le liti che il condominio intende promuovere verso terzi o verso condomini nulla è
cambiato: se la materia rientra fra le previsioni di cui all’art. 1130 c.c. l’amministratore potrà agire in
via autonoma (ad esempio riscossione delle quote ex art. 63 disp.att.); in caso diverso dovrà
munirsi di apposita delibera assembleare
2. Per le liti in cui il Condominio è convenuto nulla è cambiato per ciò che attiene alle
controversie su materie riconducibili all’art. 1130 c. c. : potrà costituirsi anche in via autonoma.
Rientrano in tale previsione i provvedimenti in via d’urgenza, le possessorie ed i provvedimenti
sommari e cautelari, che hanno termini di comparizione molto brevi e che rientrano in quanto
stabilito dai nn. 2 e 4 di detta norma.
3. Per le liti in cui il Condominio è convenuto e che esorbitano dalle previsioni di cui all’art.
1130 c.c. l’amministratore dovrà necessariamente munirsi di delibera che lo autorizzi a costituirsi.
Per tale ultima ipotesi è indispensabile analizzare i casi di più frequente applicazione onde
evidenziare quelle situazioni che possono nascondere insidie:
 Per le cause ordinarie davanti al Tribunale che, ai sensi dell’art. 163 bis c.p.c., hanno
termine di comparizione pari a 90 giorni, essendovi un lasso di tempo più che sufficiente a
convocare l’assemblea necessaria a deliberare sulla lite, l’amministratore dovrà provvedere in tal
senso e solo successivamente, in caso di delibera favorevole rivolgersi ad un avvocato per
conferirgli procura alla lite. Nel convocare l’assemblea dovrà tenere conto che nelle cause dinanzi
al Tribunale è necessario costituirsi venti giorni prima dell’udienza per proporre domande
riconvenzionali, per chiamare in causa terzi, per svolgere eccezioni processuali e di merito non
rilevabili d’ufficio. Il termine utile da considerare ai fini dell’ottenimento della delibera assembleare
necessaria per la gestione della lite è dunque di settanta giorni (e fatto salvo il tempo necessario al
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legale per predisporre la difesa). Nelle cause dinanzi al Giudice di Pace i termini di comparizione
sono ridotti alla metà, ma non sussiste l’onere di anticipata costituzione a pena di preclusioni,
quindi il termine utile di cui sopra è di quarantacinque giorni.

E’ di tutta evidenza che, nel caso appena indicato, ove il Condomino assuma una delibera,
nel senso favorevole alla costituzione o in senso contrario, l’amministratore non dovrà far altro che
conformarsi a tale volontà dandovi attuazione.

Il problema sorgerà tuttavia laddove l’assemblea deliberi con maggioranze inidonee o non
riesca a deliberare per mancata partecipazione: nella prima ipotesi la delibera, viziata da
annullabilità, è efficace e deve essere eseguita sino al momento in cui – in caso di impugnativa – il
giudice non ne sospenda l’efficacia. L’amministratore dovrà dunque prudenzialmente dar corso alla
costituzione in giudizio, salvi gli sviluppi successivi del procedimento di eventuale impugnativa
della delibera che autorizza alla costituzione.

Più complessa appare l’ipotesi di mancato raggiungimento di alcuna volontà assembleare
per assenza dei condomini: in tal caso è pressoché impossibile dare indicazioni certe sulla
condotta da tenere che dovrà essere informata caso per caso al criterio della diligenza del buon
padre di famiglia e della cura degli interessi del mandante. L’amministratore valuterà di volta in
volta valore ed importanza della causa e potrà anche decidere di costituirsi chiedendo poi al
Giudice un termine per l’ottenimento di ratifica; e tale condotta sarà particolarmente auspicabile in
cause di serio rilievo dove vi sia da chiamare in causa terzi o da svolgere domande riconvenzionali
che possono essere avanzate a pena di decadenza solo nei termini di cui all’art. 166 c.p.c.: si
pensi a gravi danni cagionati ad un immobile privato o a lesioni cagionate ad un terzo da una
caduta di un cornicione o a controversie concerti appalti di lavori economicamente assai rilevanti e
sia indispensabile chiamare in causa la compagnia di assicurazione. In tal caso la posta in gioco
fra la mancata attivazione della garanzia ed il possibile rischio di non vedersi ratificata la decisione
di costituirsi deve far propendere per una iniziativa che sia volta in via prioritaria alla tutela delle
ragioni del condominio lasciandogli integri tutti i mezzi di difesa.

Peraltro da alcuni commentatori di prima istanza tale attività è stata valutata come una utile
gestione da parte dell’amministratore che non potrà in nessun caso, ove si attenga a parametri di
diligenza e buona fede, essere chiamato a risponderne sotto il profilo patrimoniale neanche nel
caso in cui non si addivenisse a successiva ratifica dell’assemblea in ordine alla conduzione della
lite.

Onde limitare al minimo le ipotesi pericolose appena evidenziate è utile che
l’amministratore, nel convocare l’assemblea, alleghi la copia dell’atto notificatogli e sottolinei in
modo particolare che, nel caso l’assemblea andasse deserta o la delibera non fosse valida, vi
sarebbero conseguenze negative per il condominio, ad esempio decadenza dal diritto di chiamare
l’assicurazione a garanzia, e che ciascun condomino può costituirsi in giudizio, sussistendo la sua
legittimazione processuale concorrente con quella dell’amministratore.

Più difficile valutare la condotta da tenere nel caso di Accertamento Tecnico Preventivo
(ATP), in quanto si tratta di procedimento tendenzialmente a natura non contenziosa che non si
conclude con un pronuncia che statuisca sulle spese, anche se nella successiva causa di merito
promossa contro il Condominio in caso di soccombenza questo potrebbe vedersi condannato a
pagare anche le spese dell’ATP. Si tratta di procedimenti in cui il termine fra la notifica dell’atto e
l’udienza di comparizione è mediamente oscillante fra i 10 e i 20 giorni e che quindi assai
difficilmente consente di ottenere preventiva autorizzazione assembleare. Nell’incertezza di una
interpretazione giurisprudenziale ancora da venire, appare opportuno che l’amministratore si attivi
per costituirsi regolarmente in udienza, al momento della comparizione chieda un breve rinvio
onde poter svolgere l’assemblea che sarebbe utile avesse già convocato sin dal momento in cui ha
ricevuto l’atto; deve valutarsi che spesso le spese più rilevanti dell’accertamento sono, prima di
quelle difensive – posto che solitamente il procedimento si risolve con una udienza e l’incarico al
Consulente tecnico nominato – quelle dell’eventuale Consulente di parte che il Condominio
ritenesse di nominare e che mai sarebbero ripetibili da alcuno. Almeno tale adempimento potrebbe
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– attenendosi alle cautele testè evidenziate – essere rimesso alla decisione assembleare
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MODULO N. 3
L’assemblea
(Ferdinando della Corte - Fabio Gerosa)
3.1 - Le attribuzioni
Alla naturale domanda “che cos’è” l’assemblea di condominio, possiamo innanzi tutto
rispondere che è l’organo decisionale, primario ed essenziale, del condominio. E’ il fulcro intorno
al quale ruota l’intera vita nella comproprietà.
I condòmini riuniti, vedremo poi con quali modalità, discutono e decidono sul da farsi in
relazione ai beni comuni dell’ente di gestione: questa è l’assemblea. Tutte le decisioni vengono
prese e debbono essere prese in assemblea.
Nella vita condominiale le deliberazioni prese al di fuori dell’assemblea dei condomini sono
giuridicamente inesistenti, prive di qualsiasi efficacia sia nei confronti dei condòmini che dei terzi
estranei al condominio.
La classica raccolta di firme di qualche volenteroso (a volte troppo) condomino può valere tutt’al
più come istanza da portare in discussione in assemblea, giammai come autonoma deliberazione
vincolante per il condominio.
Le principali attribuzioni dell’assemblea dei condòmini sono stabilite dall’art. 1135 del Codice
Civile, che prevede i quattro punti seguenti :
a) “conferma dell’amministratore ed eventuale sua retribuzione”.
In realtà, oltre alla “conferma”, l’assemblea provvede alla nomina e alla revoca
dell’amministratore, come disciplinato dall’art. 1129 “quando i condomini sono più di quattro,
l’assemblea nomina un amministratore“ e dal comma 4 dell’art. 1136 c.c.“ le deliberazioni che
concernono la nomina e la revoca dell’amministratore …”
L’inciso “eventuale sua retribuzione” pone in rilievo come l’attività dell’amministratore - che si
presume onerosa - potrebbe essere gratuita e che l’entità del compenso deve essere determinato
dai condomini. La determinazione del compenso non è una misura stabilita da leggi, albi o
associazioni di categoria, è invece frutto della libera contrattazione delle parti.
In pratica, allorché l’assemblea dei condomini nomina Tizio quale amministratore,
automaticamente ed implicitamente accetta anche la richiesta del compenso formulata dal
candidato amministratore al momento della sua proposta.
b) “approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l’anno e relativa ripartizione fra i
condomini”.
Decidere se e quali spese il condominio dovrà sostenere è compito della riunione assembleare.
L’amministratore presenterà ai condòmini riuniti in assemblea il preventivo delle spese che
presumibilmente dovranno essere sostenute nel corso dell’anno, ma i condòmini non sono in alcun
modo vincolati ad approvare in tutto o in parte il preventivo di spese predisposto
dall’amministratore. L’assemblea è sovrana nel decidere.
I condòmini sono tenuti sia al pagamento pro quota, delle spese già sostenute, sia, ovviamente
sempre pro quota, in forza dell’art. 1719 c.c. (titolato: mezzi necessari per l’esecuzione del
mandato ” …. a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e
per l’adempimento delle obbligazioni che a tal fine ha contratto in proprio nome”.
Quindi la legge prevede espressamente l’obbligo del condominio (mandante) di fornire
all’amministratore (mandatario) i mezzi (il denaro) necessari per l’espletamento del suo incarico
professionale e tale obbligo è confermato e collegato all’altra specifica disposizione posta al punto
3) dell’art.1130 c.c. che impone all’amministratore di “riscuotere i contributi ed erogare le spese
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occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi
comuni ”.
Ne consegue che, con l’approvazione del preventivo, i condomini debbono anche deliberare la
ripartizione tra loro delle spese previste, con l’avvertenza però che i condomini non possono con
deliberazione presa a maggioranza mutare i criteri di ripartizione stabiliti dalle norme, bensì è
possibile soltanto controllare che nel piano di riparto predisposto dall’amministratore siano
applicate le regole vigenti.
c) “approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore ed impiego del residuo attivo della
gestione”.
Per l’approvazione del resoconto finale e l’utilizzo dell’eventuale residuo attivo vale quanto
scritto al punto precedente relativo all’approvazione del preventivo e della ripartizione delle spese.
Nel caso, invero raro, che all’esito della gestione vi sia un residuo attivo, sarà l’assemblea a
decidere come disporne.
d)”opere di manutenzione straordinaria, costituendo, se occorre, un fondo speciale“.
Anche su questo quarto punto c’è poco da aggiungere a commento. All’amministratore è negato
esplicitamente il potere di ordinare opere di manutenzione straordinaria non urgenti, perché ogni
decisione in materia spetta all’assemblea. Se le opere sono di notevole entità, occorrerà decidere
peraltro con la maggioranza speciale di cui al comma 2 dell’art. 1136 c.c.
3.2 - La convocazione
Chi convoca
L’assemblea è convocata dall’amministratore in carica. Soltanto in tre casi abbiamo una
convocazione non effettuata dall’amministratore:
1) da ciascun condomino, quando manca l’amministratore (la prima volta oppure è deceduto o è
impossibilitato);
2) da almeno due condomini le cui proprietà rappresentino almeno un sesto del valore millesimale
dell’edificio, in caso d’inerzia accertata (art. 66 disp. att. c.c.) dell’amministratore in carica ;
3) dal curatore speciale, come stabilito dall’art. 65 disp. att. c.c.
Perché l’assemblea possa validamente deliberare debbono essere convocati tutti i condomini.
Come si convoca
Nessuna norma impone obbligatoriamente una forma (ad esempio la convocazione scritta) per
convocare validamente un’assemblea di condominio.
Tuttavia, poiché la convocazione deve avere necessariamente certi requisiti che vedremo qui di
seguito, e poiché, in caso di contestazioni future, dovrà essere fornita la prova della sussistenza
dei requisiti in questione, è oltremodo opportuno e consigliabile che le convocazioni avvengano
sempre per iscritto.
Una convocazione orale, seppure teoricamente legittima, è quindi da evitare in ogni caso.
Il sistema largamente più diffuso è la convocazione attraverso la consegna di un foglio scritto
(letto avviso o biglietto di convocazione) che deve necessariamente contenere i seguenti elementi
essenziali, senza i quali la convocazione è inutile e giuridicamente invalida:
1) la data ( giorno, mese e anno ) e l’orario;
2) la previsione della prima e della seconda convocazione;
3) il luogo;
4) l’ordine del giorno.
Inoltre, seppure non sottolineato dalla giurisprudenza, è sempre opportuno che l’avviso rechi
l’indicazione di chi abbia convocato l’assemblea, quasi sempre l’amministratore, così da porre i
condomini in condizione di avere piena conoscenza della regolarità della convocazione.
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Per ovvie ragioni di praticità ed economia, nello stesso avviso vanno indicati il luogo, la data e
l’ora dell’assemblea di prima e di seconda convocazione, rammentando che l’art. 1136 c.c. impone
che l’assemblea di seconda convocazione non può essere tenuta nello stesso giorno della prima,
né oltre dieci giorni dalla prima.
Secondo quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 66 delle disposizioni per l’attuazione del
codice civile, l’avviso di convocazione “deve essere comunicato ai condomini almeno 5 giorni
prima della data fissata dell’adunanza”.
In altre parole l’assemblea deve essere convocata lasciando almeno 5 giorni tra il momento del
ricevimento della comunicazione e quello della data di prima convocazione dell’assemblea stessa.
I giorni iniziano a decorrere da quello seguente il ricevimento dell’avviso da parte del condomino.
Perché l’assemblea sia valida, quindi, l’avviso di convocazione deve essere ricevuto dal
condomino con il rispetto dei tempi sopra indicati.
E’ legittimo qualsiasi sistema per la consegna dell’avviso di convocazione.
Se il regolamento di condominio prevede come obbligatorio un determinato sistema di
convocazione (ad esempio spedizione con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, oppure
convocazione con avviso da consegnare 15 giorni prima della data fissata dell’assemblea)
l’amministratore è tenuto ad eseguire la convocazione dell’assemblea nel rispetto della norma del
regolamento.
Viceversa, nel silenzio del regolamento, l’amministratore potrà eseguire la convocazione dei
condòmini con le modalità da lui ritenute opportune, sempre nel rispetto dei termini e dei requisiti
già indicati, ma tenendo inoltre ben presente che costituisce onere dell’amministratore provare di
avere convocato i condòmini regolarmente. La prova che il condòmino assente sia stato
convocato con corretta tempestività è sempre dell’amministratore.
Chi viene convocato
Come già evidenziato, perché l’assemblea possa validamente deliberare debbono essere
convocati tutti i condomini.
L’art. 1136 c.c., comma 6, prevede espressamente che l’assemblea non possa deliberare se
non risulta che sia stata convocata la globalità dei condomini.
Anche il condomino che ha promosso una causa contro il condominio deve essere convocato
all’assemblea nella quale si discuterà se e come difendersi dalla sua azione.
Sono condomini i proprietari, non i conduttori (detti anche inquilini).
Nel caso di comproprietari, debbono essere convocati singolarmente tutti i comproprietari,
tuttavia se i comproprietari sono marito e moglie o fratelli conviventi, la convocazione consegnata
ad uno si presume conosciuta anche dall’altro.
Deve essere peraltro sottolineato che a fronte del diritto alla partecipazione (da intendersi =
presenza) di tutti i comproprietari, il voto è e rimane uno solo, per cui il diritto di parlare e
soprattutto di votare spetta ad uno solo dei comproprietari, che designeranno tra di loro il
rappresentante ovvero, in caso di disaccordo tra loro, sarà designato dal presidente
dell’assemblea mediante sorteggio (art. 67 comma 2 disp. att. c.c.).
L’usufruttuario ( l’usufrutto è il diritto di godere della cosa altrui senza esserne il proprietario,
con l’obbligo di rispettare la destinazione economica del bene ), in forza del disposto dell’art. 67
comma 3 disp. att. c.c., ha diritto di partecipazione e di voto “negli affari che attengono all’ordinaria
amministrazione”.
Il conduttore non deve essere convocato dall’amministratore.
E, nel caso in cui il conduttore abbia il diritto di partecipare e votare, in forza dell’art. 10 della
legge 27 luglio 1978 n. 392, cosiddetta legge “equo canone” il conduttore può avere diritto di voto
nelle deliberazioni relative alle spese e alle modalità di gestione del servizio di riscaldamento, ma
la sua convocazione è onere del proprietario dell’appartamento e non dell’amministratore.
3.3 - La costituzione
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Le assemblee di condominio si distinguono in due tipi: assemblea di prima e di seconda
convocazione.
La differenza, peraltro ben rilevante sul piano pratico, consiste unicamente nella diversità delle
maggioranze necessarie per calcolare la validità della costituzione e delle delibere; mentre tra
prima e seconda convocazione non vi è alcuna differenza per quello che concerne il contenuto
delle delibere, perché non vi è alcun argomento che non possa essere trattato indifferentemente in
ciascuna delle due assemblee.
Il codice non menziona un’assemblea in terza convocazione, per cui, se anche la seconda va
deserta, è necessario riconvocarla.
Spesso le assemblee vengono anche definite “ordinarie” e “straordinarie”.
In realtà è una differenza nominale più dannosa che utile, perché spesso è fonte di confusione
tra i condomini, i quali sono portati a credere, erroneamente, che spese o manutenzioni
straordinarie possano essere discusse e votate soltanto in apposite assemblee straordinarie. Ma
ciò non è assolutamente vero. Qualsiasi argomento può essere validamente discusso sia in sede
di assemblea ordinaria, che in sede di assemblea straordinaria. Pertanto, facendo nostro il
suggerimento dei padri latini che sconsigliavano di moltiplicare inutilmente le categorie e le
classificazioni, siamo dell’avviso che eliminare la dicitura “ordinaria“ e “straordinaria“ non soltanto
non arrechi alcun danno, ma anzi semplifichi i rapporti.
Assemblea in prima convocazione
L’art. 1136 c.c. comma 1 prescrive testualmente : “l’assemblea è regolarmente costituita con
l’intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e i due
terzi dei partecipanti al condominio”.
Una regola chiara, che indica con esattezza il quorum (numero) dei condomini che debbono
essere presenti al momento dell’apertura della riunione, affinché l’assemblea stessa sia valida.
L’art. 1136 fa parte del novero delle norme dichiarate inderogabili dal legislatore (ultimo comma
dell’art. 1138 c.c.), quindi neppure un regolamento avente norme di carattere contrattuale o
l’accordo pattizio dei condomini potrebbe validamente modificare il quorum fissato dalla legge.
Con l’occasione si evidenzia che per “presenti” si intende sia chi interviene di persona sia chi
partecipa per delega. Il delegante è presente a tutti gli effetti di legge attraverso il suo delegato. Se
Tizio, condomino, è portatore di quattro deleghe, saranno conteggiati cinque condomini presenti.
Non esistono limiti numerici per le deleghe, salvo che siano fissati in un regolamento avente norme
di carattere contrattuale.
La legge non impone alcuna formalità per le deleghe. Nel silenzio della legge, è valida la delega
rilasciata in qualsiasi forma, anche a voce. La delega orale è valida ed efficace.
L’amministratore può validamente essere delegato da uno o più condomini, salvo l’eventuale
divieto posto da un regolamento avente norme di carattere contrattuale, evidenziando però che la
giurisprudenza prevalente ritiene non legittima la delega a favore dell’amministratore di condominio
per argomenti per i quali potrebbe esserci un conflitto di interessi, quali la nomina del medesimo
amministratore o l’approvazione di bilanci, consuntivi o preventivi, redatti dallo stesso.
Il primo comma dell’art. 1136 c.c. evidenzia subito il principio essenziale che informa ogni passo
della vita condominiale: il principio della doppia maggioranza.
E’ il criterio cardine posto dal legislatore alla base del funzionamento dell’assemblea
condominiale: il calcolo delle maggioranze risulta sempre (le eccezioni sono rarissime e appunto
sono eccezioni dalla combinazione di due elementi, che debbono sussistere congiuntamente,
ovvero
l’elemento personale (vale a dire i soggetti) e l’elemento del valore (quote di
partecipazione al godimento dei beni e delle cose comuni espresse in millesimi).
L’esigenza che il legislatore ha inteso salvaguardare è quella di non dare eccessiva prevalenza
né al fattore economico, si pensi al caso di un unico soggetto proprietario di numerosi
appartamenti e quindi portatore di molti millesimi, né all’elemento personale, si pensi al caso di
proprietari soltanto di boxes o cantine che se numerosi potrebbero imporre la loro volontà
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all’interno dell’assemblea.
L’assemblea è costituita validamente se il numero legale sussiste al momento della costituzione
(apertura) dell’assemblea, essendo irrilevanti, ai fini della costituzione stessa, successive defezioni
nel corso dello svolgimento.
Assemblea in seconda convocazione
Il codice civile all’art. 1136 non richiede esplicitamente un quorum minimo per la validità della
costituzione dell’assemblea in seconda convocazione.
Non c’è quindi una norma omologa a quella dell’art. 1136 c.c. comma 1, tuttavia nei fatti il
quorum costitutivo esiste ed è quello minimo previsto per la validità delle deliberazioni.
Infatti, in forza dell’art. 1136 comma 3 c.c., in seconda convocazione “la deliberazione è valida
se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un
terzo del valore dell’edificio”.
Poiché non è valida alcuna deliberazione assunta con una maggioranza inferiore a quella
minima sopra citata, se sono presenti meno di un terzo dei partecipanti al condominio (=
condòmini ) l’assemblea non può deliberare e quindi è legittimo concludere che l’assemblea non
possa considerarsi validamente costituita con la presenza di meno di un terzo dei condomini.
3.4 - Lo svolgimento e le deliberazioni
La nomina del presidente e del segretario. La presenza dell’amministratore
Uno dei primi compiti dell’assemblea è provvedere alla nomina del presidente e del segretario.
Nessuna norma del codice impone in modo esplicito tale nomina, ma è una prassi consolidata e
utile, la cui validità si può desumere indirettamente dall’art. 67 disp. att. c.c.
Il presidente è validamente eletto dalla maggioranza semplice dei presenti in assemblea,
limitando il computo al dato numerico delle persone senza conteggio dei millesimi (cfr. Alberto
Celeste, L’assemblea, 2003, Giuffrè Editore, pag. 200.
I compiti del presidente sono quelli di dirigere l’assemblea, controllando innanzi tutto la
regolarità della convocazione e quindi della costituzione.
E’ altresì compito del presidente accertare che i presenti siano legittimati a presenziare in
assemblea, disciplinare gli interventi ed eventualmente limitarne i tempi al fine di un più ordinato
svolgimento.
Il segretario viene scelto dal presidente o eletto dai condomini, e ha il compito di redigere il
verbale sotto la direzione del presidente. Il suo è un incarico meramente esecutivo.
La presenza dell’amministratore in assemblea non è obbligatoria, nessuna norma lo impone. E’
quasi sempre utile e opportuna.
Lo svolgimento e le modalità di votazione
Lo scopo dell’assemblea è quello di consentire ai condòmini di esaminare e di decidere in modo
collegiale in ordine agli affari del condominio.
Anche per questo aspetto della vita condominiale il legislatore non ha ritenuto opportuno
disciplinare in modo minuzioso le modalità di svolgimento delle assemblee di condominio, ma nel
corso degli anni la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato un insieme di regole che hanno
colmato alcune delle lacune normative e soprattutto hanno dato (o, per meglio dire, hanno cercato
di dare) coerenza al sistema.
Gli argomenti di discussione assembleare vanno esaminati seguendo l’elencazione prevista
dall’ordine del giorno, ma nulla vieta che in assemblea i condomini decidano per motivi di
opportunità di discutere prima un punto e poi un altro, modificando così la scaletta dell’ordine del
giorno; è sicuramente illegittima la deliberazione su di un argomento che non sia all’ordine del
giorno.
Sulla base di quanto sopra precisato sarebbe consigliabile non inserire nell’ordine del giorno la
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rituale voce finale “varie ed eventuali”: infatti, poiché è invalida qualsiasi deliberazione presa su
un argomento non esplicitamente all’ordine del giorno, i condomini non possono assumere alcuna
decisione valida sotto la voce “varie ed eventuali”.
Se invece tale punto viene inserito all’ordine del giorno al solo fine di consentire eventuali
comunicazioni tra i condomini, ovvero tra i condomini e l’amministrazione, tali comunicazioni
possono essere validamente rese anche senza la presenza della voce “ varie ed eventuali ”.
Il presidente, che ricordiamo dirige l’assemblea, pone all’esame dei condomini i vari punti, uno
per volta, seguendo come detto l’ordine del giorno.
Esaminato e discusso ciascun punto, dato atto con la trascrizione nel verbale di assemblea del
resoconto dei vari interventi e delle posizioni espresse dai condomini, la discussione si chiude con
la votazione.
La votazione deve (dovrebbe) essere di approvazione o di rigetto della proposta. O sì o no.
I voti sono sempre positivi o negativi. L’astenuto è comunque un voto non influente ai fini
dell’approvazione
La trascrizione nel verbale di assemblea dell’esito della votazione deve essere fatta con molta
accuratezza, essendo le errate trascrizioni uno dei motivi più frequenti di successive cause di
impugnazione delle delibere.
Anche se può apparire banale o superfluo, deve essere sottolineato che nel verbale di
assemblea deve essere scritto esplicitamente se la proposta viene approvata o respinta. Chiunque
legga il verbale, anche anni dopo, anche se un estraneo, deve essere messo in condizioni di
capire senza incertezze ed equivoci.
Nel caso in cui la proposta venga approvata, deve essere esplicitamente indicato nel verbale se
sia stata approvata a maggioranza o all’unanimità.
Nell’ipotesi di approvazione a maggioranza debbono essere specificamente indicati il numero di
voti a favore e quelli contrari. Poiché la giurisprudenza è costante e pacifica nel ribadire ad ogni
occasione che deve sempre essere possibile controllare a posteriori l’esattezza dell’esito della
votazione, allorché una deliberazione sia stata assunta a maggioranza, se inizialmente sono stati
riportati nel verbale i nominativi di tutti gli intervenuti, è sufficiente indicare i nominativi almeno di
coloro che hanno votato negativo, così da consentire la verifica dei conteggi della votazione.
L’intero sistema è costruito in modo tale da precludere il voto segreto; basti considerare che il
principio della doppia maggioranza rende necessario sempre il conteggio dei millesimi.
Di conseguenza il voto deve essere :
a) palese;
b) per appello nominale;
c) espresso soltanto da chi è presente (di persona o per delega), non valgono quindi voti telefonici
o per corrispondenza;
d) distinto per ciascun argomento all’ordine del giorno. Non è valido un voto generico per tutti i
punti all’ordine del giorno.
Il conteggio dei voti
Primo punto basilare. Una proposta viene approvata quando riceve i voti favorevoli della
maggioranza, vale a dire quando i voti favorevoli sono più numerosi dei voti contrari.
E precisamente una proposta viene approvata (deliberazione) quando risulta avere votato a
favore la maggioranza dei soggetti (l’elemento personale), la quale maggioranza rappresenti
anche la maggioranza dei millesimi (l’elemento del valore).
Ciascuna deliberazione cioè deve soddisfare il principio della doppia maggioranza.
Una proposta di delibera che raccolga la maggioranza di soltanto uno dei due elementi non è
approvata.
Ma avere raggiunto la doppia maggioranza (maggioranza dei voti favorevoli che rappresenti
anche la maggioranza dei millesimi) è necessario, ma non sufficiente.
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La delibera è approvata validamente quando la doppia maggioranza favorevole raggiunga il
quorum minimo stabilito dalla legge per quel tipo di delibera.
Riassuntivamente, possiamo dire che una delibera è approvata validamente quando
concorrono tre condizioni, che debbono essere tutte e tre presenti:
a) abbia votato a favore la maggioranza dei condomini presenti, di persona o per delega;
b) la maggioranza dei condomini presenti che ha votato a favore sia portatore anche della
maggioranza dei millesimi;
c) a maggioranza dei presenti e la maggioranza dei millesimi raggiungano il quorum minimo
previsto dalla legge.
Sul punto non paiono inutili due precisazioni. Maggioranza vuol dire semplicemente “essere di
più”, non vuol dire, come invece molti dicono, la metà più uno, che può apparire una semplice
imprecisione, ma può creare (come in effetti in alcuni casi è avvenuto) contrasti in sede di
deliberazione. Il sistema di calcolare la metà più uno infatti funziona per i numeri pari : ad esempio
su otto condomini la maggioranza è di cinque (la metà, quattro, più uno). Ma non funziona con i
numeri dispari. La maggioranza su cinque condomini è di tre, non di tre virgola cinque; su undici
condomini è di sei condomini, non di sei virgola cinque.
Seconda avvertenza, il fatto che a volte i voti favorevoli raggiungano il quorum minimo previsto
dalla legge (ad esempio, nel caso in cui in seconda convocazione votino a favore
dell’approvazione del rendiconto un terzo dei condomini, il cui valore millesimale è pari ad un terzo
del valore dell’edificio, così soddisfacendo il requisito del quorum chiesto dall’art. 1136 c.c.) non
implica che la delibera sia approvata se i voti contrari sono più numerosi.
Occorre sempre rammentare che, affinchè una delibera sia approvata, il primo e fondamentale
requisito, tanto banale e scontato da non essere giustamente menzionato dalla legge, è che i voti
favorevoli siano di più di quelli contrari.
Le maggioranze semplici e quelle qualificate o speciali
L’art. 1136 c.c., probabilmente una delle norme più rilevanti in materia condominiale, stabilisce,
a seconda delle materie in discussione in assemblea, le varie maggioranze necessarie per la
validità delle relative deliberazioni.
Ovviamente la norma in esame è ben lungi dall’esaurire tutte le fattispecie che la vita reale ci
propone quotidianamente, pertanto spesso l’amministratore dovrà fare riferimento a prassi
consolidate o agli indirizzi dettati dalla giurisprudenza.
Laddove il codice non specifica alcunché, significa che non sono previste maggioranze
particolari, sicché sono necessarie e sufficienti le maggioranze semplici, intese come
corrispondenti alla maggioranza minima prevista dalla legge, vale a dire:
a) in prima convocazione “sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio”.
b) in seconda convocazione “la deliberazione è valida se riporti un numero di voti che rappresenti
il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio”.
L’art. 1136 c.c. comma 4 individua un gruppo di materie per le quali le deliberazioni in seconda
convocazione debbono essere assunte con un quorum minimo più alto di quello semplice ed
esattamente è richiesta quella stessa maggioranza che in prima convocazione deve sempre
sussistere: la maggioranza degli intervenuti pari ad almeno la metà del valore dell’edificio.
In altre parole, quel quorum minimo che in prima convocazione costituisce la maggioranza
necessaria per tutte le delibere semplici, diviene il quorum speciale in seconda convocazione.
Gli argomenti per i quali è prevista la predetta maggioranza qualificata in seconda
convocazione sono:
a) la nomina e la revoca dell’amministratore;
b) le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore
medesimo;
c) la ricostruzione dell’edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità;
d) l’approvazione del regolamento condominiale.
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L’art. 1136 c.c. comma 5 individua un altro gruppo di argomenti per il quale è necessaria una
maggioranza qualificata, ed esattamente le deliberazioni che hanno per oggetto le “ innovazioni ”
disciplinate dall’art. 1120 c.c. comma 1.
In questo caso il codice chiede che le deliberazioni siano “sempre approvate con un numero di
voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore
dell’edificio”.
Efficacia delle deliberazioni
Le deliberazioni, anche quelle assunte a maggioranza, vincolano tutti i condomini, assenti,
contrari e astenuti compresi. Vige il principio che le decisioni assunte dalla maggioranza sono
vincolanti anche per la minoranza dissenziente. Le deliberazioni sono immediatamente esecutive.
L’impugnazione dinanzi al Tribunale di una delibera non ne sospende l’efficacia e l’esecutività.
Anche le deliberazioni in astratto invalide sono valide ed efficaci fino a quando, all’esito di un
giudizio di impugnazione, il Tribunale non le abbia cancellate.
Invalidità delle deliberazioni
L’art. 1137 c.c. prevede che ciascun condomino dissenziente possa impugnare le deliberazioni
che ritiene siano state assunte “contrarie alla legge o al regolamento di condominio”.
Impugnazione vuol dire ricorso all’autorità giudiziaria, cioè proporre una causa contro il
condominio.
Qualsiasi attività diversa dal ricorso all’autorità giudiziaria non costituisce impugnazione di
delibera, quindi, al fine dell’impugnativa, sono del tutto irrilevanti lettere raccomandate, fax,
telegrammi, posta elettronica, telefonate, o qualsiasi altra forma di comunicazione.
In buona sostanza l’impugnazione è la presentazione da parte di un condomino (tramite la
rappresentanza di un avvocato) della delibera ritenuta viziata all’esame del magistrato, il quale
dovrà accertare la sussistenza o meno del vizio lamentato e provvedere di conseguenza.
L’art. 1137 c.c. nella sua scarna linearità si è completamente disinteressato della qualificazione
dell’invalidità della delibera da impugnarsi, cioè non si è minimamente curato della distinzione che
dottrina e giurisprudenza da sempre hanno operato nel diritto privato tra “vizi di nullità ” e “vizi di
annullabilità”, o più semplicemente tra “nullità” e “annullabilità” dell’atto viziato.
Dalla semplice lettura dell’art. 1137 c.c. risulterebbe chiaro che il legislatore abbia inteso
stabilire un unico regime, tanto semplificato fino ad essere draconiano e rigoroso, per porre riparo
ad una delibera illegittima: il condomino dissenziente, l’astenuto e l’assente hanno trenta giorni di
tempo per porre al vaglio del tribunale la delibera che presume viziata. Al trascorrere dei trenta
giorni - termine veramente troppo esiguo - senza che nessun condomino abbia agito in sede
giudiziaria, i giochi sono fatti. La delibera diviene valida ed efficace per inerzia degli interessati,
vale a dire dei condomini che erano contrari alla delibera illegittima.
Ma il sistema di impugnazione previsto dall’art. 1137 c.c. è parso da subito effettivamente
troppo scarno e semplice a tutti o quasi gli operatori del diritto, siano essi studiosi o magistrati, i
quali hanno correttamente evidenziato che escludere sempre la distinzione tra “nullità” e
“annullabilità” della delibera, oltre ad essere in contrasto stridente con l’intero sistema del diritto
civile, possa portare nella pratica quotidiana a risultati di grave ingiustizia.
Di conseguenza la distinzione tra vizi “di nullità” e vizi “di annullabilità” è tornata
prepotentemente (tramite le sentenze e gli studi più autorevoli) nel diritto condominiale e con tale
distinzione dobbiamo fare i conti, che non sono né semplici né soprattutto definitivi.
Come è facile intuire, la “nullità” è un difetto più grave, più radicale. L’ “annullabilità” indica un
vizio meno rilevante.
Ciò che è estremamente interessante sono le differenze tra i due tipi di vizi, sia nelle
conseguenze di carattere sostanziale che processuale.
Infatti giurisprudenza e dottrina sono concordi nel sostenere che il regime dell’impugnazione
previsto dall’art. 1137 c.c. sia applicabile solo per le delibere “annullabili”.
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Soltanto queste ultime quindi sono impugnabili unicamente dai condomini dissenzienti o assenti
nel breve termine di trenta giorni, decorrente per il dissenziente dal giorno dell’assemblea e per
l’assente dal giorno in cui ne ha avuto piena conoscenza.
Viceversa le delibere “nulle” (il che vuol dire che non sono mai sorte) possono essere
impugnate senza limiti di tempo, sono quindi imprescrittibili, da chiunque vi abbia interesse. Tale
diritto spetta a ciascun condomino, anche a coloro che hanno votato a favore, anche al presidente
che l’ha dichiarata valida.
Il problema fondamentale è che non esiste un elenco certo che individui quali siano i vizi di
nullità e quelli di annullabilità.
E’ il magistrato incaricato di esaminare il caso concreto a decidere se il difetto della delibera
impugnata consista in motivo di nullità o di annullabilità e ogni singolo magistrato ha la piena e
legittima libertà di decidere in base al proprio convincimento, senza essere obbligatoriamente
vincolato da precedenti in materia.
Con funzione meramente indicativa, e nella consapevolezza che chiarisce molto meno di
quanto prometta, possiamo riportare la distinzione tra nullità e annullabilità delle delibere, tratta
dalla nota sentenza della Suprema, la quale ribadisce quanto già detto in numerose altre
occasioni : “sono assolutamente nulle le deliberazioni dell’assemblea prive dei requisiti essenziali
o affette da vizi relativi alla regolarità della costituzione dell’assemblea o della formazione della
volontà della prescritta maggioranza, ovvero prese con riguardo ad oggetto impossibile o illecito o
esorbitante dai limiti dell’attribuzione dell’assemblea, o concernenti innovazioni lesive dei diritti di
ciascun condomino sulle cose comuni o su quelle di proprietà esclusiva di ognuno di essi, mentre
sono invece semplicemente annullabili le deliberazioni affette da vizi formali, e cioè prese in
violazione di prescrizioni legali, convenzionali o regolamentari attinenti al procedimento di
convocazione o di informazione dell’assemblea, nonché quelle affette da eccesso di potere e
quelle viziate da incompetenza, che eccedono cioè il campo riservato all’amministratore” (Cass. 21
febbraio 1995, n. 1890).
APPENDICE A – LE CARATTERISTICHE
LE QUALITÀ SPECIFICHE
DELL’ASSEMBLEA
I NUMERI
PER LE ASSEMBLEE
RICEZIONE DELLA
CONVOCAZIONE
MINIMO 5 GIORNI PRIMA DELLA
RIUNIONE (CHE DECORRONO DAL
GIORNO SUCCESSIVO AL RICEVIMENTO)
CONVOCAZIONE
AD INIZIATIVA
DEI CONDOMINI
MINIMO 2 CONDOMINI CHE
RAPPRESENTINO ALMENO 1/6 DEI MILLESIMI
(OLTRE I 10 GIORNI DALLA RICHIESTA
IGNORATA DALL’AMMINISTRATORE)
LIMITE DELLE DELEGHE
NON ESISTE, SE NON VINCOLATO
DAL REGOLAMENTO CONTRATTUALE
LEGITTIMITA’ DELLA
PRIMA CONVOCAZIONE
PRESENZA DEI 2/3 DI PARTECIPANTI
AL CONDOMINIO PER 2/3
DEL VALORE MILLESIMALE
LEGITTIMITA’ DELLA
PRESENZA DI 1/3 DI PARTECIPANTI
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SECONDA CONVOCAZIONE
AL CONDOMINIO PER 1/3
DEL VALORE MILLESIMALE
LA SECONDA
CONVOCAZIONE
RISPETTO ALLA PRIMA CONVOCAZIONE
NON OLTRE 10 GIORNI
E MAI NELLO STESSO GIORNO
APPENDICE B – I QUORUM
2/3 PARTECIPANTI
2/3 MILLESIMI
1ª CONVOCAZIONE
666,66
COSTITUZIONE
REGOLARE
1/3 PARTECIPANTI
1/3 MILLESIMI
333,33
2ª CONVOCAZIONE
1/2 MILLESIMI
1ª CONVOCAZIONE
1/3 MILLESIMI
2ª CONVOCAZIONE
MAGGIORANZA
DELIBERE
INTERVENUTI
SU MATERIE
IN ASSEMBLEA
ORDINARIE
1/3 PARTECIPANTI
AL CONDOMINIO
MAGGIORANZA
DELIBERE
INTERVENUTI
1/2 MILLESIMI
1ª CONVOCAZIONE
SU MATERIE
IN ASSEMBLEA
500,00
SPECIALI
MAGGIORANZA
INTERVENUTI
IN ASSEMBLEA
DELIBERE PER
INNOVAZIONI
2ª CONVOCAZIONE
500,00
MAGGIORANZA
PARTECIPANTI
AL CONDOMINIO
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1/2 MILLESIMI
2/3 MILLESIMI
1ª E 2ª CONVOCAZIONE
666,66
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MODULO 4
Il Regolamento di condominio
(Marco Saraz)
4.1 - Caratteri Generali
In base all’art. 1138, comma 1, del codice civile quando in un edificio il numero dei condomini è
superiore a dieci, deve essere formato un regolamento le cui norme debbono disporre circa l’uso
delle cose comuni e la ripartizione delle spese, nonché disciplinare i profili della tutela del decoro
architettonico dell’edificio e dell’amministrazione.
Và preliminarmente precisato che il Codice Civile disciplinando la materia del Regolamento
condominiale si riferisce esclusivamente a quello avente origine assembleare approvato con le
maggioranze previste dall’art. 1136, II co. c.c. e trascritto nel registro di cui all’art. 1129 c.c..
Accanto a questo (definito anche “ad origine interna”) la giurisprudenza ha riconosciuto piena
efficacia giuridica a quello “ad origine esterna”, cioè predisposto dall’originario unico proprietario,
che si caratterizza come un vero e proprio contratto.
Il Regolamento condominiale (di qualunque origine esso sia), può essere definito “la legge
interna che organizza ed articola la vita” di tutti i diversi soggetti giuridici che anche a diverso titolo
(proprietari, affittuari, amministratore) operano nell’ambito dell’edificio condominiale.
In altre parole il regolamento riveste in ambito condominiale la funzione che lo statuto assolve in
tema societario; non quindi la inutile ripetizione delle norme già previste dal legislatore, bensì la
personalizzazione di queste (per quanto sia possibile derogarle) adattandole alle effettive esigenze
di regolamentazione che la comunità condominiale riterrà opportune. Tenuto a mente che le norme
inserite nel regolamento non hanno la completa facoltà di autodeterminazione (avendo il
legislatore espressamente previsto, nello stesso art. 1138 c.c., che alcune norme debbano essere
ritenute imperativamente inderogabili), si suole definire il regolamento condominiale come “una
fonte regolatrice di natura secondaria”.
4.2 - Riferimenti normativi
Prima di analizzare i vari aspetti del regolamento è opportuno richiamare le norme di legge
applicabili alla fattispecie, le quali sono fondamentali per la comprensione di ogni suo aspetto; tali
norme sono:
Art. 1138 - Regolamento di condominio
Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un
regolamento, il quale contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese,
secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del
decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.
Ciascun condomino può prendere l’iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o
per la revisione di quello esistente.
Il regolamento deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo
comma dell’art. 1136 e trascritto nel registro indicato dall’ultimo comma dell’art. 1129. Esso può
essere impugnato a norma dell’art. 1107.
Le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino,
quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle
disposizioni degli artt. 1118 secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137.
Art. 68 disp. att. c.c.
Per gli effetti indicati dagli articoli 1123, 1124, 1126 e1136 del codice, il regolamento di
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condominio deve precisare il valore proporzionale di ciascun piano o di ciascuna porzione di piano
spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini.
I valori dei piani o delle porzioni di piano, ragguagliati a quello dell’intero edificio, devono essere
espressi in millesimi in apposita tabella allegata al regolamento di condominio.
Nell’accertamento dei valori medesimi non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti
e dello stato di manutenzione di ciascun piano o di ciascuna porzione di piano.
Art. 69 disp. att. c.c.
I valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati,
anche nell’interesse di un solo condomino, nei seguenti casi:
1) quando risulta che sono conseguenza di un errore;
2) quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza della
sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di vasta portata, è
notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano.
Art. 70 disp. att. c.c.
Per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il
pagamento di una somma fino a lire cento. La somma è devoluta al fondo di cui l’amministratore
dispone per le spese ordinarie.
Art. 72 disp. att. c.c.
I regolamenti di condominio non possono derogare alle disposizioni dei precedenti artt. 63, 66,
67 e 69.
Art. 155 disp. att. c.c.
Retroattività delle norme sui regolamenti di condominio
4.3 - Il regolamento di condominio obbligatorio e quello facoltativo
Come visto, l’art. 1138 c.c. prevede che, quando il numero di condomini presenti in un edificio
sia superiore a dieci (cioè, da undici in poi), divenga obbligatoria la redazione del regolamento, da
approvarsi a cura dell’assemblea con la maggioranza qualificata prevista dall’art. 1136 comma 2
c.c.
Per calcolare correttamente il numero dei condomini occorre precisare che detto numero và
calcolato facendo valere per uno i comproprietari dello stesso “piano o porzione di piano”; di
conseguenza se, per esempio, un appartamento appartiene a più persone, tale complesso di
comproprietari vale come un solo condomino.
Analogamente, se una stessa persona è titolare di due o più proprietà distinte ed esclusive,
questa andrà considerata come unica ai fini del calcolo in indagine.
Nel caso in cui, l’edificio sia costituito da meno di undici condomini, l’adozione del regolamento
è facoltativa.
Tale regolamento facoltativo, tuttavia, una volta approvato dall’assemblea condominiale ha il
medesimo valore, e vincolatività, del regolamento obbligatorio.
Un’ulteriore precisazione è necessaria in riferimento al significato dei termini “obbligatorio” o
“facoltativo”.
Se teniamo presente che quando si parla di condominio ci si riferisce sempre ad una situazione
di “proprietà privata” (seppur con più d’un titolare), ben comprendiamo come l’obbligatorietà e la
facoltatività del regolamento assumono un aspetto del tutto particolare.
Una volta ritenuto che, a ben vedere, il legislatore non ha previsto alcuna sanzione nell’ipotesi
in cui un condominio che si trovasse nella condizione di dover obbligatoriamente adottare un
regolamento ne fosse privo, l’aspetto assume rilevanza allorquando “anche un solo condomino”
pretendesse l’adozione del regolamento e l’assemblea condominiale -o perché in prevalenza
contraria ovvero in quanto impossibilitata dal mancato raggiungimento del necessario quorum
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deliberativo- negasse tale richiesta.
In tale ipotesi, il suddetto condomino allorchè il condominio si trovasse in regime di
“obbligatorietà della formazione del regolamento” avrà tutti i diritti di rivolgere domanda avanti
l’Autorità Giudiziaria (Tribunale Civile) affinchè il Giudice imponga la sua formazione .
Nell’ipotesi diversa (condominio formato da meno di undici condomini e quindi in regime
facoltativo di formazione del regolamento), il medesimo condomino si vedrebbe respinta la
richiesta giudiziale una volta ritenuta la mancanza di obbligo in capo ai condomini della sua
adozione .
4.4 - Norme contrattuali e regolamentatrici
Sia la Dottrina che la Giurisprudenza erano solite distinguere e definire i regolamenti
condominiali in due diverse figure giuridiche: contrattuale ed assembleare.
Laddove per contrattuale si doveva intendere il regolamento condominiale predisposto
dall’originario costruttore e venditore (unico proprietario) dell’imFormata Regular;Times New
Romanmobile preliminarmente o coevamente allegato ai singoli atti di acquisto, od in essi
espressamente richiamato, le cui norme ben potevano determinare il sorgere o di oneri reali
qualora impongano obblighi ai condomini in relazione alle cose comuni ovvero di diritti reciproci di
servitù allorquando limitino le reciproche facoltà di godimento.
Diversamente, per assembleare andava inteso il regolamento proposto ed approvato dai
condomini con la maggioranza prevista dall’art. 1136, II co, c.c., ed avente l’esclusiva potestà di
regolamentare la vita condominiale, ma difettando della possibilità di poter porre limiti di diritti reali,
propri unicamente, come detto, di quello contrattuale.
Da tale distinzione ne discendeva che in sede assembleare i condomini avevano l’unica facoltà
di approvare norme regolamentatrici residuando ad esclusiva facoltà del regolamento esterno la
possibilità di inserire norme contrattuali., nonché ulteriormente una serie di conseguenti
applicazioni (revoca o modifica delle norme).
Rivisitata recentemente la materia, la S.C. di Cassazione e la dottrina più attuale hanno dettato
principi diversi ed attuali dei quali si trarrà qui di seguito spunto.
Precisato innanzitutto che debbono intendersi disposizioni di natura “Regolamentare” tutte
quelle clausole del Regolamento che disciplinano l’uso delle cose comuni e, in generale,
l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi comuni, magari limitandone (ma non vietandone)
l’utilizzazione per i singoli (tutti) nell’interesse collettivo come ad esempio fissandone una
turnazione.
Diversamente debbono qualificarsi norme di natura “Contrattuale” tutte quelle clausole del
Regolamento che con espressi divieti limitino i diritti dei condomini sulle proprietà esclusive, o
comuni e quelle che attribuiscano ad alcuni di loro maggiori diritti rispetto ad altri, e precisamente
quelle relative alla ripartizione delle spese condominiali, quelle limitative dei diritti di proprietà
esclusiva e quelle limitative dei diritti di proprietà comune.
Pertanto prescindendo dalla fonte di formazione ed adozione dalla quale il regolamento
condominiale trae origine interna (approvazione assembleare) od esterna (predisposto
dall’originario costruttore-venditore), in ambo i casi al suo interno potranno coesistere sia norme
regolamentatrici che norme contrattuali.
Tale principio, se nulla modifica nell’ambito del regolamento esterno, diversamente si pone
riguardo quello ad origine interna.
Difatti l’attenzione andrà posta non più genericamente riguardo l’origine del regolamento, bensì
circa le singole e specifiche norme ivi contenute.
Pertanto allorchè venga posto in approvazione assembleare un regolamento al cui interno
coesistano sia norme regolamentatrici che contrattuali, ai fini della loro valida approvazione queste
andranno distinte: per le prime sarà sufficiente il quorum assembleare previsto dall’art. 1136 II co.
c.c., mentre per le norme c.d. contrattuali sarà necessaria esclusivamente l’unanimità dei
partecipanti al condominio (pena la mancata approvazione).
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Da ciò ne consegue che andranno poste al vaglio assembleare, una per una, le singole norme
contenute nel regolamento, e quindi valutato caso per caso il quorum specificatamente raggiunto
per poterne dichiarare la loro regolare approvazione o meno; e non quindi il regolamento
genericamente, che, in tal caso, non potrebbe fornire tale indicazione necessaria e non darebbe la
facoltà ai partecipanti di poter eventualmente diFormata Regular;Times New Romanversificare la
loro effettiva volontà circa ognuna delle norme.
4.5 - Modificabilità delle norma del regolamento
Da quanto detto precedentemente, sarà agile giungere a ben comprendere l’iter con il quale
sarà possibile modificare le norme del Regolamento, sia esso di origine interna che esterna.
Mentre le clausole contrattuali potranno essere modificate solo con il consenso scritto di tutti i
partecipanti al condominio, quelle regolamentari potranno essere variate dall’assemblea con la
maggioranza di cui all’art. 1136, anche se formalmente inserite in un regolamento ad origine
esterna o contrattuale, in quanto la natura di una norma, ribadiamo, dipende esclusivamente dal
suo contenuto piuttosto che dalla sua collocazione.
Altrettanto, và chiarito che anche ancorchè norme regolamentatrici siano state, in origine,
approvate con l’unanimità dei partecipanti al condominio, queste saranno sempre modificabili a
maggioranza non acquistando per l’assenso di tutti carattere contrattuale.
Quanto al “consenso scritto“ necessario per le clausole contrattuali (sia in sede di approvazione
che di revoca o modifica) questo potrà essere ottenuto anche al di fuori del consesso
assembleare, nell’ipotesi uno o più condomini non fossero effettivamente presenti all’adunanza .
Una volta considerata la necessità della forma scritta quanto alle clausole contrattuali del
regolamento, queste poi non potranno mai essere modificate per fatti concludenti (c.d. “facta
concludentia”).
In ultimo va aggiunto che le norme del regolamento potranno altresì essere revocate o
modificate allorquando, queste fossero divenute illegittime per mutamento delle disposizioni di
legge, ovvero se trattasi di regolamenti anteriori al 28.10.1941 (l’art. 155 dd.aa. c.c) nel momento
in cui vi fossero clausole incompatibili con l’attuale codice civile.
In tali casi non occorre alcuna particolare maggioranza per l’abrogazione delle norme contrarie
alla legge, mentre per la sostituzione di esse con nuove norme conformi alla legge occorrerà
sempre la maggioranza di cui all’art. 1136 2° co c.c., trattandosi in sostanza di approvare, in tutto o
in parte, un nuovo regolamento.
4.6 - I limiti della potestà regolamentare
L’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. stabilisce un duplice ordine di limite al potere dispositivo delle
norme del regolamento di condominio.
Il primo,”generico“, che tali norme non possono “in alcun modo“ menomare i diritti di ciascun
condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni (se non con l’unanimità dei
consensi).
Il secondo, specifico, relativamente alle disposizioni in ordine:
– ai diritti dei partecipanti sulle cose comuni (1118 2°co c.c.), il condomino non può,
rinunziandovi, sottrarsi al contributo per la loro conservazione;
– all’indivisibilità delle parti comuni (1119 c.c.), salvo che l’operazione possa avvenire senza
rendere più incomodo l’uso del bene da parte di ciascun condomino;
– alle innovazione (1120 c.c.), riguarda l’inderogabilità delle maggioranze necessarie per la loro
approvazione nonché il divieto di eseguire le stesse in determinate ipotesi;
– alla nomina ed alla revoca dell’amministratore (1129 c.c.); nessun regolamento può modificare
quanto disposto dalla Legge in ordine alla nomina ed alla revoca dell’amministratore;
– alla rappresentanza nelle liti (1131 c.c.); non possono essere derogati o sottratti i poteri di
rappresentanza sostanziale e processuale dell’Amm.re. Di contro è lecita la clausola che
attribuisca al medesimo maggiori poteri.
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– al dissenso dei condomini rispetto alle liti (1132 c.c.)
– alla costituzione dell’assemblea e la validità delle delibere (1136 c.c.);
– all’impugnazione delle delibere (1137 c.c.) si riferisce alla obbligatorietà delle delibere
assembleari nei confronti di tutti i condomini ed alle modalità d’impugnazione, in senso assoluto
ed anche estesa agli artt. 63, 66, 67, e 69 dd. aa. C.c. quali: la possibilità di richiedere decreto
ingiuntivo per riscuotere i contributi, alla solidarietà del condomino subentrante nel pagamento
degli oneri relativi all’anno in corso e a quello precedente, all’eventuale sospensione dei servizi
per morosità (63), alla convocazione delle assemblee straordinarie (66) all’intervento in
assemblea mediante deleghe (67), ai casi tassativi di revisione dei valori delle tabelle
millesimali (69).
In tali ipotesi normative, non è ammessa “in nessun caso“ alcuna deroga trattandosi di materie
che eccedono la mera gestione condominiale.
Nell’ipotesi un regolamento condominiale, sia esso di origine esterna che assembleare,
contenesse al suo interno norme disciplinanti in forma diversa i contenuti dei suddetti articoli
assolutamente inderogabili, tali norme sarebbero nulle ed impugnabili avanti il Tribunale senza
limite di tempo.
Frequente esempio di violazione di tale inderogabilità assoluta era riscontrabile nei regolamenti
predisposti dall’originario costruttore-venditore, al cui interno erano spesso inserite clausole a
mezzo delle quali veniva riservata la nomina dell’amministratore esclusivamente al medesimo per
un certo arco di tempo.
4.7 - L’opponibilità del Regolamento
E’ evidente che gli obblighi contrattuali scaturenti dal regolamento assolvono le loro funzioni
unicamente se vincolano non soltanto i soggetti stipulanti, ma pure tutti i loro aventi causa,
successivi titolari di diritti sugli immobili gravati da tali obblighi.
Poiché l’art. 1372 c.c. prevede che gli atti negoziali di regola “producono effetti soltanto fra le
parti”, si pone il problema dell’opponibilità di tali vincoli nei confronti dei successivi “aventi causa”.
Se nessun dubbio sorge riguardo gli eredi dell’originario condomino, che in quanto tali
subentrano automaticamente nella sua stessa posizione giuridica, ovvero nei confronti del
conduttore anch’esso tenuto al rispetto delle norme, notevoli difficoltà potrebbero emergere circa i
successivi acquirenti dell’unità immobiliare gravata da un regolamento contenente obblighi e
limitazioni di natura contrattuale.
In tale ipotesi, il regolamento sarà opponibile ai terzi acquirenti purchè il regolamento sia stato
trascritto nei pubblici registri immobiliari della conservatoria, o comunque accettato da chi subentra
nella proprietà dell’immobile.
Quindi a seguito della trascrizione del regolamento di condominio contenente norme contrattuali
(inserito o allegato nel contratto di compravendita) si attua la funzione di rendere conoscibile ai
terzi acquirenti e di renderlo opponibile.
Contrariamente, l’omessa trascrizione determina l’inopponibilità ai successivi acquirenti delle
clausole limitative dei diritti esclusivi di proprietà., i quali, per l’effetto, in tal caso non sono tenuti al
rispetto di dette eventuali norme, differentemente dagli altri condomini.
Vi è poi una particolare questione sulla quale è necessaria una puntualizzazione: il quarto
comma dell’art. 1138 c.c. prescrive che “il regolamento deve essere... trascritto nel registro
indicato dall’ultimo comma dell’art. 1129”, da non confondere con la assolutamente diversa
disposizione di trascrizione nei registri immobiliari di cui prima.
In questo caso, si tratta di una disposizione del codice civile che, seppur ancor presente, non ha
alcun valore e non influisce in alcun modo sull’approvazione o sulla validità del regolamento di
condominio.
4.8 - Sanzioni
Il codice prevede una duplice possibilità di irrogare sanzioni nei confronti dei condomini
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irrispettosi delle disposizioni regolamentari o morosi; premesso che entrambe le ipotesi,
disciplinate dagli Artt. 63 e 70 dd.aa. c.c. possono operare solo se stabilite da apposite clausole
regolamentari, risultando illegittime eventuali mere delibere assembleari che vi abbiano provveduto
in merito.
1° Caso: CONDOMINI MOROSI
l’ultimo comma dell’art. 63 dd.aa. considera la possibilità della sospensione dell’utilizzazione dei
servizi comuni suscettibili di godimento separato, se la morosità si protrae da oltre un semestre e,
ribadiamo, se prevista dal espressamente dal regolamento.
2° Caso: CONDOMINI CHE VIOLANO IL REGOLAMENTO
E’ prevista la comminazione di una “multa” per le infrazioni al regolamento consistente nel
“pagamento di una somma fino a lire 100”(€ 0,05) da devolversi al fondo per le spese ordinarie,
risultando illegittimo aumentare tale sanzione, quantunque l’art. 70 dd.aa. c.c. non sia prevista
come norma inderogabile,
4.9 - Aspetti pratici
Una volta chiariti e tenuti a mente gli aspetti normativi del regolamento condominiale, sarà utile
sottolineare alcune regole-guida che l’amministratore dovrà, nella pratica, seguire.
1. L’Amministratore che assume l’amministrazione di un condominio, dovrà immediatamente
informarsi se vi è un Regolamento, e nell’ipotesi positiva leggerlo attentamente e rispettarlo (si
pensi ad eventuali disposizioni circa le convocazioni assembleari o le ripartizioni delle spese).
2. Se il condominio sia del tutto sprovvisto di regolamento ed il numero dei condomini è superiore
a dieci, gli spetterà il compito di proporre all’assemblea –per l’approvazione- un regolamento,
avendo cura (se esistono patti relativi al condominio nei rispettivi atti di acquisto) di non
predisporre norme contrarie a quei patti, che potranno essere derogati solo all’unanimità .
3. Il procedimento di adozione è quello di una normale deliberazione dell’assemblea condominiale.
Sull’inserimento dell’argomento nell’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione,
vale la pena di precisare che, al fine di una più completa informazione dei condomini, è
opportuno che il testo del regolamento possa essere consultato senza limitazioni da questi
ultimi.
Ciò può avvenire o mediante la sua allegazione all’avviso di convocazione, oppure attraverso
l’indicazione, contenuta nel testo dell’avviso stesso, della disponibilità del documento presso lo
studio dell’amministratore.
Tale precauzione si rende necessaria in quanto il testo del regolamento, per la sua complessità
ed ampiezza, non consente una piena analisi nella sola sede della riunione dell’assemblea
condominiale.
4. Le norme contrattuali (approvate all’unanimità) prevalgono sulle norme del codice civile e delle
disposizioni di attuazioni, semprechè tali norme siano derogabili, ma non prevalgono sulle
norme espressamente dichiarate inderogabili dagli art. 1138 c.c. e 72 disp.att..
5. Le norme regolamentatrici, se approvate a maggioranza dall’assemblea, invece, deve essere
sempre conforme a tutte le norme di legge.
Per chi ne volesse sapere di più…
• Il Codice stabilendo che il R. è obbligatorio allorchè i partecipanti al cond. sono superiori a 10,
non esclude la facoltà di poter approvare o accettare un R. anche se i condomini siano di
numero inferiore ad 11.
• Il R. invece non può essere formato qualora i condomini siano solo due, mancando la possibilità
di una maggioranza qualificata (in tal caso per la regolamentazione dei rapporti si applicano le
disposizioni relative alla comunione artt. da 1100 a 1116 c.c. .
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• Ai divieti di utilizzo delle proprietà esclusive non si applicano criteri di analogia (Trib. Milano
31.12.2005), pertanto è lecito destinare a ristorante un locale insito in un cond. il cui R. vieta
“attività recanti disturbo o pregiudizio”.
• E’ legittima la clausola che escludesse uno o più condomini da un certo tipo di spesa, ovvero le
attribuisse ad un solo condomino;
• E’ illegittima la clausola che impone e limita la vendita della singola proprietà esclusivamente
agli altri condomini
• E’ legittima la clausola del Regolamento che stabilisca che le funzioni di amministratore siano
esercitate fra un professionista scelto in una determinata categoria specializzata.
• E’ legittima la clausola del Regolamento che stabilisca di sottrarre alcuni determinati poteri
riservandoli all’assemblea, in considerazione della derogabilità dell’Art. 1130 c.c.
• Le sanzioni di cui all’art. 70 dd.aa. c.c., non sono applicabili al conduttore.
LE TABELLE MILLESIMALI
4.10 NOZIONI GENERALI
Nel condominio coesistono due ben distinti insiemi di beni: da una parte le porzioni di
piano appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini, e dall’altra, l’insieme dei
beni e degli impianti comuni dei quali tali condomini sono comproprietari secondo una
quota indivisa.
Al fine di coadiuvare la gestione del fabbricato, il legislatore ha previsto "apposite
tabelle" millesimali che hanno la funzione essenziale di "rappresentare un rapporto di
valore" consistente nella quantificazione della relazione che intercorre tra ciascuna
singola proprietà esclusiva (il piano o la porzione di piano) e la somma di tutte le
singole proprietà esclusive.
In particolare l’art. 68 delle disp. att. c.c. dispone quanto segue:
Per gli effetti indicati dagli artt. 1123, 1124, 1126 e 1136 del codice, il regolamento di
condominio deve precisare il valore proporzionale di ciascun piano o di ciascuna
porzione di piano spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini.
I valori dei piani o delle porzioni di piano, ragguagliati a quello dell’intero edificio,
devono essere espressi in millesimi in apposita tabella allegata al regolamento di
condominio.
Nell’accertamento dei valori medesimi non si tiene conto del canone locatizio, dei
miglioramenti e dello stato di manutenzione di ciascun piano o di ciascuna porzione di
piano.
Che, sostanzialmente, afferma il principio che nel condominio, è necessario che in
una tabella (allegata al regolamento) sia precisato il valore di piano e delle porzioni di
piano, espresso in millesimi, ragguagliato a quello dell'intero edificio, e che dette
tabelle sono finalizzate a coadiuvare la gestione del fabbricato sia al fine della
ripartizione delle spese, sia affinchè il procedimento assembleare possa
concretamente svolgersi.
Tale disposizione si collega con il disposto dell’art. 1118 co. 1 c.c. secondo il quale “il
diritto di ciascun condomino sulle cose indicate dall’articolo precedente è
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proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene, se il titolo non
dispone altrimenti.” laddove, però, andrà precisato che tale principio non concede, al
condomino titolare di più millesimi il diritto di utilizzare più intensamente il bene
comune a scapito di coloro che ne hanno meno, che contrariamente rimarrà (salvo
regolamento) identico fra tutti partecipanti.
In buona sostanza, tale principio non dà diritto a chi possiede un maggior numero di
millesimi di poter parcheggiare nel garage comune un “suv”, ed a chi ne possiede
meno una piccola utilitaria, ma esclusivamente di essere titolare di maggiore capacità
decisionale sui beni comuni in sede assembleare e, lato dolente, il dovere di
partecipare in misura maggiore alle spese conseguenti.
Nella suddetta norma, sono altresì previsti alcuni criteri di redazione delle tabelle
millesimali, e precisamente:
–
i valori devono essere espressi in millesimi;
– nell’accertamento di tali valori non si deve tener conto del canone locatizio, dei
miglioramenti e dello stato di manutenzione delle porzioni di piano.
Ulteriori regole (in particolare per la revisione delle tabelle) sono poi previste: dall'art.
69 disp. att. c.c.:
I valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o
modificati, anche nell’interesse di un solo condomino, nei seguenti casi:
1)
quando risulta che sono conseguenza di un errore;
2)
quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza
della sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di
bassa portata, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani
o porzioni di piano.
4.11 MANCANZA DELLE TABELLE MILLESIMALI
Se, come di seguito si approfondirà, l'adozione delle tabelle millesimali da parte del
condominio potrà validamente avvenire o in quanto allegate al regolamento di
condominio predisposto dall'originario unico proprietario, ovvero una volta validamente
approvate in sede assembleare, tuttavia le tabelle millesimali, pur ponendosi come
"centro" della vita del condominio, costituendone uno strumento irrinunciabile per una
corretta gestione, non sono formalmente indispensabili nè per l’esistenza del
condominio, nè per il funzionamento dell’assemblea.
In altre parole, le tabelle "agevolano ma non condizionano" (A.Celeste) la gestione del
condominio, che è ugualmente possibile e valida anche in loro assenza.
Tale principio è presente costantemente nella giurisprudenza del Supremo Collegio,
per il quale:
“In tema di condominio negli edifici, le tabelle millesimali possono esistere (o non
esistere), non potendosi escludere che i condomini, in mancanza di un regolamento
con annesse tabelle, possano, ai fini della ripartizione delle spese (di tutte o alcune di
esse), accordarsi liberamente tra loro stabilendone i criteri, purche' sia rispettata la
quota di spesa posta a carico di ciascun condomino e la quota di proprieta' esclusiva
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di questi, essendo il criterio di ripartizione previsto dalla legge (art. 1123 c.c.)
preesistente ed indipendente dalla formazione delle tabelle. Del resto, la
(pre)esistenza di tabelle millesimali non e' necessaria per il funzionamento e la
gestione del condominio, non solo ai fini della ripartizione delle spese ma neppure per
la costituzione delle assemblee e la validita' delle deliberazioni, tanto piu' se si
considera che la necessita' del regolamento di condominio e delle annesse tabelle
millesimali e' obbligatoria per i condomini con piu' di dieci partecipanti (fra le ultime
Cass. Sez. II, 10/02/2009 n 3245)
Pertanto, nel caso che il condominio non si sia dotato di tabelle, sarà necessario
individuare ed applicare un criterio (provvisorio) delle quote di valore con le quali
procedere sia alle deliberazioni sia alle ripartizioni delle spese; in tale ipotesi in sede
di delibera di approvazione del riparto individuale sarà utile aggiungere che questo
viene in tale misura "provvisoriamente approvato, con riserva di ricalcolo e conguaglio
allorchè verranno approvate delle definitive tabelle millesimali"
4.12 LA REDAZIONE DELLE TABELLE
Se consideriamo che le tabelle millesimali sono la rappresentazione aritmetica di un
rapporto di valore, ben comprendiamo come la loro redazione, pur non incidendo
sul detto valore, consista, in realtà, nell’individuazione di tale valore.
Dal punto di vista pratico, il valore di un immobile (vale a dire, delle porzioni di piano)
viene individuato per mezzo di una vera e propria perizia, affidata ad un tecnico
specializzato (perito estimatore).
La perizia, sia pur in assenza di un dato normativo vincolante in ordine al criterio da
adottare, dovrà essere effettuata tenendo conto non solo della misura della superficie
o del volume delle porzioni di piano, ma anche della destinazione degli ambienti,
dell'orientamento e della luminosità.
Contrariamente, come espressamente previsto dall'art. 68 disp. att. c.c., non si dovrà
tener conto né del canone locatizio, né dei miglioramenti o dello stato di
manutenzione.
In ogni caso, il risultato delle operazioni dovrà consistere in un importo di valutazione
che sia corrispondente al valore dell’immobile.
Nella prassi si è soliti utilizzare le istruzioni previste nelle circolari del Ministero dei
Lavori Pubblici n. 12480 del 1966 e n. 2945 del 1993 recanti “Norme per i collaudi dei
fabbricati costruiti da cooperative edilizie fruenti di contributo statale per la ripartizione
delle spese fra i singoli soci”, nelle quali sono riportate una serie di criteri di
valutazione che prevedono l’applicazione di un coefficiente (di apprezzamento o di
deprezzamento) relativamente ai seguenti aspetti dell’immobile:
– destinazione: si applica a ciascun vano della porzione tenendo in considerazione le
dimensioni planimetriche degli ambienti al fine di valutare la valorizzazione, o
meno, dell’utilizzabilità della superficie in base alla relativa ubicazione;
–
altezza del piano: valuta l’altezza rispetto all’esterno del fabbricato;
– orientamento: si utilizza con riferimento ai punti cardinali calcolati per quadranti;
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– prospetto: riguarda la veduta verso l’esterno, differenziando le unità che si
affacciano su giardini, su strade, su piazze, su vie di grande traffico e molto
rumorose, su strade strette e calcolando anche la distanza dalla facciata dello
stabile prospiciente;
– luminosità: si calcola secondo i valori interni, considerando il rapporto tra la
superficie illuminante (finestre, finestrini, luci, balconi) e la superficie illuminata (i
vani);
– funzionalità globale: tiene presente la distribuzione della superficie utile.
Il perito, inoltre, oltre a redigere le tabelle vere e proprie, stilerà una relazione
illustrativa, nella quale, oltre a riportare una descrizione sommaria dell’immobile
(consistenza e ubicazione), dovrà esporre i criteri adottati nelle operazioni estimative, i
coefficienti fissati per le differenti caratteristiche, nonché il procedimento adottato per
la compilazione;
4.13 LE DIVERSE TIPOLOGIE
Le tabelle millesimali possono essere suddivise in due categorie:
– principali: pressoché indispensabili ad ogni condominio a prescindere dalla sua
composizione;
– secondarie: che, solitamente, si rendono necessarie nei complessi immobiliari più
articolati, e dotati di impianti particolari.
Fra le prime possono essere annoverate:
– tabella “A”, detta anche “di proprietà”: è relativa al valore condominiale delle
diverse unità immobiliari costituenti il condominio e riporta la quota di comproprietà
sui beni e impianti comuni. Essa è necessaria sia per il funzionamento
dell’assemblea (valutazione dei quorum per la costituzione e per la deliberazione cfr. art. 1136 c.c.), sia per procedere alla ripartizione delle spese (necessarie per il
godimento delle parti comuni, per la prestazione dei servizi e per l’effettuazione
delle innovazioni). E’ importante sottolineare come la tabella “A” abbia incidenza,
diretta o indiretta, anche su tutte le altre tabelle;
– tabella “B”: è relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione e ricostruzione
delle scale, da redigersi secondo i parametri previsti dall’art. 1124 c.c.;
– tabella “C”: riguardante la ripartizione delle spese di esercizio e di manutenzione
dell’impianto di ascensore ed anch’essa commisurata al disposto dell’art. 1124 c.c.;
– tabella “D”: relativa alla ripartizione delle spese di esercizio e manutenzione
dell’impianto di riscaldamento centrale.
Fra le secondarie sono ricomprese:
– tabella “E”: relativa alla ripartizione delle spese per la manutenzione ordinaria e
straordinaria delle colonne verticali di scarico acque chiare e acque scure;
–
tabella “F”: per la ripartizione delle spese dell’eventuale portierato;
– tabella “G”: riguardante la ripartizione delle spese di manutenzione ed illuminazione
di eventuali aree scoperte (giardini, cortili, ecc.);
– tabella “H”: relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione di impianti di
sollevamento acque.
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In ogni caso è sempre possibile che vengano redatte altre e diverse tabelle al fine di
regolare casi particolari, come quelle previste nell'ipotesi di "condominio parziale"
riguardo la ripartizione delle spese necessarie a bene comune riguardo il quale soli
alcuni condomini ne traggano utilità ai sensi dell'art. 1123 c.c.
4.14 L’APPROVAZIONE E LA MODIFICA DELLE TABELLE MILLESIMALI
Qualora l’originario unico proprietario dell’edificio non abbia provveduto a predisporre
ed allegare al regolamento le tabelle millesimali, spetterà all’assemblea dei condomini
approvarle; nell’ipotesi di perdurante inerzia assembleare, ogni condomino potrebbe
rivolgersi all’Autorità Giudiziaria per la loro formazione, anche in quei casi di
condomini con meno di dieci partecipanti.
Sul primo aspetto, vi è stato nel corso degli anni notevole dubbio se l’assemblea fosse
competente ad approvare le tabelle millesimali con votazione maggioritaria o
diversamente avesse necessariamente bisogno dell’unanimità dei presenti in
assemblea, ovvero, ancor di più, solamente con l’unanimità di tutti i partecipanti al
condominio.
Secondo la meno recente, ma all'epoca prevalente, interpretazione della Suprema
Corte, le tabelle millesimali dovevano essere approvate con l'unanimità dei
partecipanti al condominio, solendo affermare, infatti che le tabelle millesimali avendo
"natura contrattuale e negoziale" e quindi "suscettibili di incidere sui diritti dei singoli
condomini” erano bisognose del consenso di tutti i soggetti interessati (unanimità dei
partecipanti al condominio), peraltro in forma scritta.
Via via, la stessa Suprema Corte ha posto in discussione il valore negoziale delle
tabelle millesimali, riconoscendogli esclusivamente un mero “strumento di gestione
della vita condominiale”, e pertanto validamente approvabili con la maggioranza dei
presenti in assemblea prevista dall’art. 1136 2° co. c.c. .
In altre parole, le più recenti pronunce della Cassazione avevano specificato, che i
condomini con l’approvazione delle tabelle millesimali non pongono una fonte diretta
dell’obbligo contributivo del condomino, già previsto ed insito nella legge, ma
solamente il parametro di quantificazione di tale obbligo.
Altrettanto, per logica conseguenza, il contrasto interpretativo della norma in esame si
estende anche alle modalità di modifica delle tabelle millesimali, allorchè la prima
corrente di pensiero (natura negoziale delle tabelle) riteneva neceFormata
Regular;Times New Romanssario al fine della modifica l'unanimità dei partecipanti al
condominio, differentemente la diversa corrente ( tabelle quali mero strumento di
gestione) poneva l’indagine sotto due diversi profili:
4. allorchè le tabelle millesimali che si intendono modificare fossero incluse e
traggano origine dal regolamento esterno di natura contrattuale, vi sarà la
necessità dell’unanimità dei partecipanti al condominio, una volta tenuta a mente
anche la natura convenzionale delle stesse, e quindi l’ipotesi che queste fossero
state redatte in deroga ai principi di legge, ma unanimemente, contrattualmente e
convenzionalmente accettate;
5. diversamente, allorchè le tabelle da modificare siano sorte per approvazione
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assembleare (qualunque sia stato il quorum raggiunto), sarà sufficiente la
maggioranza dei presenti in assemblea prevista dall’art. 1136 2° co. c.c. per
revisionarle .
Tale conflitto interpretativo ha recentemente trovato risposta e soluzione grazie
all’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che con la
sentenza n. 18477 del 6.7.2010 ha provveduto a dettare definitiva chiarezza alla
disciplina giuridica applicabile in materia di approvazione e revisione delle tabelle
millesimali.
Tale importantissima pronuncia, dopo aver effettuato e posto al vaglio l'evoluzione
interpretativa che negli anni la stessa Corte aveva sentenziato circa la natura giuridica
delle tabelle millesimali, è giunta a conclusioni chiare e nette, tali da dipanare per il
futuro ogni dubbio.
Le Sezioni unite, con la richiamata recente sentenza, hanno integralmente accolto e
riconfermato le più attuali pronunce che individuavano nelle tabelle millesimali meri
“termini aritmetici di un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari
condomini”, con ciò destituendole di alcuna possibilità di incidere sulla consistenza dei
diritti reali di ciascun condomino.
Sulla scorta di tale principio, agilmente le S.U. potevano giungere ad consacrare il
principio che per l'originaria approvazione, ovvero per la loro modifica, le tabelle
millesimali non siano bisognose dell'unanimità dei consensi dei partecipanti al
condominio, bensì sufficientemente approvabili con quelle maggioranze previste
dall'Art. 1136 2° comma c.c.
Con la stessa sentenza, le S.U. hanno altresì affrontato l'ipotesi, per altro frequente,
allorchè le tabelle millesimali siano allegate e quindi parte integrante del regolamento
di condominio predisposto dall'originario costruttore-venditore richiamato nel contratto
di compravendita, e come tale espressamente accolto dal compratore (neocondomino) che contestualmente ne approvava le norme e si impegnava a rispettare;
tabelle millesimali spesso inique per la cui modifica successiva avevano
necessariamente bisogno del consenso unanime dei partecipanti al condominio, in
virtù del consolidato orientamento giurisprudenziale che le riteneva sia di natura
contrattuale che convenzionale.
Orbene, anche tale controverso aspetto è stato rimosso dalla sentenza delle Sezioni
Unite n. 18477 del 6.7.2010, precisando, non senza qualche difficoltà, che anche in
tale ipotesi la revisione delle tabelle potrà sufficientemente essere effettuato dal
consesso assembleare con le maggioranze di cui all'art. 1136 2° comma c.c. .
A tal proposito le S.U., hanno precisato che unica eccezione (proprio al fine di
superare la difficoltà della loro originaria natura convenzionale consolidata
dall'unanime consenso scritto prestato dai comproprietari acquirenti) che residuerà
necessariamente bisognosa del consenso unanime dei partecipanti al condominio la
modifica di quelle tabelle millesimali (allegate al regolamento accettato in sede di
rogito notarile) ove risulti “espressamente che si sia inteso derogare al regime legale
di ripartizione delle spese” e quindi “ si sia inteso, cioè, approvare quella diversa
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convenzione di cui all'art. 1123 c.c.”.
4.15 - L’impugnazione della delibera d’approvazione
L'IMPUGNAZIONE DELLA DELIBERA D'APPROVAZIONE
Secondo la originaria Giurisprudenza prevalente, allorchè un condomino dissenziente
avesse avuto la volontà di proporre domanda giudiziale volta ad accertare l'invalidità
delle tabelle millesimali, tale azione giudiziaria prevedeva che questa venisse
proposta nei confronti di tutti i partecipanti al condominio, senza che potesse essere
legittimato passivo a ciò il solo amministratore.
Principio che trovava la sua giustificazione nella convinzione della natura negoziale e
contrattuale delle tabelle.
Tale aspetto, nella pratica, ha rappresentato. per gli interessati all'impugnativa, un
grave onere sia tecnico che economico che nei maggiori casi ne ha distolto
l'intenzione; a tal proposito, si ponga mente a quei condominii composti di vari
caseggiati e innumerevoli condomini, ove probabilmente neanche lo stesso
amministratore è in possesso dei precisi dati attuali dei rispettivi partecipanti.
La più volte richiamata sentenza n. 18477 del 6.7.2010 delle Sezioni Unite della
Suprema Corte di Cassazione ha chiarito anche in tale indagine che,- una volta
sancita la natura "non negoziale" delle tabelle millesimali- per validamente dar corso a
tale procedura è sufficiente la notifica della giudiziario introduttivo
al solo
amministratore.
4.16 - La revisione delle tabelle
Nel concreto poi, può accadere che, a causa di interventi modificativi sulle proprietà
esclusive, il rapporto di valore tra le singole porzioni di piano e l’intero edificio venga
alterato, ed i condomini, concordemente, ritengano necessaria un aggiornamento dei
valori millesimali.
In questo caso, sarà necessario incaricare un tecnico competente nelle valutazioni
degli immobili, e procedere ad una nuova valutazione con l’applicazione dei parametri
sopra illustrati.
Fattispecie diversa dalla modifica concorde è la revisione prevista dall’art. 69 disp. att.
c.c., prevista nelle seguenti due ipotesi:
–
quando risulta che le tabelle sono conseguenza di un errore;
– quando è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o
porzioni di piano.
La differenza sostanziale tra i due casi consiste nel fatto che la norma attribuisce a
ciascun singolo condomino, anche autonomamente rispetto agli altri, di chiedere la
revisione delle tabelle millesimali al verificarsi delle suddette condizioni, sulle quali è
opportuno precisare che:
– l’errore nella redazione delle tabelle consiste in un’inesattezza oggettiva
riguardante, per esempio, la misurazione delle superfici, delle altezze, ecc. Si
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tratta, cioè, di errori di fatto o, meglio, di calcolo o di misurazione. Non rientrano in
tale categoria le valutazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di valutazione, i
quali ultimi rientrano nella piena discrezionalità del perito, e non sono contestabili;
– l’alterazione del rapporto di valore deve essere, innanzitutto, di notevole entità (con
esclusione, quindi, di variazioni marginali, come, ad esempio, la chiusura di un
piccolo vano ovvero del balcone) ed è collegata ad interventi strutturali sugli
immobili come la sopraelevazione (che comporta la costruzione di un piano nuovo,
prima non esistente), l’espropriazione parziale (in base alla quale la consistenza
dell’edificio viene ridotta, mutando, quindi, anche i valori delle singole proprietà),
nonché le innovazioni di vasta portata
Ai fini della revisione non sono, pertanto, rilevanti gli interventi di semplice
abbellimento o miglioria che incidono molto relativamente sul valore degli immobili,
tanto che la stessa sopraelevazione compiuta dal proprietario dell'ultimo piano non
implica, di per sé, necessariamente la revisione delle tabelle millesimali allorchè sia di
entità non notevole.
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MODULO N. 5
Le controversie
(Bruno Piscitelli)
5.1 - Le impugnative
La tutela giuridica del condominio è molto ampia: si spazia dalle azioni a difesa della proprietà a
quelle possessorie.
A queste si aggiungono le controversie tipiche che si verificano in ambito condominiale tra cui
prevalgono l’azione di impugnazione delle delibere assembleari e quella per la riscossione delle
quote condominiali.
La delibera assembleare approvata con la maggioranza prevista dalla legge assume carattere
obbligatorio per tutti i condomini, finanche per i soggetti subentrati nella qualità di condomini
successivamente all’adozione della deliberazione.
L’art.1137 cod.civ. prende in considerazione un concetto generale di invalidità delle
deliberazioni senza fare distinzioni di sorta sanzionando la sola decadenza se l’atto non è
impugnato entro un determinato termine.
Se il codice civile non prevede casi di delibere nulle o annullabili, al contrario la giurisprudenza
ha concentrato la sua attenzione a tale distinzione perché è rilevante da un punto di vista pratico in
quanto solo le delibere annullabili sono impugnabili nel termine di trenta giorni previsti dall’art.1137
cod.civ., mentre quelle nulle sono comunque impugnabili senza alcun limite.
Tale differenza comporta conseguenze rilevanti non solo per il termine dell’impugnazione, ma
anche in ordine alla legittimazione.
5.1.1 - Legittimazione ad impugnare
L’art.1137 c.c. individua i soggetti legittimati ad impugnare le deliberazioni che sono i
dissenzienti e gli assenti.
Tale previsione si ispira al principio secondo cui chi concorre con il proprio voto all’approvazione
della delibera non la può impugnare.
Ma a questa regola generale si sottrae l’ipotesi contemplata dall’art.1421 cod.civ. dettata in
tema di nullità dei contratti in virtù della quale chiunque vi abbia interesse è legittimato a far valere
la nullità del contratto. Ciò varrebbe, per costante giurisprudenza, anche per le ipotesi di delibere
nulle.
Questo ampliamento della possibilità all’impugnativa contrasta con quel principio che il
legislatore ha sempre inteso far valere, e che la recente giurisprudenza va affermando, e cioè di
salvaguardare la certezza dei rapporti tra condomini che garantirebbe anche una più serena
gestione del condominio.
Ulteriori problemi sono stati posti dal condomino astenuto per il quale è configurabile non solo
l’azione di nullità ma anche quella di annullamento.
Se all’astensione si attribuisce una manifestazione di volontà negativa la posizione dell’astenuto
è equiparabile a quella del dissenziente, se al contrario si attribuisce una volontà positiva è
equiparabile a quella del consenziente.
Ma se “chi tace non dice niente” è meglio interpretare il comportamento concludente
dell’astenuto prima di assimilarlo ad una delle due posizioni.
5.1.2 - Forma dell’impugnativa
Il fatto che l’art.1137 c.c. facesse più volte uso della parola “ricorso” ha fatto inizialmente
pensare che l’impugnativa dovesse proporsi con ricorso.
Ma una parte prevalente della dottrina e della giurisprudenza ha ritenuto che il concetto di
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ricorso dovesse interpretarsi non in senso stretto (tecnico) ma in senso generico alla stregua di
istanza giudiziale e quindi l’impugnativa proponibile con atto di citazione.
Per lungo tempo è rimasto il dubbio se l’impugnativa debba farsi con ricorso o citazione con una
leggera preferenza per la prima ipotesi e quindi ad una interpretazione più rigorosa, ma per il
principio di conservazione degli atti processuali nulli sancito da una norma del codice di procedura
civile (art.156) si è ammessa la possibilità di impugnare la delibera con atto di citazione che rimane
pur sempre un atto idoneo ad incardinare il processo.
Problemi a questo punto sorgono solo per il rispetto dei termini e cioè se l’impugnativa
introdotta con citazione debba ritenersi tempestiva con la notifica dell’atto di opposizione o con la
costituzione in giudizio (iscrizione a ruolo).
Mentre il ricorso è un atto che viene direttamente depositato presso la cancelleria del Giudice,
la citazione viene prima notificata alla parte convenuta in giudizio e successivamente, entro dieci
giorni, iscritta a ruolo generale. Può succedere perciò che la citazione, sebbene notificata nei
termini previsti dall’art.1137 c.c., venga iscritta a ruolo dopo tale decorrenza.
L’interpretazione in favore della citazione comporta che il termine risulta rispettato con la
semplice notifica della citazione all’amministratore nel termine breve di trenta giorni prescritto
dall’art.1137 cod.civ., indipendentemente dalla data di iscrizione a ruolo della causa che, nella
specie, deve avvenire entro i successivi giorni dalla notifica.
L’interpretazione in favore del ricorso comporta che detto termine è rispettato con il semplice
deposito del ricorso nella cancelleria del giudice competente anche se poi la sua notifica
all’amministratore del condominio avviene a notevole distanza di tempo, con riferimento alla data
di udienza fissata dal giudice adito.
La recente giurisprudenza (Cass. 30.7.2004 n.14560; Cass. 11.4.2006 e Cass. 28.5.2008
n.14007) sembra voler aderire all’orientamento secondo cui in materia di condominio
l’impugnazione della delibera condominiale può avvenire indifferentemente con ricorso o con atto
di citazione ed in quest’ultima ipotesi, ai fini del rispetto del termine di cui all’art.1137 c.c., occorre
tener conto della data di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio invece di quella del
successivo deposito in cancelleria che avviene al momento della iscrizione a ruolo della causa a
ruolo.
Pertanto se l’atto introduttivo riveste la forma della citazione comporta che nel termine breve di
trenta giorni il condominio viene a conoscenza delle eventuali censure di legittimità mosse alla
deliberazione impugnata. Questa necessità è più aderente al principio generale di certezza dei
rapporti giuridici dopo il recente indirizzo delle Sezioni Unite in ordine alla configurazione dei vizi di
annullabilità della delibera condominiale. Inoltre sembra più coerente col nuovo procedimento
introdotto con la novella del 1995 che regola il rito ordinario con il quale deve svolgersi il giudizio
relativo all’impugnativa delle delibere condominiali.
La riforma del condominio che prevede espressamente l’impugnativa attraverso l’atto di
citazione dovrebbe porre fine una volta e per sempre all’annosa questione.
Dal mese di aprile 2012 prima di adire l'autorità giudiziaria sarà obbligatorio esperire il
procedimento di mediazione ai sensi del D.Lgs. 4 marzo 2010 n.28 presso appositi organismi al
fine di raggiungere un accordo amichevole o accettare una proposta di conciliazione.
5.2 - Dissenso alle liti
Ai sensi dell’art.1132 c.c. quando l’assemblea dei condomini delibera di promuovere o resistere
ad una lite, il condomino dissenziente può separare la propria responsabilità in ordine alle
conseguenze della lite notificando all’amministratore, entro trenta giorni da quando ne é venuto a
conoscenza, un atto in cui manifesta il proprio dissenso.
Si tratta di una eccezione alla regola generale del principio maggioritario.
La conseguenza è che in caso di soccombenza della lite, il dissenziente si può rivalere delle
spese processuali che ha dovuto pagare alla parte vittoriosa.
Se dalla pronuncia giudiziale il dissenziente abbia ricevuto un vantaggio è tenuto a concorrere
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alle spese di giudizio che non è stato possibile ripetere dalla parte soccombente perché risultata
insolvente.
Quanto alla forma di dissenso cd. atto di “estraneazione” è stata ritenuta sufficiente la
comunicazione con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, così come la semplice
manifestazione svolta nell’assemblea durante la quale era stato deliberato di intraprendere la lite
purchè formalizzata dopo il dissenso ed in un momento successivo alla discussione e
deliberazione dell'argomento che riguarda la lite stessa.
5.3 - Azioni possessorie e provvedimenti di urgenza
L’eccezione del diritto di proprietà e di possesso può essere ostacolata da comportamenti cd. di
molestie o turbative da parte di soggetti terzi.
Le azioni a difesa del possesso sono regolate dal codice civile e sono l’azione di reintegrazione
e quella di manutenzione
La principale azione possessoria è l’azione di reintegrazione, detta anche di spoglio.
L’art.1168 c.c. dispone che “chi è stato indebitamente o occultamente spogliato del possesso
proprio, entro l’anno del sofferto spoglio, può chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del
possesso.
I presupposti dell’azione sono: 1) il cd. “animus spoliandi”, cioè la consapevolezza del soggetto
di agire contro la volontà del possessore; 2) la privazione del potere di fatto sul bene che fino a
quel momento esercitava il possessore; 3) la violazione della clandestinità dello spoglio. L’azione
si può proporre entro un anno dalla sofferta lesione.
L’azione di manutenzione regolata dall’art.1170 c.c., si manifesta qualora vi sia un semplice
disturbo al pacifico godimento della cosa da parte del possessore, senza che vi sia un vero e
proprio spossessamento.
La turbativa è costituita da un atto che altera o modifica il possesso senza però che rechi
pregiudizio al possessore.
Per esperire tale azione è necessario che il possesso duri ininterrottamente da più di un anno e
sia stato acquisito senza violazione o clandestinità.
Affini alle azioni possessorie sono l’azione di denuncia di nuova opera e quella di danno temuto
regolate rispettivamente dagli artt.1171 e 1172 c.c. le quali tendono alla conservazione di una
situazione di fatto e mirano ad evitare l’accadimento di un danno o il manifestarsi di un pregiudizio
a causa di nuova opera o derivante da una cosa altrui.
La denuncia di nuova opera postula l'intrapresa di un qualche cosa nel proprio o nel fondo
altrui; il danno temuto postula invece una inosservanza dell'obbligo di rimuovere una situazione
che comporta pericolo di un danno grave e prossimo per il bene del denunciante.
I provvedimenti di urgenza regolati dagli artt.700 e ss. c.p.c. assumono una posizione
complementare, o meglio sussidiaria, rispetto ai procedimenti cautelari tipici che sono
espressamente tutelati dalla legge, tra cui le azioni di denuncia di nuova opera o di danno temuto
appena esaminate.
Ciò vuol dire che il provvedimento di urgenza è ammissibile solo fuori dei casi già regolati dal
codice civile.
Presupposti per ottenere tale provvedimento sono il “periculum in mora”, inteso come pericolo
di pregiudizio al diritto dovuto al ritardo con sui si può ottenere la tutela ordinaria e il “fumus boni
juris” ovvero la titolarità del diritto di chi agisce sulla base di una cognizione semplificata.
Questo rimedio viene particolarmente utilizzato per ottenere la consegna della documentazione
necessaria alla gestione dall’amministratore decaduto e/o revocato dall’incarico in caso di ritardo
nonché per ottenere dall'amministratore l'elenco dei condomini morosi con le rispettive quote di
proprietà nell'ipotesi di recupero del credito derivante da obbligazioni contrattuali.
5.4 - I procedimenti sommari
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L'accertamento tecnico preventivo o ATP è un procedimento di istruzione preventiva finalizzato
all'acquisizione in contraddittorio tra le parti di una consulenza tecnica finalizzata a cristallizzare lo
stato attuale del bene oggetto di una eventuale tutela.
Il codice civile prevede due tipi di ATP: l'uno diretto alla ispezione giudiziale che può
comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all'oggetto della verifica
(art.696 c.p.c); l'altro finalizzato alla composizione della lite (art.696 bis c.p.c.).
Il procedimento per ingiunzione di pagamento o più semplicemente decreto ingiuntivo
disciplinato dagli artt. 633 e segg. c.p.c. che viene applicato per la ripetizione di tutte quelle somme
che sono state approvate dall'assemblea con le maggioranze richieste dalla legge cui si fa rinvio al
successivo paragrafo.
Una importante novità del nuovo processo civile è il procedimento sommario di cognizione
regolato dall'art.702 bis c.p.c. a cui si può far ricorso tutte le volte che la controversia non
necessita di una particolare attività istruttoria ed occorre decidere solo su questioni di diritto come
sovente avviene in ambito condominiale. Si tratta di un meccanismo snello e concentrato che
riduce di molto i tempi di causa ma che purtroppo ad oggi sembra non aver riscosso molto
successo.
5.5 - Il recupero dei crediti
Una delle principali attività svolte dall’amministratore è quella di assicurare che dalle casse
condominiali non vengano a mancare i contributi necessari a far fronte ai pagamenti dei servizi
comuni e necessari alla manutenzione dell’edificio.
Se i condomini non provvedono spontaneamente al pagamento delle quote condominiali,
l’amministratore ha la facoltà, prevista dall’art.63 disp.att.c.c., di ricorrere al decreto ingiuntivo
provvisoriamente esecutivo, nonostante opposizione, per la riscossione coattiva.
E’ sufficiente il bilancio preventivo e consuntivo approvati all’assemblea, lo stato di ripartizione
ed il verbale dell’assemblea dei condomini per rivolgersi al Giudice e chiedere l’immediato ordine
di pagamento delle spese condominiali.
Per l’ingiunzione è competente il Giudice di Pace se il valore della richiesta non
supera euro 5.000,00; oltre tale limite è competente il Tribunale.
Riepilogando, per richiedere il decreto ingiuntivo nei confronti di un condomino presente
all’assemblea che ha deliberato l’approvazione del bilancio e lo stato di ripartizione delle spese
ordinarie o straordinarie, occorrono i seguenti documenti:
1. copia conforme del verbale di assemblea di approvazione autenticata per conformità
all’originale dell’amministratore
2. copia dello stato di ripartizione delle spese
3. lettera di sollecito di pagamento e/o perentori legali (consigliabile)
4. elenco dei condomini, regolamento e tabelle millesimali (facoltativi)
Nel caso che il condomino contro il quale si richiede il decreto ingiuntivo sia risultato assente
all’assemblea di approvazione del riparto delle spese, occorre aggiungere agli indicati documenti:
5. lettera raccomandata di convocazione, possibilmente con dimostrazione dell’avvenuto recapito
entro i termini di legge
6. invio e ricezione del verbale assembleare.
Alcuni giudici (spesso i non togati o i Giudici di Pace) pur in presenza dei presupposti di cui
all’art.66 disp.att. c.c. non concedono la provvisoria esecuzione al decreto ingiuntivo eludendo in
tal modo la possibilità di pervenire in tempi brevi al recupero del credito con tutte le conseguenze
che ne derivano.
Per il recupero dei contributi condominiali l’amministratore, anziché agire nelle forme del
procedimento per ingiunzione, in assenza della predetta documentazione, si può sempre avvalere
dell’ordinario giudizio di cognizione.
5.5 - Le immissioni
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L’art.844 c.c. stabilisce che il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o
di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino
se non superano la normale tollerabilità avuto riguardo anche alle condizioni dei luoghi.
Tale norma si applica anche nei rapporti tra i singoli condomini di uno stesso edificio, sia
quando l’immissione molesta o dannosa proviene dal condominio, sia quando uno di essi nel
godimento della cosa propria o anche comune, dà luogo ad immissioni intollerabili nella proprietà
altrui.
La protezione della proprietà da immissioni dannose fa sorgere il diritto a chi la subisce al
risarcimento del danno e ad una declaratoria giudiziale che sanzioni l’illegittimità delle immissioni.
Le immissioni possono avere luogo nelle forme più diverse.
Ogni tipo di immissione presenta problemi particolari a cui si applicano determinati testi
legislativi oltre ai principi generali stabiliti dalle norme codicistiche.
Tra i principali generi di immissioni si annoverano:
– Immissione di fumo o di calore, ove si applica la Legge n.615 del 13.07.66 recante
provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico
– Immissione di rumore, disciplinata dal D.P.C.M. 1.03.91 recante i limiti necessari di esposizione
al rumore negli ambienti abitati e nell’ambiente esterno, nonché la Legge n.477 del 26.10.95
sull’inquinamento acustico.
Tra le più recenti ad attuali immissioni dannose merita un discorso particolare la
– Immissione di elettrodotto, derivante dalla propagazione delle onde elettromagnetiche che
potrebbero causare malattie a cui si applica la normativa dettata sull’inquinamento magnetico.
Nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità più di una volta abbia dato segnali di
tranquillità sulle possibili conseguenze sulla salute derivante dall’uso prolungato degli apparecchi
radiomobili (telefonini) rimane il sospetto di qualche effetto negativo.
– Immissione di amianto, derivante dal degrado dei manufatti contenenti amianto nocivo alla
salute, come ad esempio le coperture o le canne fumarie in eternit.
La Legge n.257 del 27.03.92 ha stabilito la cessazione dell’impiego dell’amianto.
La norma principale di riferimento è il D.M. 6.09.94 che prevede le tecniche per la valutazione
del rischio, il controllo e gli interventi di bonifica tra i quali la rimozione, lo smaltimento e
l’incapsulamento, vale a dire il trattamento dei manufatti contenenti amianto con prodotti
impregnati che penetrano nel materiale legando le fibre di amianto tra loro e prodotti ricoprenti che
formano una spessa membrana sulla superficie del manufatto.
Non bisogna dimenticare che il diritto alla salute sancito dall’art.32 della Costituzione ha
carattere assoluto e primario e deve essere pertanto protetto da ogni attività suscettibile a
nuocerlo.
In generale, come si è visto, ogni azione tendente ad evitare o interrompere una immissione
illecita comprende anche il risarcimento dei danni da esse derivanti.
Tale tipo di azione può essere esperita contro il condominio qualora l’amministratore non rispetti
le citate norme mentre quest’ultimo non può proporre azioni per far cessare le immissioni illegittime
come a richiedere il relativo risarcimento trattandosi di azioni personali spettanti solo ai titolari dei
patrimoni lesi e cioè ai proprietari delle singole unità immobiliari.
Per concludere se l’immissione intollerabile proviene da un impianto condominiale, sia pure
mediante l’abuso di un condomino, l’amministratore deve intervenire in quanto tra i suoi compiti
rientra anche quello della vigilanza sul miglior uso della cosa comune. Se le immissioni vengono
provocate al di fuori degli impianti condominiali, legittimato a proporre le azioni è il condomino
danneggiato.
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MODULO N. 6
Le innovazioni
(Antonio Mele)
6.1 - Introduzione
Per poter comprendere appieno la fattispecie delle “innovazioni”, così come è concepita nel
sistema normativo applicabile al condominio, è necessario, innanzitutto, procedere alla lettura dei
due articoli del codice civile che specificamente regolano tale ipotesi.
Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 1120 e 1121 che così testualmente recitano:
Art. 1120 - Innovazioni
I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’art. 1136, possono disporre
tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle
cose comuni.
Sono vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del
fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio
inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.
Art. 1121 - Innovazioni gravose o voluttuarie
Qualora l’innovazione importi una spesa molto gravosa o abbia carattere voluttuario rispetto alle
particolari condizioni e all’importanza dell’edificio, e consista in opere, impianti o manufatti
suscettibili di utilizzazione separata, i condomini che non intendono trarne vantaggio sono
esonerati da qualsiasi contributo nella spesa.
Se l’utilizzazione separata, non è possibile, l’innovazione non è consentita, salvo che la
maggioranza dei condomini che l’ha deliberata o accettata intenda sopportarne integralmente la
spesa.
Nel caso previsto dal primo comma i condomini e i loro eredi o aventi causa possono tuttavia, in
qualunque tempo, partecipare ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di
esecuzione e di manutenzione dell’opera.
A partire da tali norme, la dottrina e la giurisprudenza hanno effettuato una meritevole opera di
interpretazione che ha, in gran parte, chiarito il concetto di innovazione, il quale spesso, anche
solo in considerazione della costante evoluzione tecnologica degli impianti e delle strutture, può
apparire non perfettamente comprensibile.
6.2 - Nozione
Occorre, in primo luogo, precisare che per “innovazione” si intende una modificazione dei beni o
degli impianti comuni diretta al “miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle
cose comuni”.
Non si tratta, però, di una semplice miglioria (che modifica l’esistente ma lo lascia,
essenzialmente, inalterato), ma di una vera e propria “novità”, consistente in una trasformazione,
alterazione o cambiamento dell’originaria funzione/destinazione, ovvero della entità sostanziale,
del bene e/o dell’impianto.
In tali esatti termini si è espressa la Suprema Corte (Cass. 20 agosto 1986, n. 5101) la quale ha
precisato i contorni della fattispecie “innovazione” come segue: “la distinzione tra modifica ed
innovazione si ricollega all’entità e qualità dell’incidenza della nuova opera sulla consistenza e
sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione in senso tecnico-giuridico
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deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente
quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria,
mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa
comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i
concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto.”
E’ assai importante precisare che per poter effettuare un’ “innovazione” nel condominio è
necessaria una decisione dell’assemblea (deliberazione), la quale, secondo il disposto del comma
5 dell’art. 1136 c.c., deve essere necessariamente adottata con quorum qualificati (vale a dire,
superiori a quelli ordinari).
Infatti, la norma così prescrive:
Art. 1136 c.c., comma 5
Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni previste dal primo comma dell’articolo
1120 devono essere sempre approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei
partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell’edificio.
In pratica, per poter deliberare l’effettuazione di un’innovazione occorre che in assemblea votino
a favore di essa la metà più uno dei condomini i quali siano portatori, complessivamente, di
almeno 666,6/1000.
6.3 - Le modificazioni del singolo condomino
Quando si parla di innovazioni, deve precisarsi che costituisce ipotesi assai differente quella
della “modificazione” eseguita da un singolo condomino (in via autonoma e a tutte sue spese) che,
nel condominio, è consentita dal disposto dell’art. 1102 c.c. (applicabile in virtù del richiamo
contenuto nell’art. 1139 c.c.).
Tale norma, infatti, prevede che:
Art. 1102 - Uso della cosa comune
Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e
non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può
apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.
Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri
partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.
In questo caso, è il singolo condomino che realizza delle “modificazioni” sui beni e/o impianti
comuni e, a patto di non alterare la destinazione di essi o di limitarne l’uso agli altri condomini, non
è necessaria alcuna deliberazione dell’assemblea condominiale (fatte salve, eventuali particolari
prescrizioni del regolamento di condominio).
Esattamente in questi termini si è espressa la Suprema Corte, la quale, con riferimento
all’installazione di un impianto di ascensore nella tromba delle scale, ha affermato che “la norma di
cui all’art. 1120 c.c., nel prescrivere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai
condomini con determinate maggioranze, tende a disciplinare l’approvazione di quelle innovazioni
che comportano oneri di spesa per tutti i condomini; ma, ove non debba procedersi a tale
ripartizione per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta assunta interamente a
proprio carico da un condomino, trova applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 c.c., che
contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della
cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini
di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le
modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune.” (Cass. 10 aprile 1999, n.
3508)
Sempre con riferimento alle modificazioni realizzate autonomamente da un singolo condomino,
è necessario precisare che la giurisprudenza ha ritenuto applicabili per analogia anche i limiti
previsti dall’art. 1120 c.c., in quanto le due norme (1102 e 1120) sono ispirate alla medesima
finalità (c.d. ratio). In altri termini, il singolo condomino che apporta modificazioni ai beni e/o
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impianti comuni dovrà, oltre che rispettarne la destinazione e non limitarne l’uso, non pregiudicare
la stabilità, la sicurezza e/o il decoro del fabbricato (Cass. 22 agosto 2003, n. 12343).
Tutti tali limiti dovranno essere rispettati anche dal singolo condomino all’atto dell’effettuazione
delle opere.
6.4 - Esempi concreti di innovazione
Come già detto, gli studiosi del diritto, ma soprattutto i giudici attraverso le sentenze, hanno
effettuato un’opera, assai importante, di interpretazione delle norme del codice civile relative alle
innovazioni (artt. 1120 e 1121 c.c.).
In particolare, si sono preoccupati di qualificare in termini di innovazione, o meno, molte ipotesi
concrete, con ciò agevolando l’attività dell’operatore del settore, il quale è così in grado di
individuare il caso in cui è necessario che la deliberazione sia adottata con la maggioranza
qualificata prevista dal comma 5 dell’art. 1136 c.c. (metà più uno dei condomini con 666,6/1000).
Riferendoci alla giurisprudenza prevalente, possiamo indicare, quali ipotesi di innovazione, le
seguenti fattispecie:
a) installazione di un ascensore in un edificio che ne è sprovvisto (Cass. 11 febbraio 2000, n.
1529). In tale ipotesi, tuttavia occorre tener ben presente che le modalità di realizzazione
dell’installazione possono incappare in uno dei divieti di cui agli artt. 1102 e 1120 c.c. Ciò si
verifica, in particolare, qualora sia effettuato un taglio parziale delle scale comuni, si produca la
sottrazione di una parte dell’area del cortile condominiale, o una modificazione dei pianerottoli
e/o degli anditi. In tali ultimi casi potrebbe verificarsi una limitazione del godimento di tali beni
(scale, cortile, pianerottoli) a danno degli altri condomini.
Da quanto sopra, appare evidente che il rispetto dei predetti limiti va, sempre, verificato in
concreto, caso per caso, tenuto conto della peculiarità dei luoghi.
Sull’installazione dell’impianto di ascensore, inoltre, deve richiamarsi la legislazione speciale
sull’abbattimento delle barriere architettoniche (legge n. 13/1989 e successive modifiche ed
integrazioni) la quale ha previsto maggioranze agevolate per la realizzazione delle opere (Cass.
29 luglio 2004, n. 14384).
b) installazione di un impianto per il riscaldamento centralizzato in un edificio che ne è sprovvisto
(Cass. 15 luglio 1946, n. 2324).
Sull’argomento, tuttavia, occorre tener presente la normativa speciale (legge n. 10/1991) la
quale reca particolare prescrizioni per la trasformazione dell’impianto di riscaldamento.
c) soppressione del servizio di portierato (Cass. 17 giugno 1997, n. 5400). Va evidenziato, però,
che riguardo a tale ipotesi vi è un certo contrasto in giurisprudenza, e che, pertanto, occorre
un’attenta valutazione caso per caso.
d) destinazione di aree condominiali scoperte in parte a parcheggio autovetture dei singoli
condomini e in parte a parco giochi (Cass. 29 dicembre 2004, n. 24146).
Occorre ricordare che per la realizzazione di parcheggi e/o boxes auto nel sottosuolo è
applicabile una normativa speciale (legge n. 122/1989) che, tra l’altro, consente di realizzare le
opere con quorum deliberativi agevolati rispetto a quelli previsti dagli artt. 1120 e 1136 c.c.
Per fare qualche esempio, invece, di ipotesi che non integrano “innovazione”, possono essere
indicati i casi di:
– installazione di una gettoniera nell’ascensore (Cass. 12 marzo 1976, n. 864);
– trasformazione dell’impianto per il riscaldamento al fine dell’adeguamento alla legislazione
vigente (Cass. 22 aprile 1992, n. 4802);
– installazione di pompe per le acque dell’impianto per il riscaldamento (Cass. 22 maggio 1978, n.
2542);
– sostituzione del portiere con servizio di lavascale e impianto citofonico (Cass. 13 gennaio 1965,
n. 66);
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– installazione di un impianto citofonico (App. Milano, 3 giugno 1975);
– adeguamento degli impianti alla normativa in materia di sicurezza (Cass. 20 agosto 1986, n.
5101);
– installazione dell’impianto di autoclave (Cass. 6 giugno 1989, n. 2746);
– installazione di un cancello di accesso ai posti-auto siti nel sottosuolo dell’edificio (Cass. 3
febbraio 1999, n. 875).
Ovviamente, va tenuto presente che quelli qui riportati sono solo alcuni degli esempi possibili,
non certamente esaustivi dell’intera casistica.
6.5 - Le innovazioni vietate
L’art. 1120 c.c. dispone, in modo sufficientemente chiaro, che è possibile eseguire le
innovazioni che sono dirette al miglioramento, ovvero all’uso più comodo o al maggiore rendimento
delle cose comuni.
La norma quindi, ci dà un’indicazione precisa delle finalità e degli scopi ai quali qualsiasi
innovazione deve tendere.
L’articolo, inoltre, prescrive le ipotesi in cui l’innovazione è vietata e, quindi, non può essere in
alcun modo effettuata dal condominio (ovvero, deliberata dall’assemblea).
Ciò si verifica quando l’innovazione
– può recare pregiudizio alla stabilità,
– può recare pregiudizio alla sicurezza del fabbricato,
– altera il decoro architettonico del fabbricato,
– rende inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, alcune parti comuni
dell’edificio.
Qualche precisazione è necessaria per ben comprendere la portata dei suddetti divieti.
Con “stabilità” la norma si riferisce al “pericolo di crollo” dell’edificio, che si verifica ogni qual
volta vengano eseguite modificazioni della struttura del fabbricato incompatibili con la sua funzione
statica.
Con riferimento a tale ipotesi, per indicare qualche caso concreto di innovazione vietata, può
farsi l’esempio della demolizione di parte delle fondazioni (che costituiscono, ai sensi dell’art. 1117
c.c., parti comuni) con compromissione della stabilità dell’edificio (App. Torino, 12 maggio 1971).
Con “sicurezza”, invece, si intende la salvaguardia dell’immobile contro i terzi (per es., i ladri) o
nei confronti di eventi materiali (quali, intemperie, alluvioni, incendi, ecc.).
La nozione di “decoro”, invece è più complessa e sarà più ampiamente affrontata nel paragrafo
seguente.
E’ assai dubbio se i suddetti divieti possano essere derogati attraverso una deliberazione
all’unanimità di tutti i partecipanti al condominio.
Qualche sentenza sembra ritenere la cosa possibile (sempre a patto di raccogliere tutti i
consensi) (vedi Cass. 14 dicembre 1988, n. 6814).
Secondo, una diversa opinione (Branca) il divieto sarebbe comunque inderogabile nel caso di
innovazione pericolosa per la stabilità e/o la sicurezza del fabbricato. Si tratta, in tale caso, di
divieto di chiaro stampo “pubblicistico” posto a tutela dell’incolumità anche di soggetti estranei alla
compagine condominiale.
Un autorevole studioso (Salis), infine, ritiene possibile (sempre all’unanimità) la sola
innovazione che renda talune parti dell’edificio inservibile all’uso e/o al godimento di uno o più
condomini. In tale caso, il consenso unanime deve risultare da atto scritto, il quale ultimo può
anche consistere nel verbale assembleare, debitamente sottoscritto da parte di tutti i partecipanti al
condominio (i quali, quindi, occorre siano tutti presenti).
In ogni caso, appare evidente che si tratta di ipotesi di difficile interpretazione e soluzione. Va
da se, pertanto, che è assolutamente consigliabile attenersi il più strettamente possibile a quanto
prescritto testualmente dal codice civile.
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In conseguenza di quanto sopra, può affermarsi che ogni qual volta si debba procedere a
deliberazioni relative ad innovazioni che possono avere qualche impatto sulla struttura e sulla
sicurezza dell’edificio, sarà opportuno fornirsi di una relazione tecnica che sancisca la fattibilità (e
non pericolosità) delle realizzande opere.
6.6 - L’alterazione del “decoro”
Ulteriore divieto, previsto dall’art. 1120 c.c., che impedisce all’assemblea condominiale di
deliberare l’effettuazione di un’innovazione, è costituito dall’alterazione del c.d. “decoro
architettonico”.
Del decoro non si rinviene una definizione nel codice civile, ma, secondo la giurisprudenza
prevalente, si ritiene sia dato dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono
la nota estetica dominante dell’edificio, ed imprimono ad esso una determinata fisionomia.
Un’ottima definizione di “decoro” è stata data da Cass. 13 luglio 1965, n. 1472 in base alla quale
“il decoro architettonico di un edificio… risulta dall’insieme delle linee e dei motivi architettonici e
ornamentali che costituiscono le note uniformi dominanti ed imprimono alle varie parti dell’edificio
stesso nel suo insieme, dal punto di vista estetico, una determinata fisionomia, unitaria e
armonica, e dal punto di vista architettonico una certa dignità più o meno pregiata e più o meno
apprezzabile”.
Il decoro può riscontrarsi in ogni edificio (anche di tipo economico/popolare) e non solo in quelli
di particolare pregio.
L’innovazione, per essere vietata a causa di lesione del decoro, deve comportare modifiche
rilevanti dell’aspetto del fabbricato, con incidenza negativa sulla sua fisionomia complessiva.
Il decoro, tuttavia, è un qualità dell’immobile sottoposta, nel tempo, a deterioramento (spesso
dovuto ad attività poste in essere dai singoli condomini e tollerate dalla collettività) e, quindi, per
stabilire se vi sia una concreta lesione, è necessario effettuare uno specifico accertamento che
tenga conto delle condizioni in cui l’edificio si trovava prima della esecuzione delle opere. Tali
condizioni, infatti, possono ben essere “peggiorate” rispetto a quelle iniziali.
In sede di tale accertamento, l’immobile va considerato in sé, senza che abbia rilievo l’ambiente
urbanistico circostante in cui esso è collocato (Cass. 28 giugno 1975, n. 2552).
Perché si abbia una lesione del decoro, inoltre, è necessario che si verifichi anche un
pregiudizio economicamente valutabile (cioè, un danno e/o un deprezzamento dell’immobile) il
quale, tuttavia, seppur assai frequente in caso di alterazione dell’armonia estetica del fabbricato,
non può essere implicito o presupposto, bensì concreto.
In conseguenza di ciò, “il giudice di merito per stabilire se in concreto vi sia stata lesione di tale
decoro, oltre ad accertare se esso risulti leso o turbato, deve anche valutare se tale lesione o
turbativa determini o meno un deprezzamento dell’ìntero fabbricato” (Cass. 15 maggio 1987, n.
4474).
6.7 - La legislazione speciale
La disciplina ordinaria prevista dal codice civile (artt. 1120 e 1121) - in base alla quale l’assemblea
condominiale può deliberare innovazioni con il quorum qualificato di almeno 2/3 del valore
dell’edificio, nonché della maggioranza dei partecipanti al condominio - è derogata da alcune leggi
speciali, le quali consentono, per materie particolari, la deliberazione delle innovazioni con
maggioranza agevolata.
Tale normativa speciale, della quale, in questa sede non può essere effettuato un esame
approfondito, consiste principalmente in:
– legge 9 gennaio 1991, n. 10: ”per le innovazioni relative all’adozione di sistemi di
termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di
riscaldamento, in base al consumo effettivamente registrato, l’assemblea di condominio decide
a maggioranza in deroga agli artt. 1120 e 1136 del codice civile” (art. 26.5 l’assemblea decide a
maggioranza);
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– legge 5 agosto 1978, n. 457 (norme per l’edilizia residenziale), prevede che gli interventi di
recupero relativi ad un unico immobile composto da più unità immobiliari possono essere
disposti dalla maggioranza dei condomini che comunque rappresenti almeno la metà del valore
dell’edificio (art. 30.2);
– legge 9 gennaio 1989, n. 13 (disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle
barriere architettoniche) “Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche, nonché la realizzazione di percorsi
attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, commi 2 e 3”;
– legge 24 marzo 1989, n. 122 (parcheggi): “i proprietari di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare
a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai
regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in
contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e
compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Le deliberazioni sono approvate dall’ assemblea
del condominio, in prima o in seconda convocazione, con la maggioranza prevista dall’art. 1136,
comma 2 c.c. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 2 e 1121, comma 3 c.c.;
– legge 20 marzo 2001, n. 66 - trasmissioni radiotelevisive analogiche e digitali): “al fine di
favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, le opere
di installazione di nuovi impianti sono innovazioni necessarie ai sensi dell’art. 1120 c.c. Per
l’approvazione delle relative deliberazioni si applica l’art. 1136 c.c.”
– legge 8 giugno 2009 n. 69 - art. 1.7 (banda larga): “le innovazioni condominiali relative ai lavori
di ammodernamento necessari al passaggio di cavi in fibra ottica sono approvate dalla
maggioranza di un terzo dei partecipanti al condominio rappresentanti almeno un terzo del
valore millesimale”.
6. 8 - Le innovazioni gravose o voluttuarie
Tale particolare ipotesi di innovazione è regolamentata dall’art. 1121 c.c. che prescrive per esse
una specifica disciplina.
In primo luogo, occorre precisarsi che:
a) sono innovazioni gravose quelle che comportano una spesa di realizzazione assai rilevante in
relazione alle condizioni ed all’importanza dell’edificio (e non in riferimento alle possibilità
economiche personali dei condomini);
b) sono innovazioni voluttuarie quelle la cui spesa non viene compensata da un corrispondente
aumento di vantaggi o utilità a favore dei condomini e derivante dall’utilizzazione della realizzata
nuova opera.
Va subito evidenziato che anche tale tipo di opere è sottoposto ai divieti previsti dall’art. 1120
c.c. in materia di innovazioni vietate.
La particolare disciplina prevista per esse contempla due diverse ipotesi, dalle quali derivano
differenti regole, e precisamente:
1) innovazioni gravose o voluttuarie delle quali è possibile un uso separato.
E’ il caso in cui l’opera nuova - per la sua struttura e funzione - può essere utilizzata solo da
alcuni condomini.
In tale ipotesi:
– l’opera nuova è deliberata ed effettuata solo dai condomini consenzienti, i quali ne sostengono
integralmente le spese di realizzazione e di esercizio;
– la proprietà dell’opera è attribuita solo a tali condomini, i quali sono esclusivi utilizzatori della
medesima;
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– in qualunque momento, deve essere consentito il c.d. “subentro” degli altri condomini nella
proprietà e nell’utilizzazione dell’opera nuova;
– tale subentro è condizionato dal pagamento, da parte del condomino richiedente, della quota
parte a lui spettante sia delle spese di installazione, sia delle spese di conservazione dell’opera
sostenute fino a quel momento, e detratto il valore di normale deterioramento del bene.
2) innovazioni gravose o voluttuarie delle quali non è possibile un uso separato.
Si tratta sempre di opere nuove, tuttavia, in questo caso, il bene o l’impianto, per la sua natura e
struttura, non può essere utilizzato dai soli condomini realizzatori, con la conseguenza che il
codice civile prescrive che:
– l’innovazione può essere effettuata solo se i condomini consenzienti si accollano l’intera spesa
di realizzazione (compresa la quota-parte dei condomini non consenzienti);
– la proprietà dell’opera è condominiale (quindi, sia dei condomini che hanno sostenuto le spese
di realizzazione, sia di tutti gli altri) con conseguente utilizzazione comune del bene/impianto.
E’ opportuno ribadire, inoltre, che tale particolare disciplina si applica solo per le innovazioni che
sono qualificabili come gravose o come voluttuarie, e che, nel caso di innovazioni semplici,
invece, si applica la disciplina ordinaria dell’art. 1120 c.c., Con la conseguenza che
l’innovazione è deliberata dall’assemblea a maggioranza (seppur qualificata), le spese di
realizzazione sono ripartite tra tutti i condomini e la proprietà e l’utilizzazione dell’opera spetta,
appunto, a tutti costoro.
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MODULO N. 7
I contratti (appalto e assicurazione)
(Benedetta Coricelli e Alfonso Del Sorbo)
7.1 - Il contratto di appalto
Il contratto di appalto riveste un’importanza assolutamente primaria, rispetto ad altri, per la vita
del condominio sia in ragione delle somme che – soprattutto negli appalti di opera – il condominio
è tenuto talvolta a spendere con importanti conseguenze sul bilancio sia, ed è quanto tenteremo di
individuare, per i numerosi riflessi giuridici che il contratto stesso implica.
Senza pretesa alcuna di esaustività, poiché il contratto “ideale” di appalto non esiste, si vuole
tuttavia fornire una sorta di codice comportamentale per le due parti contrattuali che, se rispettato
in linea di massima, può in via generale esentare le medesime da una serie di sgradevoli quanto
consuete vicende legate alla esecuzione del contratto.
Esaminando infatti le figure, spesso e pressoché inevitabilmente in contrapposizione,
dell’appaltatore e del committente, con i rispettivi obblighi e le rispettive responsabilità, emerge la
evidente necessità di contemperare le rispettive esigenze anche in previsione di situazioni che
potranno verificarsi successivamente al momento della sottoscrizione.
A differenza di altri contratti che il condominio può trovarsi a stipulare, come ad esempio la
locazione o la compravendita di un bene per uso comune, il contratto di appalto presenta proprio
nella sua fase esecutiva, e per ovvie ragioni, i maggiori (potenziali) pericoli per entrambi i
contraenti, ovvero condominio ed impresa esecutrice.
In realtà nello scenario dell’appalto si muovono, oltre ai sopra citati contraenti, anche una
pluralità di figure, che potremmo però definire satellitari rispetto alle due principali parti contrattuali,
quali i subappaltatori e gli ausiliari dell’appaltatore (entrambi menzionati dalla disciplina relativa nel
codice civile) nonché la figura del direttore dei lavori, o ancora del responsabile della sicurezza,
tenuto alla conoscenza delle varie disposizioni contenute nei Decreti legislativi 494/96 e 528/99,
poi parzialmente modificati dal DPR 222/03.
Tenendo presente la disciplina del codice civile, cui va fatto costante riferimento unitamente alle
leggi urbanistiche e di sicurezza, va ora preso in esame l’ appalto privato, ovvero l’appalto di cui
all’art. 1655 e ss. c.c., in cui la committenza riveste natura privata.
E’ appalto privato anche quello in cui la committenza sia privata e la impresa appaltatrice sia di
natura pubblica. Si tratta di una fattispecie solo raramente ipotizzabile in rapporto alla vita di un
condominio.
L’appalto in cui l’appaltatore ha natura pubblica soggiace peraltro a regole peculiari che lo
spazio delle presenti dispense non permette di approfondire.
Va inoltre chiarito che la disciplina codicistica, che ha permesso una chiara enucleazione del
contratto di appalto rispetto a figure “miste” ed alla locatio operis è conformata sull’appalto d’opera.
L’appalto di servizi è viceversa disciplinato - qualora detti servizi consistano in prestazioni
periodiche e continuative - dalle norme in materia di somministrazione (art. 1559 e ss. c.c.) in
quanto compatibili e sempre fatto salvo il recesso con effetto immediato dalla comunicazione,
permesso al committente.
Ovviamente, sotto tale tipologia contrattuale non potrà celarsi l’appalto c.d. di manodopera
edile, assolutamente vietato dalla legge 1369/60.
La menzionata legge speciale ha permesso di ovviare ad un triste fenomeno sociale di
sfruttamento della manovalanza, restituendo quanto più possibile dignità e tutela alle attività
connesse alle imprese edili.
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7.2 - Cenni sul contratto: chi sono committente e appaltatore
Tornando quindi ai soggetti contrattuali nell’appalto, va sottolineato che l’art. 1655 c.c., che
definisce il contratto medesimo, si riferisce non già ad un qualsiasi prestatore di opera o servizio
con il termine “appaltatore”, ma solo a colui che con organizzazione di mezzi propri e gestione a
proprio rischio sia in grado di svolgere quanto commissionatogli.
Ciò porta automaticamente ad escludere dal novero degli appaltatori tutti quei piccoli
imprenditori (in linea di massima coincidenti con la figura di cui all’art. 2083 c.c., ovvero i prestatori
di opera) che nella esecuzione dell’opera non siano dotati di organizzazione di mezzi autonoma.
Con notevoli conseguenze sul piano della eventuale azione per vizi del committente.
Mentre infatti il contratto di appalto comporta ex art. 1667 c.c. una azione giudiziale per vizi
avente prescrizione biennale, nel contratto d’opera tale prescrizione è meramente annuale.
A fronte di un lasso di tempo di due anni per agire contro l’impresa edile in caso di scoperta di
vizi dell’opera, cioè, avverso il piccolo imprenditore si potrà agire al massimo entro un anno.
La figura del piccolo imprenditore è pertanto maggiormente tutelata dall’ordinamento nella
misura in cui si presume economicamente più debole rispetto all’appaltatore.
Le dimensioni dell’opera non influiscono invece sulla natura del contratto: una opera di modesta
entità può comunque implicare la applicazione degli art. 1655 e ss. c.c. se eseguita da un
appaltatore.
Appare difficilmente ipotizzabile l’inverso: non si vede come possa essere affidata, da parte di
un condominio, una opera di importanti dimensioni (e relativi costi, rischi, ecc.) ad un piccolo
imprenditore, che certo non dispone di mezzi sufficienti, a livello organizzativo, per soddisfare le
esigenze del condominio committente.
Infine, l’appaltatore potrebbe inizialmente non essere determinato; accade negli appalti in cui il
committente ha stabilito pedissequamente testo contrattuale e capitolato, ovvero il documento che
ne fa parte integrante ed inscindibile e contiene la elencazione delle opere da eseguire.
L’appaltatore dovrà rispondere a determinati requisiti e verrà eletto all’esito di una gara: in tal
senso può parlarsi di un appalto come fattispecie a formazione progressiva.
Quando parliamo di committenza, per quanto qui interessa, ci riferiamo invece, giova ribadirlo,
al condominio.
La forma del contratto è assolutamente libera; è fatto salvo il caso in cui l’appaltatore vende il
terreno su cui l’opera andrà edificata, di tal che, trovandoci in presenza di un trasferimento
immobiliare, sarà necessaria la forma scritta e la successiva trascrizione a pena di nullità, cui
anche l’appalto andrà assoggettato come contratto accessorio.
Per il resto, nessuna disposizione in tema di appalto pretende la forma scritta; si ricorda che per
mere ragioni probatorie le sole variazioni non necessarie apportate dall’appaltatore comportano
tuttavia la autorizzazione scritta del committente ex art. 1659 c.c..
Per ragioni pratiche, tuttavia, la forma scritta è assolutamente consigliabile.
Ciò, ove possibile, anche negli appalti di servizi e sempre e comunque negli appalti di opera
anche di modesta entità economica, nell’ottica sia di una massima tutela, quanto ad eventuali
corresponsabilità, dell’amministratore di condominio sia – cautelativamente – per facilitare la
dimostrazione delle ragioni del condominio in caso di controversia.
Elencare specificamente gli orari, o i giorni, o gli specifici ambiti ove il servizio di pulizia
condominiale deve essere svolto, ad esempio, può evitare al condominio sgradevoli sorprese
anche sul fronte di indebite pretese economiche.
Ancora, in via generale, tutte le norme in materia di appalto sono derogabili dalle parti quanto a
diritti disponibili; è ovvio che il disposto dell’art. 1676 c.c. relativo agli ausiliari dell’appaltatore è
escluso da tale area di derogabilità.
Appaltatore e committente non potranno pertanto pretendere di accordarsi in deroga a tale
fondamentale norma, che a tutela di soggetti presunti più deboli sul piano economico, nel caso di
inadempimento del datore di lavoro-appaltatore nel versamento delle spettanze, permette loro una
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azione diretta verso il committente per la somma eventualmente ancora dovuta all’appaltatore
stesso al tempo della pretesa.
Oggetto del contratto è una opera ovvero un servizio, salva in tal caso la applicazione delle
norme in materia di somministrazione in quanto compatibili. Il prezzo, infine, viene
convenzionalmente determinato globalmente o a singole partite, ovvero ex art. 1657 c.c. secondo
usi e tariffe. Il difetto di accordo può comportare la determinazione giudiziale, con notevole
compressione della libertà economica delle parti.
Ovviamente oggetto e prezzo possono non essere determinati inizialmente, purchè siano
determinabili sulla base di concreti elementi.
Ad evitare tuttavia l’insorgere di questioni interpretative che prestano spesso il fianco ad una
revisione di quanto originariamente pattuito ma non formalizzato, è consigliabile determinare con
esattezza il prezzo delle opere commissionate ab origine.
Come accennato, l’intero novero di disposizioni in tema di appalto è derogabile dalle parti, fatti
salvi i diritti non disponibili.
Poiché ciò comporta la derogabilità dell’art. 1664 c.c. relativo alla revisione del prezzo in corso
d’opera, si concorda pienamente con l’orientamento di alcuni esponenti del Centro Studi della
ANACI nella misura in cui suggeriscono di ”blindare” originariamente il contratto eliminando la
facoltà di revisione, ed impedendo nel corso dell’opera pericolose revisioni di prezzo.
Abbiamo evidenziato quale caratteristica del contratto di appalto una sorta di correlazione tra
reciproci obblighi e conseguenti responsabilità delle due figure appena esaminate, ovvero
committente ed impresa appaltatrice.
Ovviamente incombe in primo luogo su entrambi i contraenti, come per ogni obbligazione, il
generale principio di buona fede contrattuale ex artt. 1175 e 1375 c.c..
Non vi è necessità di illustrare le numerose sfumature in cui tali principi vanno ravvisati: a mero
titolo esemplificativo un linguaggio chiaro nella redazione del testo contrattuale, regolari
meccanismi di pagamento negli eventuali acconti di prezzo, piena reperibilità dei soggetti
responsabili del cantiere ecc., rappresentano alcuni momenti di espressione della buona fede
contrattuale.
Altra regola di carattere generale, cui deve attenersi però il solo appaltatore è la esecuzione a
regola d’arte, cioè un quid pluris rispetto alla generica diligenza nella esecuzione delle obbligazioni
ex art. 1176 c.c. in quanto estesa non solo alla materiale esecuzione dell’opera ma anche alla
verifica della progettazione pur in presenza di un direttore dei lavori, e della bontà dei materiali.
La disposizione è severa, per quanto generica; il grado di perizia richiesto all’appaltatore è
proporzionale all’incarico assunto né la eventuale presenza di un direttore lavori lo esenta
completamente da responsabilità che gli sono specificamente attinenti, con ciò scoraggiando la
assunzione di commissioni da parte di appaltatori non dotati di sufficienti mezzi, a tutela di ovvie
ragioni di mercato.
Talvolta le amministrazioni condominiali, magari a causa di inesperienza ovvero dinanzi ad una
assemblea particolarmente “tumultuosa”, esitano ad esternare le loro remore nella scelta di una o
di un’altra impresa appaltatrice.
Si ritiene tuttavia che detta scelta non debba mai essere totalmente rimessa a raffronti di
“prezzi” di mercato, ma tenga comunque conto del “curriculum” delle singole imprese da valutare;
in tal modo la probabilità di eventuali disguidi, dovuti al non sufficiente grado di perizia in capo alla
impresa stessa, se non evitata integralmente può essere comunque notevolmente ridotta.
Quello che ora interessa tentare di individuare, senza alcuna pretesa di esaustività, si ribadisce,
in quanto la enorme casistica in materia ci permette di delineare al massimo orientamenti
giurisprudenziali, ma non certo risposte nette, sono obblighi e responsabilità specifici
rispettivamente del committente e dell’appaltatore.
7.2.1 - Committente
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Ne vanno distinti obblighi e facoltà/diritti.
Se si eccettua quello di “consegnare” secondo la tempistica prevista contrattualmente il cantiere
nella disponibilità dell’appaltatore, poiché come in tutte le obbligazioni sinallagmatiche è
necessario mettere in grado il proprio debitore di adempiere, nonché il rispetto di tutte le
obbligazioni in capo al creditore ex art. 1173 e ss. c.c., .vediamo che il codice non prevede
obbligazioni specifiche del committente.
Obbligo principale e praticamente esclusivo del committente è pertanto il pagamento del prezzo
ex artt. 1665 e 1666 c.c. ogni qualvolta l’opera sia stata verificata ed accettata. Ciò sia per il prezzo
determinato globalmente sia per il prezzo determinato a singole partite.
Obbligo, si diceva, che deriva dalla esigibilità del credito dell’appaltatore subordinatamente alla
accettazione (espressa o per fatti concludenti) dell’opera medesima.
Consueto il c.d. collaudo dell’opera, ove vi siano caratteristiche tecniche tali da non permettere
una valutazione meramente visiva dell’opera stessa, e che vale da negozio giuridico bilaterale di
accertamento secondo alcuni autori, mentre altri lo considerano mera dichiarazione di scienza.
Parimenti, si ritiene che la verifica finale non possa essere affidata dal committente al direttore
dei lavori in quanto essendo responsabile per l’esecuzione dell’opera è controinteressato.
L’accettazione dell’opera implica il trasferimento del rischio per perimento del bene ex art. 1673
c.c. nonché la perdita della azione per vizi ex art. 1667 c.c. fatti salvi quelli occulti o sottaciuti.
Infine implica la consegna dell’opera.
Le ulteriori disposizioni codicistiche prevedono in realtà mere facoltà ovvero diritti e non già
obblighi del committente: così il potere di verifica e controllo sancito dall’art. 1662 c.c., che riveste
fondamentale importanza nella misura in cui permette a spese della committenza di esaminare
l’opera nel corso della sua esecuzione, e disporre una sorta di diffida ad adempiere – in deroga
alla generale normativa in materia – non quando l’opera sia conclusa ma appunto in corso di
esecuzione, è una mera facoltà.
Trascorso inutilmente il termine per l’appaltatore, il contratto è risolto e si può agire per
risarcimento danni.
Né tale facoltà esime il committente dalla ulteriore - prudenziale - verifica di cui all’art. 1665 c.c..
Così il diritto di recesso unilaterale ex art. 1671 c.c., ammesso nella misura in cui il committente
paghi l’opera per la parte in cui è stata eseguita ed il mancato guadagno per l’appaltatore.
Il debito verso l’appaltatore è peraltro di valore, e va quindi soggetto a rivalutazione.
In tal modo, l’ordinamento giuridico ritiene di avere bilanciato i due contrapposti interessi; è
ovvio tuttavia che la prova del mancato guadagno per l’appaltatore, al fine di non snaturare la
norma volta anche alla tutela del committente, deve essere fornita con particolare rigore.
Ma, si ribadisce, quanto a specifici obblighi del committente, il codice prevede tra le norme
dedicate all’appalto il solo pagamento del prezzo alla consegna dell’opera.
Vale tuttavia la pena di chiarire che accanto a tale esclusivo obbligo previsto normativamente la
giurisprudenza di merito e legittimità hanno individuato la responsabilità per danni a terzi del
committente allorquando si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall’appaltatore in
esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante tanto che
l’appaltatore finisca per agire quale appunto nudus minister privo della autonomia che
normalmente gli compete o allorquando vi siano gli estremi della culpa in eligendo, se il
compimento dell’opera o del servizio sono stati affidati ad una impresa appaltatrice priva delle
capacità e dei mezzi tecnici indispensabili per eseguire l’opera oggetto del contratto senza
determinare situazioni di pericolo per i terzi.
7.2.2 - Appaltatore
Diverso è il discorso delle responsabilità dell’appaltatore. Esse sono piuttosto numerose e
derivano:
1) dalla mancata autorizzazione alle modifiche ex art. 1659 c.c.: in tal caso non potrà pretendere
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alcun prezzo neppure per indebito arricchimento dell’appaltatore;
2) dalla eventuale non conformità della esecuzione in corso d’opera al progetto ex art. 1662 c.c.: in
tal caso si espone alla risoluzione del contratto ed alla azione per risarcimento danni;
3) dalla mancata denuncia ex art. 1663 c.c., anche quando i materiali siano stati forniti dal
committente a mente dell’art. 1658 c.c. : in tal caso si espone alla responsabilità per vizi ex art.
1667 c.c.;
4) dall’avere sottaciuto in mala fede vizi/difformità dell’opera: in tal caso si espone alla azione
giudiziaria del committente ex art. 1667 c.c.;
5) dalla rovina in tutto in parte o dal pericolo di rovina di opere destinate a durare: in tal caso si
espone alla azione giudiziaria del committente ex art. 1669 c.c..
Le responsabilità dell’appaltatore sono in pratica direttamente correlate alla mancata
esecuzione, in tutto o in parte, dell’opera seconda la citata regola d’arte.
Se si tiene altresì conto della possibilità di recedere del committente ex art. 1671 c.c. nonché
del rischio del perimento/deterioramento dell’opera non ancora accettata ex art. 1673 c.c., ne
emerge un quadro di obblighi, scadenze e responsabilità estremamente complesso e rigido, per
cui si comprende perché l’ordinamento pretenda la rispondenza dell’appaltatore ad una serie di
requisiti specifici di carattere organizzativo che il piccolo artigiano certo non può possedere.
Proprio per questa ragione, come accennato in premessa, l’ordinamento distingue le azioni per
vizi da proporsi contro il piccolo artigiano ovvero contro l’appaltatore sul piano delle prescrizioni.
E’ ovvio poi che le garanzie richieste dal combinato disposto degli artt. 1667 e 1668 c.c.
all’appaltatore, lungi dal rivestire il carattere di norme-capestro, gli permettono, nel pieno rispetto
della libertà contrattuale e proporzionalmente alla perizia inizialmente dichiarata per l’incarico
assunto, di ovviare alle difformità più o meno rilevanti riscontrate dal committente.
Questi può infatti scegliere tra la eliminazione del vizio a cura e spese dell’appaltatore e la
azione di riduzione del prezzo in proporzione alla opera svolta; sempre però fatto salvo il diritto al
risarcimento del danno in caso di colpa dell’appaltatore.
Da parte sua l’appaltatore viene posto in condizione, appunto, di “rimediare” ad un operato
eventualmente non rispondente alla regola d’arte, conformandosi alle indicazioni del committente e
senza che ciò in alcun modo costituisca un riconoscimento della ulteriore colpa di cui all’art. 1668
c.c..
7.2.3 - Aree di responsabilità non esattamente individuate
In realtà le norme di cui agli artt. 1667/1668 e 1669 c.c. non implicano mai, salvo nei casi
eclatanti, una diretta ed esclusiva responsabilità dell’appaltatore, nonostante la presunzione di
responsabilità del medesimo. Ciò in quanto è applicabile alla fattispecie dell’appalto l’art. 1227
c.c., sul concorso di colpa delle parti.
Non solo: può prevedersi eventualmente un direttore dei lavori cui siano state specificamente
rimesse nel contratto le responsabilità derivanti da errori di progetto o direttive nella esecuzione. In
questo specifico caso (Cass. 1044/99) la responsabilità dell’appaltatore è addirittura esclusa.
Viceversa, non viene esclusa la responsabilità dell’appaltatore quando anche in presenza di un
direttore dei lavori (e quindi di “ingerenza” del committente) l’appaltatore accortosi di un vizio nella
esecuzione non lo abbia prontamente denunciato (Cass. 8075/99) manifestando il proprio
dissenso.
Va infine ricordata la responsabilità, pacificamente incombente sul condominio ex art. 2051 c.c.,
per danni a terzi nella esecuzione di un appalto ove la materiale disponibilità del bene non sia stata
completamente conferita all’appaltatore.
Infine, un mero cenno alla responsabilità personale dell’amministratore, quale rappresentante
del condominio e soggetto che sottoscrive materialmente il contratto, in materia di appalto.
Accanto alle ovvie responsabilità di natura prettamente civilistica derivanti dalla attivazione nei
termini imposti dalla legge contro l’appaltatore (decadenze, prescrizioni, ecc.) può talvolta profilarsi
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una responsabilità di natura penale.
Tale rilievo è particolarmente grave se si considera che non soltanto l’amministratore
regolarmente eletto a mente dell’art. 1129 c.c. risponde per fatti penalmente rilevanti quali quelli
profilati dagli artt. 677 e 650 c.p., ma anche il c.d. amministratore di fatto.
Mentre l’art. 650 c.p.c. è norma in bianco applicabile solo ove non vi siano disposizioni ad hoc,
interessa qui il disposto dell’art. 677 c.p., le cui sanzioni possono giungere fino all’arresto quando il
pericolo sia inerente la pubblica incolumità.
E’ naturale che l’amministratore deve essere stato posto in grado di svolgere l’opera atta a
rimuovere il pericolo di crollo dell’immobile o parte di esso, di tal che la mancanza di volontà
cosciente e libera escludono la imputabilità. Né gli artt. 650 e 677 c.p. possono applicarsi in
concorso.
Per costante, anche se non più recente, orientamento di Cassazione, la imputabilità
dell’amministratore va esclusa qualora egli dimostri di non essere stato posto nelle condizioni di
adempiere l’ordine dell’Autorità che abbia raggiunto il condominio.
In realtà, mentre dal punto di vista civilistico le responsabilità personali dell’amministratore
possono essere fortemente limitate da meccanismi “contrattati” con il proprio condominio, fino a
giungere ad accordi di manleva ovvero alla stipula di polizze assicurative ad hoc, non è possibile
individuare modalità comportamentali tali da esentare il medesimo amministratore dal rischio di
coinvolgimenti in vicende penali; solo sul piano della difesa legale, ovvero in un momento
successivo, l’amministratore potrà essere tenuto indenne dalle spese sostenute appellandosi ad
eventuali accordi.
La Cassazione esclude invece recisamente la possibilità di stabilire a livello di delibera
assembleare lo stanziamento di un “fondo” per eventuali spese legali di difesa penale
dell’amministratore; si pretende appunto la sottoscrizione di un accordo tra l’amministratore e i vari
condomini aderenti alla decisione, senza però che detta decisione possa essere assunta in sede
assembleare.
Proprio in ragione della potenziale pericolosità che un appalto comporta per un edificio,
soprattutto se coinvolge aspetti statici del medesimo, la scelta di una impresa appaltatrice che
risponda appieno al grado di perizia richiesto dall’opera da svolgersi diventa allora di rilevanza
estrema, ed è compito del diligente amministratore di condominio illustrare in sede di assemblea le
specifiche e numerose problematiche cui il condominio può esporsi nel sottoscrivere un contratto
di appalto senza le dovute cautele, prima tra esse la verifica delle polizze assicurative delle
imprese coinvolte.
In conclusione, si vuole poi sottolineare l'importanza di un aspetto talvolta trascurato del
contratto di appalto : il committente deve mettere l'impresa edile in condizione di potere eseguire il
lavoro commissionato.
Inutile contestare vizi di sorta alle opere di una impresa edile che non è stata posta in
condizione di lavorare bene.
E' viceversa opportuno che l'amministratore - prima di procedere alla sottoscrizione del
contratto - prenda accurata visione, unitamente al legale rappresentante pro tempore della impresa
stessa, non soltanto delle aree in cui strettamente si svolgerà la attività, ma anche degli spazi
preposti a deposito materiali ecc., ottenendo dalla impresa stessa la sottoscrizione di una clausola
per cui detti luoghi non implicheranno difficoltà esecutive.
In proposito, è frequente che determinate lavorazioni, per la particolare conformazione
dell'edificio condominiale e la inesistenza di aree comuni adeguate, comportino la necessità di un
passaggio ovvero di un deposito materiali presso aree private.
Raramente, tuttavia, il condomino coinvolto, porrà a disposizione spontaneamente e senza
rimostranze, ad esempio, il giardino privato per la installazione del ponteggio ovvero per il deposito
del materiale edile.
Se detto spazio privato risulterà realmente l'unico possibile da utilizzare ed il condomino oppone
un reciso rifiuto il Condominio potrebbe essere costretto ad agire ex art.700 c.p.c., in via
d'urgenza, per vedersi riconosciuto in via giudiziale il diritto ex art.843 c.c. al passaggio della
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impresa o alla installazione del ponteggio.
Tuttavia la soluzione giudiziale non appare auspicabile : nei mesi necessari ad ottenere il
provvedimento giudiziale il cantiere è fermo, e lo scotto dei prolungati tempi di lavorazione e relativi
costi ricade sul Condominio.
Migliore appare l'opera di "mediazione" dell'amministratore, che illustri alla assemblea
condominiale la necessità di corrispondere al condomino che presta l'area privata la adeguata
indennità prevista dalla Legge.
7.3 - Il contratto di assicurazione
La polizza Globale Fabbricati (che in seguito indicheremo per brevità G.F.), nasce dall’esigenza
di assicurare contro alcuni rischi, i fabbricati (in generale) e quindi nello specifico, i condomini.
Questo contratto assicurativo, garantisce il condominio, contro alcune categorie di danni, siano
essi subiti dal fabbricato, che provocati a terzi.
I contratti infatti sono suddivisi in due o più sezioni: l’una che prevede i danni al fabbricato
assicurato; l’altra che prevede i danni che il fabbricato provoca a terzi.
In tale ottica, è facile intuire che, le tipologie di sinistro, sebbene possano essere identiche,
sono trattate in maniera differente.
Per meglio esprimere tale concetto, supponiamo di affrontare un sinistro da infiltrazione d’acqua
che provoca danni al condominio assicurato, e danni ad un condominio limitrofo. Quelli al
condominio assicurato, sono danni subiti dall’assicurato, mentre i danni prodotti al condominio
limitrofo, saranno danni subiti da terzi e quindi da Responsabilità Civile.
Quindi, in base a questo concetto, avremo due tipologie di sinistri:
– Danni diretti (o in garanzia diretta)
– Danni da R.C. (o in garanzia indiretta)
Garanzia diretta, in quanto l’immobile che è assicurato, risulta colpito direttamente dal sinistro;
Garanzia indiretta, in quanto l’immobile che è stato danneggiato, non è quello assicurato.
7.3.1 - Cosa si assicura con la polizza G.F. ?
Il contratto assicurativo G.F., assicura il fabbricato nella sua interezza, compresi gli impianti fissi
(idrico, igienico, termico, elettrico, ecc.), compresi fissi ed infissi per destinazione (porte, finestre,
citofoni, ascensori, ecc.), in alcuni casi i giardini, gli alberi di alto fusto, le recinzioni, i viali, le
piscine, ecc.
La definizione di fabbricato (e quindi dell’ente assicurato) è riportata sul contratto assicurativo e,
all’atto della stipula del contratto, bisogna prestare attenzione a ciò che si assicura ovvero che non
è compreso tra le cose assicurate.
E’ evidente quindi che, quando si fa riferimento al fabbricato nella sua interezza, non si fa
alcuna distinzione tra le parti comuni e le porzioni attinenti alle singole unità immobiliari. C’è quindi
differenza tra il concetto di proprietà comune e proprietà privata, e quanto invece previsto dalla
polizza G.F.; essa infatti nel prestare la garanzia, non distingue ciò che è comune e ciò che è
privato, all’interno di un condominio. Naturalmente questa distinzione entrerà in gioco al momento
in cui, bisognerà stabilire chi ha diritto al risarcimento dell’uno o dell’altro danno.
7.3.2 - Come assicurare un condominio con polizza G.F. ?
Sebbene possa sembrare un’operazione semplice e ovvia, prima di assicurare un condominio,
è bene tener conto di alcuni fattori importanti, il primo dei quali è, qual è il valore da assicurare.
La polizza G.F. è una polizza che tiene conto del valore che viene assegnato al fabbricato
assicurato. Se un fabbricato non è assicurato in maniera adeguata, e quindi con un “capitale
assicurato” inferiore al suo valore reale, in caso di danno, l’importo indennizzabile subirà una
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riduzione proporzionale in relazione al rapporto tra il capitale assicurato e il valore del fabbricato
(insufficienza assicurativa).
Il valore da assicurare è determinato dal costo di integrale ricostruzione a nuovo dell’immobile. Il
calcolo è piuttosto semplice: si calcola il volume vuoto per pieno dello stabile e si applica un costo
unitario (per fabbricati medi in Roma tale costo è pari a circa 300,00 euro/mc.). Il risultato di tale
prodotto, darà il valore da assicurare.
7.3.3 - Quali sono i rischi assicurati con la polizza G.F. ?
I rischi assicurati sono riportati nel contratto e comunque genericamente sono i seguenti:
– Incendio
– Scoppio
– Esplosione
– Fulmine
– Acqua Condotta
– Guasti cagionati dai ladri a fissi ed infissi
– Ecc.
Per meglio comprendere gli aspetti relativi ad alcune garanzie prestate, bisogna fare una
premessa. La polizza G.F. nasce fondamentalmente in funzione della copertura “Incendio”,
allorquando gli enti eroganti mutui o finanziamenti in genere, richiedevano una garanzia
assicurativa che li cautelasse in caso di distruzione di un fabbricato. Le ulteriori garanzie, furono
man mano introdotte a beneficio dell’assicurato.
Oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, la polizza G.F. viene interessata per altre tipologie
di danni, e non per l’incendio, piuttosto raro.
Parliamo in particolar modo della garanzia “Acqua Condotta”.
E’ una garanzia che viene pressoché sempre interessata nei sinistri subiti dai condomìni, per
piccoli, medi o grandi danni.
Questa garanzia risolve le problematiche frequenti e comuni, di quei danni dovuti alle rotture di
condutture, che danneggiano i piani sottostanti, o l’immobile stesso interessato alla rottura della
tubazione.
Nell’analisi di questo tipo di garanzia, bisogna prestare attenzione al fatto che essa non riguarda
la riparazione del tubo rotto e tutte le opere murarie finalizzate a tale riparazione e, tranne in casi
particolari, non è operante se non si sia verificata “rottura accidentale” della conduttura. Risultano
di solito esclusi dalla garanzia:
– Occlusioni
– Trabocchi
– Rotture dovute a vetustà della conduttura
– Rotture dovute al gelo
– Rotture provocate da terzi intenti ad opere di manutenzione
– Ecc.
Le opere per riparare la tubazione che ha dato origine allo spargimento d’acqua, dette anche
“Ricerca e riparazione guasto”, sono previste solo con garanzie aggiuntive.
7.3.4 - Come viene liquidato un danno con polizza G.F. ?
Partendo dalla garanzia Acqua Condotta, e riallacciandoci al concetto di “Garanzia diretta” e
“Garanzia indiretta”, analizziamo come viene liquidato un danno su polizza G.F.
Abbiamo detto che, se il danno è subito dallo stesso immobile assicurato, siamo in regime di
garanzia diretta. Quindi ad esempio se si rompe il tubo dal sig. Rossi al terzo piano di uno stabile,
e danneggia le pareti dell’appartamento del sig. Bianchi, al piano inferiore, siamo in Garanzia
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diretta. Infatti, lo spargimento d’acqua ha interessato la muratura e quindi una parte del fabbricato
assicurato. La garanzia che opererà sarà quella da Acqua Condotta, con le sue limitazioni e/o
franchigie.
Se la stessa rottura interessa anche i mobili del sig. Bianchi (e quindi enti non assicurati), la
garanzia che interverrà sarà quella da R.C. che è in altro settore della polizza, con le sue
limitazioni e/o franchigie.
Nella liquidazione del danno si terrà poi conto della cosiddetta “Preesistenza”, vale a dire del
confronto tra il capitale assicurato e il valore di ricostruzione dell’immobile, calcolato secondo i
criteri di cui al precedente paragrafo 7.3.2. Se tale rapporto è superiore o uguale al 100%, il danno
verrà liquidato interamente, se il rapporto è inferiore al 100%, il danno verrà liquidato nella
percentuale così ottenuta.
Es.1:
Capitale Assicurato E 1.000.000,00
Costo ricostruzione fabbricato mc. 3.000 x 300 E/mc. = E 900.000,00
Il Capitale Assicurato è superiore al valore del fabbricato quindi il danno sarà indennizzabile senza
riduzioni proporzionali.
Es.2:
Capitale Assicurato E 1.000.000,00
Costo ricostruzione fabbricato mc. 4.000 x 300 E/mc. = E 1.200.000,00
Il Capitale Assicurato è inferiore al valore del fabbricato quindi il danno sarà indennizzabile con
l’applicazione della regola proporzionale.
Quindi se il danno accertato è
E 1.000,00 (Danno) x
E 1.000,00, si avrà:
E 1.000.000,00 (Cap. Ass.to) = E 833,33
E 1.200.000,00 (Val. Fabbr.)
L’importo indennizzabile (E 833,33) sarà quindi inferiore al danno subito (E 1.000,00).
7.3.5 - E nel caso di coassicuratrici
Accade talvolta che, per lo stesso condominio, sono prestate due o più polizze G.F.
In questo caso, la liquidazione del danno non sarà raddoppiata, triplicata e così via, ma il danno
quantificato dal perito, sarà ripartito in quota tra le due o più Compagnie che prestano i contratti
assicurativi.
7.3.6 - In caso di disaccordo?
Non sempre ciò che il perito in fase di accertamento del danno valuta, viene accettato
dall’amministratore o dal condomino danneggiato. In caso di disaccordo, il contratto assicurativo
prevede la “Clausola Compromissoria”. Vale a dire che, se emerge disaccordo, il condominio
dovrà nominare un perito di parte che, si confronterà con il perito della Compagnia e, qualora il
disaccordo dovesse persistere, i due periti provvederanno a nominare un Terzo Perito Arbitro, che
deciderà sulla controversia.
Il Terzo Perito Arbitro sarà nominato congiuntamente dai periti delle parti o dal Tribunale.
Tutto ciò per i danni inerenti la Garanzia diretta. Per i danni da R.C., si dovrà procedere con un
classico contenzioso giudiziario.
7.3.7 – Franchigie e scoperti
Alcune garanzie, vengono prestate con franchigia e/o scoperto.
La franchigia è un importo fisso di danno che l’assicurato decide di tenere a proprio carico, così
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come lo scoperto è una percentuale (del danno o del capitale assicurato) che rimarrà a carico
dell’assicurato.
In particolare, la franchigia andrà detratta dall’importo indennizzabile a termine di polizza, e
dovrà essere quindi recuperata da parte del danneggiato, facendone eventuale richiesta al
responsabile del sinistro.
Come già riferito è un importo fisso che potrà variare a seconda della garanzia prestata e del
tipo di contratto.
Lo scoperto sarà detratto in forma percentuale rispetto al danno subìto (10% - 20% - 25% a
seconda delle disposizioni contrattuali), o in forma percentuale, rispetto al capitale assicurato.
Talvolta lo scoperto è previsto con franchigia minima.
Un esempio di scoperto percentuale con franchigia minima: “garanzia acqua condotta prestata
con scoperto del 10% del danno, col minimo di euro 500,00”.
In caso di danno accertato pari a euro 3.000,00, risultando lo scoperto percentuale pari al 10%
di euro 3.000,00 (pari quindi a euro 300,00) si applicherà la franchigia minima di euro 500,00.
In caso di danno pari a euro 6.000,00 lo scoperto sarà pari al 10% di euro 6.000,00 superiore
quindi alla franchigia minima di euro 500,00 e si applicherà dunque lo scoperto di euro 600,00.
7.3.8 - La prescrizione
Infine un breve cenno sulla prescrizione.
Un danno si ritiene prescritto, e quindi si perde il diritto al risarcimento, qualora per oltre due
anni, la pratica rimane ferma e l’amministratore non si fa parte diligente ad inviare una lettera
raccomandata A.R. alla Compagnia, che abbia valore di comunicazione che interrompe i termini
della prescrizione.
Ciò sempre per quanto attiene la Garanzia diretta.
Per i danni da R.C., la prescrizione decade dopo cinque anni dall’evento.
**** *** ****
Un piccolo monito agli amministratori condominiali in formazione : è preferibile stipulare contratti
assicurativi annuali ( come per ogni fornitura di servizi, d'altro canto), salvo espresse indicazioni da
parte della assemblea di condominio.
Ciò, oltre a rispondere con rigore ai limiti temporali del mandato professionale amministrativo
( aspetto fondamentale, ad avviso di chi scrive) , anche per permettere, alla naturale scadenza del
contratto, di ridiscutere unitamente alla assemblea condominiale preventivi di varie compagnie
assicurative valutandone la convenienza.
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MODULO N. 8
La ripartizione delle spese
(Massimo Ginesi)
8.1 - Normativa generale e particolare
Il tema del riparto delle spese all’interno del condominio è materia di particolare delicatezza, sia
per la conflittualità che è idonea a generare fra i singoli condomini sia per la sinteticità delle norme
che il codice civile vi dedica: pochi articoli, contenenti principi generali e non sempre di facile
lettura e comprensione.
A ciò si aggiunga che l’esperienza pratica è andata delineando fattispecie sempre più
complesse, per le quali è ormai indispensabile far ricorso alla elaborazione giurisprudenziale che
negli anni si è andata sviluppando.
E’ evidente che un approccio di base alla materia dovrà essere necessariamente semplificato,
poiché l’interpretazione delle norme di cui agli artt. 1123/1126 c.c. è operazione che spesso lascia
disorientato anche il tecnico del diritto.
D’altro canto va osservato che l’adozione di un corretto criterio di riparto in sede di attribuzione
della spesa è operazione essenziale per un sereno svolgimento della vita condominiale e,
soprattutto, per evitare una proliferazione del contenzioso: l’erronea applicazione di un criterio di
attribuzione della spesa comporta infatti vizio delle delibere che approvano detta ripartizione.
Interessa quindi, in primo luogo, identificare i principi base che il legislatore ha delineato in tema
di ripartizione della spesa, dai quali derivano linee guida che – se correttamente assimilate ed
applicate – consentiranno di identificare con relativa facilità e certezza il criterio applicabile ai casi
di quotidiana esperienza.
8.1.1 - La proporzionalità - art. 1123 comma 1 c.c.
Il primo comma dell’art. 1123 c.c. stabilisce che “Le spese necessarie per la conservazione e
per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune
e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura
proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione”.
Da tale norma si evince che il principio generale in base al quale si ripartiscono le spese
all’interno del condominio è dunque quello della proporzionalità in base al valore millesimale di
ciascuna unità immobiliare individuato in apposite tabelle; l’art. 68 disp. att. c.c. dispone che
proprio ai fini del riparto delle spese secondo i criteri di cui agli artt. 1123 c.c. e ss. “Il regolamento
deve precisare il valore di ciascun piano o porzione di piano spettante in proprietà esclusiva ai
singoli condomini”.
Il principio di proporzionalità viene utilizzato laddove non sia diversamente stabilito e potrà di
volta in volta essere temperato da altri parametri corrispondenti alla specifica funzione del
manufatto o al diverso uso che dello stesso può farsi.
Il singolo condomino è tenuto a contribuire alle spese non già per il concreto uso che egli faccia
del bene o impianto comune, ma per il semplice fatto di essere proprietario di una porzione
esclusiva (Cass. 9 marzo 1967, n. 555).
Da ciò deriva che:
a) L’obbligazione di pagare la spesa ha natura “propter rem”, ovvero grava su chiunque divenga
proprietario a qualsiasi titolo (Trib. Milano 8 luglio 1971 e Trib. Bologna 6 maggio 2000).
a) L’esistenza di tabelle millesimali non è condizione indispensabile per l’applicazione del principio
di proporzionalità. La vita condominiale non potrà essere paralizzata dalla mancata
approvazione della tabella millesimale ed il riparto dovrà comunque avvenire uniformandosi al
detto principio della proporzionalità che – in via meramente provvisoria e salvo i dovuti
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conguagli – potrà far riferimento anche a parametri empirici (vani, ampiezza, superficie…);
a) L’esistenza di tabelle millesimali non costituisce requisito di validità delle delibere assembleari
(Cass. 17 febbraio 2005, n. 3264).
La giurisprudenza ha riconosciuto all’art. 1123 c.c. una struttura piramidale, affermando che i tre
commi di cui è costituita la norma sono tra loro in un rapporto che va dal generale al particolare
(Cass. 30 ottobre 1981, n. 5751): il primo comma costituisce regola generale, mentre il secondo ed
il terzo introducono specifiche deroghe.
Ulteriore distinzione viene effettuata fra le “spese di conservazione” e le “spese di godimento”,
con conseguenze diverse in ordine al riparto.
Secondo la Suprema Corte “Le spese per la conservazione - in conformità con lo scopo e con
il fondamento, consistenti rispettivamente nel mantenimento della integrità, cioè del valore capitale
delle cose, degli impianti e dei servizi comuni e nella loro utilizzazione obbiettiva - si imputano ai
condomini in ragione del collegamento immediato tra l’appartenenza ed i contributi. Le spese per
l’uso - in consonanza con il fine e con la ratio, configurata dal godimento soggettivo e dagli oneri
determinati dal costo - si ripartiscono in relazione alla misura dell’uso…….. alle spese per la
conservazione, al condomino non è consentito sottrarsi, anche quando le cose sono indispensabili
soltanto entro certi limiti, come nel caso dell’impianto di riscaldamento; a determinate condizioni,
invece, alle spese per l’uso il condomino può evitare di concorrere.” (Cass. 25 marzo 2004, n.
5974)
Se consideriamo il servizio di riscaldamento, la distinzione fra spese di conservazione e spese
per l’uso apparirà ancora più chiara: il Supremo Collegio precisa che “corretto deve ritenersi il
criterio di ripartire le spese di sostituzione della caldaia secondo i millesimi di proprietà…
trattandosi di spese che attengono alla conservazione, cioè alla tutela dell’integrità materiale e,
quindi, del valore capitale dell’impianto comune, esse interessano i condomini quali proprietari
dell’impianto, a cui carico la legge (art. 1123 comma 1 c.c.) pone l’obbligo di concorrere alle spese,
configurando a carico di essi obligationes propter rem, che, nascendo dalla contitolarità del diritto
reale sull’impianto comune, sono dovute in proporzione della quota che esprime la misura della
appartenenza…” (Cass. 27 gennaio 2004, n. 1420)
Si puo’ ancora rilevare, a puro titolo di esempio, che rientrano nell’ipotesi appena delineata,
anche la manutenzione dei muri maestri, della facciata, del tetto: sono questi i casi più intuitivi, ma
forniscono con sufficiente chiarezza i confini entro i quali il primo comma dell’art. 1123 c.c. si trova
ad operare.
Da quanto sin qui esposto emerge l’ulteriore principio, stabilito dall’art. 1118 comma 2 c.c., in
base al quale il condomino non potrà sottrarsi alle spese per la conservazione della cosa comune
neanche rinunziando al diritto sulle cose anzidette, proprio per la ragione che i beni individuati
dall’art. 1117 c.c. rappresentano (salvo diversa convenzione) quelli che il legislatore individua
come necessari all’esistenza dell’edificio in condominio e dunque necessariamente connessi alla
qualifica di proprietario.
8.1.2 - I temperamenti
Si è accennato alla struttura piramidale dell’art. 1123 c.c. ed ai temperamenti introdotti dal
comma secondo e terzo: il legislatore ha ritenuto il principio della proporzionalità inadeguato a
disciplinare compiutamente la ripartizione delle spese nel condominio a differenza di quanto invece
avviene nella comunione ove “il principio della proporzione fra quota di proprietà e concorso nei
vantaggi e nei pesi della cosa comune vige allo stato puro… nel condominio non è sufficiente
giacchè tale istituto è caratterizzato dalla coesistenza di un regime di comunione con molteplici
proprietà individuali, onde la intensità di godimento delle cose ed impianti comuni da parte dei
condomini può obiettivamente risultare diversa a seconda del rapporto in cui con quelle cose o
impianti si trova di fatto il bene di proprietà esclusiva” (Cass. 6 luglio 1963, n. 19123).
Il legislatore ha quindi affiancato al criterio generale i concetti di uso (art. 1123 comma c.c.) e di
utilità (art. 1123 comma 3 c.c.).
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8.1.3 - L’uso diverso - art. 1123 comma 2 c.c.
Il criterio introdotto dal secondo comma dell’art. 1123 c.c. è forse quello di più difficile
delineazione e di più controversa applicazione pratica: Il criterio della proporzionalità contiene un
principio di imputazione della spesa chiaramente individuato, principio che è altrettanto
chiaramente delineato nelle ipotesi previste al comma tre della stessa norma . Non altrettanto può
dirsi del criterio connesso all’uso, la cui genericità e astrattezza ha lasciato e lascia spazio a
notevoli dubbi ed a diverse interpretazioni anche in giurisprudenza.
L’interpretazione giurisprudenziale più recente aiuta comunque a comprendere meglio il
principio che fa riferimento all’uso “Sulla base di tale secondo principio, quindi, l’obbligo di
contribuire alle spese si fonda sull’utilità che ad ogni singola proprietà esclusiva può derivare dalla
cosa comune con la conseguenza che, ove la cosa comune oggetto dell’intervento non possa in
alcun modo servire ad uno o più condomini, non sussiste il loro obbligo a contribuire alle spese
relative.” (Cass. 22 giugno 1995, n. 7077).
L’esame del caso pratico cui si riferisce la sentenza appena citata può essere utile a
comprendere meglio il problema: si fa riferimento alla installazione di porte tagliafuoco e dei
dispositivi di adeguamento alla normativa antincendio nel garage condominiale in cui vi siano però
posti auto solo di alcuni condomini; la sentenza chiarisce che nonostante si tratti di installazioni su
parti comuni, che sono tuttavia in uso solo ai proprietari delle autorimesse, solo su costoro dovrà
gravare la spesa: “ … Il fatto poi che le opere poste in essere nei locali garage, oltre ad esplicare
una funzione di prevenzione e di sicurezza a favore dei condomini che utilizzano i garage, in
quanto costituiscono un ostacolo alla diffusione degli incendi, indirettamente servano anche agli
altri condomini, non influisce sul criterio di ripartizione delle spese che l’art. 1123 comma 2 c.c.
pone solo a carico di coloro che usano i locali fonte di pericolo”.
Ulteriore esempio di applicazione del criterio dell’uso si ha anche relativamente alla dibattuta
questione del distacco del singolo condomino dall’impianto di riscaldamento centralizzato,
inizialmente ritenuto inammissibile dalla giurisprudenza e su cui oggi invece si è consolidato un
orientamento positivo; la Suprema Corte, oltre a chiarire il caso concreto ci fornisce una
interessate chiave di lettura della problematica che stiamo analizzando:
“Il condomino può legittimamente rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e distaccare
le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune, senza necessità di autorizzazione
o approvazione da parte degli altri condomini, se prova che dalla sua rinunzia e dal distacco non
derivano nè un aggravio di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento
centralizzato, nè uno squilibrio termico dell’intero edificio, pregiudizievole per la regolare
erogazione del servizio. Soddisfatta tale condizione, egli è obbligato a pagare soltanto le spese di
conservazione dell’impianto di riscaldamento centrale, mentre è esonerato dall’obbligo del
pagamento delle spese per il suo uso” (Cass. 25 marzo 2004, n.5974).
Peraltro, il tema del distacco del singolo dall’impianto centralizzato, pone anche interessanti
riflessioni sul contemperamento dell’uso con le normative sovranazionali in tema di risparmio
energetico (recepite dalla L. 10/1991 e succ. mod.) e con le norme regolamentari. Secondo la
Cassazione (di recente con sentenza 27 maggio 2011, n. 11857) il distacco è legittimo quando
l'interessato dimostra che dalla sua scelta non derivano né aggravi di spese per gli altri condomini
né squilibri termici pregiudizievoli per l'erogazione del servizio. Inoltre, non è necessaria
l'autorizzazione o l'accettazione da parte degli altri condomini ed è nulla una delibera negativa (si
vedano anche le sentenze 6481/2011, 6923/2001, 1775/1998 e 1597/1995). Recentissima
pronuncia propone poi riflessioni che appaiono assai interessanti e perspicue per il tema che ci
occupa (Cass. Sez. II 29.9.2011 n. 19893): “poiche' tra le spese indicate dall'art. 1104 c.c.,
soltanto quelle per la conservazione della cosa comune costituiscono "obligationes propter rem" e per questo il condomino non puo' sottrarsi all'obbligo del loro pagamento, ai sensi dell'art. 1118
c.c., comma 2, che invece, significativamente, nulla dispone per le spese relative al godimento
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delle cose comuni - e' legittima la rinuncia di un condomino all'uso dell'impianto centralizzato di
riscaldamento (purche' questo non ne sia pregiudicato), con il conseguente esonero, in
applicazione del principio contenuto nell'art. 1123 c.c., comma 2, dall'obbligo di sostenere le spese
per l'uso del servizio centralizzato; e' invece obbligato a sostenere le spese dell'eventuale aggravio
derivato alle spese di gestione di tale servizio, compensato dal maggiore calore di cui beneficia
anche
il
suo
appartamento
(Cass.
n.
08924
del
2/7/2001).
Il condomino, dunque, come ripetutamente affermato da questa Corte, puo' rinunciare all'uso del
riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unita' immobiliare dall'impianto
termico comune, senza necessita' di autorizzazione od approvazione degli altri condomini, e,
fermo il suo obbligo al pagamento delle spese per la conservazione dell'impianto, e' tenuto a
partecipare a quelle di gestione dell'impianto se, e nei limiti in cui, il suo distacco non si risolva in
una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condomini (cfr: Cass.
civ., sez. 2^,sent. 25 marzo 2004, n, 5974; Cass. civ., sez. 2^,; Cass. civ., sez. 2^, sent. 12
novembre
1997,
n.
11152).
A tali considerazioni occorre aggiungere che non osta la natura contrattuale della norma
impeditiva contenuta nel regolamento di condominio, poiche' questo e' un contratto atipico le cui
disposizioni sono meritevoli di tutela solo ove regolino aspetti del rapporto per i quali sussista un
interesse generale dell'ordinamento (per la questione dell'interesse meritevole di tutela: Cass. n.
8038 del 02/04/2009; Cass. Sez. U, n. 4421 del 27/02/2007; Cass. n. 8038 del 02/04/2009; Cass.
n. 2288 del 06/02/2004). Pertanto, il regolamento di condominio, anche se contrattuale, approvato
cioe' da tutti i condomini, non puo' derogare alle disposizioni richiamate dall'art. 1138 c.c., comma
4, e non puo' menomare i diritti che ai condomini derivano dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle
convenzioni, mentre e' possibile la deroga alle disposizioni dell'art. 1102 c.c., non dichiarato
inderogabile.
Il che non e' ravvisabile, anzi e' il contrario, quanto al distacco delle derivazioni individuali dagli
impianti di riscaldamento centralizzato ed alla loro trasformazione in impianti autonomi, per un
duplice ordine di ragioni: in primo luogo, giacche' proprio l'ordinamento ha mostrato di privilegiare,
al preminente fine d'interesse generale rappresentato dal risparmio energetico, dette
trasformazioni e, nei nuovi edifici, l'esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli
individuali; in secondo luogo, giacche' la ratio atipica dell'impedimento al distacco, riscontrata dal
giudice a quo, non puo' meritare la tutela dell'ordinamento in quanto espressione di prevaricazione
egoistica anche da parte d'esigua minoranza e di lesione dei principi costituzionali di solidarieta'
sociale “
Ancor più evidente appare tale aspetto legato all’uso in questione di recente risoluzione
giurisprudenziale e che inverte una tendenza interpretativa più risalente: “Nel caso in cui il solaio di
copertura di autorimesse (o di altri locali interrati) in proprietà singola svolga anche la funzione di
consentire l'accesso all'edificio condominiale, non si ha una utilizzazione particolare da parte di un
condomino rispetto agli altri, ma una utilizzazione conforme alla destinazione tipica (anche se non
esclusiva) di tale manufatto da parte di tutti i condomini. Ove, poi, il solaio funga da cortile e su di
esso vengano consentiti il transito o la sosta degli autoveicoli, è evidente che a ciò è imputabile in
maniera preponderante il degrado della pavimentazione, per cui sarebbe illogico accollare per un
terzo le spese relative alle necessarie riparazioni, ai condomini dei locali sottostanti. Sussistono
allora le condizioni per una applicazione analogica dell'art. 1125 c.c.., che stabilisce che le spese
per la manutenzione e la ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute, in via
generale, in parti eguali dai proprietari dei due piani l'uno all'altro sovrastanti, restando a carico del
proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano
inferiore l'intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto: tale disposizione, infatti, accolla per intero
le spese relative alla manutenzione di una parte di una struttura complessa (il pavimento del piano
superiore) a chi con l'uso esclusivo della stessa determina la necessità di tale manutenzione, per
cui sì può dire che costituisce una applicazione particolare del principio dettato dall'art. 1123, 2
comma, c.c.” (Cassazione civile sez. II 19 luglio 2011 n. 15841)
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Generalmente quando si fa riferimento all’uso in materia condominiale, si ha riguardo all’uso
potenziale ossia alla astratta possibilità e capacità del condomino di fruire del bene o servizio in
questione e non al fatto che concretamente ed effettivamente il singolo se ne giovi in concreto. Il
concetto di uso potenziale è idoneo a risolvere molti dei dubbi più frequenti nella realtà
condominiale ed ha riguardo “al godimento potenziale che il condomino può ricavare dalla cosa
comune…. sicché il fatto che egli, potendo godere della cosa comune, di fatto non la utilizzi, non lo
esonera dall’obbligo di pagamento delle spese suddette“ (Cass. 6 dicembre 1991, n. 13160).
Il secondo comma dell’art. 1123 c.c. ha invece riguardo a tutti quei casi in cui non si può
applicare il concetto di uso potenziale, ma si è in presenza di beni o servizi “che siano
oggettivamente destinate a servire uno o alcuni condomini in misura non corrispondente al valore
delle loro proprietà individuali” (Cass. 19 febbraio 1997, n. 1511).
8.1.4 - L’utilità - art. 1123 comma 3 c.c.
L’ultimo comma dell’ art. 1123 c.c. delinea infine la figura del c.d. condominio parziale: “Qualora
un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati servire una parte
dell’intero fabbricato le spese relative alla manutenzione sono a carico del gruppo che ne trae
utilità “. Il principio è intuitivo: la spesa viene ripartita solo fra i gruppi che ne traggono utilità,
ovviamente sempre applicando all’interno del gruppo il criterio generale della proporzionalità. Una
delle ipotesi più comuni è rappresentata dal fabbricato con più portoni e più scale distinte: è
evidente che ogni scala costituirà una realtà parziale che rappresenta una sorta di piccolo
condominio fra i soli soggetti che utilizzano quella scala e che contribuiranno pro quota alle spese
necessarie alla manutenzione della scala stessa; lo stesso principio vale in ipotesi di diverse
colonne di scarico (o impianti acqua, elettrici, gas, ecc.) facenti capo a diversi gruppi di condomini;
ciascuno sarà tenuto per le spese relative al solo impianto cui è allacciato.
Ovviamente nella valutazione del gruppo di condomini che ne trae utilità si dovrà tener conto
non solo delle caratteristiche strutturali e funzionali, ma anche della effettiva destinazione del bene
ad assolvere determinati compiti. Come sempre l’analisi di casi pratici e la relativa elaborazione
giurisprudenziale consente di comprendere meglio il concetto : “In un condominio, il lastrico di
copertura di una parte individuata dell’edificio condominiale che ha la funzione, oltre che di
copertura di tale parte, anche di raccolta delle acque di scolo di altre parti dell’edificio deve
ritenersi destinato a servire anche queste ultime, con la conseguenza che le spese di
manutenzione devono essere ripartite tra tutti i condomini che ne traggono utilità, tenendo conto
della diversa utilità che ciascuna parte può trarre” (Cass. 16 aprile 1999, n. 3803).
“Deve ritenersi legittimamente configurabile la fattispecie del condominio parziale "ex lege" tutte le
volte in cui un bene risulti, per obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio
e/o al godimento in modo esclusivo di una parte soltanto dell'edificio in condominio, parte oggetto
di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento
di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene. La parzialità del diritto di
condominio non deve essere richiesta necessariamente dalla parte attrice, atteso che i diritti reali,
in quanto diritti assoluti, appartengono alla categoria dei diritti cd. autodeterminati, che si
identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il loro titolo che ne
costituisce la fonte” (Cass. Sez.II 24 novembre 2010 n. 23851)
8.1.5 - Considerazioni conclusive
Per concludere la disamina dell’art. 1123 c.c. si potrà osservare, unitamente ad autorevole
dottrina (Terzago - il Condominio - Giuffrè 2010), che al fine della ripartizione di una spesa
l’assemblea (art. 1135 c.c. n. 2) dovrà individuare prima i condomini interessati alla stessa, in
secondo luogo valutare l’utilità tratta ed infine stabilire la misura. Se è vero quindi che tale
operazione deve essere posta in atto per attribuire all’uno piuttosto che all’altro la spesa fatta o da
farsi è altrettanto vero che l’accento va posto non tanto sulla funzione della spesa quanto sulla
posizione del condomino (del gruppo o di tutti condomini) in relazione alla stessa. Solo in un
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secondo momento si dovrà guardare alla sua natura…. Dal punto di vista pratico non è possibile
operare una netta divisione tra spese necessarie per la conservazione e spese necessarie per il
godimento e ricondurre a tale dualismo tutte le spese ipotizzate…. In buona sostanza, valutata la
posizione del singolo condomino o gruppi di condomini, in relazione alla spesa da ripartire e tenuto
conto del principio dell’uso potenziale, si adotterà o il criterio dell’uso o quello della quota
proporzionale al valore del piano o porzione di piano o quello misto.
Ad esempio il primo si adotterà per l’ascensore, il secondo per la conservazione delle parti
elencate nell’art. 1117 c.c. ed il terzo per le scale. Naturalmente tenendo nel debito conto il comma
3 del citato art. 1123 c.c.
Correttamente l’autore fa riferimento all’assemblea, poiché è tale organo che approva i riparti:
non sarà tuttavia inutile osservare che in realtà tale materia è di particolare rilievo anche e
soprattutto per l’amministratore che quei riparti è chiamato a predisporre ed a sottoporre al vaglio
dell’organo deliberante.
8.2 - Le ipotesi particolari
Quanto sin qui esposto consente di comprendere con più facilità le ipotesi disciplinate dagli artt.
1124/1126 c.c. , che costituiscono applicazioni specifiche dei principi dettati dalla dall’art. 1123 c.c.
8.2.1 - art. 1124 c.c. – Le scale
La norma statuisce che “Le scale sono mantenute e ricostruite dai proprietari dei diversi piani a
cui servono. La spesa relativa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore dei singoli piani o
porzioni di piano, e per l’altra metà in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo”.
Il principio dettato per le spese relative alle scale rappresenta semplicemente l’applicazione
combinata del principio proporzionale e del principio dell’uso più intenso.
La Suprema Corte ha più volte chiarito che “Negli edifici in condominio, le scale, con i relativi
pianerottoli, costituiscono strutture funzionalmente essenziali del fabbricato e rientrano, pertanto,
fra le parti di questo che, in assenza di titolo contrario, devono presumersi comuni nella loro
interezza, ed anche se poste concretamente al servizio soltanto di talune delle porzioni dello
stabile, a tutti i partecipanti alla collettività condominiale in virtù del dettato dell’art. 1117, n. 1 c.c.”
(Cass. 12 febbraio 1998, n. 1498).
Le scale sono dunque bene necessario all’esistenza del fabbricato in condominio e come tali
comuni a tutti i condomini, indipendentemente dall’uso concreto o meno che gli stessi ne facciano
(si veda ad esempio il caso delle unità immobiliari con accesso esterno); la spesa per la loro
manutenzione e ricostruzione va quindi attribuita secondo il criterio della proporzionalità di cui al
l’art. 1123 comma 1 c.c.
Si tratta tuttavia di bene destinato a servire palesemente i condomini in misura diversa, poiché
chi abita agli ultimi piani ne farà necessariamente un uso più intenso mentre chi sarà proprietario di
fondi esterni con autonomo accesso né farà un uso poco meno che potenziale. L’art. 1124 c.c.
non fa altro che contemperare tali due esigenze, attribuendo metà della spesa ai condomini in
proporzione ai millesimi generali (dunque proporzionalità pura) e metà in proporzione all’altezza
dal suolo (criterio dell’uso). E’ evidente che allo scopo di applicare compiutamente detto criterio
misto dovrà essere predisposta apposita tabella millesimale.
L’art. 1124 c.c. si applica solo alle spese di manutenzione e conservazione: la giurisprudenza
ha chiarito che “La disposizione non riguarda, pertanto, le spese di pulizia delle scale, alle quali i
condomini sono tenuti a contribuire in ragione dell’utilità che la cosa comune è destinata a dare a
ciascuno” (Cass. 19 febbraio 1993, n. 2018).
In tema di illuminazione, ad esempio, la Suprema Corte chiarisce che “le spese per la
illuminazione e la pulizia delle scale non raffigurano spese per la conservazione, vale a dire spese
per preservare l’integrità e mantenere il valore capitale delle cose, secondo quanto previsto dagli
artt. 1123 comma 1 e 1124 comma 1 c.c.; sebbene spese utili a permettere ai condomini un più
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confortevole uso o godimento delle cose comuni e delle cose proprie. … Diversamente dalle
spese per la manutenzione e la ricostruzione delle scale, quelle per la pulizia e per la illuminazione
vanno considerate come spese per l’uso“ (Cass. 3 ottobre 1996, n. 8657).
La ripartizione delle spese per la pulizia e l' illuminazione delle scale di un condominio va fatta, in
analogia con la norma speciale dell'art. 1124 c.c., con l'applicazione, però, integrale del criterio
dell'altezza di piano - cioè in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo - in quanto
la disposizione contenuta nell'art. 1124 c.c. comma 1, secondo la quale la metà delle spese per la
ricostruzione e manutenzione delle scale va effettuata in base ai millesimi, deroga, infatti, in parte
a tale criterio che è applicativo del principio generale di cui all'art. 1123 comma 2 c.c. e, quindi,
non può trovare applicazione analogica con riferimento a spese diverse da quelle espressamente
considerate.” Cassazione civile sez. II 12 gennaio 2007 n. 432
Sullo specifico punto della illuminazione va tuttavia ricordato che sussistono anche pronunzie
che riconducono l’illuminazione ad elemento di sicurezza del fabbricato e quindi destinato come
tale ad essere utile a tutti i condomini indipendentemente dall’uso.
In tema di scale rappresenta poi problema frequente l’attribuzione delle spese alle u.i. con
accesso esterno; il criterio dell’uso (art. 1123 comma 2 c.c.) suggerirebbe di escluderli da tutte
quelle spese che non li riguardano direttamente, imputando loro solo quelle necessarie alla
conservazione, manutenzione e ricostruzione di un bene necessariamente comune. Si osserva
infatti che le scale sono beni comuni anche alle unità esterne che - quantomeno sotto il profilo
potenziale - possono essere usate anche da questi in quanto contengono impianti comuni, spesso
nell’androne sono ubicati i contatori e comunque consentono di accedere ad altre parti comuni
dell’edificio quale il tetto.
In giurisprudenza non vi è peraltro unanime orientamento sul punto.
Alla disciplina delle scale è equiparato l’impianto di ascensore, che dunque seguirà esattamente
gli stessi principi: “In tema di condominio d’edifici, la regola posta dall’art. 1124 c.c. relativa alla
ripartizione delle spese di manutenzione e di ricostruzione delle scale (per metà in ragione del
valore dei singoli piani o porzione di piano, per l’altra metà in misura proporzionale all’altezza di
ciascun piano dal suolo) … è applicabile per analogia, ricorrendo l’identica ratio, alle spese relative
alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore… su cui incide il logorio dell’impianto,
proporzionale all’altezza dei piani“ (Cass. 17 febbraio 2005, n. 3264).
8.2.3 - art. 1125 c.c. - Soffitti, volte e solai
Il codice civile stabilisce che “Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle
volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro
sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a
carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto”.
La norma pare sufficientemente chiara: la soletta divisoria fra piani è comune ai due condomini
interessati costituendo l’inscindibile struttura divisoria tra le due unità immobiliari e pertanto per
quel che attiene la struttura portante contribuiranno i due soggetti in parti uguali, mentre per gli
interventi riguardanti pavimenti e soffitti vale quanto disposto in maniera inequivocabile dal codice.
A questa norma in passato si è fatto riferimento anche per la ripartizione delle spese relative ai
balconi aggettanti, considerandoli un prolungamento della soletta divisoria; il principio è ormai
abbandonato e l’orientamento oggi dominante in tema di balconi è che gli stessi siano esclusiva
pertinenza dell’appartamento al cui servizio sono posti e del quale costituiscono estensione e
prolungamento, risultando quindi ogni spesa relativa di competenza del proprietario di detta unità
immobiliare.
E’ fatta salva la spesa inerente i c.d. frontalini o comunque la parte esterna del balcone (ivi
compreso ringhiere ed altri manufatti) laddove prevalga in dette strutture la funzione decorativa ed
architettonica piuttosto che quella volta a rendere fruibile il balcone. Nel caso in cui il balcone si
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inserisca armonicamente nel disegno della facciata contribuendo a dare all’edificio una propria
connotazione estetica ed architettonica, le relative spese saranno imputate secondo il disposto
dell’art. 1123 comma 1 c.c. A tal proposito la giurisprudenza osserva che “i balconi aggettanti,
costituendo un “prolungamento” della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via
esclusiva al proprietario di questa; soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte
frontale e di quella inferiore si debbono considerare beni comuni a tutti, quando si inseriscono nel
prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole” (Cass. 23 settembre
2003, n. 14076).
8.2.4 - art. 1126 c.c. - Lastrici solari di uso esclusivo
Il codice civile stabilisce che: “Quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è
comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un
terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i
condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore
del piano o della porzione di piano di ciascuno.”
Anche tale disposizione non rappresenta altro che l’applicazione mista dei diversi principi
stabiliti dall’art. 1123 c.c. e già analizzati. La norma si riferisce ai soli lastrici di proprietà o uso
esclusivi, poiché nell’ipotesi in cui il lastrico sia di proprietà comune rientra a tutti gli effetti nella
previsione di cui all’art. 1123 comma 1 c.c.
Al criterio di ripartizione previsto per il lastrico solare la giurisprudenza ormai pacificamente
riconduce anche le spese relative alle terrazze a livello.
La norma tiene conto della duplicità di funzione del lastrico (e della terrazza a livello) di uso
esclusivo, che svolge sia la funzione di copertura del fabbricato – e quindi sottostà al principio
proporzionale per due terzi – sia quella di fornire una utilità esclusiva al singolo che ne gode cui è
imputato un terzo della spesa; i due terzi vanno ripartiti fra tutti i condomini che sono proprietari
delle unità immobiliari poste nella colonna sottostante il lastrico, ivi compreso colui che ne ha
proprietà o uso esclusivo se risulti proprietario anche di unità poste sotto il lastrico.
E’ utile inoltre precisare che se il lastrico costituisce copertura solo di una parte del fabbricato
per essere il condominio munito di più tetti funzionalmente autonomi, viene semplicemente
applicato il principio del condominio parziale di cui all’art. 1123 comma 3 c.c.
L’art. 1126 c.c. si applica anche se sotto al lastrico vi sia una sola unità: “In tema di condominio
negli edifici, le spese di manutenzione, riparazione e ricostruzione delle terrazze, anche a livello,
equiparate ai lastrici solari, sono disciplinate dall’art. 1126 c.c., …. pur se ad essa sia sottoposto
un solo locale, perché in questo caso la funzione di copertura della terrazza medesima non viene
meno” (Cass. 15 luglio 2003, n. 11029).
L’applicazione dell’art. 1126 c.c. non vale ad escludere l’onere di manutenzione della copertura
a carico del condominio, cui è attribuito un vero e proprio ruolo di custode ai sensi dell’art. 2051
c.c. “il lastrico solare, anche se attribuito in uso esclusivo, o di proprietà esclusiva di uno dei
condomini, svolge funzione di copertura del fabbricato, e perciò l’obbligo di provvedere alla sua
riparazione o ricostruzione, sempre che non derivi da fatto imputabile soltanto a detto condomino,
grava su tutti i condomini, con ripartizione delle relative spese secondo i criteri di cui all’art. 1126
c.c.; di conseguenza il condominio risponde, quale custode ex art. 2051 c.c., dei danni che siano
derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione del lastrico solare” (Cass. 17
gennaio 2003, n. 642).
L’obbligo di contribuzione vale anche per le spese necessarie per eliminare vizi e carenze
costruttive originarie dell’edificio condominiale, salva in questo caso, l’azione di rivalsa nei confronti
del costruttore - venditore e si estende anche alle spese necessarie per riparare i danni che i
singoli condomini subiscono nelle loro unità immobiliari.
Con riferimento al tipo di spesa, è utile chiarire che “sono a completo carico dell’utente o
proprietario esclusivo soltanto le spese attinenti a quelle parti del lastrico solare del tutto avulse
dalla funzione di copertura (ad es. le spese attinenti ai parapetti, alle ringhiere ecc., collegate alla
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sicurezza del calpestio), mentre tutte le altre spese, siano esse di natura ordinaria o straordinaria,
attinenti alle parti del lastrico solare svolgenti comunque funzione di copertura vanno sempre
suddivise tra l’utente o proprietario esclusivo del lastrico solare ed i condomini proprietari degli
appartamenti sottostanti, secondo la proporzione di cui al suindicato art. 1126 c.c.” (Cass. 25
febbraio 2002, n. 2726).
8.3 - Il principio di solidarietà
La solidarietà passiva verso l’esterno L’aspetto della responsabilità del “soggetto condominio” verso l’esterno ha avuto un importante,
estremo e radicale rivolgimento giurisprudenziale nel 2008, allorchè la Cassazione con una
“rivoluzionaria” e assai discussa sentenza a sezioni unite ha spazzato in un sol colpo decenni di
elaborazione giurisprudenziale e di applicazione pratica.
Per anni si è sostenuto che, mentre all’interno del condominio la spesa viene ripartita con i
criteri che sono stati sin qui esaminati, verso il creditore esterno (sia esso fornitore, danneggiato, o
creditore a qualsiasi altro titolo) il condominio – che non ha una propria autonomia giuridica e
patrimoniale - si pone come una pluralità di debitori legata dal vincolo della solidarietà passiva di
cui all’art. 1294 c.c. Si sosteneva pertanto da parte della passata e ormai superata giurisprudenza
che il creditore del condominio poteva esigere l’intero pagamento anche da uno solo dei
condomini, cui poi è rimesso l’onere di recuperare dagli altri la quota di loro pertinenza: “Il
condomino può esser escusso per l’intero debito del condominio da un terzo, nei cui confronti è un
condebitore solidale, indipendentemente dall’adempimento del suo obbligo nei confronti del
condominio, ed ha diritto di regresso nei confronti degli altri condomini limitatamente alla quota
millesimale dovuta da ciascuno di essi.” (Cass. 23 febbraio 1999, n. 1510).
Le Sezioni unite della Cassazione, con una pronuncia a sorpresa, fonte di notevoli perplessità e
difficoltà per l’amministratore, ha invece affermato nel 2008 che “La solidarietà passiva richiede
non soltanto la pluralità dei debitori e l'identica causa dell'obbligazione, ma anche l'indivisibilità
della prestazione comune, in mancanza della quale e in difetto di una espressa disposizione di
legge, prevale l'intrinseca parziarietà. Pertanto, considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i
condomini, ancorché comune, è divisibile trattandosi di somma di danaro e che la solidarietà nel
condominio non è contemplata da alcuna disposizione di legge, prevale l'intrinseca parziarietà
dell'obbligazione, di talché, conseguita la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei
condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli
condomini, secondo la quota di ciascuno e non per l'intero.” Cassazione civile sez. un. 8 aprile
2008 n. 9148
La pronuncia ha riguardo esclusivamente alle obbligazioni assunte contrattualmente dal
condominio e attiene alla fase patologica delle stesse, ovvero al momento della esecuzione
forzata, che il creditore dovrà attivare nei confronti del singolo condomino inadempiente.
Rimane ferma, seppur con notevoli perplessità applicative, la possibilità di ottenere titolo nei
confronti del condominio, titolo che poi dovrà essere eseguito nei confronti del singolo condomino
inadempiente; le motivazioni della sentenza aprono nuovi orizzonti in tema di responsabilità
contrattuale dei condomini ed anche di rappresentanza dell’amministratore: ” ritenuto che la
solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori
e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune;
che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa disposizione di legge, la
intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i
condomini, ancorchè comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel
condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit, interpretato
secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo
esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del
condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni
e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del
mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la susseguente
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responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in
proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del condominio",
in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per
la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza.
Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt.
752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento
dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra
gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie. Il contratto, stipulato dall'amministratore
rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà
conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei rappresentati. Conseguita nel processo la
condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere
all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno. Per
concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le obbligazioni
contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di giustizia
sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici. Per la verità, la
solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l'amministratore del condominio,
conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare preferibile il
criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte rilevantissime in
seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso tempo, non si
riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i condomini al tempo
della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell'adempimento.” (Cass. SSUU 9148/2008)
Evidentemente le conseguenze pratiche che tale pronuncia introduce nell’amministrazione di
immobili sono molteplici, prima fra tutte l’onere dell’amministratore di comunicare al terzo creditore
il nominativo dei soggetti morosi sui quali costui dovrà agire esecutivamente, iniziativa che il
Garante della privacy pare ritenere legittima ai sensi dell’art. 24 lett. B Codice Privacy.
Va ancora una volta sottolineato che quanto statuito dalle sezioni unite è riferibile alle obbligazioni
contrattuali, poiché unicamente su tale tema si svolge la disamina della corte, atteso che le
obbligazioni derivanti da fatto illecito (ad esempio il danno cagionato ad un terzo dal crollo del
cornicione condominiale o il danno da allagamento) sono espressamente disciplinate dalla legge
che, all’art. 2055 cod.civ., prevede espressamente la solidarietà fra coobbligati.
Il tema della solidarietà esterna è comunque assai caldo in questi anni, oltre che per la oggettiva
complessità dell’argomento e per i riflessi pratici, per un ampio dibattito dottrinale tutt’ora in corso e
per rare sentenze di merito che paiono in alcune ipotesi discostarsi dal principio dettato dalle
sezioni unite.
La solidarietà interna L’ipotesi di maggior rilievo ed implicazione pratica è quella prevista fra alienante ed acquirente
dall’ art. 63 disp. att. c.c.: “Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con
questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente”. Tale norma
rende i due proprietari succedutisi nel tempo obbligati solidali nei confronti del condominio per due
esercizi (quello in corso e quello antecedente).
Lo scopo di tale disciplina è evidentemente quello di garantire patrimonialmente il condominio a
fronte delle alienazione delle singole unità immobiliari. Il principio è stato ritenuto applicabile ad
ogni trasferimento quale che sia il titolo in forza del quale avviene, e quindi anche in ipotesi di
vendita forzata.
La giurisprudenza inoltre ha chiarito che: “L’obbligo del condomino di pagare i contributi per le
spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio deriva non dalla preventiva approvazione
della spesa e dalla ripartizione della stessa, ma dalla concreta attuazione dell’attività di
manutenzione e sorge quindi per effetto dell’attività gestionale concretamente compiuta e non per
effetto dell’autorizzazione accordata all’amministrazione per il compimento di una determinata
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attività di gestione” (Cass. 26 gennaio 2000, n. 857).
Più di recente la Cassazione ha affermato che “In caso di vendita di una unità immobiliare in
condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o
innovazioni sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si siano diversamente
accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era
proprietario dell'immobile al momento della delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione
dei detti interventi, avendo tale delibera valore costitutivo della relativa obbligazione. Di
conseguenza, ove le spese in questione siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione
del contratto di vendita, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto
o in parte, eseguite successivamente, e l'acquirente ha diritto di rivalersi, nei confronti del
medesimo, di quanto pagato al condominio per tali spese, in forza del principio di solidarietà
passiva di cui all'art. 63 disp. att. c.c.” Cassazione civile sez. II 3 dicembre 2010 n. 24654
Vale a dire che ai fini della individuazione del momento utile per attribuire all’uno o all’altro
(alienante o acquirente) la spesa non si deve aver riguardo alla assemblea che tale spese ha
approvato ma alla effettiva attuazione della delibera ed erogazione della spesa.
Altra evidente ipotesi di solidarietà passiva interna è quella che lega i comproprietari di una
medesima unità immobiliare nei confronti del condominio, per l’intuitiva applicazione dell’art. 1294
c.c., cosicché l’amministratore potrà agire nei confronti di uno solo di essi per la riscossione
dell’intera quota.
Solidarietà non sussiste fra nudo proprietario e usufruttuario della medesima unità immobiliare,
atteso che i differenti criteri di imputazione delle spese all’uno o all’altro si desumono dal
combinato disposto di cui agli artt. 67 disp. Att. cod.civ., 1004 e 1005 cod.civ.
Mentre sicuramente non sussiste solidarietà fra locatore e conduttore (il rapporto contrattuale
rimane esterno alla realtà condominiale e quale unico obbligato nei confronti del condominio
rimane il proprietario), in qualche pronuncia di merito ha trovato fondamento la solidarietà passiva
nei confronti del condominio fra usufruttuario e nudo proprietario, tesi peraltro che sembra
contraddetta dal solo precedente giurisprudenziale di legittimità rinvenuto: la Cassazione, con
sentenza 21 novembre 2000, n. 15010 ritiene sufficiente che l’assemblea distingua analiticamente
le spese per l’uso delle parti comuni dalle spese per la conservazione.
Va infine osservato, anche se non attiene strettamente al principio di solidarietà, che non è
consentito ripartire fra i condomini adempienti le somme dovute da un condomino moroso, se non
in via meramente provvisoria ed urgente: “non è consentito all’assemblea condominiale,
deliberando a maggioranza, di ripartire tra i condomini non morosi il debito delle quote
condominiali dei condomini morosi… ma può ritenersi consentita una deliberazione assembleare,
la quale tenda a sopperire all’inadempimento del condomino moroso con la costituzione di un
fondo - cassa “ad hoc”, tendente ad evitare danni ben più gravi nei confronti dei condomini tutti,
esposti dal vincolo di solidarietà passiva”
(Cass. 5 novembre 2001, n. 1361).
8.4 - Spese anticipate dal singolo condomino
Può accadere che l’erogazione di una spesa avvenga da parte di un singolo condomino, seppur
a vantaggio della collettività. L’ipotesi prevista dall’art. 1134 c.c., non incide evidentemente sui
criteri di riparto – che saranno di volta in volta quelli applicabili allo specifico caso secondo quanto
sopra enunciato, ma solo sulla possibilità, per colui che l’ha anticipata, di chiederne il rimborso.
E’ principio consolidato in giurisprudenza che “Per avere diritto al rimborso della spesa
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affrontata per conservare la cosa comune, il condomino deve dimostrarne l’urgenza, ai sensi
dell’art. 1134 c.c., ossia la necessità di eseguirla senza ritardo e, quindi, senza potere avvertire
tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini. Tale accertamento di fatto compete al
giudice di merito e detto giudizio è insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato”
(Cass. 26 marzo 2001, n. 4364).
8.5 - Derogabilità della disciplina codicistica
Le norme in tema di riparto spese non rientrano fra quelle inderogabili, hanno ad oggetto diritti
disponibili delle parti e quindi quanto sin qui enunciato vale, come peraltro è chiaramente stabilito
dal primo comma dell’art. 1123 c.c., salvo diversa convenzione.
Ciò significa che i condomini, con un accordo all’unanimità, possono adottare criteri di
ripartizione diversi da quelli previsti dalla legge; l’accordo può avere assoluta libertà di forma,
potendo rivestire la forma del regolamento contrattuale, della semplice delibera assembleare e
anche del comportamento concludente (Cass. 15 ottobre 2004, n. 20318) ed è possibile, con tali
accordi, anche esentare totalmente qualche condomino dalla contribuzione (Cass. 25 marzo 2004,
n. 5975)
Va peraltro affermato che spesso la giurisprudenza tende a riconoscere tale accordo vincolante
solo per coloro che gli hanno dato vita e che il soggetto che dovesse subentrare al condomino ne
sarà vincolato solo ove manifesti anch’egli acquiescenza a tale diversa ripartizione salvo che sia
trascritto all’atto della cessione (Cass. 9 agosto 1996, n. 7353).
8.6 - Imputazione oneri proprietario / conduttore
Può accadere che alcune unità immobiliari poste all’interno del fabbricato condominiale siano
locate a soggetti terzi. Va immediatamente puntualizzato che sono condomini i proprietari dei
diversi piani o porzioni di piano che concorrono a formare l’edificio e che il rapporto di locazione
che qualcuno di essi (o, in ipotesi, anche tutti) dovessero istaurare non fa venir meno la loro qualità
di condomini e che il conduttore non entra a far parte della compagine condominiale, rimanendo
sostanzialmente un terzo estraneo.
Sul punto sussiste ormai consolidata dottrina e giurisprudenza “In materia di condominio, tutti i
rapporti interni, reali o obbligatori, che attengono alle cose comuni ed alla loro amministrazione trovando titolo nei singoli diritti di proprietà individuale e collettiva - intercorrono tra i soli condomini
e non possono coinvolgere terzi; tale regola trova applicazione, in particolare, per i crediti derivanti
dalle spese fatte per la gestione dei beni di proprietà comune che, dal lato passivo, sono a carico
esclusivamente dei singoli condomini e non nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa
l’appartamento senza esserne il proprietario, non sussistendo nei suoi confronti azione diretta”.
(Cassazione civile , sez. II, 24 giugno 2008, n. 17201).
Peraltro la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 8 aprile 2002 n.5035 aveva già
chiaramente espresso il proprio orientamento sul punto “La dottrina che esclude la tutela
dell’apparenza del diritto ai rapporti tra condominio e condomino apparente rileva ulteriormente
che non può attribuirsi al conduttore di un’unità immobiliare la qualità di condomino per il solo fatto
di avere egli partecipato alle assemblee condominiali, diritto che, peraltro, gli è riconosciuto
dall’art. 10 della l. n. 392 del 1978; tale norma si limita a prevedere solo una legittimazione del
conduttore alla partecipazione alle assemblee condominiali relative a determinate materie, con
diritto di voto o di intervento nelle relative delibere e non una legittimazione passiva del conduttore
nei confronti del condominio in ordine al pagamento degli oneri condominiali. Il nostro legislatore
non prevede una azione diretta del condominio nei confronti del conduttore di una unità
immobiliare. L’unico caso in cui potrebbe sussistere una obbligazione del conduttore nei confronti
del condomino sarebbe quello in cui il conduttore, d’accordo con il locatore, si fosse accollato (con
un accollo esterno) i pagamenti da effettuare periodicamente all’amministratore, sempreché
anch’egli avesse aderito a tale convenzione a norma dell’art. 1273 c.c. o ne fosse stato comunque
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a conoscenza. La legge n. 392 del 1978 non ha, nei confronti del condominio, aggiunto al debitore
originario (il condomino) un altro debitore (il conduttore), ma ha soltanto voluto disciplinare i
rapporti tra conduttore e locatore.”
Emerge, dalle pronunce testè riportate che il conduttore può avere – ai sensi dell’art. 10 L.
392/1978 - una limitata partecipazione alla vita condominiale e, segnatamente, ha diritto di
partecipare e votare alla assemblea che deliberi in ordine alle spese e alle modalità di gestione dei
servizi di riscaldamento e condizionamento dell’aria ed ha altresì diritto di intervenire in assemblea,
senza diritto di voto, per quelle delibere che riguardino modifiche agli altri servizi comuni; non sarà
mai tuttavia il diretto contraddittore del condominio né per quel che attiene la rendicontazione né –
fatto ancor più rilevante – per quel che attiene la riscossione coattiva dei crediti condominiali
relativi alle quote dovute per l’appartamento da lui condotto.
Unico obbligato per tali oneri rimane comunque il proprietario, cui l’amministratore dovrà fare
esclusivo riferimento, sia nell’attribuire la spesa in sede di riparto che nella eventuale escussione
coattiva, laddove tali quote non vengano versate.
Tale determinante aspetto deve essere ben chiaro all’amministratore sotto il profilo del diritto,
poiché le prassi applicative genericamente invalse nello svolgimento del mandato possono
facilmente fuorviarlo. E’ consuetudine diffusa che il versamento delle quote di pertinenza del
conduttore venga effettuato direttamente da costui nei confronti del condominio e che,
frequentemente, i proprietari invitino l’amministratore ad intervenire nei confronti del conduttore
moroso. Se un semplice invito informale può costituire oggetto di una prassi amministrativa volta
ad una facilitazione dei rapporti interni è bene non dimenticare mai che l’unico legittimato passivo
della richiesta rimane il proprietario che è dunque l’unico contraddittore effettivo di eventuali
solleciti e l’unico legittimato passivo di successive azioni giudiziarie.
L’art. 9 L. 392/1978 (c.d. equo canone) prevede che “Sono interamente a carico del conduttore,
salvo patto contrario, le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all’ordinaria
manutenzione dell’ascensore, alla fornitura dell’acqua, dell’energia elettrica, del riscaldamento e
del condizionamento dell’aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri
servizi comuni. Le spese per il servizio di portineria sono a carico del conduttore nella misura del
90 per cento, salvo che le parti abbiano convenuto una misura inferiore. Il pagamento deve
avvenire entro due mesi dalla richiesta. Prima di effettuare il pagamento il conduttore ha diritto di
ottenere l’indicazione specifica delle spese di cui ai commi precedenti con la menzione dei criteri di
ripartizione. Il conduttore ha inoltre diritto di prendere visione dei documenti giustificativi delle
spese effettuate”; è sulla base di tale normativa che il proprietario spesso tende a coinvolgere il
condominio nel rapporto locatizio, chiedendo all’amministratore di rivolgersi direttamente al
conduttore per la riscossione. In realtà la norma ha una valenza cogente solo nei rapporti fra
proprietario e conduttore e nessun rilievo ha invece nei confronti del condominio che rimane
assolutamente esterno a quel rapporto: anche il diritto del conduttore di prendere visione dei
documenti e di ottenere indicazione specifica delle somme è obbligo che incombe solo sulle spalle
del locatore e non anche dell’amministratore, che assolverà correttamente il proprio compito
rimettendo rendiconto e riparto al solo proprietario.
A mente dell’art. 9 L. 392/1978 al conduttore competeranno quelle spese che la norma testè
citata indica con chiarezza, ma l’imputazione di detti oneri alla parte proprietaria e all’inquilino
rimane fatto meramente interno al loro rapporto così come l’eventuale patto contrario rimane
norma rilevante solo fra le due parti del rapporto di locazione .
L’indicazione separata delle spese inerenti la proprietà e la conduzione nel consuntivo e nel
relativo riparto, per quanto venga spesso effettuata dall’amministratore come prassi ordinaria,
riteniamo che non costituisca obbligo giuridico per costui poiché tale attività esula dal suo mandato
e costituisce operazione ermeneutica che compete unicamente al proprietario ai fini della richiesta
di rimborso da inviare al proprio conduttore nei termini di cui all’art. 9 L. 392/1978.
Sul punto paiono illuminanti due pronunce giurisprudenziali che chiariscono definitivamente
l’assoluta estraneità del condominio ai rapporti fra locatore e conduttore anche per quel che attiene
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alle spese condominiali relative all’unità locata:
“L’obbligazione del conduttore di pagare le spese dei servizi condominiali rimborsandole al
locatore nei termini di cui all’art. 9 l. n. 392 del 1978 costituisce parte integrante della struttura
sinallagmatica del contratto di locazione, tant’è che il suo inadempimento, qualora si versi in
materia di locazioni ad uso abitativo e l’ammontare del debito superi le due mensilità di canone,
può comportare, a sensi dell’art. 5 della citata legge, la risoluzione del contratto; specularmente,
ove il servizio causativo della spesa non venga materialmente fruito dal conduttore, costui non
sarà tenuto a rimborsare alcunché al locatore.” (Tribunale Torino, sez. VIII, 14 febbraio 2007).
Ed ancora “In tema di locazione di immobili urbani, qualora il conduttore, convenuto in giudizio
per il mancato pagamento di oneri condominiali, contesti che il locatore abbia effettivamente
sopportato le spese di cui chiede il rimborso o ne abbia effettuato una corretta ripartizione,
incombe al locatore stesso, ai sensi dell’art. 2697 c.c., dare la prova dei fatti costitutivi del proprio
diritto, i quali non si esauriscono nell’aver indirizzato la richiesta prevista dall’art. 9 della legge n.
392 del 1978, necessaria per la costituzione in mora del conduttore e per la decorrenza del
bimestre ai fini della risoluzione, ma comprendono anche l’esistenza, l’ammontare e i criteri di
ripartizione del rimborso richiesto.”
(Cassazione civile , sez. III, 01 aprile 2004, n. 6403)
Compete dunque unicamente al locatore (e non al condominio) l’onere di provare al proprio
conduttore l’ammontare delle somme dovute, al fine di richiederne il pagamento e tale onere egli
potrà assolvere attingendo alla rendicontazione condominiale che gli è stata inviata, ma nessuna
norma impone all’amministratore di specificare quali importi competano all’uno e quali all’altro.
Tanto ciò è vero che mentre nei rapporti interni fra locatore e conduttore gli obblighi si prescrivono
in un breve lasso di tempo, il proprietario rimarrà comunque obbligato per l’intera quota
legittimamente ripartita a suo carico (ivi comprese le spese di conduzione) nei confronti del
condominio: “La prescrizione biennale del diritto al rimborso degli oneri accessori posti a carico
del conduttore che è stabilita dall’art. 6 l. n. 841 del 1973 in deroga all’art. 2948 c.c., trascende il
regime vincolistico e s’informa al criterio ispiratore delle prescrizioni brevi, per cui continua ad
essere in vigore e decorre, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto può essere fatto
valere che, per il locatore-condomino, è costituito dalla data della delibera condominiale che,
approvando il consuntivo ed il relativo piano di ripartizione, fa sorgere il debito a carico del
condomino e correlativamente il credito del medesimo nei confronti del conduttore, mentre per il
locatore-unico proprietario dalla data di chiusura della gestione annuale dei servizi accessori che
rende, così, possibile la determinazione quantitativa del credito nei confronti del singolo
conduttore.”
(Cassazione civile , sez. III, 18 novembre 2003, n. 17424).
8.7 Il conduttore e la privacy
L’assoluta estraneità del conduttore alla compagine condominiale impone qualche cautela
anche ai fini del rispetto della privacy; con provvedimento del 18 maggio 2006 il Garante della
Privacy ha chiarito che non viola la normativa in materia l’invio del consuntivo con l’indicazione dei
condomini morosi, poiché tale dato costituisce elemento indispensabile per comprendere il
rendiconto: “Anche per esercitare i controlli in ordine all’esattezza dell’importo dovuto a titolo di
contributo per la manutenzione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi comuni, ciascun
partecipante può essere informato in ordine all’ammontare della somma dovuta dagli altri; in
ragione delle regole sul mandato, che (per costante giurisprudenza) trovano applicazione per
regolare il rapporto tra i partecipanti e l’amministratore, questi informa i singoli partecipanti degli
eventuali inadempimenti, sia nelle usuali forme del rendiconto annuale (art. 1130 c.c.), come pure,
in ogni tempo, a seguito dell’esercizio del potere di vigilanza e controllo spettante a ciascun
partecipante al condominio sull’attività di gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni”
(provv. 18.5.2006 Garante Priv. In Boll. 72/2006). Laddove sia in uso la prassi di indicare nel
rendiconto e nel riparto la diversa imputazione degli oneri condominiali fra proprietario e
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conduttore, inviando tali documenti anche a questi ultimi affinchè provvedano direttamente ad
assolvere la propria obbligazione, pare opportuno non indicare nella copia loro diretta le morosità
dei condomini; ciò in ragione del fatto che – essendo i conduttori soggetti terzi rispetto al
condominio – la comunicazione delle morosità di ciascun condomino costituirebbe illecita
diffusione di dati a soggetti che non hanno titolo a conoscerli. “Salva la presenza di una causa
giustificatrice (quale il consenso dell’interessato o uno degli altri presupposti previsti all’art. 24 del
Codice), è illecita la comunicazione a terzi di dati personali riferiti ai partecipanti: ciò potrebbe
avvenire, ad esempio, mettendo a disposizione di terzi dati personali riportati nei prospetti contabili
o dei verbali assembleari o, ancora, consentendo la presenza in assemblea –il cui svolgimento è
suscettibile di videoregistrazione in presenza del consenso informato dei partecipanti– di soggetti
non legittimati a parteciparvi.” (Garante Privacy, provv. cit.)
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MODULO.9
GLI IMPIANTI CONDOMINIALI
(Gian Luca Samoggia)
1. INQUADRAMENTO GENERALE.
Ogni fabbricato presenta una molteplicità di impianti diversi. A scopo esclusivamente didattico
verranno di seguito illustrate le tipologie più frequenti, corredate dai riferimenti normativi attuali e
delle indicazione pratiche utili agli amministratori di condominio per la gestione degli impianti e per
la individuazione delle responsabilità principali che su di loro gravano. E’ tuttavia necessario
evidenziare che la normativa tecnica in genere e quella condominiale in particolare, è
continuamente soggetta a modifiche anche di natura sostanziale sia per il recepimento di
normative comunitarie, che per la tendenza del legislatore alla traslazione delle responsabilità di
controllo e verifica da soggetti pubblici a soggetti privati dotati di particolari autorizzazioni o
qualifiche. Tale fisiologica evoluzione è poi soggetta alla complessità dei provvedimenti normativi,
applicati quasi sempre tramite decreti legge che subiscono sostanziali modificazioni in sede di
conversione e da proroghe ripetute dei termini di entrata in vigore. Basti pensare che alcune norme
transitorie legate agli adeguamenti degli impianti elettrici sono stati prorogate di anno in anno per
ben quattordici volte !
2. LA CLASSIFICAZIONE DEGLI IMPIANTI CONDOMINIALI.
L’impiantistica che più di frequente ritroviamo a servizio delle parti comuni condominiali è
relativa all’ascensore, agli impianti elettrici, di antenna per la ricezione televisiva, idrica per
l’approvvigionamento dell’acqua potabile, idro-sanitaria per il trattamento e riscaldamento
dell’acqua. Omettiamo per semplicità tutta una serie di altri impianti che è possibile trovare con
minore frequenza in un edificio condominiale, tra i quali possiamo inserire in modo non esaustivo
impianti di esalazione di fumi e odori, impianti di condizionamento, impianti di allarme e
antintrusione, impianti per la distribuzione della telefonia, video e dati via cavo, impianti di
videosorveglianza.
Limitandoci ai soli impianti che più di frequente sono soggetti al controllo e alla responsabilità
dell’amministratore, questi possono essere distinti in due principali categorie.
Impianti esclusivamente condominiali tra i quali analizzeremo:
•
gli ascensori
Impianti condominiali in parte e che poi si diramano all’interno o a servizio di singole unità
immobiliari, tra i quali analizzeremo:
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•
gli impianti elettrici
•
gli impianti di antenna
•
gli impianti di approvvigionamento dell’acqua potabile
•
gli impianti di riscaldamento e produzione acqua calda
Per l’analisi delle responsabilità e delle incombenze relative a questi ultimi impianti andranno
sempre considerati due aspetti peculiari e distinti:
1. in ordine agli adempimenti di natura tecnica in quanto tutti questi impianti – in
parte comuni e in parte privati – sono dalla legislazione tecnica considerati
come unici insiemi funzionali, in quanto sempre interconnessi tra loro e per la
cui corretta funzionalità la gestione deve essere considerata assolutamente
unitaria;
2. in ordine agli adempimenti di natura civilistica, amministrativa e contrattuale che
dividono in modo estremamente rigido – in assenza di diversa e rara
convenzione – le parti comuni (soggette a responsabilità dell’amministratore) e
le parti private (soggette alla responsabilità del singolo proprietario e in alcuni
casi del singolo conduttore).
3. L’IMPIANTO ASCENSORE
Per ascensore si intende un apparecchio elevatore con installazione fissa che serve piani definiti
mediante una cabina che si sposta lungo guide rigide e la cui inclinazione sull'orizzontale è
superiore a 15 gradi, destinato al trasporto:
• di persone
• di persone e cose
• soltanto di cose.
Gli ascensori o meglio elevatori (definizione dell'ultima direttiva comunitaria 95/16/CE del 29
Giugno 1995 recepita in Italia con il D.P.R. n. 162 del 30 aprile 1999) possono essere:
• Elettrici (a fune)
• Oleodinamici
Anche per l’ascensore, rientrando nelle previsioni di cui all’art.1, comma f) della Legge 46/90, vale
quanto indicato nel capitolo relativo agli impianti elettrici, in ordine ai requisiti degli operatori
autorizzati alla installazione e manutenzione, e agli obblighi dei proprietari di affidare il servizio a
soggetti abilitati.
L’impianto a funi, il più diffuso, con normale sala macchina collocata sopra il vano di corsa, è
solitamente così composto:
1.
2.
3.
4.
gruppo motore e argano di sollevamento
puleggia di trazione e relativo apparecchio limitatore della velocità
funi di trazione in acciaio
quadro elettrico o elettronico di manovra e relativi cavi di collegamento ai piani e alla
cabina;
5. operatori delle porte di cabina e di piano
6. bottoniere di cabina e di piano
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Esistono impianti elettrici a funi, di più recente concezione, che racchiudono tutte le componenti 1,
2 e 3 in una unica apparecchiatura collocata nel vano di corsa. In questo caso l’impianto sarà privo
della sala macchine, con notevole risparmio di spazio rispetto ai modelli tradizionali.
In altri tipi di impianto- oleodinamici - le componenti 1, 2 e 3 sono sostituite da una unico pistone
oleodinamico, controllato da un compressore, che aumenta o diminuisce la pressione a cui è
soggetto l’olio in esso contenuto, alzando o abbassando la cabina. In questo caso la sala
macchine può essere di dimensioni inferiori e può essere collocata anche in area separata rispetto
al vano di corsa, al piede dell’impianto. Non superano ordinariamente e per motivi tecnici un
dislivello superiore ai tre piani.
Vengono perciò usati per piccoli edifici o per impianti privati, presentando anche caratteristiche di
minor rumorosità di esercizio.
Obblighi dell’amministratore
In caso di nuova installazione, il DPR.162/99 impone alcuni obblighi all’amministratore che sono di
seguito sintetizzati:
entro 10 giorni dalla data di rilascio della dichiarazione di conformità l’amministratore, deve inviare
al Comune una comunicazione che contenga i seguenti dati:
a) l'indirizzo dello stabile ove è installato l'impianto;
b) la velocità', la portata, la corsa, il numero delle fermate e il tipo di azionamento;
c) il nominativo o la ragione sociale dell'installatore dell'ascensore o del costruttore del
montacarichi, ai sensi dell'articolo 2, comma 2, del decreto del Presidente della
Repubblica 24 luglio 1996, n. 459;
d) la copia della dichiarazione di conformità' di cui all'articolo 6, comma 5;
e) l'indicazione della ditta, abilitata ai sensi della legge 5 marzo 1990, n. 46, cui il
proprietario ha affidato la manutenzione dell'impianto;
f) l'indicazione del soggetto incaricato di effettuare le ispezioni periodiche
sull'impianto, ai sensi dell'articolo 13, comma 1, che abbia accettato l’incarico.
L'ufficio competente del Comune assegna all'impianto, entro trenta giorni, un numero di matricola e
lo comunica all’amministratore dandone contestualmente notizia al soggetto competente per
l'effettuazione delle verifiche periodiche.
Quando si apportano sostanziali modifiche costruttive (es. sostituzione gruppo motore-argano)
(vedi per approfondimenti art.2, c 1, lettera i), l’amministratore, invia la comunicazione al Comune
nonché' al soggetto competente per l'effettuazione delle verifiche periodiche.
E’ espressamente vietato porre o mantenere in esercizio impianti per i quali non siano state
effettuate, ovvero aggiornate a seguito di eventuali modifiche, le comunicazioni indicate
Le modifiche costruttive(modifica della velocità, della portata, della lunghezza di corsa e
dell’azionamento) sono regolate anch’esse dall’art.13 della Legge 46/90, ovvero prevedono il
deposito presso il Comune delle certificazioni relative a collaudi degli impianti a seguito di
modifiche sostanziali.
Verifiche periodiche
Il proprietario dello stabile, o il suo legale rappresentante, sono tenuti ad effettuare regolari
manutenzioni dell'impianto e a sottoporre lo stesso a verifica periodica ogni due anni.
Alla verifica periodica degli ascensori e montacarichi provvedono, secondo i rispettivi ordinamenti,
a mezzo di tecnici forniti di laurea in ingegneria, l'azienda sanitaria locale competente per territorio,
oppure, l'ARPA, quando le disposizioni regionali di attuazione della legge 21 gennaio 1994, n. 61,
attribuiscano ad essa tale competenza, la Direzione Provinciale del Lavoro del Ministero del lavoro
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e della previdenza sociale competente per territorio per gli impianti installati presso gli stabilimenti
industriali o le aziende agricole, nonché', gli organismi di certificazione notificati ai sensi del
DPR.162/99.
Il soggetto che ha eseguito la verifica periodica rilascia al proprietario e alla ditta incaricata della
manutenzione, il verbale relativo e, ove negativo, ne comunica l'esito al competente ufficio
comunale per i provvedimenti di competenza.
Si tenga presente che l’ente preposto alle verifiche periodiche può indicare tre diverse graduazioni
dell’esito, che saranno trascritte sul verbale:
 positivo
 positivo condizionato alla immediata esecuzione delle opere indicate nel verbale stesso
 negativo
Le operazioni di verifica periodica sono dirette ad accertare se le parti dalle quali dipende la
sicurezza di esercizio dell'impianto sono in condizioni di efficienza, se i dispositivi funzionano
regolarmente e se e' stato ottemperato alle prescrizioni eventualmente impartite in precedenti
verifiche. Il soggetto incaricato della verifica fa eseguire dal manutentore dell'impianto le suddette
operazioni.
Il proprietario o il suo legale rappresentante forniscono i mezzi e gli aiuti indispensabili perchè
siano eseguite le verifiche periodiche dell' impianto.
Qualora gli interventi prescritti dall’ente verificatore esulino da quelli di manutenzione ordinaria già
previsti dal contratto di manutenzione in corso, l’amministratore deve richiedere al manutentore
idoneo preventivo da sottoporre alla approvazione dei proprietari nei modi previsti dalla legge,
prima di autorizzarne l’esecuzione.
Il contratto di manutenzione
Il D.P.R. 162/99 prescrive espressamente all’art. 15, che il proprietario debba affidare le operazioni
di manutenzione ad azienda dotata di particolare abilitazione, oltre a quanto già previsto dall’art.3
del D.M. 37/08, rilasciata dalla competente Camera di Commercio o dalla competente
Commissione Provinciale per l’Artigianato. Lo stesso articolo prescrive altresì al manutentore la
verifica e lubrificazione di alcune parti essenziali almeno una volta ogni sei mesi. Tale
disposizione, unitamente alle indicazioni di cui all’art.12, obbliga pertanto il proprietario alla nomina
di una manutentore abilitato, senza la quale l’impianto non può essere messo in servizio. Deve
pertanto considerarsi obbligo dell’amministratore provvedere alla stipulazione di contratto di
manutenzione e alla nomina dell’ente incaricato delle verifiche periodiche, anche in assenza di
specifico mandato da parte dell’assemblea.
4. GLI IMPIANTI ELETTRICI
Con la dizione di impianti elettrici si intendono in realtà una molteplicità di impianti
essenzialmente tutti riconducibili a tre tipologie principali:
• impianti di alimentazione di singole unità immobiliari
• impianti di alimentazione o forza motrice di apparecchi comuni (centrale termica, sala
macchine ascensore, cancelli automatici, centralini per citofono-campanello e tiro )
• impianti per la illuminazione di parti comuni.
Tutti questi impianti sono strettamente legati tra loro (essendo interconnessi e dal quale
sono tutti dipendenti – specie dal punto di vista della sicurezza –) dall’impianto unico di messa a
terra. Infatti ognuno di tali separati impianti funziona mediante l’utilizzo di tre distinti conduttori in
filo o treccia di rame dei quali due (conduttore di fase e conduttore di neutro) servono
espressamente per la conduzione dell’energia elettrica utilizzata dalle diverse apparecchiature e
dai corpi illuminanti, il terzo (terra) sempre di colore giallo e verde, collega le diverse
apparecchiature e i corpi illuminanti ad un unico punto – di solito presente nel quadro elettrico
generale – costituito da una barra in rame (nodo equipotenziale) che a sua volta è collegata ad
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uno o più picchetti infissi nel terreno per una profondità di ml. 1-1,5 (dispersori). Questo sistema,
che in pratica scarica a terra la eventuale differenza di potenziale elettrico che le strutture degli
impianti utilizzatori dovessero possedere a causa di una accidentale messa in contatto con il cavo
di conduttore di fase, è essenziale per la sicurezza e per correttamente funzionare deve essere
unico per l’intero fabbricato.
L’impianto di terra da solo non potrebbe tuttavia garantire al 100% la sicurezza dei residenti
se non fosse unito ad un altro apparecchio – che deve essere installato all’inizio di ogni singola
linea di alimentazione (all’inizio di ogni coppia di conduttori di fase e di neutro) che è costituito da
un dispositivo che rileva le differenze di potenziale tra il conduttore di fase e quello di neutro.
Questo può avvenire nel caso in cui la terra entri in funzione (scarichi una parte dell’energia verso
terra) o nel caso peggiore nel quale non funzionando l’impianto di messa a terra, la differenza di
potenziale sia assorbita da una massa estranea all’impianto (come nel caso in cui una persona sia
entrata in contatto accidentale con il conduttore di fase e stia scaricando attraverso il proprio corpo
una parte dell’energia). Quando la differenza di potenziale supera una certa intensità (30
milliampere) per un dato tempo ( 30 millisecondi) l’apparecchiatura automaticamente disconnette il
circuito. Tale indispensabile apparecchio si chiama interruttore magnetotermico differenziale ad
alta sensibilità, più comunemente conosciuto come salvavita. Solo con la contemporanea
presenza nell’edifico di un unico impianto di terra che colleghi tutti i punti della struttura, degli
apparecchi di utilizzazione e degli impianti di distribuzione dell’energia e di interruttori
magnetotermici differenziali ad alta sensibilità collocati in partenza di tutti i circuiti elettrici comuni,
l’impianto può essere considerato sicuro e in regola con le normative tecniche.
Le parti in cui sono composti
All’interno di un edificio di semplice struttura e che possiamo ipotizzare composto da:
• 4 appartamenti
• 4 cantine
• 1 scala
• 1 ascensore
• 1 centrale termica
possiamo quasi sempre rilevare i seguenti distinti circuiti elettrici:
a) 4 circuiti di alimentazione delle singole unità
b) 1 circuito di alimentazione della illuminazione della scala
c) 1 circuito di alimentazione dell’ascensore
d) 1 circuito di alimentazione delle cantine
e) 1 circuito di alimentazione della illuminazione esterna
f) 1 circuito di alimentazione dell’impianto campanelli, citofono e tiro
g) 1 circuito di alimentazione della centralina TV
All’inizio di questi distinti circuiti esisterà un distinto interruttore differenziale ad alta sensibilità, una
unica barra equipotenziale, l’energia elettrica verrà fornita da un numero di contatori dell’ente
erogatore pari al numero delle unità immobiliari oltre a uno o più contatori a servizio delle parti
comuni.
Tutte queste parti, servendo circuiti utilizzatori diversi dovranno essere considerate dal punto di
vista tecnico come unica unità funzionale, mentre dal punto di vista civilistico saranno soggette alle
divise responsabilità della diverse proprietà. Nel caso in cui gli utilizzatori servano distinti gruppi di
condomini (comunioni parziali degli impianti utilizzatori) la responsabilità e la potestà su dette
porzioni di impianti dovranno seguire la relativa divisione civilistica per gruppi.
E’ evidente in questo caso una delle principali difficoltà della gestione di edifici in condominio,
costituita dalla coesistenza di impianti di proprietà diversa, ma che devono essere considerati
uniche unità funzionali almeno dal punto di vista della sicurezza.
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Riferimenti normativi
La norma di riferimento per gli impianti elettrici è il Decreto Ministeriale n.37 del 22 Gennaio 2008
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.61 del 12 Marzo 2008 e dal successivo Decreto legge n.112
del 25 Giugno 2008. Tale norma prevede che gli interventi sugli impianti siano riservati ad
operatori professionali specializzati, la cui abilitazione è verificabile sul certificato di iscrizione alle
Camere di Commercio, che il proprietario debba avvalersi esclusivamente di tali operatori per
interventi sugli impianti e che dopo ogni intervento l’operatore specializzato rilasci un certificato di
conformità alla legge, di quanto eseguito.
Prima della attuale regolamentazione era vigente la L.46/90.
Tale norma è stata attuata fino al 30 Giugno 2006 con forti limitazioni. In particolare era vigente un
periodo transitorio che consentiva per i soli impianti esistenti all’entrata in vigore della legge, di
provvedere provvisoriamente al parziale adeguamento mediante la sola installazione di salvavita e
verifica della impossibilità di contatti diretti con apparecchi in tensione.
Dal 1° Luglio 2006 il periodo transitorio è cessato. Anche gli impianti esistenti devono essere
conformi per intero alla norma e in caso di impianti preesistenti conformi, ma privi del certificato di
conformità, è necessario provvedere ad un collaudo da parte di libero professionista allo scopo
debitamente abilitato, che verifichi la corretta esecuzione e dichiari in modo formale la conformità
Tale esigenza nasce dal fatto che la regolarità impiantistica dell’esistente diventa parte integrante
non solo della conformità degli impianti serviti e sottoposti a speciale normativa di sicurezza (come
per gli ascensori e le centrali termiche), ma diventa componente essenziale della Agibilità
dell’immobile, senza il quale lo stesso non potrebbe essere né utilizzato, né ceduto.
Infatti la piena attuazione della L.n.46/90 è stata poi recepita nel D.P.R. n.380 del 6 Giugno 2001
noto agli operatori come “Testo Unico dell’Edilizia”. Questo testo, più volte in parte prorogato e in
parte superato, dove promulgate, da Leggi Regionali specifiche, vincola il rilascio della Agitabilità
anche delle singole unità immobiliari, alla esistenza della Agitabilità delle parti comuni, a sua volta
ottenibile solo previa dichiarazione di conformità degli impianti.
Oggi quindi e nella sostanza, il possesso della certificazione di conformità degli impianti elettrici al
DM. 37/08 o – nei casi consentiti - dalla previgente L.46/90, è essenziale per lo stesso
funzionamento del fabbricato sia nelle sue parti private che in quelle comuni. L’amministratore è
pertanto tenuto a vigilare affinché i certificati siano stati rilasciati e siano idoneamente conservati e
affinché ogni intervento di modifica sostanziale almeno sulle parti comuni venga regolarmente
sottoposto alle procedure previste.
Le eventuali inadempienze vedono responsabile l’amministratore sia dal punto di vista
patrimoniale, per il danno arrecato ai singoli proprietari per il fatto di non poter avere od ottenere la
documentazione in regola, ma anche penale qualora tale omessa sorveglianza potesse portare ad
altre più gravi conseguenze agli utilizzatori delle parti comuni, anche in relazione alle norme di
sicurezza specifiche di cui al Dlgs 81/08 ( Testo Unico per la Sicurezza ).
A proposito si rammenta che negli edifici con presenza di personale dipendente, la verifica del
corretto funzionamento della messa a terra è obbligatoriamente sottoposto, a cura del condominio,
a verifiche periodiche da parte di organismi appositamente autorizzati dal Ministero delle Attività
Produttive, secondo le disposizioni del D.P.R. n.462 del 22 Ottobre 2001.
5. GLI IMPIANTI DI ANTENNA
Gli impianti comuni di antenna devono essere considerati a tutti gli effetti quali impianti elettrici
sottoposti al DM. 37/08 (art.1, comma b) e pertanto vale quanto già indicato nel capitolo specifico.
Tuttavia presentano proprie peculiarità che devono essere ben note all’amministratore di
condominio, a causa della forte valenza per l’utenza e per l’evoluzione tecnologica che in questo
settore è particolarmente spinta.
Possiamo considerare essenzialmente due diversi impianti di distribuzione del segnale video via
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etere:
-
Satellitare: riceve e distribuisce alle singole unità immobiliari il segnale satellitare, di
tipo digitale, proveniente da satelliti geostazionari; utilizzando una antenna di tipo
parabolico;
Terrestre: riceve e distribuisce alle singole unità immobiliari il segnale terrestre, di
tipo analogico e/o digitale, proveniente da reti di ripetitori collocati sull’intero
territorio nazionale, utilizzando antenne di tipo direttivo. Questo sistema di ricezione
utilizza per l’amplificazione del segnale ricevuto dall’antenna una centralina – di tipo
modulare a filtri attivi – che può essere utilizzata sia per il segnale analogico
tradizionale che per il segnale digitale. Sono tuttavia ancora montate centraline di
amplificazione di vecchia concezione – di tipo a larga banda e prive di moduli di
amplificazione per singolo canale – che consentono la ricezione del solo segnale
terrestre analogico.
Entrambi i sistemi di ricezione e amplificazione – satellitare o terrestre – distribuiscono il segnale ai
singoli appartamenti in due possibili modi:
• con collegamento diretto mediante un cavo per ogni appartamento servito
• con collegamento mediate un cavo che con l’utilizzo di ripartitori (in
parallelo) o a cascata (in serie) serve più appartamenti.
Vale anche in questo caso la divisione tra parte comune degli impianti – che è normalmente
considerata tale fino all’ingresso nei singoli appartamenti – e la parte privata – dall’ingresso al
singolo appartamento fino alle singole prese a muro.
Fanno eccezione gli impianti con distribuzione cd. “a cascata” nei quali il cavo comune passa
attraverso i singoli appartamenti. In questo caso tutto l’impianto può essere considerato comune,
rimanendo come parte privata la sola presa a muro. Si tratta tuttavia di impianti datati e che
possono essere rinvenuti in costruzioni antecedenti agli anni 60 del secolo scorso. In tutti i casi
vale la considerazione tecnica della unicità funzionale di parti private e parti comuni.
Riferimenti normativi
La norma di riferimento è ancora come per gli altri impianti elettrici il DM. 37/08 con le integrazioni
del DL. 112/08.
Più recente normativa ha introdotto quorum deliberativi facilitati per l’installazione di nuovi impianti
satellitari (art.2. L.66/2001) e la previsione di cessazione delle trasmissioni del segnale terrestre di
tipo analogico con obbligatorio passaggio al segnale di tipo digitale (art.2. L.66/2001, comma 5)
con decorrenza dal 31/12/2006.
Vale infine rammentare l'art 231 del D.P.R 29/03/1973 n° 156, e la successiva consolidata
giurisprudenza, che riservano comunque al singolo residente la facoltà di dotarsi di autonomo
mezzo di ricezione del segnale radio-televisivo via etere, anche con forte compressione degli
interessi collettivi rappresentati dalla comunità condominiale, per consentire in modo ampio e
indisturbato il diritti all’informazione quale diritto individuale fondamentale protetto in sede
costituzionale.
6. GLI IMPIANTI DI APPROVVIGIONAMENTO DELL’ACQUA POTABILE
All’interno di questo capitolo analizzeremo gli impianti di adduzione dell’acqua alle singole unità
immobiliari a partire dal punto di consegna dell’ente erogatore, ipotizzando la distribuzione
attraverso acquedotto pubblico.
Questi impianti sono composti essenzialmente da tubazioni di vario materiale, ma anche da
contatori, saracinesche, valvole e contenitori quali serbatoi e boiler e più in generale da qualsiasi
oggetto con cui l’acqua destinata al consumo umano venga contenuta o condotta.
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Ognuna di queste componenti è soggetta a una propria specifica normativa, che ne autorizza l’uso
per il contatto con l’acqua potabile. Non è tuttavia compito dell’amministratore individuare le
caratteristiche dei materiali messi in opera dopo il 1990. Dopo tale data è infatti vigente la
normativa generale di cui alla Legge 46/90, che offre numerose tutele al riguardo, quando
opportunamente applicata.
Il vero problema sono gli impianti antecedenti al 1990 per i quali l’amministratore, in virtù della
legge vigente, è tenuto al rispetto dei parametri previsti. E’ pertanto consigliabile, nel caso in cui i
parametri dell’acqua in uscita siano palesemente alterati dall’impianto comune, sottoporre un
campione dell’acqua ad un centro di analisi microbiologica, che consenta di evidenziare le
eventuali alterazioni (specie in confronto ad analoga analisi in entrata) e i conseguenti necessari
provvedimenti.
Per l’amministratore di condominio è pertanto essenziale individuare quali parti dell’impianto di
adduzione idrica siano comuni, ciò allo scopo di individuarne le relative responsabilità e
adempimenti.
L’impianto più semplice si ha quando l’acqua viene fornita all’intero stabile da una unica fornitura
comune da parte di un ente erogatore pubblico. In questo caso l’impianto comune è costituito da
una tubazione che inizia dopo il contatore generale e termina nel punto di derivazione della
tubazione comune verso la tubazione di proprietà esclusiva. Il contatore generale sarà di proprietà
dell’ente erogatore mentre il contatore divisionale e le relative saracinesche necessarie alla
attribuzione del consumo al singolo appartamento, saranno private. Tutto quanto conduce o
contiene acqua tra i due punti è sottoposto alla custodia e responsabilità del condominio e quindi
dell’amministratore.
Esistono tuttavia numerose varianti a questa ipotesi distributiva.
A puro titolo di esempio elenchiamo:
 proprietà della tubazione di adduzione dell’acqua fino al contatore divisionale dell’ente
distributore – in questo caso nessuna parte dell’impianto è di proprietà comune;
 proprietà della tubazione di adduzione acqua del singolo utilizzatore a partire dall’impianto
dell’ente distributore– anche in questo caso nessuna parte dell’impianto è di proprietà
comune;
 contemporanea presenza di sistemi di adduzione acqua al fabbricato sia da acquedotto
pubblico che da cisterna privata comune o individuale – in questo caso la competenza del
condominio sarà limitata alle porzioni di impianto soggette all’uso comune.
Più in generale verificheremo la esistenza o meno di responsabilità condominiale verificando un
importante assunto alla base del quale soggiace tutta la normativa in materia e che è il seguente:
“deve essere costante la qualità dell’acqua in entrata e in uscita da un impianto”
Per la individuazione della qualità dell’acqua e per definire le relative responsabilità al riguardo, si
deve fare riferimento a tre norme fondamentali:
il DPR.n.236/1988;
il DM n.31/2001;
il DM n.27/2002.
Questi indicano i principi di responsabilità dei diversi soggetti coinvolti e chiariscono che l'acqua,
per essere potabile, non solo non deve "contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in
quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana", ma
non deve superare determinati valori massimi anche per sostanze non propriamente nocive.
Per alcune di esse non nocive, ma con caratteristiche tali da poter variare anche
considerevolmente le qualità organolettiche, esiste facoltà della ASL di disporre agli enti distributori
interventi correttivi.
Per altre sostanze considerate nocive per la salute umana sono stati indicati valori massimi da non
superare a pena della decadenza della qualità di acqua per consumo umano.
Per l’amministratore di condominio il rischio più probabile è rappresentato dalla cessione all’acqua
di frazioni di piombo.
Infatti, specie nei centri storici, esistono ancora distribuzioni interne agli edifici costruite in piombo e
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in presenza di acque povere di minerali disciolti, si possono determinare cessioni del piombo
all’acqua, con conseguenze molto gravi sulla salute umana. In un caso come questo la
responsabilità civile e penale dell’amministratore sarebbe totale.
Un altro pericolo per la salute degli utilizzatori è rappresentato dalle apparecchiature che
modificano le caratteristiche dell’acqua. Esistono in commercio numerose tipologie di tali
apparecchiature, alcune delle quali basate su studi scientifici dubbi o perlomeno, molto limitati.
Va qui ben evidenziato che qualora dovessero essere installate all’interno della rete condominiale,
sottopongono l’amministratore ad una notevole responsabilità soprattutto in ordine al perfetto
mantenimento nel tempo di tali caratteristiche.
Queste macchine sono composte essenzialmente da apparecchiature che modificano le
caratteristiche fisiche e chimiche dell’acqua in entrata con l’intento di migliorare alcuni dei suoi
parametri.
A titolo di puro esempio si indicano:
 filtri meccanici
 filtri a osmosi
 riduttori della durezza dell’acqua di tipo chimico per dosaggio di cloruri o polifosfati
 riduttori della durezza dell’acqua di tipo fisico per esposizione a campo magnetico
Trattandosi quindi di macchine che vengono a contatto con l’acqua, è molto facile che l’assenza o
la carenza di manutenzione provochino nel tempo alterazioni non volute, specie di tipo batterico e
tali da portare a gravi conseguenze per la salute degli utilizzatori. Si raccomanda pertanto l’attenta
valutazione, specie alla luce delle responsabilità incombenti sull’amministratore, proprio in virtù
della normativa indicata.
7. GLI IMPIANTI DI RISCALDAMENTO E DI PRODUZIONE ACQUA CALDA
Gli impianti di riscaldamento rientrano anch’essi nelle tipologie previste dall’art.1, comma c) del
DM.37/08, essendo peraltro composti da elementi che anche individualmente rientrano quasi
sempre delle tipologie previste dalla norma.
L’impianto centralizzato di produzione di acqua calda sanitaria e del riscaldamento è presente in
una molteplicità di tipi, tuttavia quelli di cui ci occupiamo, gli impianti centralizzati condominiali,
possono essere sempre ricondotti alle seguenti componenti essenziali:
1. un generatore di calore (caldaia) dotato di proprio bruciatore;
2. un impianto di alimentazione a gas o a gasolio, che collega rete di distribuzione o cisterna
al bruciatore;
3. una canna fumaria di evacuazione dei fumi della combustione;
4. un circuito di tubazioni che contiene acqua a volume costante, che viene riscaldata dalla
caldaia, dotato di pompe di circolazione che consentono di portare il fluido scaldante a tutti i
corpi scaldanti presenti nel fabbricato; il mantenimento del volume e della pressione
costante di questo circuito è affidato a sistemi di equilibratura denominati vasi di
espansione e tubazione di sicurezza per le sovrapressioni (vaso aperto) oppure vasi di
espansione a membrana e valvola di sicurezza tarata per la sovrapressione (vaso chiuso);
5. una valvola miscelatrice a tre vie, che miscela l’acqua di mandata del circuito con l’acqua di
ritorno dello stesso circuito, consentendo così di regolare la temperatura del fluido in
circolazione;
6. una centralina elettronica o elettromeccanica, che mediante sonda della temperatura
esterna, comanda il funzionamento della valvola miscelatrice, anche in funzione delle
impostazioni di base della centralina (livello di temperatura dell’acqua, grado di apertura
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della valvola, tempi di accensione a regime pieno dell’impianto);
7. impianto elettrico che consente l’illuminazione del locale e l’alimentazione della forza
motrice per centralina, servomotore della valvola miscelatrice, bruciatore e gruppi pompe.
A scopo eminentemente didattico, in caso di produzione contemporanea della centrale
termica anche di acqua calda per l’uso sanitario, oltre alle n.7 apparecchiature elencate
saranno inoltre presenti:
8. circuito tra la caldaia e l’apparecchiatura di scambio termico (primario)
9. apparecchiatura di scambio termico tra il circuito primario e il circuito di distribuzione ai
piani dell’acqua calda (boiler o scambiatore diretto a piastre con o senza serbatoio di
accumulo);
10. circuito di distribuzione (secondario) dell’acqua sanitaria, dotato di proprie pompe di
circolazione;
Vale la pena evidenziare che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una unica unità
funzionale, e come tale viene considerata sul piano tecnico e della sicurezza, mentre
limitatamente alla voce n.2 (circuito di distribuzione del riscaldamento) e alla voce n.10 (circuito
secondario o di distribuzione dell’acqua sanitaria)è noto che dal punto di vista civilistico,
coesistono la proprietà comune (fino al punto di diramazione a servizio del singolo
appartamento) e proprietà privata (dal punto di diramazione, compresi gli eventuali raccordi
orizzontali ai corpi scaldanti e i corpi scaldanti con tutte le loro componenti, le saracinesche, i
contatori, le rubinetterie, ecc., ecc.)
Vale pertanto ancora evidenziare che tale dicotomia ha portato di fatto alla creazione di gravi
alterazioni dei dati di progetto degli impianti originali in condominio, con modifiche effettuate dai
singoli proprietari all’interno delle proprie porzioni, che hanno portato ad un vero e proprio
stravolgimento delle caratteristiche della distribuzione con forti inefficienze di funzionalità degli
impianti nel loro complesso.
Per quanto attiene ai circuiti di distribuzione del riscaldamento possono essere presenti due
diversi sistemi impiantistici, che possono notevolmente condizionare le modifiche agli impianti
stessi, in special modo per la trasformazione dell’impianto centralizzato in impianti autonomi,
secondo le procedure previste dalla Legge 10/91:
distribuzione a colonne
La più tradizionale e diffusa. All’interno di ogni singolo appartamento, il fluido viene distribuito
per colonne di andata e ritorno che servono ogni singolo corpo scaldante; in questo caso
esisteranno tante colonne quanti saranno i corpi scaldanti presenti sullo stesso piano. Il circuito
a servizio di ogni appartamento è perciò intercettabile in tanti punti quanti sono i corpi scaldanti
presenti (ogni corpo scaldante di un singolo appartamento non è direttamente collegato agli
altri dello stesso appartamento).
distribuzione ad anello
La più moderna. Esiste una sola colonna che serve tutti gli appartamenti di una scala o di una
porzione di scala; da tale unica colonna diparte una unica tubazione che collega in serie tutti i
corpi scaldanti dello stesso appartamento, per poi ricongiungersi alla colonna di ritorno; in
questo caso il circuito a servizio di ogni appartamento è intercettabile in un unico punto (ogni
corpo scaldante di un singolo appartamento è direttamente collegato agli altri dello stesso
appartamento) .
Riferimenti normativi
Per gli impianti di riscaldamento, non esistendo contatto diretto con gli utilizzatori, sono
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ammessi materiali con caratteristiche meno rigorose rispetto a quelle previste per l’acqua
potabile riguardo alla cessione al fluido, mentre dovendo resistere a temperature e conseguenti
sollecitazioni meccaniche decisamente superiori, presentano caratteristiche tecniche diverse.
Senza entrare nel merito delle diverse norme tecniche che regolano la materia, tutte
inquadrate dall’ UNI, è bene ricordare che anche per questo tipo di impianti sono valide le
disposizioni generali del DM.37/08, specie per quanto attiene alle abilitazioni degli operatori, al
rilascio del certificato di conformità delle opere eseguite e al deposito presso gli uffici comunali
di certificazioni e progettazione.
Rammentiamo infine che tale deposito, a seguito del combinato disposto della Legge 380/2001
e dei diversi accoglimenti regionali, diventa di fatto obbligatorio sia per il rilascio ed il
mantenimento del certificato comunale di Agibilità, ma anche per la semplice asseverazione
delle variazione urbanistiche successive, anche a cura dei singoli proprietari. Anche per quanto
attiene al rispetto delle norme di prevenzione incendi, che saranno trattate in diversa dispensa,
il corretto deposito della conformità dell’impianto di riscaldamento diventa essenziale, specie
se la potenzialità del generatore di calore supera il limite di rilascio del Certificato di
Prevenzione Incendi, attualmente posto a 35Kw.
Si evidenzia infine che gli impianti termici, di qualsiasi potenzialità, sono soggetti ai sensi della
Legge 10/91 e del suo regolamento di attuazione DPR 412/93 ad alcuni obblighi ricadenti
sull’amministratore tra i quali si rammentano:
• di affidamento della conduzione a soggetti dotati di specifica abilitazione,
• tenuta di uno speciale libretto di impianto sul quale annotare gli interventi di controllo e
manutenzione effettuati,
• di mantenere l’efficienza energetica dell’impianto al di sopra di livelli minimi prestabiliti. (
disposizioni aggiornate con il DPR. 59/09 quale Regolamento di Attuazione della
L.195/05 )
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MODULO N.10
Contabilità e rendiconto condominiali
(Carlo Parodi)
10.1 - Definizione e normativa
La contabilità è un sistema di regole che disciplinano la formazione e l’esecuzione delle
decisioni di finanziamento e di spesa; una registrazione corretta ed ordinata dei fatti contabili nei
quali si articola la gestione rende agevole la trasformazione dei valori della contabilità generale in
valori di bilancio consuntivo (o rendiconto) che rappresenta la funzione più rilevante per dare
contenuto all’informazione dell’utenza in tutti i casi di amministrazione di beni altrui (vedi anche
l’art. 1713 c.c. per il mandatario). La contabilità non ha regole codificate ed anche per
l’imprenditore il codice civile si limita ad indicare “quelle richieste dalla natura e dalla dimensione
dell’impresa”.
Nell’ambito condominiale il legislatore all’art.1130 c.c. ha stabilito che “l’amministratore alla fine
di ciascun anno deve rendere il conto della sua gestione” senza dare indicazioni “tecniche” circa le
modalità di redazione del documento stesso.
La norma UNI 10801 (Amministrazione condominiale e immobiliare) definisce il rendiconto
come il documento contabile dettagliato della gestione amministrativa di un anno o frazione; esso
espone in una forma di facile comprensione per l’utente medio le spese e le entrate raggruppate
per motivazioni omogenee secondo le disposizioni di legge e/o del regolamento condominiale.
Aggiunge che il riparto delle spese è un quadro sinottico che indica le quote di spesa spettanti a
ciascuna unità immobiliare per ogni capitolo omogeneo (tabella). Contiene altresì il saldo attivo o
passivo per ogni unità immobiliare, rappresentato dal totale delle spese dedotti i versamenti
effettuati e, trattandosi di spese di cassa, saranno annotate quelle da pagare relativamente alla
competenza.
10.2 - Le indicazioni di giurisprudenza e dottrina
La Suprema Corte ha sentenziato che la contabilità presentata dall’amministratore del
condominio non è necessario sia redatta con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i
bilanci delle società, ma deve essere idonea a rendere intelligibile ai condòmini le voci di entrata e
di uscita con le relative quote di ripartizione ed a fornire la prova della qualità e quantità delle
somme incassate nonché dell’entità e causale degli esborsi fatti (tra le altre Cassazione. 7 luglio
2000, n. 9099).
La Corte d’Appello di Milano (1/1/1993, n.1824) ha precisato però che ciò non significa che non
esistano regole minime da osservare ai fini dell’adempimento dell’obbligo di rendiconto, che è l’atto
con il quale l’obbligato giustifica le spese addebitate ai suoi mandanti. Ed infatti la giurisprudenza
ha indicato in varie sentenze alcuni requisiti indispensabili del rendiconto condominiale
evidenziando anche la necessità di tener conto dell’aspetto dimensionale del condominio stesso:
– Cassazione 6/2/84, n.896: il documento contabile assume la forma semplificata di rendiconto
finanziario e deve contenere, nella parte relativa alle spese, gli impegni di uscita, distinti per
importi pagati, rimasti da pagare e totali.
– Corte d’Appello di Milano 26/5/1992: se non vengono poste in evidenza le giacenze patrimoniali
si tratta di un modo non corretto di redigere il rendiconto perché elaborato in modo da impedire
ai condòmini di prendere conoscenza della reale situazione finanziaria del condominio.
– Tribunale di Genova 3/3/1994: Per soddisfare le esigenze di chiarezza amministrativa e
contabile il prospetto di riparto delle spese condominiali deve indicare per le varie colonne
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relative ciascuna ad una determinata categoria, gli importi addebitati ad ogni singolo
proprietario con a fianco l’aliquota millesimale a lui attribuita.
– Corte d’appello di Milano 7/6/88, n. 134: Allorché non ci si trovi di fronte ad un condominio di
piccole dimensioni si impongono forme contabili rigorose secondo le regole proprie della
tecnica ragionieristica. Spesso gli errori rivelano la costruzione eccessivamente semplificata
della contabilità, realizzata senza riscontri costanti, al di fuori di un sistema di partita doppia.
Anche la dottrina ha dato indicazioni a prima vista generiche in merito alla resa del conto: «nelle
forme contabili idonee a rappresentare il modo in cui la gestione amministrativa ha avuto luogo»
(Salis). Quali sono “i canoni contabili-amministrativi che presiedono la materia” (Branca) o “le
norme ordinarie di amministrazione” (Nobile)?
Escludendo l’applicazione degli articoli del codice che si riferiscono all’imprenditore (2214 e
seguenti) e di quelli che chiariscono forma e contenuti dei bilanci delle società (artt. 2421 e
seguenti) è possibile utilizzare la guida contabile rappresentata dai “principi” codificati dai Dottori
commercialisti e ragionieri, senz’altro un valido indirizzo operativo per dare anche uniformità alla
dimostrazione dei risultati di gestione.
Tali “principi contabili” indicano che la forma del rendiconto deve essere costante per una
indispensabile comparabilità, la rilevazione dei fatti economici deve seguire criteri contabili ben
individuati, l’informazione patrimoniale, economica e finanziaria fornita dal bilancio deve essere
verificabile con una indipendente ricostruzione del procedimento contabile, la situazione
patrimoniale deve identificare attività e passività alla data di riferimento, il bilancio di esercizio deve
essere corredato da una nota integrativa che faciliti la comprensione della schematica simbologia
contabile, l’effetto delle operazioni deve essere rilevato e attribuito all’esercizio al quale si
riferiscono e non a quello in cui si concretizzano i relativi incassi e pagamenti.
10.3 - Criterio di competenza e di cassa
Tale ultimo principio contabile viene definito criterio di competenza, fissato anche dall’art. 2423
bis c.c. per la redazione del bilancio societario (“si deve tener conto dei proventi e degli oneri di
competenza dell’esercizio indipendentemente dalle date dell’incasso e del pagamento”) e dal
Regolamento concernente l’amministrazione e la contabilità degli enti pubblici (DPR 27/2/2003,
n.97): “La competenza economica imputa gli effetti delle operazioni e degli altri eventi all’esercizio
nel quale è rinvenibile l’utilità economica anche se diverso da quello in cui si concretizzano i relativi
movimenti finanziari”.
Il criterio di competenza rispetta il principio dell’autonomia dei bilanci con conseguente
omogeneità e confrontabilità nel tempo analogamente a quanto previsto dall’ordinamento fiscale
per la determinazione del reddito d’impresa; in particolare nell’ambito condominiale è importante
tener conto dei servizi effettivamente resi (forniture di gas, acqua e luce, manutenzioni in
abbonamento e riparazioni effettuate, prestazioni per vigilanza e pulizie, ecc.) ed addebitarli ai
relativi fruitori indipendentemente dalla data del pagamento.
Il criterio di cassa invece, con l’inserimento in rendiconto soltanto di fatture al momento
dell’effettivo pagamento e quindi anche in un esercizio successivo a quello di riferimento può
determinare l’imputazione di talune spese a soggetti diversi da quelli che hanno effettivamente
goduto del relativo servizio (una fornitura di combustibile, una utenza per consumi idrici, ecc.)
nell’ipotesi di vendita dell’unità immobiliare o di mobilità dell’inquilino con relative difficoltà per
l’incasso delle quote da parte dell’amministratore che tenterà invano di far comprendere ai debitori
il concetto della solidarietà passiva prevista dall’art. 63 delle Disposizioni per l’attuazione del
codice civile.
10.4 - Schema di rendiconto standard
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Nell’interesse della collettività condominiale è necessario fissare una struttura uniforme di
rappresentazione del documento riassuntivo dell’esercizio che possa esporre con semplicità e
chiarezza i risultati conseguiti e consentire comprensione e controllo ad ogni condòmino dotato di
un minimo di cultura contabile.
La struttura contabile, il sistema di scritture, il metodo di registrazione potranno risultare
diversamente articolati in funzione della complessità della gestione, ma lo schema riassuntivo di
esercizio dovrà comprendere una dimostrazione delle spese e delle entrate, la relativa ripartizione
nonché una situazione contabile che rappresenti una memoria storica del patrimonio condominiale
realizzando uno strumento di raccordo tra successivi esercizi e quindi una complessiva
trasparenza gestionale con automatismi contabili e concordanze a garanzia di un’elaborazione
tecnicamente corretta (cosiddetta situazione patrimoniale). Il CSN ANACI ha elaborato un
“bilancio concordato” sottoscritto da associazioni della proprietà, dell’inquilinato e dei consumatori
il 4 luglio 2007, con linee guida per la relativa redazione, poi perfezionato come segue con il
contributo dell'Ordine dei Commercialisti di Napoli (vedi anche sito www.anaci.it):
AMMINISTRAZIONE CONDOMINIO VIA ……………
RENDICONTO CONSUNTIVO ANNO 20.....
Elaborato n.1 di 5
1
2
3
4
5
6
7
8
9
1
0
TABELLA A - Generale
Assicurazione fabbricato
Oneri bancari c/c n……
ICI ex alloggio portiere
Compenso amministratore
Iva e cpa amministratore
Cancelleria/postali/amm.ne
Manutenzioni e riparazioni
Fornitura energia elettrica
Fornitura acqua
CONTO CONSUNTIVO ANNO 20....
Consuntivo (A)
Preventivo (B) Conguaglio (A-B)
%
Consuntivo (A)
Preventivo (B)
Conguaglio (A-B) %
Consuntivo (A)
Preventivo (B)
Conguaglio (A-B) %
Consuntivo (A)
Preventivo (B)
Conguaglio (A-B) %
....................................
TOTALE TABELLA A
1
2
3
4
5
TABELLA B - Portierato
Stipendio portiere e sostituto
Oneri fiscali e previdenziali
Accantonamento per t.f.r.
Consulenza del Lavoro
....................................
TOTALE TABELLA B
TABELLA C - Scala
1 Manutenzioni e riparazioni
2 Fornitura energia elettrica
3 ....................................
TOTALE TABELLA C
1
2
3
4
TABELLA D - Ascensore
Manutenzioni e riparazioni
Fornitura energia elettrica f.m.
Verifiche biennali
....................................
TOTALE TABELLA D
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TABELLA E - Autorimessa
Manutenzioni e riparazioni
Fornitura energia elettrica
Cosap varco carraio
....................................
TOTALE TABELLA D
Consuntivo (A)
Preventivo (B)
Conguaglio (A-B) %
1
2
3
4
ALTRE DA RIPARTIRE
Riparazioni pluviali e fecali
Manutenzioni e riparazioni citofoni
Postali individuali
....................................
TOTALE ALTRE
Consuntivo (A)
Preventivo (B)
Conguaglio (A-B) %
1
2
3
4
IMPREVISTE (*)
Consuntivo (A)
1 Spese ………….
2 Spese …………
3 ....................................
TOTALE IMPREVISTE
(*) spese senza separata imputazione da ripartire
secondo legge.
Preventivo (B)
Conguaglio (A-B) %
TOTALE GENERALE
Nello schema sono incluse le spese impreviste di importi tali da non richiedere un separato riparto.
Diversamente le spese straordinarie di importo rilevante e oggetto di apposita delibera o ratifica,
saranno oggetto di separata rendicontazione i cui risultati confluiranno anch’essi, così come quelli
del conto consuntivo, nello stato patrimoniale finale.
LO STATO PATRIMONIALE
I valori da riportare nel prospetto sono quelli risultanti esattamente al termine del periodo oggetto di
rendiconto; ciò evidentemente allo scopo di rispettare il principio di certezza dei valori iscritti in
modo da poter avere evidenza della effettiva consistenze di cassa, facilitando allo stesso tempo il
compito di quadratura dell’amministratore, sia nell’ambito del rendiconto presentato che nel
collegamento con quelli successivi, a scongiurare ogni ipotesi di duplicazione della spesa. Si
consiglia, per esigenze soprattutto di carattere fiscale, di considerare il periodo amministrativo
coincidente con l’anno solare. Nella nostra analisi vanno pertanto considerati i valori come esistenti
alla data del 31/12.
ATTIVO: In tale prospetto, oltre alla esistenza di cassa e di banca, (al 31/12 dell’anno) devono
essere dettagliatamente riportati tutti i crediti, distinguendo quelli sorti durante l’anno da quelli
relativi agli anni pregressi, suddividendoli tra quelli che hanno avuto origine da conguagli rispetto a
quelli che hanno avuto origine dall’emissione di quote ordinarie non pagate (morosità). Nel
dettaglio dei crediti inoltre vanno evidenziati quelli oggetto di contenzioso, quelli per quote
straordinarie, gli eventuali acconti a fornitori e per spese legali a fronte di contenziosi non ancora
definiti.
PASSIVO: nei debiti vanno evidenziati quelli relativi a conguagli, quelli relativi a fornitori non pagati
durante l’anno, quelli sorti in anni pregressi (motivando nelle note le ragioni del mancato
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Pagina 125
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pagamento), i depositi cauzionali, i debiti tributari/previdenziali ed infine i fondi a qualsiasi titolo
costituiti (es. fondo cassa, fondo locazioni attive, fondo lavori, ecc) indicando la loro specifica
destinazione e riferendo nelle note la fonte istitutiva dello stesso (es. “delibera del........”, oppure
“avanzo del.....”). Per il Fondo TFR è opportuno specificare se a copertura ci sia un
accantonamento reale a mezzo polizza o libretto bancario, precisando altresì eventuali
corresponsioni di anticipi ai dipendenti.
AMMINISTRAZIONE CONDOMINIO VIA…………….
RENDICONTO CONSUNTIVO ANNO 20.....
Elaborato n.2 di 5
STATO PATRIMONIALE AL 31/12/20....
ATTIVITA'
DESCRIZIONE
Crediti per quote ordinarie dell'anno
PASSIVITA'
IMPORTI
DESCRIZIONE
Debiti v/fornitori (4)
Crediti per quote ordinarie anni pregressi
Debiti tributari
Crediti per conguagli anni pregressi
Crediti in contenzioso (1)
Debiti previdenziali
Debiti per conguagli anni
pregressi
Fitti attivi da ripartire (5)
Acconti vertenze legali (1)
Deposito cauzionale fitti attivi
Fitti attivi da incassare (2)
Deposito cauzionale fornitori
Fornitori c/anticipi (3)
Liquidità su c/c postale
Fondo T.F.R. dipendenti (6)
Fondo riserva esigenze di
cassa (7)
..........................
Liquidità in cassa
..........................
Deposito cauzionale COSAP
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
..........................
Crediti per quote straordinarie
Liquidità su c/c bancario
TOTALE ATTIVITA'
Conguaglio anno corrente (8)
TOTALE A PAREGGIO
IMPORTI
TOTALE PASSIVITA'
Conguaglio anno corrente (9)
TOTALE A PAREGGIO
NOTE
(1) specificare per quale vertenza
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Pagina 126
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(2) specificare inquilino, periodo e motivazioni del mancato incasso
(3) specificare il fornitore e il titolo della spesa
(4) trattasi dei costi consuntivati da pagare al 31/12 - specificare eventuali importi riferiti ad anni
pregressi
(5) trattasi degli introiti da locazione immobili proprietà comune su cui deliberare la destinazione o
riparto
(6) al netto degli (eventuali) anticipi corrisposti - specificare se c'è accantonamento reale
(es.libretto, assicurazione)
(7) specificare destinazione e riferimento delibera istitutiva
(8) conguaglio gestione corrente a debito dei condomini (= credito per il Condominio)
(9) conguaglio gestione corrente a credito dei condomini (= debito per il Condominio)
(10) .........................................................................
SITUAZIONE DI CASSA
In questo prospetto viene ricostruita tutta la movimentazione effettiva della “cassa” condominiale.
Vengono cioè riportati tutti gli incassi e gli esborsi effettivamente operati durante l’anno così come
risultanti dal libro cassa ovvero, in caso di utilizzo del metodo della partita doppia, risultanti dalle
scritture che hanno comportato un movimento finanziario. In tal modo si ha una perfetta
coincidenza dei movimenti e dei saldi del c/c intestato al condominio con le registrazioni di
contabilità.
In sintesi, si riportano i saldi liquidi iniziali, si aggiungono i movimenti in entrata ed uscita
raggruppati per tipologia di movimentazione, giungendo alla consistenza finale di cassa e
banca/posta. Anche qui la movimentazione riportata è quella fino al 31/12 dell’anno ed i valori finali
necessariamente dovranno coincidere con quelli indicati nell’attivo dello stato patrimoniale. Scopo
fondamentale di tale elaborato è la dimostrazione della movimentazione finanziaria che ha
determinato la variazione della consistenza di cassa nel periodo amministrativo; voci e importi
dovranno trovare riscontro puntuale nel Conto Consuntivo e nello Stato Patrimoniale così da
determinare la quadratura completa delle scritture contabili.
Rappresenta dunque un importante documento di controllo.
AMMINISTRAZIONE CONDOMINIO VIA ………………….
SITUAZIONE DI CASSA ANNO 20.....
Elaborato n.3 di 5
SITUAZIONE DI CASSA ANNO 20....
ENTRATE
DESCRIZIONE
Esistenza c/c bancario al 01/01/20.....
Esistenza c/c postale al 01/01/20.....
Esistenza di cassa al 01/01/20.....
Quote condominiali ordinarie dell'anno
Corso di formazione professionale
USCITE
IMPOR
TI
DESCRIZIONE
IMPORTI
Spese consuntivate dell'anno effett.
pagate
Spese straordinarie effett. Pagate
Pagamento debiti anni pregressi
Riparto fitti anni pregressi
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Quote condominiali ordinarie anni
pregressi.
Quote condominiali straordinarie
dell'anno
Quote condominiali straordinarie anni
pregressi
Quote condominiali conguaglio anno
precedente
Quote condominiali conguaglio anni
pregressi
Restituzione depositi cauzionali
Anticipi/liquidazione TFR dipendenti
Utilizzo fondo cassa
Anticipi a fornitori
Anticipi vertenze legali
Restituzione conguagli a credito
condomini
..........................
TOTALE USCITE
Liquidità al 31/12/20...... (1)
TOTALE A PAREGGIO
Fitti attivi
..........................
TOTALE ENTRATE
NOTE
(1) di cui ................................ su c/c bancario, ................................ su c/c postale, ................................
in cassa
(2) .......................................................
(3) .......................................................
(4) .......................................................
(5) .......................................................
RIPARTO CONSUNTIVO
In tale prospetto le spese vengono ripartite secondo i criteri di ripartizione stabiliti dal Regolamento
di condominio (tabelle millesimali, ecc) e/o dall’Assemblea di condominio e/o dalla legge.
Per ciascun condomino vengono riportati i millesimi di ogni tabella di ripartizione, la relativa
attribuzione della spesa per millesimi, o il coefficiente di ripartizione per le altre spese non
riconducibili a nessuna tabella millesimale, e la relativa spesa attribuita.
Viene poi riportato per ciascuna unità immobiliare il totale spesa, il confronto con il preventivo e
l’indicazione del relativo conseguente conguaglio (differenza fra quanto previsto e quanto
effettivamente speso), indipendentemente da eventuali morosità pregresse.
N S P
. C. .
IN
T.
1
2
3
4
5
6
1
2
3
4
5
6
A
A
A
A
A
A
T
1
2
3
4
5
CONDOMI
NO
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TAB.A
Generale
TAB.B
Portierato
m
m.
m
m.
Imp
orti
Imp
orti
TAB.C
Scala
m
m.
TAB.D
Tota Quo
Ascensore le
te
Spes eme
Imp m Imp
e
sse
orti m. orti
(A)
(B)
Congua
glio
20....
(A – B)
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8
9
1
0
1
1
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1
5
1
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7
1
8
1
9
2
0
2
1
2
9
3
0
B
B
B
B
B
B
G
G
G
G
G
G
G
E
E
T 1
1 2
2 3
3 4
4 5
5 6
S 1
1 2
S
1 3
S
1 4
S
1 5
S
1 6
S
1 7
S
1 75
T
T 77
10
TOTALI RIPARTITI 10
00
TOTALI DA 00
CONSUNTIVO
ARROTOND. DA
RIPARTO
IL PROSPETTO DEI CONTI INDIVIDUALI
10
00
10
00
In tale prospetto vengono riportate, per singolo condomino, tutte le somme dovute al condominio:
in pratica costituisce un vero e proprio estratto conto di fine anno contabile. Alle eventuali morosità
relative agli anni precedenti vengono aggiunte quelle sorte nell’anno per quote ordinarie e
straordinarie non pagate, nonché le somme dovute per il conguaglio finale (che non costituisce
morosità).
In tal modo il condomino ha un quadro completo della sua situazione debitoria e il condominio il
dettaglio dei crediti nei confronti dei condomini.
Tale rappresentazione contabile consente, inoltre, di evidenziare debiti di anni pregressi
eventualmente a carico di precedenti condomini (art. 63 disp. att. c.c.).
AMMINISTRAZIONE CONDOMINIO VIA ……….
RENDICONTO ANNO 20 ........
Elaborato n.5 di 5
N s
. c.
1
2
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A
A
A
A
PROSPETTO CONTI INDIVIDUALI AL 31/12 ANNO 20........
Altri
TOTALE
crediti
P int condomi
Risarci
Quote
Quote
Quot Quote
Conguagl
Congua
complessiv
. .
no
m.
Ordinar Straordin
e
Straor
io
gli
Rimbors o dovuto
ie
arie
Ordin. din.
i
T 1
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Quote non versate anno
corrente
Quote non versate anni
pregressi
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A
A
B
B
B
B
B
B
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G
G
G
G
G
G
E
E
4 5
5 6
T 1
1 2
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4 5
5 6
S 1
S 2
S 3
S 4
S 5
S 6
S 7
T 75
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TOTALI
10.4.1 – Il meccanismo contabile
Il rendiconto condominiale deve essere elaborato in base ad un meccanismo contabile che
coordina opportunamente le scritture che già vengono normalmente elaborate nelle varie
amministrazioni condominiali; le entrate vengono suddivise secondo la natura (quote ordinarie e
straordinarie, affitti, proventi vari e rimborsi) con annotazione in schede o partitari individuali anche
di tipo informatizzato per seguire i versamenti delle quote dovute dai vari partecipanti al
condominio; la classificazione delle uscite tiene conto delle diverse imputazioni indicate dal
regolamento condominiale e predispone una analitica registrazione delle componenti di categorie
di spese da ripartire secondo differenti criteri rappresentati dalle tabelle millesimali.
Le schede o partitari individuali intestati ad ogni utente dei servizi condominiali hanno la
colonna delle partite a debito con le quote ordinarie e straordinarie fissate nei preventivi inserite ad
ogni rispettiva scadenza e la colonna delle partite a credito ovvero ogni versamento, anche in
acconto, effettuato dai singoli partecipanti con l’indicazione delle date relative in modo da
consentire anche la possibilità di calcolare eventuali indennità di mora; altre due colonne
evidenziano i saldi arretrati in sospeso e la successiva regolarizzazione. Tali prospetti forniscono a
fine esercizio il totale dei versamenti effettuati da inserire nella “Ripartizione spese” per il raffronto
con il «dovuto» e la conseguente determinazione dei conguagli a credito o a debito.
A fine esercizio, per visualizzare in modo completo i risultati della gestione condominiale
(normalmente dodici mesi anche se non corrispondenti all’anno solare) è necessario elaborare
quattro prospetti la cui reciproca concordanza è garanzia di perfetta tenuta della contabilità (Conto
economico o Dimostrazione spese ed entrate, Ripartizione spese, Situazione di cassa e Situazione
patrimoniale).
Per facilitare il compito dell’amministratore sono disponibili sul mercato numerose procedure
informatiche per la registrazione, l’aggiornamento e la documentazione delle informazioni relative
alle gestioni condominiali. L'Associazione ha realizzato ANACI Gest, un software gestionale
dedicato agli amministratori immobiliari.
Il giornale di contabilità è rappresentato dalla prima nota ovvero una lista di tutte le spese
imputate all’esercizio con le voci raggruppate per tabelle millesimali con dettagli di spesa sotto
ciascuna voce ordinati per data.
Dal preventivo vengono generate delle quote relative ad un numero variabile di rate che danno
luogo ad addebiti periodici automaticamente riportati negli estratti conto individuali; per ogni utente
del condominio (è possibile distinguere le imputazioni tra proprietario ed inquilino) è disponibile un
archivio con la descrizione della data degli addebiti, la successiva data di pagamento e la
registrazione di eventuali acconti.
Corso di formazione professionale
Pagina 130
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In ogni momento è possibile ottenere il riepilogo degli estratti conto nominativi, il consuntivo
delle spese e la situazione di cassa; il sistema a fine esercizio seleziona tutte le spese immesse e i
movimenti degli estratti conto nell’intervallo di tempo da considerare, ripartisce le spese per
nominativo in base ai millesimi di ciascuna tabella, totalizza i pagamenti degli estratti conto e
determina i conguagli individuali.
La dimostrazione delle spese e delle entrate potrà avere contenuti diversi in relazione ai servizi
disponibili nel condominio con la rappresentazione di altre categorie di spese in funzione delle
varie tabelle millesimali esistenti; l’esposizione della natura delle spese sostenute potrà essere più
analitica anche se la sintesi rende spesso il rendiconto meno complicato e quindi più leggibile, con
la dovuta disponibilità dell’amministratore a rilasciare, su richiesta, copia della prima nota spese;
potrà considerare tutti i pagamenti comunque effettuati dai condòmini nel periodo contabile di
riferimento con l’inserimento anche di tutti i saldi dell’esercizio precedente (a credito o a debito).
10.4.2 - Documenti giustificativi
A. Visco sosteneva (Le Case in condominio. Milano 1967) che ciascun condomino ha il diritto di
prendere visione di tutti gli atti e documenti e farsene rilasciare copia.
E l’evoluzione della giurisprudenza (Cassazione 26/8/98, n.8460 e 28/11/2001 n.15159) ha
superato il concetto del controllo dei giustificativi di spesa solo in sede di rendiconto annuale; la
S.C. ha chiarito che il rapporto tra l’amministratore ed i condòmini è analogo a quello del mandato
con rappresentanza, sebbene con caratteristiche del tutto peculiari, e che i condòmini, in quanto
mandanti, sono titolari dei poteri di vigilanza e di controllo previsti dal contratto di mandato (art.
1713 c.c.: «il mandatario deve rimettere al mandante ciò che ha ricevuto a causa del mandato»).
Non vi è ragione pertanto di impedire agli stessi di esercitare, in ogni tempo, la vigilanza ed il
controllo sullo svolgimento dell’attività di gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni e,
perciò, di prendere visione dei registri e dei documenti che li riguardano, sempre che la vigilanza
ed il controllo non si risolvano in un intralcio dell’amministrazione, non siano contrari al principio
della correttezza ed i condòmini sostengano i costi delle attività afferenti alla vigilanza ed al
controllo.
Aggiungasi che in materia locatizia, la Suprema Corte ha statuito, analogamente, che il
conduttore può rivolgersi “direttamente” all’amministratore e non al suo locatore, per l’esame dei
documenti giustificativi delle richieste di rimborso in forza del contratto di locazione, perché tale
documentazione è custodita dall’amministratore che, eventualmente, è tenuto ad esibirla anche nel
giudizio che dovesse essere instaurato tra il condomino ed il proprio conduttore (Cass. 4 giugno
1998, n. 5485).
10.4.3 - Elenco fornitori beni e servizi
Anche se il Ministero delle Finanze ha chiarito (Risoluzione 24 maggio 1986, n.321703) che il
soggetto obbligato al rilascio delle fatture, responsabile quindi di eventuali omissioni, è colui che
effettua cessioni o prestazioni di servizi nell’esercizio di imprese o di arti e professioni e non il
condominio considerato consumatore finale, l’amministratore dovrà acquisire giustificativi di spesa
fiscalmente regolari per essere in grado di documentare agli uffici finanziari un corretto elenco dei
fornitori del condominio (art. 21 comma 14, legge n.449/1997), un obbligo specifico per
l’«amministratore» e non per il condominio.
Il D.M. 12 novembre 1998 ha fissato i contenuti di tale «comunicazione degli amministratori di
condominio all’anagrafe tributaria» e più precisamente ha chiarito quali dati non debbono essere
comunicati per cui per esclusione l’amministratore deve preparare soltanto un elenco delle
forniture di beni e servizi effettuate nell’anno solare di riferimento (con generalità, domicilio e
codice fiscale) che non abbiano determinato ritenute alla fonte (corrispettivi da inserire soltanto nel
Modello 770) e che non si riferiscano ad utenze acqua, gas ed energia elettrica; non vanno
indicati eventuali pagamenti effettuati allo stesso fornitore fino a € 258,23 anche se rappresentati
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da più fatture, ma tale semplificazione non rappresenta una franchigia, nel senso che le forniture
superiori a tale importo vanno integralmente registrate.
Il Ministero ha chiarito che, per individuare l’importo complessivo delle forniture per gli acquisti
di beni (gasolio, materiali pulizie, cancelleria, estintori, materiale elettrico, ecc.) si considera il
momento della consegna, mentre per le prestazioni di servizi (manutenzioni, riparazioni, ecc.) si
tiene conto della data di pagamento del corrispettivo, anche se parziale.
Il quadro AC (Amministratori di condominio) fa parte dei prospetti aggiuntivi al modello base
UNICO (sia persone fisiche che società), ed il soggetto obbligato ad effettuare l’anzidetta
comunicazione all’anagrafe tributaria riferita all’intera gestione condominiale è l’amministratore in
carica al 31 dicembre dell’anno solare di riferimento. I quadri AC (uno per ogni condominio)
debbono essere allegati al Mod. UNICO dell’amministratore.
Questo adempimento per gli amministratori di condomini esige quindi la tenuta di contabilità
chiara ed ordinata e la predisposizione di un rendiconto di esercizio facilmente «leggibile» in
quanto gli uffici finanziari potranno eseguire controlli per accertare l’esattezza delle comunicazioni
anzidette.
Gli amministratori condominiali sono tenuti ad un attento studio delle tematiche tributarie,
evitando troppo semplicisticamente di considerare «errori formali» la mancata predisposizione di
un quadro AC per ogni condominio gestito, in quanto ininfluente per la determinazione
dell’imposta. Non si tratta infatti di un obbligo fiscale fine a se stesso e l’inosservanza del dettato
normativo dà luogo ad una sanzione amministrativa da 258 a 1.032 euro.
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Corso di formazione professionale
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MODULO N. 11
La gestione dei dipendenti
(Antonio Pazonzi)
Nel condominio si può verificare la necessità di instaurare rapporti di lavoro al fine di poter
svolgere determinati servizi necessari al mantenimento, al miglior godimento ed alla sicurezza del
bene comune.
Quando si verifica la suddetta necessità si possono instaurare rapporti di lavoro subordinato
assumendo il condominio, in persona dell’amministratore pro-tempore in quanto rappresentante
legale, la figura di datore di lavoro.
Per questo motivo il legislatore e le associazioni di categoria hanno visto bene di regolamentare
ad hoc questi possibili rapporti.
L’art. 2094 c.c. definisce chi è il prestatore di lavoro subordinato e quali sono gli elementi che
devono essere presenti nel rapporto tra questi ed il datore di lavoro affinché il lavoratore sia
considerato tale. Precisamente: la subordinazione, l’impiego di mezzi forniti dal datore di lavoro,
l’orario di lavoro.
La natura del rapporto giuridico che si viene ad instaurare tra datore di lavoro e lavoratore è un
contratto a prestazioni corrispettive dove i contratti collettivi di lavoro assumono un ruolo
fondamentale.
11.1 - I contratti collettivi di lavoro
I contratti collettivi disciplinano in maniera dettagliata lo svolgimento dell’attività lavorativa e ne
abbiamo incontrati nel tempo di tre categorie:
a) Contratti Collettivi Corporativi
Sono quei contratti stipulati dal sindacato di diritto pubblico e mantenuti in vigore dopo la caduta
del fascismo dall’art.43 del D.Lgs. 23 novembre 1944, n.369.
b) Contratto Collettivo ex art. 39 Costituzione
L’art. 39 Cost. ha inteso stabilire nel nostro ordinamento il principio del contratto collettivo come
norma giuridica e pertanto ha predisposto uno speciale procedimento per la stipulazione del
contratto collettivo attraverso il quale viene ad essi attribuita efficacia di norma giuridica, valevole
in quanto tale erga omnes.
La mancata attuazione di questo articolo e l’esigenza di fornire a tutte le categorie di lavoratori
una piattaforma più aggiornata di trattamento minimo rispetto a quella ormai superata, portarono il
legislatore, con la legge 14 luglio 1959 n. 741 intitolata “norme transitorie per garantire minimi di
trattamento economico e normativo ai lavoratori”, a conferire, in via indiretta, efficacia erga omnes
ad alcuni contratti collettivi.
c) Contratto collettivo di diritto comune
Il tipo fondamentale di contratto collettivo e l’unico che oggi possa realizzarsi. E’ il contratto di
diritto comune o postcorporativo. È un contratto atipico, perché privo di una specifica disciplina
legislativa, ed è chiamato così in quanto regolato dalle norme di diritto comune valide in materia
contrattuale (libro IV c.c.). In conformità dei principi generali del diritto validi in materia contrattuale
vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali che li hanno stipulati. Di
conseguenza il datore di lavoro che receda dalla propria organizzazione si libera dall’obbligo di
applicare i contratti collettivi stipulati successivamente al recesso, ma resta vincolato fino alla
Corso di formazione professionale
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normale scadenza del contratto vigente al momento in cui il recesso si è verificato.
I contratti collettivi di diritto comune hanno durata economica e normativa quadriennale e
rinnovo economico biennale. Quelli che stabiliscono il trattamento minimo economico e normativo
applicato ai rapporti di lavoro dei dipendenti da proprietari di fabbricati sono due e classificano i
lavoratori in categorie, a loro volta suddivise in più profili in base alle mansioni svolte: Contratto
Confedilizia-Sindacati Confederali e Contratto Federproprietà-UPPI-CONFSAL-CONFAPPI-ASPPI.
Una volta inquadrato il profilo professionale del lavoratore, potrà essere determinato l’orario al
quale lo stesso dovrà conformarsi.
A seconda dell’orario svolto scaturiscono dei particolari
obblighi in merito alle procedure di assunzione, al pagamento della retribuzione, alla contribuzione
previdenziale (INPS) ed al pagamento dei premi per assicurare i lavoratori in caso di infortunio sul
luogo di lavoro (INAIL).
L’orario massimo settimanale consentito è fissato per legge. Il normale orario di lavoro
attualmente è fissato dal legislatore in 40 ore settimanali escludendo da detto limite le categorie di
lavoratori che svolgono servizio di vigilanza, guardiania, semplice attesa o custodia (legge 24
giugno 1997, n. 196). Tale limite è stato ribadito dal D.Lgs. n.66 dell’8 aprile 2003 che ha dato
attuazione alle direttive comunitarie 93/104/CE e 2000/34/CE. Dall’origine ad oggi il servizio di
portierato originariamente svolto per 66 ore settimanali è stato da prima ridotto a 60, in seguito a
59 ed ora a 48 ore, stante il limite imposto dalla Comunità Europea.
Il datore di lavoro una volta scelto il lavoratore e dopo averlo inquadrato secondo le mansioni
attribuitegli, eseguirà tutta una serie di operazioni previste dalla normativa vigente ai fini della
costituzione, della durata e della eventuale estinzione della prestazione lavorativa.
Nel susseguirsi del rinnovamento del mercato del lavoro è possibile applicare una più ampia
scelta tra i vari istituti per l’inserimento dei lavoratori e più precisamente:
L’apprendistato: applicabile esclusivamente per alcuni profili e solo qualora vi sia già un tutore che
possa assistere l’apprendista, concede di assumere usufruendo delle agevolazioni tipiche di
questo istituto (contributive e previdenziali).lustypain:
Reblogged via Stumblr
Il job sharing: da la possibilità di assumere legando alla prestazione da adempiere, due o più
persone le quali saranno retribuite secondo la prestazione effettivamente lavorata e
corresponsabili della stessa.
11.2 - Il part-time
Per assumere un lavoratore part-time, stante l’abrogazione dell’art. 5 della legge n. 863/84 dal
D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 e modificato dal D.Lgs 26 febbraio 2001, n. 100 ed infine dal
D.Lgs. 276/2003, non è più necessaria la comunicazione alla Direzione Provinciale del Lavoro
degli assunti con questo istituto, rimane solo l’obbligo della convalida da parte della stessa,
qualora da un contratto a tempo pieno si passi ad uno a tempo ridotto, da espletare in forma scritta
e previo consenso delle parti.
Il part-time può essere orizzontale, quando la prestazione è costante nel tempo e la riduzione
riguarda solo l’orario di lavoro, e verticale, quando la prestazione viene effettuata solo in giorni
prestabiliti con cadenza settimanale, mensile o annuale. Il part-time può essere instaurato per un
minimo di 24 ore per i portieri A4 e 20 ore per gli A3.
La responsabilità della custodia per i lavoratori a tempo parziale , (riservata ai soli lavoratori con
alloggio cui tale mansione è riferibile), non sussisterà negli orari che il lavoratore intende destinare
ad altre attività lavorative al di fuori dell’alloggio di servizio.
Ai lavoratori a tempo parziale con distribuzione orizzontale o verticale non potrà essere affidata
la conduzione dell’impianto di riscaldamento, fatta salva tale possibilità per i lavoratori a tempo
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parziale verticale con orario giornaliero completo e con prestazioni continuative da svolgersi in un
determinato periodo dell’anno.
Il ricorso al lavoro supplementare ed al lavoro straordinario è consentito con riferimento alle
seguenti specifiche esigenze organizzative:
– necessità di manutenzione ordinaria e/o straordinaria agli impianti, che non possa essere
eseguita nel corso del normale orario di lavoro;
– altre contingenti necessità connesse con le funzioni di sorveglianza e/o di custodia del portiere.
Contratto di assunzione
Fermo restando che l’orario settimanale di lavoro relativo ai rapporti part-time dovrà risultare da
atto scritto al momento dell’assunzione, gli stessi saranno regolati, oltre che dalle specifiche
normative già previste dal CCNL, anche dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 e successive modifiche
e/o integrazioni.
L’atto scritto di cui al comma precedente dovrà inoltre contenere:
a) il trattamento economico e normativo secondo criteri di proporzionalità all’entità della
prestazione lavorativa
b) la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione dell’orario
con riferimento al giorno, alla settimana, al mese ed all’anno così come previsto dall’art. 2,
comma 2, del D.Lgs. n. 61/2000 citato e sue successive modifiche e/o integrazioni.
Il rapporto a tempo parziale sarà disciplinato secondo i seguenti principi:
a) volontarietà di entrambe le parti;
b) reversibilità della prestazione da tempo parziale a tempo pieno in relazione alle esigenze della
proprietà e quando sia compatibile con le mansioni svolte e/o da svolgere, ferma restando la
volontarietà delle parti;
c) priorità del passaggio da tempo pieno a tempo parziale o viceversa dei lavoratori già in forza
rispetto ad eventuali nuove assunzioni, per le stesse mansioni.
I genitori di portatori di handicap grave, comprovato dai Servizi sanitari competenti per territorio,
che richiedano il passaggio a tempo parziale, hanno diritto di precedenza rispetto agli altri
lavoratori.
Clausole di flessibilità e di elasticità
Le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possono concordare per iscritto clausole
flessibili relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione stessa.
Nei rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto possono essere stabilite sempre
per atto scritto anche clausole elastiche relative alla variazione in aumento della durata della
prestazione lavorativa.
Il rifiuto da parte del lavoratore non può integrare in nessun caso gli estremi del giustificato
motivo di licenziamento né l’adozione di provvedimenti disciplinari.
Sia le clausole flessibili che le clausole elastiche potranno essere pattuite a tempo
indeterminato come pure a tempo determinato.
Le parti hanno concordato che, in presenza di clausole flessibili, la collocazione temporale
della prestazione lavorativa potrà essere modificata a richiesta del datore di lavoro nel rispetto di
un preavviso di almeno 10 giorni lavorativi.
Al lavoratore cui si applica la clausola di flessibilità spetterà un’indennità pari al 5% della
retribuzione globale di fatto a titolo di compensazione. Nell’ipotesi del venire meno della clausola di
flessibilità, la predetta indennità cesserà di essere corrisposta.
Le parti concordano altresì che, in presenza di clausole elastiche, la prestazione lavorativa
potrà essere modificata in aumento, a richiesta del datore di lavoro, nel rispetto di un preavviso di
almeno 2 gg. lavorativi.
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Nell’accordo devono inoltre essere indicate le ragioni di carattere tecnico, organizzativo
produttivo o sostitutivo che autorizzano l’applicazione delle clausole flessibili od elastiche.
Le ore di lavoro effettuate in aggiunta a quelle ordinarie, vengono retribuite con le stesse
modalità e maggiorazione previste per il lavoro supplementare.
Il datore di lavoro può, a sua volta , recedere dal patto con un preavviso di almeno un mese.
11.3 - Il contratto a tempo determinato
Presupposti E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte
di ragioni di carattere tecnico organizzativo , produttivo o sostitutivo.
Copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro 5 gg.
lavorativi dall’inizio della prestazione.
Ipotesi di utilizzo In relazione a quanto disposto dal D.Lgs 6 settembre 2001, n. 368, le parti convengono sulle
seguenti ipotesi di apposizione di un termine al contratto di lavoro, nel caso di assunzioni di
lavoratori:
– per sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto ai sensi dell’art.
2110 c.c.;
– per sostituzione di lavoratori assenti per ferie e permessi;
– per sostituzione di lavoratori assenti per aspettative, per le quali comunque sia legalmente
previsto l’obbligo della conservazione del posto;
– per sostituzione di lavoratori impegnati in attività formative;
– per sostituzione di lavoratori il cui rapporto di lavoro sia temporaneamente trasformato da
tempo pieno a tempo parziale;
– a servizio di residenze turistiche a carattere stagionale ovvero con mansioni relative a strutture,
impianti o apparati con funzionamento limitato solo ad alcuni periodi nell’anno;
– per supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza del lavoro;
– per lavorazioni connesse ai vincolanti termini di esecuzione;
– per l’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno;
– a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage, allo scopo di facilitare l’ingresso dei giovani
nel mondo del lavoro;
– per l’inserimento di lavoratori con età superiore ai 55 anni;
– per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti o predeterminati nel tempo aventi carattere
straordinario o occasionale;
– per esigenze connesse ad eccezionali cause di forza maggiore e/o calamità naturale.
Limiti di utilizzo I contratti a tempo determinato non potranno superare il 10% dell’organico complessivo dei
lavoratori assunti a tempo indeterminato.
Formazione Il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione
sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto al fine di prevenire
rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro.
Posti vacanti Ai lavoratori occupati a tempo determinato dovrà essere inoltrata comunicazione circa i posti
vacanti che si rendessero disponibili, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere
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posti duraturi che hanno gli altri lavoratori.
11.4 - Assunzione: primi obblighi
Comunicazione al centro per l’impiego di competenza (ex collocamento) –
Deve essere effettuata il giorno antecedente all’assunzione del lavoratore, attraverso la
compilazione e l’invio telematico del modello UNI-LAV. In questo modello vanno riportati tutti i dati
delle parti che stipulano il contratto (nome, cognome, codice fiscale, ecc.) e quei dati attinenti al
rapporto di lavoro in senso più stretto come la tipologia di lavoro scelta (se a tempo determinato,
indeterminato, full-time, part-time, la qualifica e la posizione assicurativa INAIL).
Una particolare attenzione deve essere fatta al periodo di prova che deve risultare da atto
scritto ed è considerato un normale periodo retributivo e pertanto maturano tutti i diritti contrattuali.
Il lavoratore aspirante all’assunzione deve presentare i seguenti documenti:
– carta di identità;
– scheda professionale;
– la documentazione necessaria per fruire dell’assegno per il nucleo familiare (stato di famiglia);
– certificato medico;
– il codice fiscale;
– la carta di soggiorno per motivi di lavoro se stranieri;
– attestato di frequenza al corso ex-D.Lgs. 81/2008.
La licenza comunale prevista dal R.D. 18 giugno 1931 è stata abrogata dalla Legge 24
novembre 2000, n. 340.
Lettera d’assunzione Una volta assunto il dipendente dobbiamo sottoscrivere e far sottoscrivere una dichiarazione
dalla quale risultino tutti gli elementi fondamentali del rapporto (durata, orario, retribuzioni,
detrazioni spettanti).
La lettera di assunzione (o contratto individuale) non può derogare alla legge, ma può
contenere disposizioni in melius rispetto al contratto collettivo (ossia, oltre le condizioni minime di
trattamento economico e normativo contenute nel contratto collettivo, il contratto individuale può
stabilire ulteriori condizioni, ma solo a patto che siano più favorevoli per il lavoratore).
Devono essere altresì elencati gli obblighi (dovere di diligenza, obbedienza e fedeltà, artt. 2104
e 2105 c.c.) le mansioni e le sanzioni del lavoratore.
È necessario, inoltre, che all’interno della lettera di assunzione vi siano specificati anche le
sanzioni a cui il lavoratore andrebbe in contro a causa della violazione degli obblighi contrattuali,
nonché la procedura per la contestazione delle stesse.
Questi ultimi elementi sono importanti in quanto in caso di richiamo è necessario che ci sia
prova certa che il lavoratore conosca ciò che rientra nei suoi doveri contestualmente
all’assunzione, anche al fine di evitare il ricorso all’Autorità Giudiziaria.
Iscrizione del lavoratore nel libro unico del lavoro gestito telematicamente dal consulente Al fine dell’assolvimento dell’obbligo previsto dalla normativa vigente. Il libro in questione è un
libro che le aziende sono tenute ad istituire e a conservare e nel quale vanno iscritti i lavoratori
assunti, gli stessi vanno inseriti seguendo una numerazione progressiva ed in ordine cronologico di
assunzione (per data). Inoltre debbono essere annotate le detrazioni annuali spettanti al
lavoratore, le quali possono essere trascritte globalmente riferendole all’ammontare annuo se
dettagliate nel libro delle retribuzioni (cedolini paga). Il libro non può contenere spazi in bianco e le
correzioni debbono essere fatte in modo tale da lasciare leggibile ciò che si è cancellato. Va
conservato 10 anni dopo l’ultima scrittura.
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Libro degli infortuni Deve essere conservato presso il datore di lavoro. La vidimazione viene effettuata presso l’ASL
di competenza e conservato per quattro anni dalla data dell’ultima registrazione.
11.5 - INAIL (Istituto Nazionale Assicurazioni Infortuni sul Lavoro)
La gestione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sui luoghi di lavoro e le malattie
professionali è affidata all’INAIL. Si tratta di un ente pubblico non economico a carattere
nazionale, erogatore di servizi, che opera sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro e Previdenza
Sociale.
Il Testo Unico in materia di infortuni sui luoghi di lavoro (DPR 30 giugno 1965, n. 1124) obbliga
all’assicurazione in questione, tutti quei soggetti che svolgendo attività lavorativa possono
incorrere in infortuni e più precisamente:
1. Coloro che in modo permanente o avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui
opera manuale retribuita, qualunque sia la forma retributiva.
2. Coloro che trovandosi nelle condizioni di cui al precedente n. 1 anche senza partecipare
materialmente al lavoro, sovrintendono a quello altrui.
3. I soci che partecipano all’attività della ditta associante.
Elementi che devono ricorrere affinché l’infortunio si possa qualificare come professionale sono:
a) La causa violenta;
b) L’occasione di lavoro (rischio generico – quello che corre ogni individuo; rischio specifico –
quello che corre il soggetto in particolari condizioni);
c) Una menomazione della capacità lavorativa del soggetto temporanea o permanente assoluta o
parziale.
La differenza tra infortunio e malattia professionale sta nella modalità della causa: l’infortunio,
causa concentrata nel tempo, violenta, immediata. La malattia professionale, causa lenta che si
verifica con il tempo, agendo sull’organismo dell’individuo.
I premi da versare all’istituto vengono calcolati a partire da una base minimale prevista
dall’INAIL stessa, affinché il versamento del premio effettuato dal datore di lavoro sia
matematicamente ed economicamente sufficiente a risarcire il danno occorso al lavoratore.
Una volta fissati gli elementi (tasso in funzione del rischio assicurato e retribuzioni imponibili)
l’INAIL si limita ad inviare ad ogni datore di lavoro il prospetto di autoliquidazione con le basi del
calcolo del premio ed è il datore di lavoro stesso che calcola quanto deve sia come “regolazione”
dell’anno precedente sia come rata di premio anticipata per l’anno in corso. Si deve provvedere
entro il 16 febbraio di ogni anno al pagamento ed entro il 31 marzo all’invio telematico. Resta salvo
il potere di controllo e verifica da parte dell’INAIL.
Contro le applicazioni delle tariffe il datore di lavoro può ricorrere entro 30 giorni dalla data di
comunicazione del provvedimento al Consiglio di Amministrazione dell’INAIL.
I crediti vantati dall’INAIL nei confronti dei debitori si prescrivono nel termine dei 5 anni.
Quando occorre un infortunio al soggetto assicurato, le prestazioni economiche che l’istituto
eroga vengono accreditate lasciando delle percentuali a carico del datore di lavoro in funzione del
tempo trascorso sotto infortunio dal lavoratore e calcolate come segue:
1° giorno
100% a carico del datore di lavoro salve migliori condizioni dei
CCNL
2°-3° giorno
60% a carico del datore di lavoro
dal 4° al 90° giorno60% a carico INAIL della retribuzione media dei 15 giorni
infortunio
precedenti
dal 91° giorno
75% a carico INAIL della retribuzione media dei 15 giorni
precedenti
l'infortunio
Per vedersi riconosciuta un’invalidità permanente il lavoratore deve riportare residuati postumi
permanenti e l’attitudine al lavoro deve essere inficiata per una percentuale superiore al 10% della
sua capacità lavorativa totale.
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La rendita sarà calcolata:
1) Previa valutazione medico legale del danno;
2) Tenendo conto delle retribuzioni percepite dal lavoratore nei 12 mesi precedenti l’infortunio
(compresa la 13a). Nel caso di minor periodo lavorativo la retribuzione si calcola pari a 300
volte la retribuzione giornaliera.
Altre prestazioni erogate dall’Istituto: Rendita provvisoria; revisione e capitalizzazione della
rendita; assegno per assistenza personale continuativa; rendita ai superstiti; assegno funerario di
passaggio.
11.5.1 - La denuncia di infortunio
L’art. 52 del T.U. 1124/65 prevede che il lavoratore dia immediata notizia dell’infortunio al
datore di lavoro; per le malattie professionali il termine è di giorni 15. Il diritto alle prestazioni si
perde per le denuncie fatte dopo 3 anni dall’evento lesivo.
Il datore di lavoro ha l’obbligo di denunciare l’infortunio all’INAIL entro 2 giorni da quello in cui
ne ha avuta notizia a mezzo del certificato medico. La denuncia va compilata su apposito modello.
In caso di morte del lavoratore la denuncia va fatta a mezzo telegramma entro 24 ore dall’evento.
Per le malattie professionali la denuncia va presentata dal datore di lavoro entro 5 giorni successivi
a quello in cui il lavoratore ha informato il datore di lavoro.
La c.d. inchiesta pretorile Ogni datore di lavoro deve dare notizia all’autorità di P.S. di ogni infortunio che abbia durata
superiore a 3 giorni. L’autorità di P.S. in caso di infortunio mortale o con inabilità superiore a 30
giorni ne informa la Direzione Provinciale del Lavoro che può procedere ad inchiesta al fine di
verificare le modalità dell’infortunio (D.Lgs. n. 51 del 1998), anche su richiesta dell’INAIL o
dell’infortunato. La procedura d’urgenza è richiesta dall’Istituto alla Direzione Provinciale del
Lavoro quando questo ritiene che l’infortunio sia dovuto a dolo dell’infortunato o lo stesso abbia
aggravato le conseguenze.
11.5.2 - La denuncia di esercizio
Il proprietario di fabbricato che vuole assumere lavoratori dipendenti deve denunciare l’esercizio
all’Istituto contestualmente all’instaurazione del rapporto (o alla cessazione). Ai fini della denuncia
rileva la data di effettivo inizio dell’attività lavorativa a prescindere dalla data di assunzione
presente sul contratto di lavoro stipulato. In via generale la contestualità della denuncia non
esclude che la stessa possa essere fatta anticipatamente.
La denuncia deve essere fatta attraverso il canale telematico dell'INAIL.
Assegnato il numero di posizione assicurativa l’INAIL comunica il grado del rischio ed il premio
relativo in funzione dell’attività dichiarata. Ogni variazione e modifica nell’estensione del rischio va
comunicata entro 30 giorni cosi come la cessazione dell’attività.
11.6 - Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS)
E’ l’ente di diritto pubblico incaricato di gestire le Assicurazioni Generali Obbligatorie (AGO).
Queste assicurazioni sono: l’Indennità Vecchiaia per i lavoratori e Superstiti (I.V.S.); la
disoccupazione involontaria; la malattia (ordinaria e specifica-TBC); la maternità; l’indennità di
mobilità; l’integrazione salariale ordinaria e straordinaria; gli Assegni per il Nucleo Familiare
(A.N.F.). L’istituto accerta e riscuote i contributi delle gestioni affidategli.
L’Istituto gestisce inoltre la cosidetta Gestione Separata (relativa a lavoratori autonomi e
parasubordinati), operativa dal 1° aprile 1996 per i non iscritti ad altre forme di previdenza e dal 30
giugno 1996 per gli iscritti ad altre forme di previdenza e per i già pensionati.
La domanda di iscrizione all’INPS deve essere compilata on-line e trasmessa telematicamente.
L’INPS in funzione dell’iscrizione comunicherà il settore di appartenenza ed assegnerà il numero di
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matricola che è un numero composto di dieci caratteri numerici dei quali i primi due indicano la
sede provinciale i successivi sei sono numeri progressivi e gli ultimi due il settore. L’Istituto
provvederà ad attribuire anche il Codice Statistico Contributivo (C.S.C.) che è composto di 5
caratteri numerici dove il primo indica il ramo di inquadramento (industria, artigianato, commercio,
ecc..) il secondo ed il terzo la classe nell’ambito del ramo (es: ramo – industria ; classe – tessile), il
quarto ed il quinto la categoria specifica di attività nell’ambito della classe e del ramo.
Per i proprietari di fabbricati il C.S.C. è: 70600 oppure 70601.
11.6.1 - Imponibile contributivo INPS
Ai fini della determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed
assistenza si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro
o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza dal rapporto di lavoro”.
La base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza e dei premi INAIL è
individuata con riferimento alla normativa fiscale. Le nuove disposizioni hanno fissato il principio in
base al quale i redditi qualificati come di lavoro dipendente dal punto di vista fiscale sono
considerati allo stesso modo dal punto di vista contributivo/previdenziale.
La retribuzione da prendere come base non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni
stabilite da leggi, regolamenti o contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative sul piano nazionale, riconoscendo forza erga omnes alla
contrattazione collettiva, ai fini del calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Le retribuzioni devono essere confrontate con i minimali di legge ai fini contributivi. Qualora la
retribuzione effettivamente corrisposta sia superiore ai minimi giornalieri di legge resta confermata,
altrimenti deve essere adeguata ai predetti minimi.
11.6.2 - La liquidazione delle prestazioni da parte del datore di lavoro
Sono quelle che il datore di lavoro è tenuto a liquidare e ad anticiparne il pagamento al
lavoratore per conto dell’INPS, e che, all’atto del versamento dei contributi “conguaglia” con le
somme dovute, esponendo i relativi codici ed importi sul modello di denuncia aziendale mensile
(UNIEMENS).
Si tratta di assegni integrativi o sostitutivi di tutta o di parte della retribuzione per eventi o
condizioni soggettive, la cui gestione economica è affidata al datore di lavoro oltre che per evidenti
motivi
pratici
in
ossequio
al
principio
dell’integrità
della
retribuzione
(ANF
malattia/maternita’/integrazioni salariali).
L’assegno per il nucleo familiare spetta per intero purchè si sia lavorato nel mese almeno 104
ore mensili per gli operai e 130 per gli impiegati. Al di sotto di tale soglia l’A.N.F. sarà giornaliero. I
lavoratori part-time devono aver lavorato almeno 24 ore settimanali. L’A.N.F. non è assoggettabile
a prelievo né fiscale né previdenziale.
La malattia E’ qualsiasi evento morboso che comporti l’incapacità temporanea al lavoro. La gestione
dell’indennità per i profili A), C), D), è passata alla competenza delle specifiche Casse previste dai
CCNL. Tali prestazioni sono erogate dal datore di lavoro per conto della cassa la quale provvede,
terminato l’evento, a rimborsare quanto anticipato.
Il lavoratore ammalato è tenuto a trasmettere, a mezzo racc. A.R., o a recapitare, entro due
giorni dalla data del rilascio, il certificato medico e l’attestazione rispettivamente alla Cassa
anzidetta ed al proprio datore di lavoro. L’indennità spetta dal:
- 1° giorno per malattia di durata continuativa da 15 a 180 giorni;
- 4° giorno per malattia di durata continuativa sino a 14 giorni;
Per il profilo B) la malattia è gestita dall'Inps.
L’inizio della malattia è dichiarato sul certificato medico, dallo stesso lavoratore e, solitamente,
coincide con il giorno della visita medica (e quindi di redazione del certificato), ma può anche
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essere il giorno immediatamente precedente. In caso di omessa indicazione della data di inizio il
quarto giorno si computa dalla visita medica. In presenza di ricaduta accertata dal medico curante
entro 30 giorni dalla conclusione del primo periodo di malattia, non si applica la carenza.
Il lavoratore ammalato ha l’obbligo della reperibilità durante le fasce orarie 10-12 e 17-19 per
permettere le visite di controllo domiciliari effettuate su richiesta del datore di lavoro o su iniziativa
della Cassa.
La maternità La tutela della maternità si concretizza, oltre che con la difesa dell’integrità fisica che prevede
l’interdizione obbligatoria pre e post-parto, anche con la corresponsione di tre tipi di indennità
connesse a tre fasi concatenate:
– Astensione obbligatoria;
– Astensione facoltativa;
– Permessi per allattamento durante il primo anno di vita del bambino.
L’indennità di maternità compete alle lavoratrici nei confronti delle quali risultino esistenti
all’inizio del periodo di assenza obbligatoria dal lavoro le seguenti condizioni: accertato stato di
gravidanza e rapporto di lavoro con corresponsione in atto della retribuzione.
L‘astensione obbligatoria è prevista nei primi due mesi anteriori al parto più eventuale
interdizione dal lavoro riconosciuta dall’Ispettorato, più l’eventuale periodo intercorrente tra la data
presunta del parto e quella effettiva. Analoga astensione per i tre mesi successivi al parto.
L’astensione facoltativa spetta per la durata massima di 11 (undici) mesi fruibili ininterrottamente o
in maniera frazionata, entro otto anni di età del bambino o dal suo ingresso nella famiglia in caso di
affidamento provvisorio (non maggiore di 3 anni).
Astensione obbligatoria: 80% della retribuzione media giornaliera lorda dell’ultimo mese
lavorato. Astensione facoltativa: 30% della retribuzione media giornaliera lorda, con esclusione dei
ratei delle competenze ultramensili, per un periodo massimo complessivo tra i genitori, di sei mesi,
entro il terzo anno di età dl bambino (in caso di adozione o affidamento, entro tre anni dall’ingresso
in famiglia).
In caso di superamento dei sei mesi e dal compimento del terzo anno fino al compimento degli
otto anni di età del bambino, l’indennità spetta a condizione che il reddito individuale del genitore
richiedente non superi due volte e mezzo l’importo del trattamento minimo pensionistico in vigore a
quella data. La domanda va presentata all’INPS e al datore di lavoro.
E’ d’obbligo per il datore di lavoro corrispondere acconti pari ad almeno il 50% della retribuzione
percepita dalla lavoratrice il mese precedente l’astensione obbligatoria.
Le somme anticipate dal datore di lavoro sono poste a conguaglio sul DM 10/02.
11.6.3 - Il versamento e l’accredito dei contributi
Il corretto assolvimento degli obblighi contributivi presuppone come abbiamo già visto, l’esatta
individuazione della base retributiva imponibile sulla quale applicare le aliquote in vigore per i
specifici periodi di riferimento, tenuto conto, altresì, dei minimali di retribuzione vigenti. Dopo aver
determinato le somme dovute occorre procedere alla liquidazione totale dei contributi tenendo
conto delle somme anticipate per conto dell’istituto.
Dopo tale operazione può verificarsi che la differenza sia una somma da versare oppure che
l’azienda abbia titolo ad un rimborso, avendo anticipato per prestazioni più di quanto è tenuta a
versare. L’esposizione di questi dati si effettua sui modelli DM 10/02.
Il condominio quando assume lavoratori dipendenti ha l’obbligo di iscriversi all’INPS che è l’ente
di diritto pubblico incaricato di gestire le assicurazioni suddette. Detto adempimento deve essere
fatto entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui è scaduto il primo periodo di
retribuzione.
11.6.4 - La retribuzione
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Di retribuzione si occupa, all’interno dell’Ordinamento italiano, la Costituzione all’art. 36, comma
1, che stabilisce che il lavoratore deve essere retribuito proporzionalmente al lavoro svolto e
sufficientemente per poter aver una esistenza “libera e dignitosa“.
La retribuzione non è quindi mero corrispettivo dell’adempimento dell’attività, ma dell’impegno
profuso personalmente nell’attività, tant’è che il lavoratore viene retribuito anche quando non
adempie all’obbligazione (ferie, permessi..); la disciplina legale o contrattuale, infatti, impone al
datore di lavoro di retribuire comunque il lavoratore anche se questo non effettua la
controprestazione, contrariamente a quanto normalmente avviene nei contratti sinallagmatici.
I principi costituzionali sanciti espressamente dall’art. 36 della Costituzione sono la
proporzionalità e la sufficienza.
Sufficienza: al lavoratore deve essere garantita una retribuzione che possa attuare il
programma sociale individuato dall’art. 3 della Costituzione, proporzionata anche alle concrete
esigenze del singolo lavoratore e della propria famiglia.
Proporzionalità: la quantità dell’ammontare della retribuzione non è relazionata soltanto al
tempo del lavoro svolto, ma anche dalla qualità della prestazione in termini di difficoltà, importanza
e complessità, nonché di responsabilità.
Il Codice Civile all’art. 2121 definisce la retribuzione (ai fini del calcolo dell’indennità di mancato
preavviso) come “le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili e ai prodotti ed
ogni altro compenso di carattere continuativo, con l’esclusione di quanto è corrisposto a titolo di
rimborso spese”.
La giurisprudenza, invece, nel ricostruire il concetto di retribuzione, si è consolidata attorno al
c.d. concetto unitario o onnicomprensivo di retribuzione: sarebbero voci retributive tutti i compensi
erogati dal datore di lavoro in modo determinato (in misura fissa o variabile), obbligatorio (escluse
le liberalità), corrispettivo (in correlazione causale con il rapporto di lavoro) e continuo (cioè con
regolarità).
La retribuzione minima dei dipendenti dei proprietari dei fabbricati è determinata in base a
quanto stabilito dai CCNL come riportato in tabelle allegate agli stessi.
La retribuzione può avvenire in denaro ed in natura.
Alla retribuzione ordinaria vanno aggiunte le competenze che maturano anche in caso di
assenze giustificate (13a, ferie, permessi, trattamento di fine rapporto).
Di seguito vengono elencati gli elementi della retribuzione e la loro imputabilità ai fini
previdenziali, fiscali ed ai fini della maturazione del Trattamento di Fine Rapporto (T.F.R.):
VOCE
Salario
Indennità di scala mobile
Indennità supplementari
Indennità di alloggio (1)
Lavoro straordinario (2)
Indennità di esazione
Assegni di malattia
Assegni di maternità INPS
Assegni di infortunio INAIL
Giorni di carenza di malattia
Permessi non goduti
13a mensilità
Preavviso lavorato
Indennità sostitutiva di preavviso
Liquidazione T.F.R.
Corso di formazione professionale
INPS
100%
100%
100%
100%
100%
100%
0
0
0
100%
100%
100%
100%
100%
0
IRPEF
TFR
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
Solo se continuo
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
100%
0
100%
100%
100%
100%
Tassaz. Separata
0
Tassaz. Separata
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Note
1. per i fabbricati concessi ai portieri si deve calcolare il 30% della rendita catastale dell’immobile
aumentandola di tutte le spese inerenti comprese le utenze non a carico del dipendente (si
considera il reddito figurativo se superiore ad euro 258,23 annue)
2. non consentito per i portieri con alloggio (va recuperato in ore)
La contribuzione dovuta all’INPS Sulla base della retribuzione mensile come sopra determinata, che non può essere inferiore al
minimale stabilito, si deve versare attraverso la delega di pagamento F24 e descritta sul mod.
DM10/2.
I contributi sono i seguenti:
Di cui a carico del lavoratore
Operai 40,27%
9,19%
Portieri 37,13%
8,84%
Evidenziazione dei lavoratori sul DM10/2 – PORTIERI
nella casella OPERAI
– PULITORI (tempo pieno)
nella casella OPERAI
– PULITORI (part-time)
1° rigo bianco) cod.194
11.7 - La tassazione IRPEF sui redditi di lavoro dipendente
Il condominio è sostituto di imposta con obblighi di accertamento, dichiarazione e liquidazione
delle imposte sul reddito delle persone fisiche; tutte le retribuzioni devono essere assoggettate a
tassazione mensilmente con trattenuta da quanto corrisposto al lavoratore in ciascun periodo di
paga.
La tassazione viene determinata sull’imponibile dato dalla retribuzione lorda al netto di quanto
trattenuto per quota a carico del lavoratore dovuta all’INPS.
Una volta quantificato l’imponibile fiscale (reddito complessivo meno gli oneri deducibili e la
rendita per l’abitazione principale), per ottenere l’imposta lorda occorre applicare a detto importo
l’aliquota corrispondete alla fascia di reddito determinata moltiplicando l’aliquota IRPEF per il
reddito imponibile (dato dal reddito complessivo a cui si sottraggono gli oneri deducibili e la rendita
per l’abitazione principale). In seguito alla tassazione lorda si sottraggono le detrazioni (per
tipologia di reddito, per familiari a carico, per oneri sostenuti ecc.) e si ottiene la tassazione netta.
–
=
x
=
–
Mensilmente la ritenuta così determinata, viene operata sulla busta paga del lavoratore e
versata con la delega F24 riportando il codice tributo 1001, entro il giorno 16 del mese successivo
a quello di pagamento della retribuzione. Non c’è obbligo di versamento con modalità telematiche.
Entro il 15 marzo di ogni anno per l’anno appena trascorso il datore di lavoro dovrà consegnare
ai dipendenti il modello C.U.D. riepilogante i compensi corrisposti, le ritenute operate e le
detrazioni riconosciute nonché l’ammontare assunto per imponibile del trattamento di fine rapporto.
Il modello C.U.D. relativo alle somme corrisposte nell’anno precedente ha anche la funzione di
riepilogativo contributivo consegnato al dipendente in quanto figurano gli imponibili contributivi, i
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mesi lavorati, le assicurazioni sociali, il tipo di rapporto e quant’altro necessario al rapporto con
l’INPS.
Entro il 28 febbraio dell’anno successivo si deve effettuare il conguaglio di fine anno per tutti i
redditi percepiti dal lavoratore fino al 12 gennaio prendendo per base tutte le retribuzioni imponibili
fiscalmente sommando tutte le eventuali indennità corrisposte per infortunio e/o malattia e
considerando le detrazioni anzidette. Si dovrà altresì provvedere a determinare l’addizionale
regionale e, se deliberata dal comune di residenza del lavoratore, l’addizionale comunale che
dovranno essere versate in 11 rate mensili uguali e successive.
11.8 - La risoluzione del rapporto di lavoro
Il rapporto di lavoro si può risolvere per estinzione o per risoluzione. Si estingue quando la
causa si è realizzata in pieno (esempio: rapporto di lavoro a tempo determinato per sostituzione
del lavoratore in ferie). Quando invece intervengono degli elementi “perturbatori” la causa non si
realizza e si ha la risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta o per inadempimento
della prestazione.
Per definire la cessazione del rapporto di lavoro, va chiarito che se la cessazione proviene dal
datore di lavoro parleremo di licenziamento, se proviene dal lavoratore di dimissioni.
Nei contratti a tempo determinato, sia il licenziamento che le dimissioni, devono essere
preceduti dal preavviso. Le cause che fanno cessare un rapporto di lavoro a tempo determinato
possono essere:
– La scadenza del termine;
– Il compimento del lavoro;
– La risoluzione legale;
– Il recesso per giusta causa;
– Il recesso per giustificato motivo.
Il rapporto a tempo indeterminato è visto con maggior favore sia dal legislatore, sia dalla
contrattazione collettiva perché garantisce la conservazione del posto, la maturazione di una
maggiore indennità di anzianità o trattamento di fine rapporto.
11.8.1 - Il licenziamento
La motivazione più frequente del licenziamento riguarda comportamenti colposi o dolosi del
lavoratore, la cui gravità non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro per via della lesione
del vincolo fiduciario. In relazione alla gravità della condotta, nel diritto italiano si distingue
tradizionalmente tra licenziamenti per “giusta causa” e per “giustificato motivo”.
– giusta causa: un concetto usato dal codice civile italiano (art. 2119 c.c.) per riferirsi ad un
comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure a titolo
provvisorio (in sostanza: neppure per il tempo previsto per il preavviso di licenziamento). In
queste ipotesi, il datore può licenziare in tronco, senza dare alcun preavviso.
– giustificato motivo soggettivo: è un’ipotesi meno grave di inadempimento degli obblighi
contrattuali, che giustifica il licenziamento ma con l’obbligo da parte del datore di lavoro di
concedere il preavviso previsto (ovvero di pagarne il relativo ammontare).
– giustificato motivo oggettivo: è reso necessario da una riorganizzazione del lavoro, da ragioni
relative all’attività produttiva (innovazioni tecnologiche, modifica dei cicli produttivi, ecc.), ovvero
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da una crisi aziendale. Nelle ipotesi, cioè, in cui l’azienda, per vari motivi, non ricava più utilità
dal lavoro svolto da quel dipendente, o, in generale, da una categoria di dipendenti. Per ragioni
di natura economica o tecnica, il datore può quindi decidere di licenziare uno o più lavoratori.
Il licenziamento può essere impugnato con qualsiasi atto scritto entro 60 giorni. Il lavoratore può
chiedere la specifica dei motivi che hanno determinato il suo licenziamento e quindi ci sono delle
garanzie per la conservazione del posto; non solo, ma può esserci la reintegrazione nel posto di
lavoro quando il Giudice del Lavoro, una volta adito, dovesse riscontrare che non era previsto
come giustificato motivo o giusta causa l’allontanamento del lavoratore.
Il preavviso è un atto dovuto ed è determinato dall’anzianità di servizio del lavoratore, dalla
qualifica e dall’età. Il preavviso è obbligatorio tranne che nel periodo di prova. Una risoluzione
anticipata prevede il pagamento al lavoratore di un indennità sostitutiva.
11.8.2 - Tutela obbligatoria contro i licenziamenti illegittimi
Qualora il licenziamento dichiarato illegittimo, a seguito di ricorso giudiziale, sia stato intimato
da aziende di dimensioni ridotte (sino a 15 dipendenti), come nella quasi totalità dei condomini, la
sentenza stabilisce un obbligo alternativo in capo al datore di lavoro (art. 8 legge n. 604/66), il
quale può scegliere tra:
– riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza;
– ovvero pagare all’ex dipendente una indennità risarcitoria, compresa tra 2,5 e 6 mensilità
(estensibile sino a 10 per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, e fino a 14 per i
dipendenti in servizio da più di venti anni). La misura dell’indennità è stabilita dal giudice sulla
base dell’anzianità di servizio, delle dimensioni aziendali, nonché al comportamento tenuto dalle
parti.
11.8.3 - Le dimissioni
Le dimissioni sono l’atto con cui un lavoratore dipendente recede unilateralmente dal contratto
che lo vincola al datore di lavoro.
Nell’ordinamento italiano, le dimissioni si configurano come una facoltà del lavoratore, che può
essere esercitata senza alcun limite, con il solo rispetto dell’obbligo di dare il preavviso così come
stabilito dai contratti collettivi.
L’atto ha effetto al momento in cui viene a conoscenza del datore di lavoro. Non rileva in alcun
modo l’eventuale dissenso del datore. L’eventuale revoca delle dimissioni è efficace, secondo le
regole generali (art. 1328 c.c.), solo se è comunicata al datore di lavoro prima che quest’ultimo
abbia avuto notizia dell’atto di recesso.
L’ordinamento italiano non prevedeva forme particolari per le dimissioni, che potevano, quindi,
essere presentate anche oralmente. I requisiti di forma sono, però, spesso dettati dai contratti
collettivi, che possono imporre l’onere della forma scritta a tutela del lavoratore.
11.8.4 - Il trattamento di fine rapporto
In tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro subordinato deve essere corrisposto al
lavoratore il trattamento di fine rapporto.
Il calcolo deve essere aggiornato annualmente per poter individuare la rivalutazione del TFR
(75% aggiornamento ISTAT + misura fissa 1,50%) da assoggettare ad imposta sostitutiva 11% da
imputare a riduzione dello stesso accantonamento.
L’imposta deve essere versata annualmente (anche se il rapporto di lavoro continua) entro il 16
dicembre in acconto sul 90% della rivalutazione maturata nell’anno di riferimento ed il saldo entro
il 28 febbraio successivo.
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11.9 - L’Amministratore/datore di lavoro
L’Amministratore riveste la figura di datore di lavoro di ogni figura assunta alle dirette
dipendenze del condominio. Da ciò derivano, ex lege, adempimenti, obblighi e responsabilità
propri della funzione assunta.
Si pensi per esempio alla Circolare esplicativa del Ministero del Lavoro n. 28 del 5 marzo 1997
che al punto n. 1 individua come datore di lavoro l’amministratore pro tempore che ha alle sue
dipendenze lavoratori subordinati: e tali sono non soltanto quelli stricto sensu intesi, ma anche i
lavoratori con rapporto contrattuale privato di portierato e “tutti i lavoratori subordinati che prestino
la loro attività nell’ambito di un condominio, con mansioni affini a quelle dei portieri” (nel
disimpegno del servizio di pulizia-scale, o di quello di giardinaggio, ecc.), beninteso restando
esclusi coloro i quali “prestino la loro attività con contratto di lavoro autonomo”.
11.9.1 - Adempimenti, obblighi
Gli adempimenti che l’amministrazione condominiale deve mettere in atto sono quelli tipici del
datore di lavoro nei confronti del lavoratore dipendente: dalla lettera di assunzione, alla
sottoscrizione del contratto di lavoro, sino a quelli previdenziali e fiscali (vedi sub. 11.4).
Gli obblighi dell’amministratore/datore di lavoro nei confronti dei lavoratori subordinati sono
essenzialmente:
– Obbligo di corrispondere il trattamento economico e normativo dovuto: e cioè la retribuzione
(art. 2099 c.c.), con i relativi accessori, e di provvedere agli obblighi previdenziali e assistenziali
previsti dalla legge e dal contratto collettivo;
– Obbligo di sicurezza: il datore di lavoro (ex art. 2087 c.c.) è tenuto ad adottare nell’esercizio
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L’ultima
norma in merito di sicurezza sui posti di lavoro è il D.Lgs. 81/2008 che stabilisce gli
adempimenti obbligatori del datore di lavoro;
– Obbligo di tutelare la riservatezza del lavoratore: dovere impedire a terzi l’accesso si dati
personali riservati del prestatore di lavoro (le sue opinioni politiche, sindacali o religiose) così
come statuito dal D.Lgs. 196/2003 in analogia all’art. 8 della legge n. 300 del 20 maggio 1970
(Statuto dei lavoratori);
– Obbligo di informazione: nei confronti del prestatore di lavoro (al quale devono essere
comunicati qualifica, mansioni, periodi di ferie, prospetto paga ecc.), e nei confronti del
sindacato che deve essere informato non solamente sul rapporto di lavoro in corso di
svolgimento, ma anche sulla gestione complessiva;
– Obbligo di accertamenti sanitari: prima dell’assunzione o in costanza di rapporto nei casi in cui
la legge ne preveda la sorveglianza obbligatoria.
11.9.2 - Responsabilità civile e penale
La violazione di obblighi summenzionati può essere fonte sia di responsabilità civile (di natura
contrattuale nei confronti del condominio, di natura extracontrattuale nei confronti dei terzi
danneggiati), sia di responsabilità penale (principalmente in merito alla sicurezza) nel caso
dell’insorgere di una situazione di pericolo che l’amministratore/datore di lavoro ha l’obbligo di
eliminare.
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La giurisprudenza penale, ha spesso analizzato le responsabilità dell’amministratore, con
particolare riferimento ai reati che trovano fondamento nell’art. 40, comma2, del Codice Penale:
“non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.
Il risultato è che l’amministratore è penalmente responsabile in tutti quei casi in cui non si attivi
con la necessaria urgenza per rimuovere quelle situazioni di pericolo per l’incolumità delle
persone, derivante, per esempio dalla rovina delle parti comuni dello stabile (Cass. Pen., sez. I, 20
novembre 1996, n. 9866).
L’amministratore è infatti titolare “ope legis”, non solo del dovere di erogazione delle spese
attinenti alla manutenzione ordinaria e alla conservazione delle parti e servizi comuni dell’edificio,
ai sensi dell’art. 1130 nn. 3 e 4 c.c., ma anche del potere di “ordinare lavori di manutenzione
straordinaria che rivestano carattere urgente” con l’obbligo di “riferirne nella prima assemblea dei
condomini”, ai sensi dell’art. 1135 comma 2 c.c., di talché deve riconoscersi in capo allo stesso
l’obbligo giuridico di attivarsi senza indugio per la eliminazione delle situazioni potenzialmente
idonee a cagionare la violazione della regola del “neminem laedere” ex art. 2043 c.c. (Cass. Pen.,
sez. I, 25 febbraio 2003, n. 9027).
11.9.3 Il potere disciplinare
Il potere disciplinare indica la facoltà del datore di lavoro di irrogare sanzioni al lavoratore che
venga meno ai suoi doveri contrattuali, e precisamente agli obblighi di diligenza, obbedienza e
fedeltà, sanciti dagli artt. 2104 e 2105 del c.c..
In tal senso detto potere assume una funzione preventiva diretta a ristabilire, con immediatezza
e celerità, l’ordinato svolgimento dell’attività lavorativa turbato dalle inadempienze del lavoratore.
I presupposti che condizionano il legittimo esercizio del potere disciplinare sono
– la sussistenza e l’imputabilità del fatto: l’onere della prova in ordine alla sussistenza del fatto
spetta al datore. Qualora il prestatore ritenga che il fatto contestatogli non gli sia imputabile (ad
es. per forza maggiore, caso fortuito, condotta di terzi, ecc.), è tenuto a dimostrare le ragioni
della non imputabilità .;
– l’adeguatezza della sanzione: il requisito della proporzionalità, previsto dall’art. 2106 c.c., vieta
al datore di lavoro di applicare sanzioni non proporzionate all’indebito contestato. Di norma i
contratti collettivi prevedono le sanzioni comminabili a fronte di determinate condotte illegittime.
In questo caso, il datore non può applicare sanzioni più gravi di quelle stabilite dalla
contrattazione collettiva;
– i limiti alla rilevanza della recidiva: ovvero l’impossibilità di prendere in considerazione
precedenti sanzioni disciplinari dopo 2 anni dalla loro applicazione;
– la determinazione del codice disciplinare e la sua affissione in luogo accessibile a tutti i
lavoratori, ovvero previsione di comportamenti cui consegue una sanzione.
Tipi di sanzione La tipologia delle sanzioni, così come ricavata dalla prassi contrattuale prevede:
– il richiamo verbale;
– l’ammonizione scritta;
– la multa: non può essere comminata per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base;
– la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione: non può essere disposta per un periodo
superiore a 10 giorni;
– il licenziamento (cosiddetto disciplinare).
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Procedura Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore
senza avergli preventivamente contestato l’addebito e specificato i fatti imputati con precisione.
Dopo la contestazione dell’addebito il datore è tenuto a sentire oralmente il lavoratore che ne
faccia richiesta e a ricevere le sue eventuali difese scritte concedendogli un termine non inferiore a
5 giorni.
Il lavoratore può tutelarsi nei confronti del provvedimento disciplinare con un ricorso al Tribunale
in funzione di Giudice del Lavoro (dopo aver esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione), con
una procedura arbitrale preso la Direzione provinciale del lavoro, ovvero con analoghe procedure
arbitrali previste nel C.C.N.L.
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MODULO 12
Problematiche fiscali
(Pietro Abbiati)
12.1 - La posizione del condominio nell’ambito tributario
Il condominio, quale ente di gestione di una comproprietà immobiliare verticale, privo di una
propria autonomia economica e di una attività, assume la qualifica di dichiarante reddituale o
debitore d’imposta solo in alcune situazioni.
Per disposizione di alcuni provvedimenti legislativi, emanati a livello nazionale o da organi
amministrativi locali, esso è stato raggiunto da compiti, sia di natura prettamente amministrativa a
nome e nell’interesse dei condomini, sia quale dichiarante d’imposta, sia quale debitore d’imposta
a tutti gli effetti.
In questa sede sono trattate le situazioni ritenute più ricorrenti, alle quali conseguono
l’attuazione di formalità collegate, o comunque connesse, ad obbligazioni tributarie.
12.2 - Attribuzione del numero di codice fiscale
Il compito primario imposto dall’anagrafe tributaria, apparato istituito con DPR 29 settembre
1973, n. 605, è quello della raccolta e della gestione dei dati e notizie che assumono valenza
tributaria e che sono ritenuti necessari per lo studio dei fenomeni fiscali.
Così, alla stregua delle persone fisiche, delle persone giuridiche, delle società di tipo personale,
delle associazioni, delle organizzazioni di persone o di beni, anche il condominio, benché
sprovvisto di alcuna autonomia, rientra tra i soggetti tenuti alla presentazione della domanda di
attribuzione del numero di codice fiscale.
La domanda, da presentare all’Agenzia delle Entrate utilizzando apposita modulistica
ministeriale e sottoscritta dall’amministratore del condominio in carica, deve contenere, oltre
all’eventuale denominazione del condominio, gli elementi soggettivi dell’amministratore quale
rappresentante dell’ente.
Non è previsto alcun termine, entro il quale richiedere l’attribuzione del numero ma è opportuno
modificarne il rappresentante legale in occasione di ogni nuova nomina. E' possibile verificare sul
sito telematici.agenziaentrate.gov.it/verificaCF la validità del codice fiscale con l'esatta intestazione
del condominio.
Tuttavia, poiché il codice fiscale deve essere indicato nei modelli di versamento delle ritenute
d’imposta, nella dichiarazione quale sostituto d’imposta (modello 770 semplificato), nonché in ogni
atto avente una valenza fiscale (tra i quali la registrazione dei contratti di locazione di parti
comuni), è bene che l’amministratore, all’atto della sua nomina, proceda a tale fine.
Non è da dimenticare che il numero di codice fiscale deve essere indicato, tra l’altro: in ogni atto
richiesto da leggi o regolamenti comunali in materia di edilizia; in alcuni contratti di assicurazione;
nei contratti di somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas.
Per quanto attiene le fatture destinate al condominio, anche se i fornitori normalmente
richiedono la conoscenza del codice fiscale del destinatario, è bene sapere che non è prevista
alcuna obbligazione giacché l’art. 6, comma 1, n. 1, del DPR 605/1973, prevede solo l’indicazione
del numero di codice fiscale dell’emittente.
Tuttavia l’errata indicazione del numero di codice fiscale, negli atti che lo richiedono, è punibile
con l’irrogazione della sanzione amministrativa da euro 103,00 ad euro 2.065,00.
12.3 - Imposta Comunale sugli Immobili – ICI
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Istituita con D.Lgs. 30 dicembre 1992 n. 504 a seguito del riordino della finanza degli enti
territoriali, avente l’effetto di consentire una parziale diretta gestione delle entrate, con decorrenza
dall’anno 1993, l’imposta comunale sugli immobili, rappresenta una delle principali fonti di
traslazione di alcune entrate dall’organo centrale a quello periferico.
Sotto l’aspetto soggettivo sono debitori d’imposta i proprietari di immobili, ovvero i titolari di diritti
reali di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, su un bene insistente sul territorio
nazionale.
A norma dell’ultima parte del comma 4 dell’art. 10 del suddetto D.Lgs, per gli immobili indicati
all’art. 1117 n.2) del C.C., oggetto di proprietà comune, la dichiarazione e il pagamento devono
essere eseguiti dall’amministratore del condominio per conto dei condomini.
Sono soggetti passivi anche coloro che, in quanto titolari di uno dei diritti sopra indicati, non
risiedono o non hanno la sede dei propri affari, ovvero non svolgono alcuna attività sul territorio
dello Stato italiano.
Dal punto di vista oggettivo, l’imposta colpisce tre tipologie di immobili: le unità immobiliari
iscritte o iscrivibili nel catasto edilizio urbano, a qualsiasi utilizzazione destinate, tranne i fabbricati
rurali (veri); le aree fabbricabili, vale a dire i terreni che, in base agli strumenti urbanistici generali o
attuativi sono atti allo sfruttamento edificatorio; i terreni agricoli, vale a dire gli immobili adibiti
all’esercizio della coltivazione del fondo, della silvicoltura e dell’allevamento degli animali, della
manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti
ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall’allevamento degli animali.
Nei confronti del condominio, l’imposta è dovuta alla presenza di unità censite o da censire in
catasto edilizio urbano, costituente parte comune ai sensi dell’art. 1117 n. 2 c.c., purché idonee ad
essere classificate con attribuzione individuale di rendita catastale.
Sono tali, l’alloggio del custode, normalmente censito con categoria A/3 (abitazione di tipo
economica) o A/4 (abitazione di tipo popolare); la cantina o il sottotetto comune, censito con
categoria C/2; il posto auto condominiale, censito con categoria C/6 o C/7, l’eventuale locale
lavanderia ad uso comune, l’autorimessa comune.
Per l’imponibilità è necessario ripetere che le suddette unità immobiliari debbano essere censite
o censibile in modo autonomo, dato che solo in tale fattispecie nasce il presupposto impositivo ed
è possibile determinare la base imponibile necessaria per la liquidazione dell’imposta.
Diversamente, nel caso in cui l’alloggio del custode, la cantina o il sottotetto comune o il posto
auto condominiale, ovvero il locale lavanderia, siano considerati pertinenze alle abitazione dei
singoli partecipanti al condominio e concorrano a quantificare la rendita attribuita alle singole
porzioni del fabbricato, di proprietà individuale, nessuna debenza ICI è dovuta dal condominio.
Ove sussiste presupposto d’imposta, la base imponibile corrisponde al risultato della
moltiplicazione della rendita catastale attribuita, maggiorata del 5% (cfr. art.3 L. 23-12-1996, n.
662), per il moltiplicatore vigente al 1° gennaio dell’anno di imposizione.
Ad aprile 2009, per le unità classificate nelle categorie “A” (con esclusione della A/10) e “C”, la
rendita risultante a Catasto Urbano, maggiorata del 5%, diviene base d’imposta utilizzando il
moltiplicatore 100.
Se la porzione appartiene a fabbricato di interesse storico od artistico (riconosciuto tale con
provvedimento della sovrintendenza a sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42),
indipendentemente dalla classificazione catastale, per la quantificazione della base imponibile
sulla quale liquidare l’imposta, si utilizza la rendita determinata mediante l’applicazione della tariffa
d’estimo, di minore ammontare tra quelle previste per la abitazioni della zona censuaria nella quale
risiede il fabbricato.
Il minore valore d’estimo è quello riferito alla categoria A/5 di classe 1^ che, ovviamente, deve
essere aggiornato con l’incremento del 5% di cui sopra.
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Le variazioni in aumento introdotte al moltiplicatore 100 (10% e 20%), malgrado il richiamo alle
regole dell’imposta di registro (cfr. art.5 D.Lgs. 30-12-1992, n.504), per precisa disposizione
normativa, non coinvolgono l’ICI e svolgono effetti solo in materia di applicazione dell’imposta di
registro, dell’imposta catastale ed ipotecaria e di IVA.
Nel caso di fabbricati non iscritti al Catasto Urbano, o iscritti ma sprovvisti di attribuzione di
rendita, per la quantificazione della base imponibile occorre procedere alla individuazione di una
rendita presunta, facendo riferimento a quella attribuita a fabbricati similari già iscritti con
attribuzione di rendita.
Individuata la base imponibile, la liquidazione dell’onere richiede la conoscenza della aliquota,
stabilita dal Comune ove insiste il fabbricato. L’aliquota, a valere per l’anno successivo, deve
essere quantificata a seguito di deliberazione della giunta da adottare entro il 31 ottobre di ogni
anno.
Sussistendo l’attribuzione dei titoli di cui sopra, l’imposta è dovuta con riferimento al periodo di
possesso nel corso dell’anno solare, considerando per intero mese la frazione di esso di almeno
quindici giorni.
Liquidata l’imposta, occorre procedere al suo versamento, nel corso dello stesso anno di
maturazione, con due rate: la prima entro il 16 giugno e la seconda, a saldo, non oltre il 20
dicembre dello stesso anno.
L’entità della prima rata corrisponde al 50% dell’imposta dovuta per i dodici mesi del precedente
anno.
E’ possibile assolvere il totale pagamento anticipato dell’imposta, dovuta per l’intero anno, entro
il termine del 16 giugno previsto per la prima scadenza.
Il versamento può essere effettuato tramite sportello di banca o ufficio postale o, ove sia
intervenuta convenzione tra il Comune creditore e l’Agenzia delle Entrate, anche utilizzando il
modello F24, usufruendo della compensazione con crediti maturati nel periodo.
12.4 - Imposta di scopo
A decorrere dal 1° gennaio 2007, la L. 27-12-2006, n.296 (art. 1, commi 145/151) consente ai
Comuni la possibilità di deliberare l’istituzione di un’imposta di scopo, avente la finalità di coprire le
spese, sostenute dall’Ente locale, per la realizzazione di opere pubbliche.
Anche se ai Comuni è accordata la facoltà della individuazione delle opere da realizzare,
queste debbono concretizzarsi in opere catalogabili tra quelle tassativamente indicate dalla Legge
296/2006.
Le opere precisate, sono: quelle viarie e/o connesse al trasporto urbano, quelle per l’arredo
urbano e il decoro dei luoghi, quelle per la risistemazione di parchi e giardini, quelle per la
realizzazione di parcheggi pubblici, quelle per i restauri, quelle per la conservazione dei beni
artistici ed architettonici, quelle per l’allestimento di musei e biblioteche, quelle relative l’edilizia
scolastica.
L’esazione dell’imposta, della quale non sono ancora note l’entità e le modalità di riscossione,
presuppone l’emanazione di apposito regolamento, ad oggi (aprile 2009) non ancora pubblicato.
E’ previsto che si debba procedere al rimborso dei versamenti corrisposti dai contribuenti,
qualora l’opera pubblica non sia iniziata entro il secondo anno dalla data del progetto esecutivo.
12.5 - Concessione in uso di parti condominiali
Accade che alcune parti comuni del condominio diventino l’oggetto di contratti negoziali con i
terzi.
Più in particolare, con essi è concesso in locazione o in uso a terzi, talune porzioni del
fabbricato, quali, ad esempio: l’unità immobiliare originariamente destinata ad abitazione del
custode e dei suoi familiari; la guardiola; l’uso temporaneo del terrazzo di copertura o della facciata
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del fabbricato o del ponteggio installato per l’esecuzione di opere edilizie.
In questa sede, è affrontata la relazione esistente tra gli atti, da formare e sottoscrivere a cura
dell’amministratore, e l’imposizione tributaria, in materia di imposte sia dirette, nei riguardi dei
condomini, sia indirette.
La legge 9 dicembre 1998, n. 431, sotto pena di nullità, impone la forma scritta per gli atti
riguardanti l’uso di unità immobiliari abitative. Non è comunque da dimenticare che ogni scrittura è
pur sempre utile per l’individuazione delle precise volontà negoziali delle parti contraenti; da una
parte, il condominio concedente, dall’altra pare, il beneficiario dell’uso o del godimento immobiliare.
L’esame che segue, non ha la pretesa di essere la completa ed esaustiva esposizione di tutte le
tematiche del caso, ma vuole essere, molto più semplicemente, una segnalazione per
l’amministratore del condominio allorquando agisce nei contesti che sono di seguito considerati.
Il condominio, quale ente di gestione non commerciale, non rientra tra i soggetti passivi
d’imposta ai fini delle imposte dirette. Tuttavia, la percezione di un reddito (classificabile tra quelli
di natura fondiaria oppure tra quelli diversi) diventa componente positivo tributario, per
trasparenza, nei confronti dei condomini.
Diversamente, ai fini delle imposte indirette, il condominio, e per esso il suo amministratore
quale rappresentante di parte contraente, diventa debitore d’imposta a tutti gli effetti.
12.5.1 - Locazione dell’unità abitativa destinata al custode
L’art. 1571 c.c. dispone che la locazione “è il contratto col quale una parte si obbliga a far
godere all’altra parte una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato
corrispettivo”.
Nella specie, il riferimento è alla porzione immobiliare abitativa. Emerge subito la necessità di
stabilire, tra le altre, due condizioni: la durata e la determinazione del canone.
Dato il mandato annuale conferito all’amministratore, egli è autorizzato alla concessione di
locazione per il solo periodo della permanenza del proprio mandato. E’ pertanto consigliabile che
la durata contrattuale che eccede il singolo anno, sia opportunamente autorizzata da precisa
deliberazione dei condomini. Anche l’entità del corrispettivo è bene sia quantificato dai condomini.
In materia di imposte indirette, il contratto è tra gli atti da registrare in termine fisso, ai sensi
dell’art. 5 della Tariffa, parte prima, allegata al DPR 26 aprile 1986, n.131.
L’imposta è dovuta per importo corrispondente all’aliquota del 2% sull’ammontare dei canoni di
locazione, di norma relativo a tutta la durata contrattuale, senza considerare le eventuali spese
condominiali ripetibili a consuntivo.
Tuttavia, trattandosi di immobile censito, o censibile, a Catasto Urbano, se la durata è
pluriennale, a norma dell’art. 17, comma 3, DPR 131/1986, l’imposta può essere assolta in due
modi: sulla somma dei corrispettivi riferiti all’intera durata della locazione, ovvero per ogni singola
annualità.
Nel caso in cui la spese condominiali siano concordate a forfait, l’importo convenuto assume la
natura di canone integrativo e, come tale, partecipa alla determinazione della base imponibile sulla
quale calcolare l’imposta.
Sia il pagamento dell’imposta, auto liquidata, sia la registrazione del contratto devono attuarsi
entro il termine di trenta giorni dalla validità del contratto stesso.
Nel rispetto del principio del codice civile, il contratto assurge a legale validità con la
sottoscrizione di entrambi le parti contraenti.
Il contratto, prima di essere sottoposto alla firma delle parti, deve assolvere al pagamento
dell’imposta di bollo, con marca di euro 14,62 per ogni quattro facciate di 25 riga cadauna.
Per la prima registrazione, il modello F23, deve contenere i codici relativi: alla identificazione
dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, presso il quale sarà attuata la registrazione; al tributo
connesso alla modalità e causa del pagamento stesso.
Il codice riferito al tributo è il n. 107/T, se l’imposta è liquidata per l’intero periodo, oppure il n.
115/T, per il pagamento del primo anno, in caso di rateizzazione annuale dell’imposta.
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Sempre con riferimento ai codici del tributo, per i pagamenti successivi alla prima annualità del
contratto, il codice è il n.112/T; intervenuta la scadenza del primo periodo pluriannuale, il
pagamento dell’imposta, relativa la registrazione della proroga del contratto, richiede il codice
n.114/T.
Procedendo alla liquidazione e versamento dell’imposta in unica soluzione, vale a dire per
l’intero periodo di validità, la nota “1” all’art. 5 della menzionata Tariffa parte prima, accorda la
riduzione dell’onere tributario per l’entità corrispondente alla metà del tasso d’interesse legale per il
numero delle annualità di valenza del contratto.
Eseguito il pagamento, per la registrazione occorre la consegna del contratto in duplice copia a
uno qualsiasi degli Uffici dell’Agenzia delle Entrate, accompagnato dalla copia del modello F23. La
formalità deve eseguirsi entro i trenta giorni dalla data della conclusione contrattuale. E' previsto
l'obbligo di indicare i dati catastali di riferimento, ma non si applica l'istituto della cedolare secca.
E' possibile utilizzare le modalità telematiche per la registrazione; il pagamento online è
contestuale utilizzando lo specifico modello compresa l'imposta di bollo con addebito sul c/c
intestato presso banche e poste convenzionate con l'Agenzia delle Entrate.
Nel caso sia scelto il pagamento per singola annualità, eseguito il primo, occorre ricordarsi di
assolvere al versamento dell’imposta anche per le successive annualità, sempre entro il trentesimo
giorno dalla scadenza del singolo periodo, senza consegna del modello F23 all’Ufficio dell’Agenzia
delle Entrate.
L’entità dell’imposta di registro, in sede di primo pagamento, non può essere inferiore alla tassa
fissa stabilita nell’importo di euro 67,00.
Se la durata della locazione non supera i trenta giorni, non è obbligatoria la registrazione in
termine fisso, giacché l’art. 2 della Tariffa, parte seconda, prevede, in tale situazione, la
registrazione solo in caso d’uso (quando un atto è depositato presso la cancelleria giudiziaria
nell’esplicazione di attività amministrativa, ovvero presso la pubblica Amministrazione).
E’ onere dell’amministratore comunicare ai condomini, affinché ognuno di loro possa assolvere
alla propria obbligazione tributaria, sia l’esistenza del contratto di locazione sia l’importo del
canone annuale.
Ai fini delle imposte dirette (IRPEF – IRE - IRES) il canone convenuto, indipendentemente
dall’incasso da parte del condominio, concorre, sempre e per qualsiasi importo, alla
quantificazione del reddito imponibile del condomino, nel rispetto delle norme che governano il
reddito fondiario, vale a dire in misura pari all’85% del canone di spettanza del singolo condomino,
secondo la tabella dei millesimi di proprietà.
Solo se, entro il termine per la presentazione dell’UNICO PF, ovvero 730, è stato emesso il
provvedimento giudiziale di convalida dello sfratto per morosità, non sono imponibili i canoni non
percepiti a seguito della morosità del conduttore.
12.5.2 - Locazione del locale destinato a guardiola
In quanto trattasi di porzione di fabbricato censito o censibile a Catasto, sono valide le
considerazioni e i richiami sopra già svolti per l’abitazione del custode.
La destinazione non abitativa dell’unità immobiliare non è di ostacolo, giacché l’art. 5 della
Tariffa parte prima allegata al DPR 131/1986, contempla gli immobili urbani in senso lato e non
solo le abitazioni.
12.5.3 - Locazione/affitto del lastrico solare o del terrazzo condominiale
La fattispecie riguarda la concessione in uso del lastrico di copertura del fabbricato per la posa
di ripetitore satellitare o di cartelle pubblicitario.
Ai fini delle imposte dirette, il pensiero dell’Amministrazione finanziaria (vedi istruzioni al
modello UNICO PF) e la più qualificata dottrina, ritengono che il corrispettivo per la concessione
d’uso del lastrico solare o terrazzo condominiale, anche se di natura fondiaria, giacché riguarda
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una porzione del fabbricato, non partecipi alla determinazione del reddito imponibile secondo il
metodo del reddito fondiario.
A tale conclusione si perviene dalla considerazione che il terrazzo non è classificabile in
nessuna categoria catastale. Per tale ragione, mancando la classificazione e l’attribuzione di
rendita catastale, non è possibile operare secondo le norme del reddito fondiario.
D’altra parte, poiché, ogni atto, per avere data certa ed essere opponibile ai terzi, deve essere
registrato, è indispensabile individuare la collocazione del contratto tra gli atti richiamati nelle tariffe
e nella tabella, allegate al DPR 131/1986 (testo unico dell’imposta di registro).
Per la concessione in uso di facciata, valgono le stesse considerazioni e soluzioni già indicate
per il lastrico solare.
12.6 - Canone occupazione suolo ed aree pubbliche (COSAP)
Il D.Lgs. 15 novembre 1993, n.507, all’art. 38, prevede che “sono soggette alla tassa le
occupazioni di qualsiasi natura, effettuate, anche senza titolo, nelle strade, nei corsi, nelle piazze
e, comunque, sui beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni e delle
province”
Poiché la tassa è dovuta dall’occupante di fatto, ancorché abusivo, anche il condominio può
assurgere a soggetto passivo e debitore.
L’obbligo è correlato alla presenza di occupazioni permanenti o temporanee ed proporzionale
alla superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico.
E’ permanente l’occupazione di carattere stabile, avente una durata temporale non inferiore
all’anno, e, di solito, richiede il rilascio di un provvedimento amministrativo di concessione. Ne è
esempio classico il passo carraio.
Se la durata è inferiore all’anno, l’occupazione è classificabile tra le temporanee e non sempre
è condizionata all’emissione di provvedimento di concessione da parte del Comune.
Tra queste ultime, è da comprendere il ponteggio e la piattaforma mobile per lavori edili alla
facciata condominiale.
Per le occupazioni permanenti, sono previste particolari discipline e tariffe, commisurate con
riguardo al numero degli abitanti del comune ed all’effettiva superficie occupata del suolo
comunale o provinciale.
Per quanto riguarda il passo carraio, la superficie imponibile si ottiene moltiplicando la
larghezza del passo per la profondità convenzionale di un metro lineare.
Per i passi carrai, l’art. 3, comma 63, della Legge 28 dicembre 1995, n. 549, dispone che i
comuni e le province, con apposite deliberazioni, possano, tra l’altro, stabilire la non applicazione
della tassa.
Tra le esenzioni a regime, si riporta quella che riguarda l’accesso carrabile destinato a soggetti
portatori di handicap.
Sussistendo l’applicazione del canone, è richiesta la presentazione al Comune di apposita
denuncia entro il 31 dicembre dell’anno del rilascio della concessione, allegando ad essa
l’attestato del versamento del canone liquidato per l’intero anno.
Eventuali accertamenti per omessa o infedele denuncia, devono essere notificati al contribuente
entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui la denuncia è stata, ovvero, avrebbe
dovuto essere, presentata.
Lo stesso termine di decadenza del triennio, con decorrenza dal pagamento, è concesso al
contribuente per la richiesta di rimborsi per eventuali versamenti indebiti, in quanto non dovuti.
12.7 - Smaltimento rifiuti solidi urbani
(TARSU ora TIA tariffa igiene ambientale)
Anche per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, i comuni sono autorizzati alla istituzione
di tassa annuale, liquidata sulla base di tariffe correlate all’utilizzo della porzione immobiliare.
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A norma dell’art. 62 del D. Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, “la tassa è dovuta per l’occupazione
o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte
pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del
territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa”
La base da considerare è quella della superficie dei locali e delle aree. È calcolata mediante
utilizzo di tariffe per ogni categoria omogenea immobiliare, secondo la tipologia dell’uso e al costo
dello smaltimento. La legge n. 311/2004 ha previsto che la tassa debba essere commisurata ad
una superficie non inferiore all’80% di quella catastale.
Sono escluse dalla tassazione le aree (non le porzioni del fabbricato) comuni del condominio di
cui all’articolo 1117 del c.c., anche se possono produrre rifiuti, sempre che non siano destinate in
godimento esclusivo di singoli condomini.
12.8 - Sostituto d’imposta
Dal 1° gennaio 1998, l’art. 21, comma XI, lettera “b” della Legge 27 dicembre 1997 n.449
(finanziaria 1998), al condomìnio è stata attribuita la qualifica di sostituto d’imposta.
La definizione di questa qualifica è tracciata all’art. 64 D.P.R. 29 settembre 1973 n.600, decreto
che contiene le norme comuni in materia di attività accordate all’Ufficio per l’accertamento delle
imposte sui redditi.
E’ una figura soggettiva che appartiene esclusivamente alla sfera tributaria e, più
specificatamente, nel contesto dell’applicazione delle imposte sul reddito delle persone fisiche.
Sostituto d’imposta è identificato nel soggetto “obbligato in forza di disposizioni di legge al
pagamento di imposte in luogo di altri”.
Il condominio è quindi un esecutore di una precisa volontà di legge, che, nell’esecuzione del
compito affidatogli, impone di operare una “ritenuta d’imposta”, in sede di pagamento di alcune
somme che costituiscono componenti attivi reddituali (così detta ritenuta alla fonte) ed eseguire,
poi, il versamento di essa.
Con l’esercizio della rivalsa (tra l’altro obbligatoria per legge) l’onere finanziario è sopportato dal
percettore del pagamento.
I pagamenti in questione, sono quelli che hanno natura di reddito di lavoro dipendente, reddito
assimilato a quello di lavoro dipendente, reddito di lavoro autonomo.
Sia l’entità, sia il termine ed il modo del versamento della ritenuta, sono espressamente
contemplati dalla norma tributaria.
Preso atto della qualifica di sostituto d’imposta attribuita al condominio con la Legge Finanziaria
del 1998, l’art. 1, comma 43, della Legge Finanziaria 2007 (L. 27 dicembre 2006, n.296) prevede
che, con effetto dal 1° gennaio 2007, il condominio debba operare, sempre all’atto del pagamento,
la ritenuta del 4%, sempre “a titolo di acconto dell’imposta sul reddito dovuta dal percipiente, con
obbligo di rivalsa, sui corrispettivi dovuti per prestazioni relative a contratti d’appalto di opere o
servizi, anche se rese a terzi o nell’interesse di terzi, effettuate nell’esercizio d’impresa”.
La nuova incombenza completa il campo tributario operativo del condominio, coinvolgendo i
pagamenti dei corrispettivi nei confronti delle imprese, compresi quelli corrisposti per attività
commerciale svolte in via occasionale.
Assume un ruolo fondamentale la presenza di un’attività, effetto della sussistenza di un
contratto d’appalto, o contratto d’opera, da non confondere con le manifestazioni di azioni che
sono l’effetto di altri contratti negoziali.
Così, ad esempio, il compenso erogato alla società che gestisce l’amministrazione del
condominio, non richiede alcuna effettuazione di ritenuta in quanto è la manifestazione di contratto
di mandato; altrettanto dicasi per le somme corrisposte per la mera cessione di beni, anche se
accompagnate da prestazioni accessorie della posa in opera, in quanto si è alla presenza del
contratto di cessione.
Se però la prestazione d’opera ha carattere principale e la cessione del bene complementare
alla prima, è obbligatoria l’effettuazione della ritenuta, in quanto si è alla presenza di
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manifestazione di contratto d’appalto o contratto d’opera.
Nel caso in cui il sostituto non dovesse versare all’Erario quanto trattenuto, le conseguenze
sanzionatorie ricadono su di lui, non sul sostituito e le ritenute operate e non corrisposte, sono
richieste al sostituto e non al sostituito, nel rispetto del principio del divieto della doppia
imposizione tributaria.
12.8.1 - Il ravvedimento operoso
Con la Legge 29 dicembre 1990, ha promosso l’istituto tributario del “ravvedimento operoso”,
grazie al quale il contribuente può, per propria iniziativa, entro certi termini, anticipando l’azione
dell’Amministrazione, sanare errori od illeciti fiscali commessi, versando, con l’imposta
eventualmente dovuta, una sanzione ridotta e gli interessi maturati al tasso legale.
Il D.Lgs. 18 dicembre 1997 n.472, ha poi apportato variazioni al sistema sanzionatorio degli
illeciti fiscali, prevedendo sensibili attenuazioni della pena pecuniaria nel caso in cui il contribuente
proceda alla regolarizzazione di essi, prima che la violazione sia stata constatata
dall’Amministrazione finanziaria, o siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche, o siano iniziate
attività amministrative di accertamento delle quali il contribuente abbia comunque avuto
conoscenza.
Per l’omesso od insufficiente versamento delle ritenute operate alla fonte, è prevista la
sanatoria con il pagamento, entro 30 giorni dalla data della scadenza naturale, della sanzione al
3,00%.
Se la regolarizzazione avviene entro il termine per la presentazione della dichiarazione (di cui si
parlerà in prosieguo) relativa al periodo nel quale è stata attuata l’irregolarità, la sanzione
amministrativa è pari al 3,75% e salva il sostituto dalla reclusione da sei mesi a due anni, se la
sommatoria delle ritenute supera euro 50.000,00 complessivamente.
Ovviamente, le percentuali indicate sono da applicare all’entità delle ritenute non versate nei
termini di legge.
La sanatoria impone comunque il calcolo di interessi al tasso annuo legale (art.1284 C.C. e
successive modifiche).
L’imposta, maggiorata degli interessi, maturati dal giorno successivo alla data di scadenza
naturale e fino al giorno del versamento effettivo, unitamente alla sanzione, sono assolte con
utilizzo del modello F24, ed indicazione di appositi codici tributo.
In conclusione, l’amministratore del condomìnio, a nome e nell’interesse di questo, ogni qual
volta esegue il pagamento del mensile al custode o del compenso ad un prestatore d’opera
professionale od occasionale, ovvero effettua pagamento di corrispettivi d’appalto o di prestazioni
commerciali occasionali, deve trattenere l’importo della “ritenuta alla fonte per acconto IRPEF/IRE”
e procedere poi al versamento di essa all’Erario, entro il giorno 16 del mese successivo.
La stessa procedura deve essere attuata allorquando l’amministratore del condominio,
attingendo dalla cassa condominiale, preleva disponibilità finanziarie dalla disponibilità dell’ente
amministrato, per acquisirlo alla propria sfera personale, a titolo di pagamento anche parziale del
compenso stabilito dall’assemblea condominiale.
Anche per il contribuente condominio, nel caso di versamento di ritenuta in eccesso rispetto a
quanto trattenuto, è possibile utilizzare la diretta compensazione in sede di versamento per un
debito successivo.
12.8.2 - Le certificazioni
Gli obblighi conferiti dalla legge al condominio, nella funzione di sostituto, comprendono anche il
rilascio di apposita certificazione e la presentazione di specifico modello di dichiarazione, istituito
con Decreto Ministeriale.
La certificazione è lo strumento che consente al sostituito il recupero dell’imposta
corrispondente alle ritenute subite, per portarla a credito della sua IRPEF/IRE liquidata sul reddito
complessivo percepito nell’anno.
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La dichiarazione ha lo scopo di rendere edotta l’Amministrazione Finanziaria di quanto attuato
dal condominio (e, per esso, dal suo amministratore), nello svolgimento della funzione di sostituto
d’imposta.
L’art. 4, comma 6-quater, DPR 22 luglio 1998, n. 322, impone al sostituto il rilascio di
certificazione unica (modello CUD) da consegnare agli interessati (sostituiti) “entro il 28 febbraio
dell’anno successivo a quello in cui le somme sono state corrisposte”. In caso di interruzione del
rapporto di lavoro subordinato, il CUD deve essere consegnato al dimissionario, o al licenziato,
entro il dodicesimo giorno dalla richiesta fatta dall’ex dipendente.
Il CUD è assurto al rango di certificazione unica, atteso che contiene, oltre gli elementi validi ai
fini delle imposte dirette, altre notizie in materia di contributi previdenziali e assistenziali.
Infatti, nel modello in oggetto, oltre all’indicazione delle somme corrisposte nel corso del
precedente anno solare e delle ritenute attuate, sono esposti anche i contributi dovuti all’Istituto
Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS) nonché ulteriori elementi ed i dati che possono essere
richiesti da apposito decreto ministeriale.
La modulistica approvata dal Ministro prevede due modelli.
Uno da rilasciare ai dipendenti, un altro da rilasciare ai lavoratori autonomi professionali.
Il CUD per i dipendenti, oltre ai dati reddituale contiene apposite sezioni dedicate alla
previdenza ed assistenza INPS e ai premi INAIL.
Il CUD per i prestatori di lavoro autonomo professionale, contiene la comunicazione
dell’ammontare dei compensi corrisposti, al lordo ed al netto della ritenuta, l’indicazione dei
compensi non soggetti a ritenuta, la percentuale e l’importo della ritenuta operata, l’importo netto
corrisposto, nonché la contribuzione previdenziale INPS gestione separata (cfr. Legge 8 agosto
1995 n.335).
La “gestione separata del contributo INPS sui redditi di lavoro autonomo” è riferita alla
particolare situazione dei professionisti, non assistiti da una Cassa di Previdenza di categoria, che
diventano debitori INPS tramite la propria dichiarazione dell’UNICO PF.
Sempre la Legge 335/1995, prevede che il contributo sia posto a carico del percipiente solo per
un terzo.
Quindi, il CUD rilasciato all’iscritto alla gestione INPS di cassa autonoma, riporta la porzione del
contributo sia a carico del lavoratore autonomo sia a carico del sostituto.
L’indicazione del contributo INPS nel CUD serve anche al fine di consentire la deduzione dal
reddito, a norma dell’art. 10 –comma I- lettera “e” DPR 917/1986, della parte dell’onere rimasto a
carico.
12.8.3 - La dichiarazione del sostituto d’imposta
E’ stato in precedenza dato risalto alla posizione del sostituto verso l’Erario che è identica a
quella di un contribuente (dichiarante) vero e proprio, portatore di un debito proprio IRPEF, anche
se non titolare della posizione giuridica sostanziale dalla quale trova origine la relativa imposizione.
In tale veste, il condominio deve annualmente comunicare all’Agenzia delle Entrate i fatti e gli
atti posti in essere nella particolare qualifica attribuitagli dalla Legge, in quanto protagonista di una
imposizione fiscale a titolo d’acconto su redditi che richiedono, da parte del percettore,
l’inserimento nel proprio UNICO PF, quale componente della base imponibile complessiva.
E’ stato quindi istituito il “modello 770 semplificato” “Dichiarazione per le ritenute, i contributi e i
premi assicurativi relativi al …” (i puntini stanno per l’anno di riferimento) che l’amministratore del
condominio deve predisporre e presentare, in quanto rappresentante dell’ente di gestione
amministrato.
La dichiarazione deve contenere le informazioni secondo il principio di cassa, vale a dire con
riferimento al pagamento delle somme soggette a ritenuta, con l’ulteriore avvertenza che le somme
corrisposte ai dipendenti entro il giorno 12 del mese di gennaio sono da considerare erogate nel
corso del precedente mese di dicembre.
La competenza è quella dell’anno solare, indipendentemente dal periodo che caratterizza
l’esercizio condominiale.
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La presentazione spetta all’amministratore in carica al momento della sua trasmissione e la
formalità si può attuare in tre modi alternativi, tutti però per via telematica: 1) direttamente dal
condominio con lo strumento “internet”; 2) mediante consegna ad un Ufficio dell’Agenzia delle
Entrate; 3) per il tramite di intermediario abilitato con lo strumento “entratel”.
Il termine di presentazione a regime è stabilito entro il 31 marzo di ogni anno fatti salvi possibili
provvedimenti di proroga annuali.
Si ricorda che gli intermediari abilitati al servizio entratel sono solo gli appartenenti alle categorie
professionali degli iscritti agli Albi dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, dei
Consulenti del Lavoro; gli iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli degli esperti tributari
tenuti dalle C.C.I.A.A. in possesso di laurea in giurisprudenza o economia e commercio o
equipollenti o di diploma di ragioneria; alcune associazioni sindacali di categoria tra imprenditori; i
Centri di Assistenza Fiscale (CAF) per lavoratori; nonché i CAF per le imprese.
La dichiarazione si considera validamente presentata alla data dell’invio, convalidato da
apposita ricevuta rilasciata dall’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
E’ compito dell’intermediario, nel caso di suo intervento, il rilascio di copia del modello cartaceo,
copia di lettera di assunzione dell’incarico alla trasmissione e copia dell’attestato di ricevimento
rilasciato dall’Ufficio.
Il modello 770 si compone di diversi quadri e sezioni.
Per quanto possa riguardare il condominio, si ricorda che esso deve contenere:
– l’elenco dei soggetti beneficiari di pagamenti per rapporto di lavoro dipendente con esposizione,
oltre ai dati personali e generali, i dati fiscali, quelli previdenziali e assistenziali relativi alle
contribuzioni all’INPS e all’INAIL;
– l’eventuale corresponsione di indennità di fine rapporto di lavoro dipendente ed equipollenti;
– l’indicazione dei percettori di compensi per prestazioni di attività classificabili nell’ambito del
lavoro autonomo, compresi quelli di natura occasionale;
– i dati riassuntivi di quelli riportati nei precedenti quadri;
– la distinta delle ritenute operate ed i connessi versamenti eseguiti;
In materia di sanzioni amministrative, l’omessa o tardiva presentazione del modello 770, in
conseguenza di omesso versamento delle ritenute, è punibile con l’addebito dell’importo tra il
120% ed il 240% delle somme non versate, con un minimo edittabile di euro 258,23.
Alla sanzione si aggiungono gli interessi al tasso annuo legale.
Nel caso in cui alla presentazione si proceda entro il novantesimo giorno dalla scadenza, la
sanzione si riduce a euro 32,28, a condizione che si provveda al contemporaneo versamento delle
ritenute operate.
Rimane ferma l’applicazione degli ulteriori aggravi per violazioni riguardanti i versamenti.
Alla presenza di irregolarità che non incidono sulla determinazione o sul pagamento delle
ritenute, gli errori sono sanabili senza applicazione di sanzioni purché si proceda alla
regolarizzazione con “dichiarazione integrativa”, da inviare prima che l’Ufficio la accerti.
La dichiarazione integrativa deve essere presentata solo in via telematica.
12.9 - Le detrazioni fiscali 36% e 55%
Con il DL sviluppo n. 79/2011 non è più necessaria la comunicazione di inizio lavori al Centro
Operativo di Pescara, ma è indispensabile effettuare i pagamenti per gli interventi effettuati a
mezzo bonifico postale o bancario evidenziando i codici fiscali del condominio, dell'amministratore
e del beneficiario al quale verrà effettuata la ritenuta d'acconto del 4% direttamente dal proprio
istituto pagatore. Nelle fatture non è richiesta l'indicazione dell'importo della mano d'opera
utilizzata.
Per quanto riguarda il 55% a fine lavori dovrà essere trasmessa all'ENEA una certificazione
energetica su apposita modulistica.
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L'amministratore a fine anno dovrà certificare ai condomini i bonifici effettuati alle imprese e
professionisti con le rispettive incidenze millesimali con l'attestazione delle quote versate dagli
stessi condomini al 31 dicembre del periodo d'imposta.
12.10 - La comunicazione degli elenchi dei fornitori (quadro AC).
(vedi modulo n. 10)
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MODULO 13
Aspetti relazionali e formazione psicologica
(Giuseppe D’Amore)
13.1 - Lo sviluppo dell’identità soggettiva: la persona umana
Una competenza psicologica di base che favorisce l’apprendimento e lo sviluppo delle altre è
considerata quella di avere “accesso” alla propria identità personale, cioè a quell’aspetto della
nostra vita mentale che ci fa riconoscere come noi stessi. Attraverso questa capacità di
autoriconoscimento ogni individuo, ognuno di noi, si può sperimentare, osservare, come un
soggetto unico separato dalle altre persone e che possiede dentro la propria soggettività: desideri,
pensieri, propositi, intezioni, obiettivi professionali ecc.
Questa capacità di autoriconoscimento sembra essere innata e nell’uomo compare durante la
prima infanzia e precisamente tra i 15-18 mesi dopo la nascita. Prima di quella età, se uno mette
un bambino di fronte a uno specchio si può facilmente vedere che il bambino non si riconosce
nella immagine che vede riflessa dallo specchio.
Dopo questa età invece il bambino è perfettamente in grado di guardare nello specchio e
riconoscere che l’immaggine che vede è la propria cioè stabilisce una uguaglianza una identità
appunto tra la cosa che percepisce e chi percepisce. Questo momento durante lo sviluppo della
propria soggettività rapppresenta la prima volta in cui le persone umane sono in grado di autoriconoscersi cioè percepiscono un sé esistente. La cosa molto interessante è che questo sé
esistente e questa soggettività è due cose nelle stesso tempo: è la cinepresa che fa le riprese
attraverso la percezione ma è anche la “cosa” ripresa o percepita è cioè l’immagine costruita di sé,
di noi stessi.
Questo aspetto della nostra vita psicologica è quella qualità che ci permette di sentire le
esperienze che facciamo come nostre, personali o come si sente dire spesso soggettive. Quando
usiamo la parola “soggettivo” quindi vogliamo dire che appartiene solo a me o comunque che
appartiene a me.
Un altro modo in cui usiamo il termine “soggettivo” è quello che ci fa attribuire un significato
(positivo o negativo) a noi stessi delle esperienze che facciamo. Ad esempio: per i signori
condomini assume un significato soggettivo diverso il fatto che quando chiamano nell’ufficio
dell’amministratore non risponde mai nessuno oppure risponde una segreteria telefonica con un
voce strana, oppure risponde una segrataria o un segretario con una voce gentile e accogliente
oppure risponde l’amministratore in persona!
Quello che voglio esprimere con questo esempio è che gli essere umani sembrano consistere
nella capacità di attribuire significati soggettive alle esperienze che vivono ed in questo senso
possiamo considerarli dotati di una identità soggettiva che è la parte umana dell’essere cioè è
quella parte che definisce e spiega il termine “umano” quando diciamo “essere umano”.
Saper usare la propria capacità di autoriconoscimento consente di esercitare una maggiore ed
efficace azione professionale, in quanto i nostri clienti sono in pratica costituiti della stessa
“materia” quindi sapendo osservare, ascoltare, trattare, noi stessi riusciremo a farlo anche con
loro. Fino a prova contraria anche i condomini sono esseri umani!
13.2 - La comunicazione umana efficace
Dopo aver proposto il concetto di persona umana come un soggetto individuale portatore di una
identità prodotta della capacità di autoriconoscimento, vediamo adesso come una persona
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comunica con un’altra persona.
Uno degli aspetti della comunicazione più utile ai professionisti nello svolgimento del loro lavoro,
è quello di sviluppare consapevolezza del fatto che ogni volta che due persone comunicano tra di
loro, in realtà si svolgono parallelamente due tipi di comunicazione:
1. una riguarda il contenuto (cioè le parole parlate, le cose dette)
2. l’altra riguarda i significati relazionali (che i modi di dire le parole portano con se. Cioè voce
bassa, alta. Gridare anzichè sussurare. Il tipo di parole che vengono scelte: confidenziali,
tecniche, scientifiche, volgari ecc., la velocità del discorso, il modo di vestire di chi parla, ecc.)
Ad esempio mentre state leggendo queste parole sulla comunicazione, da un lato state
cercando di capirne il contenuto ( tecnico per così dire) e dall’altro il modo in cui esse sono state
scritte, i vocaboli usati, vi dicono delle altre cose cioè vi dicono qualcosa sulle intenzioni di chi
scrive.
Per un professionista è molto importante saper distinguere gli aspetti di contenuto dagli aspetti
di relazione riguardo le comunicazioni che ricevono dai propri clienti. L’ideale sarebbe poter
prestare una adeguata attenzione a questi due aspetti del linguaggio umano. L’aspetto di
contenuto riguarda quindi “cosa diciamo” mentre l’aspetto di relazione si riferisce al “come”
parliamo, cioè ai “modi” che vengono maggiormente espressi con i comportamenti del corpo. Infatti
per riferirsi a questo aspetto della comunicazione si usa dire “linguaggio del corpo” oppure
“linguaggio non verbale” per mettere in evidenza che non riguarda il contenuto delle parole.
13.3 - La gestione della relazione inter-personale
Un altro aspetto importante della professionalità di un amministratore di condominio è
rappresentato dal saper gestire la relazione inter-personale con i propri clienti. Ma cosa significa
gestire la relazione interpersonale? Cominciamo con gestire. Questa parola deriva dal verbo latino
gerere che significa comportarsi, cioè avere un comportamento. Relazione significa modo o qualità
del rapporto tra due cose e si riferisce quindi al tipo di legame esistente tra loro. Inter-personale
significa tra persone umane.
Riassumendo possiamo dire che il senso più appropriato sembra essere: avere un
comportamento che tenga conto della qualità del rapporto e del tipo di legame che si instaura con
una altra persona. Ricordiamo che precedentemente abbiamo definito la persona umana come un
soggetto individuale che è portatore di una identità frutto della capacità di autoriconoscimento che
genera tutti quei significati, positivi e negativi, che attribuiamo alle esperienze con le altre pesone.
In questo senso la qualità del rapporto e il tipo di legame da tenere in conto dipendono dai
significati che noi attribuiamo al come gli altri ci trattano o si comportano con noi. Ma anche i
significati che attribuiamo a come noi trattiamo e ci comportiamo con gli altri.
I clienti dell’amministratore di condominio si faranno una idea positiva o negativa degli incontri
relazionali che hanno o che non hanno avuto con lui ed è proprio alla possibilità e alla capacità e
alla competenza relazionale cosciente e volontaria nel riuscire a indirizzare il tipo di idea che i
clienti si fanno dell’amministratore che ci riferiamo con la espressione gestione della relazione
interpersonale.
13.4 - Il lavoro di gruppo e la gestione dell’assemblea di condominio:
quando il cliente è un gruppo di persone
Abbiamo cercato brevemente di tratteggiare in prima battuta il “che cosa” è una persona
umana, successivamente abbiamo cercato di mettere in evidenza quello che succede quando due
persone umane comunicano tra loro e instaurano una relazione interpersonale, in questo caso di
tipo professionale come può essere descritta quella tra l’amministratore e il suo cliente condomino.
Adesso cercheremo di vedere cosa accade quando “più persone umane interagiscono tra di loro”.
Diciamo subito che noi consideriamo l’assemblea di condominio un gruppo di persone quindi
applicheremo alla sua gestione, seppur con le dovute differenze, le conoscenze in nostro
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possesso per quanto riguarda i gruppi di lavoro. Un gruppo è definito come un insieme di persone
che si riuniscono per raggiungere un obiettivo condiviso. In questo senso l’assemblea di
condominio è un gruppo di persone che si riuniscono per raggiungere un obiettivo condiviso che è
quello di amministrare le parti in comune attraverso le delibere assembleari. Quindi il lavoro del
gruppo assemblea è quello di raggiungere la delibera.
Dopo 10 anni di attività di formazione rivolta agli amministratori di condominio, ho imparato che
raggiungere la delibera è in certi casì una impresa difficile, ardua, e che da la possibilità di
osservare dei comportamenti di persone che mai si riterrebbero capaci di comportarsi in un certo
modo diciamo scorretto o troppo “di parte”. Paradigmatico per me è diventato Carlo Parodi che cita
il caso di un insigne magistrato che, una voltà indossati i panni di proprietario condomino, si
trasforma in maniera evidente “dimenticando” le più banali basi del diritto e del buon senso
agendo inspiegabilmente, certe volte, in modo non qualificabile.
Questa “vignetta” ci è utile per sottolineare il fatto che quando le persone sono in gruppo o
dentro un gruppo, si trovano a vivere esperienze di cui sono nello stesso tempo “attori produttivi” e
nello stesso tempo “vittime inconsapevoli”. Questi fenomeni sono noti da tempo in psicologia e
sono definiti con il termine “dinamiche di gruppo”
Facciamo un esempio: certe volte gli amministratori osservano che l’assemblea ha un
atteggiamento del tipo che tutto ciò di cui il condominio ha bisogno dovrebbe essere procurato
dall’amminitratore di condominio. In queste circostanze l’amministratore diventa una specie di
figura potentissima che dovrebbe dare ai condomini tutto ciò di cui loro avrebbero bisogno.
Diciamo che l’assemblea si trova in un atteggiamento di dipendenza verso l’amministratore
dall’azione del quale dipenderebbe tutto, dimenticando che invece è il lavoro dell’assemblea che
attraverso le delibere produce il risultato di amministrare le parti comuni.
Un altro esempio: in alcuni casi si osserva che l’atteggiamento dell’assemblea è quello di
ritenere l’amministratore responsabile e colpevole unico di tutti i mali e i problemi che il condominio
si trova a patire e di cui è costretto a doversi occupare. In questo caso diciamo che il gruppo
assemblea si trova in un atteggiamento di attacco (cioè di aggressiva distruttività) nei confronti
dell’amministratore ed anche in questi casi, approfondendo lo studio della dinamica, si osserva
facilmente che l’assemblea invece di lavorare per raggiungere la delibere, si dimentica di questo
obiettivo, e si mette a fare la guerra all’amministratore che sembra essere diventato il portatore di
tutti i mali. Quello che succede molto spesso in questi casi è che l’amministratore perde l’incarico
perché viene sostituito con un altro collega, mentre i problemi del condominio restano tutti li.
Si potrebbe continuare con gli esempi ma lo spazio di questo lavoro ci suggerisce di fermarci
qui e di sottolineare, invece, come l’ammistratore con il diventare esperto di queste dinamiche
possa in qualche modo prevenirle e gestirle. L’aquisizione di questa competenza richiede un
addestramento pratico e costante nel tempo perché si tratta del fatto che, come tutti i partecipanti
all’assemblea, anche l’amministratore è “attore produttore” e nello stesso tempo “vittima
inconsapevole” delle dinamiche sopra descritte. Sintetizzando possiamo dire che tutto il percorso
formativo più le esperienze di “coaching di gruppo” proposte all’Anaci, sono orientate a imparare a
gestire le forti dinamiche che si sviluppano durante l’assemblea di condominio.
13.5 - La capacità di negoziazione come competenza operativa
A questo punto del nostro discorso ci sembra opportuno introdurre “la competenza delle
competenze”: la capacità di negoziazione. È importante che essa sia preceduta dagli altri discorsi
sulle altre capacità perché questo ci da la possibilità di dire che non si può essere dei buoni
negoziatori senza essere dei buoni conoscitori della persona umana, senza sapersi destreggiare
nei processi comunicativi, senza saper orientare il proprio comportamento relazionale, senza
essere abile a percepire e gestire le dinamiche di gruppo di cui si è attori attivi-passivi.
Tutti gli esperti mondiali di questo tema concordano sempre di più sul fatto che i “processi di
negoziazione” sono rilevabili in qualunque aspetto della vita associata delle persone umane e sul
fatto che essi siano alla base del rapporto economico e dell’azione commerciale.
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Qui la applichiamo al rapporto tra professionista e cliente quale intendiamo noi il tipo di
relazione esistente tra amministratore di condominio e il suo cliente condomino.
Esistono due tipi principali di negoziazione una detta competitiva e una detta cooperativa.
Nella negoziazione detta competitiva due parti, due persone (professionista e cliente) lottano
per accaparrarsi un valore prestabilito. L’ottica di questo tipo di relazione è quello di prendersi tutto
il valore e non lasciare niente all’altro che viene qualificato come un concorrente, qualcuno che ci
vuole fregare. Alla fine quindi qualcuno vince e qualcuno perde.
Nella negoziazione detta cooperativa le due parti cercano di creare e di scambiarsi un valore
nell’ottica di poterlo incrementare e sviluppare ulteriormente. Questo è possibile solo se si è
disposti a scambiare le informazioni che si possiedono e a giocare come si dice a carte scoperte.
Alla fine si hanno due risultati:
1. le due parti si possono dire “ho vinto io e hai vinto pure tu”
2. la relazione può continuare e anzi ne esce rafforzata da una reciproca fiducia
Il “segreto” della negoziazione cooperativa sta nel fatto di creare e scambiare valore con l’altro.
Questo, secondo noi, per l’amministratore di condominio è una super competenza sia quando ha a
che fare con il singolo condomino sia quando si trova nella assemblea di condominio dove le
dinamiche si sviluppano delle volte con il produrre dei sottogruppi in competizione tra di loro. In
quel caso l’amministratore dovrebbe essere competente nel trasformare la negoziazione
competitiva (i sottogruppi che vogliono la meglio l’uno contro l’altro) in un clima da negoziazione
cooperativa dove l’obiettivo è creare valore reciprocamente. All’interno di un condominio tutto
questo si traduce nel poter ammistrare le parti comuni in un modo che risulti vantaggioso per tutti.
13.6 - La convivenza nei condomini
Un altro aspetto di vitale importanza per chi come l’amministratore si trova come professionista
inserito nei processi della vita associata è la convivenza nei condomini. La “competenza alla
convivenza” può dare al professionista oltre che un modello di lettura delle esperienze lavorative
anche uno strumento di intervento che gli consente di migliorare la qualità dell’intervento stesso.
La competenza alla convivenza può essere definità come “la capacità di avere una relazione
con l’altro, con l’estraneo entro delle regole del gioco condivise”. In un certo senso quindi
convivere significa saper trattare con la diversità. Detto altrimenti, possiamo affermare che si ha
convivenza quando ci si propone la conoscenza e la relazione con l’altro.
Cerchiamo di spiegare queste affermazioni. Usiamo una metafora. Se la convivenza fosse una
torta potremmo dire che essa si potrebbe fare solo se possedessimo tre ingredienti.
Primo ingrediente: l’altro, l’estraneo, la diversità, il non conosciuto.
Secondo ingrediente: io, noi, i sistemi di appartenenza.
Terzo ingrediente: regole del gioco condivise.
L’altro, l’estraneo può essere il condomino rompiscatole del piano di sopra, quelli della scala C
che pretendono da noi questo e quello, ecc.
Io, noi, i sistemi di appartenenza possono essere la famiglia, noi della scala A, noi
“settentrionali” che siamo distinti da quelli “meridionali” che sono diversi appunto estranei, che
sono altro da noi. Noi che siamo italiani diversi da loro che sono stranieri, non appartenenti a noi.
Le regole del gioco condivise sono quegli “accordi” che ci permettono di entrare in relazione con
l’altro e di conoscerlo di modo tale da sviluppare la convivenza. La questione delle regole
condivise è molto importante perché è quell’aspetto della convivenza che ci garatisce che l’altro,
l’estraneo non ci faccia del male. Infatti regole del gioco condivise significa, semplicemente, che io
sono assolutamente in grado di prevedere il comportamento dell’altro positivamente intenzionato
verso di me. È la percezione dell’intenzione positiva dell’altro verso di noi che ce lo fa percepire
come amico e non come nemico. Appena io non riesco a prevedere il comportamento dell’altro,
questo si qualifica automanticamente come nemico.
È chiaro a questo punto che la previsione del comportamento dell’altro si può fare solo se si
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rispettano le regole del gioco condivise. È risulta ancora più chiaro che la questione chiave non
sono le regole del gioco ma la loro condivisione cioè il loro rispetto. Quindi alla fine ci si potrebbe
chiedere ma come si fa a creare la condivisione delle regole?
A questo punto uno dei possibili modi che ci preme suggerire è quello di adottare e utilizzare la
“competenza delle competenze” e cioè “la capacità di negoziazione cooperativa”.
Da questo punto di vista convincere l’altro a condividere qualcosa con noi (es. le regole) si può
fare solo se si mostra effettivamente, concretamente, materialmente, psicologicamente,
socialmente, economicamente ecc. che a fare quello che noi proponiamo si vince in due: vinco io e
vinci pure tu.
D’altronde con-vincere significa appunto vincere insieme.
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MODULO 14
Elementi di tecnica delle costruzioni – piscine
(Francesco Burrelli)
14. 1 – Definizioni
In letteratura non esistendo una definizione legislativa del concetto Costruzione, si deve
ricorrere da una interpretazione che utilizzi gli effetti della legge urbanistica
e
spieghi
con
chiarezza che si ha costruzione, quando l’opera è stabilmente fissa al
suolo,con o senza
impiego di malta cementizia sempre ché, attraverso il
sistema di collegamento, si abbia
l’incorporazione dell’opera al suolo e la sua immobilizzazione. Pertanto come stabilito dal Tribunale
Regionale di Giustizia Amministrativa di
Bolzano, la costruzione esiste quando sono presenti
quelle strutture essenziali, che
assicurandole un minimo di consistenza, possono farla
giudicare presente nella realtà.
In tal senso si è espressa anche la cassazione con la sentenza n. 30286 del 11/10/1969 e
confermata dal Tribunale di Bolzano con sentenza n. 111 del 3/5/1996 e successivamente dal
Consiglio di Stato, Quinta sez. decisione n. 475 del 10/2/2004, i quali ribadiscono che per definire il
concetto di costruzione l’interpretazione deve far ricorso alla potenzialità dell’opera.
L’amministratore pur non essendo un esperto di costruzioni per esercitare con professionalità e
competenza il suo mandato e consigliabile che conosca delle
nozioni
di
scienze
delle
costruzioni.
Comprendere come sono costruite le abitazioni che si amministrano facilita il compito
dell’amministratore nel valutare gli interventi di manutenzione che queste con il passare degli anni
dalla loro costruzione sono inevitabilmente
sottoposti.
Possiamo classificare le costruzioni principalmente in:
-
Civile abitazione;
Rurali;
Industriali;
Artigianali;
Per brevità di trattazione e principalmente perché gli amministratori
amministrano condomini
e fabbricati di uso abitativo, ci occuperemo solo delle civili e forniremo una serie di nozioni che
saranno utili per
meglio comprendere quali siano i problemi manutentivi e come devono
essere affrontati.
Le case di civile abitazione, le più moderne sono costituite da uno scheletro
in cemento armato
composto da travi e pilastri.
La tamponatura o muro perimetrale (chiusura tra pilastro e pilastro e trave) normalmente
viene realizzata in mattoni forati , pieni o in blocchi di cemento.
Le abitazioni più antiche soprattutto quelle situate nei centri storici di paesi e città, quali
i
palazzi storici, le case rurali e i cascinali, sono in pietra locale o in
mattoni,
normalmente senza fondazioni, e senza parti in cemento armato quali travi e pilastri.
14.2 - Opere di Fondazione
Per realizzare le opere di fondazione negli edifici ordinari bisogna effettuare le seguenti
considerazioni sul tipo di terreno dove le fondazioni saranno effettuate:
- per stabilire la qualità del terreno e il tipo di fondazioni più adatte bisogna effettuare un’analisi
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geotecnica;
- per raggiungere la quota dove le fondazioni vengono posate bisogna effettuare lo scavo di
sbancamento;
- per effettuare le fondazioni bisogna realizzare scavi a sezione obbligata.
Le fondazioni sono quegli elementi strutturali che hanno la funzione di ricevere i carichi
provenienti dalla sovrastruttura e diffonderli al suolo. Per tale fine è necessario che queste siano
Rigide. Per avere rigidezza le fondazioni devono essere necessariamente massicce. Nelle le
fondazioni non si usano calcestruzzi di alta resistenza proprio in ragione delle masse
sovrabbondanti che devono essere impiegate per raggiungere la rigidezza richiesta.
Nell'ambito dell'ingegneria civile, lo studio delle fondazioni strutturali implica una approfondita
conoscenza della geotecnica, della scienza e tecnica delle costruzioni che analizza e studia le
tecniche che devono essere impiegate per raggiungere la rigidezza richiesta. In generale, per
ognuna delle scelte progettuali effettuate per le fondazioni, occorrerà adottare un differente
approccio nell'impostazione del calcolo.
Le fondazioni si dividono principalmente:
 fondazioni superficiali (o dirette): plinto, trave di fondazione, piastra di fondazione,
detta anche platea;
 fondazioni profonde




(o indirette): palo di fondazione, micropalo, fondazione
ciclopica;
fondazioni continue; costituite da un cordolo in pietra o mattoni o in calcestruzzo;
fondazioni a trave rovescia;
fondazioni a platea;
fondazioni a plinti;
Sono da tenere in considerazione anche le opere di sostegno: muro controterra, diaframma,
tirante.
Forniamo alcune nozioni sul tipo di fondazioni per consentire all’amministratore immobiliare di
capire come sono costruite le abitazioni dalle sue fondamenta, quindi capire anche che tipo di
manutenzione necessitano e a quali rischi possono essere sottoposti nel tempo e in caso di
condizioni in caso di fenomeni naturali.
Fondazioni Dirette
Le fondazioni dirette sono quelle più comuni, utilizzate nel caso di edifici costruiti su terreni senza
particolari problemi di resistenza e quindi abbastanza superficiali.
Fondazioni Profonde (indirette)
Tali fondazioni indirette vengono utilizzate quando gli strati superficiali del terreno non hanno una
portanza sufficiente per sopportare il carico della struttura o nel caso in cui i cedimenti previsti con
le fondazioni dirette siano eccessivi. Il tipo più comune, nell'edilizia storica, è il palo di legno di
particolari essenze dure e resinose, tipo quercia, rovere, eventualmente con la punta rinforzata in
metallo, detta puntazza, conficcato nel terreno attraverso battitura con speciali macchine dette
battipalo, finché non raggiunge strati di terreno solido oppure pensato per resistere mediante
l'attrito laterale che si crea con il terreno.
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Questa tecnologia, applicata anche a Venezia, ha subito un'evoluzione nel tempo, esistono molte
varietà di pali, di calcestruzzo o con parti metalliche, e diverse tecniche di infissione:
gettati in opera, prefabbricati, con o senza asportazione del terreno, e anche con l'utilizzo di fanghi
bentonitici o altri materiali speciali (polimerici) da utilizzare in condizioni particolari, come in
presenza di acqua o di terreno particolarmente coerente.
Fondazioni Continue
Se l'edificio è costituito da una struttura continua, quindi da murature portanti, allora anche la
fondazione sarà continua, presentandosi come un allargamento della sezione trasversale del
muro. Negli edifici storici la fondazione continua era costituita da un muro vero e proprio, in
mattoni o in pietra, di sezione maggiore di quello portante. Mentre nell'edilizia moderna, nella
fondazione continua si prevede un cordolo in cemento armato prima dell'allargamento della
sezione. La sezione allargata è solitamente costituita da un getto di calcestruzzo, normalmente
armato. Nella parte inferiore della fondazione, a contatto con il terreno, viene posto uno strato di
magrone contenente 100/150 Kg cemento/mc di cls(calcestruzzo), che è d'aiuto nella fase di
cantiere per la posa in opera del calcestruzzo armato perché questo permette di livellare il
terreno di getto e inoltre serve a distribuire ulteriormente i carichi del terreno e ad isolare le
strutture dall'umidità di contatto qualora l'impasto venga eseguito con basso rapporto
acqua/cemento e debitamente protetto con primer bituminoso e/o bitume. Le fondazioni continue
sono le più usate.
Fondazioni a Trave Rovescia
E’ un sistema utilizzato in presenza di strutture in elevazione a telaio, in questo caso le
sollecitazioni sono maggiori nei punti in corrispondenza dei pilastri. La soluzione consiste nel
ribaltare lo schema statico della travatura in elevazione, collegando fra loro i pilastri della struttura
con delle travi di fondazione dette rovesce. La fondazione che si ottiene è particolarmente efficace
per contrastare i cedimenti differenziati e nella progettazione antisismica.
Fondazioni a Platea
E’un sistema particolarmente utilizzato con strutture particolari o in presenza di terreni deboli.
Può essere considerato uno sviluppo della fondazione a travi rovesce, con in più la presenza di un
solettone inferiore a cui spesso si aggiungono nervature ortogonali secondarie rispetto a quelle
delle travi rovesce, per garantire un ulteriore irrigidimento della struttura. Anche questo tipo di
fondazione viene spesso utilizzata in zone sismiche.
Fondazioni a Plinti
E’ quello utilizzato con strutture a telaio e con carichi elevati. Viene cioè ingrossata la base del
pilastro con un plinto di solito con la forma piramidale. Per assicurare un maggiore legame fra i
diversi plinti vengono spesso collegati con cordoli in calcestruzzo armato; una normativa, ha reso
obbligatorio per progetti in zona sismica, l'utilizzo dei cordoli.
Cemento Armato
Sarebbe meglio e più corretto definirlo Calcestruzzo Armato, composto da una miscela
(cemento,acqua,sabbia e ghiaia) e barre di acciaio annegate al suo interno.
Viene comunemente utilizzato per la realizzazione degli scheletri degli edifici,dei solai o muri di
sostegno.
Può anche essere realizzato in laboratorio(travi e pilastri) in questo caso viene definito
Prefabbricato; si ottiene una migliore qualità del calcestruzzo, ma è normalmente più costosa,
viene usato quando le condizioni climatiche, non consentono di realizzarlo in cantiere, in quanto
non si ha il normale indurimento nei tempi stabiliti. Questa tecnologia è molto sviluppata nei paesi
nordici.
Altra variante è quella relativa al cemento armato Precompresso, soprattutto quando sono
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richieste particolari tecnologie e controlli rigorosi.
Normalmente il calcestruzzo armato viene gettato in cantiere, per ridurre i costi ed evitare problemi
nei nodi(punti che uniscono travi e pilastri).
Fino all’avvento del calcestruzzo armato, la maggior parte delle costruzioni venivano realizzate, in
mattoni pieni e pietre, blocchi di tufo soprattutto nel sud, altri tipi di blocchi pietra locale(granito,
antracite).
Pertanto la struttura della casa era costruita da muri maestri (portanti) e da tramezzi (divisori).
14. 3 - Muri Portanti - Divisori
Sono gli elementi strutturali e rappresentano lo scheletro delle costruzioni con il sistema dei setti
portanti, sopportano il peso della costruzione.
Si differenzia dal muro divisorio, (tramezzo)che serve a delimitare le stanze. Per modificare la
distribuzione interna di un alloggio, appare chiaro che bisogna individuare prima i muri portanti.
È importante sapere che per effettuare degli interventi sui muri portanti, bisogna avere particolare
attenzione e conoscenze tecniche, normalmente sotto la direzione e responsabilità di un tecnico
abilitato,in quanto esiste la possibilità di crollo parziale o totale della struttura.
L’amministratore deve fare particolare attenzione quando le sottopongono delle pratiche
edilizie da vidimare, dove sono interessati muri portanti.
In questi casi è meglio chiedere la consulenza di un esperto e prima di apporre la firma,
eventualmente convocare una assemblea straordinaria per informare i condomini che questo tipo
di intervento è stato progettato e che non ci sono rischi alla struttura del palazzo (produrre
progetto e relazione statica).
I muri divisori, normalmente possono essere demoliti e ricostruiti per organizzare meglio la
distribuzione interna di un alloggio, sempre comunque con la consulenza di un tecnico abilitato,
che fotografa la situazione iniziale prima dell’intervento con sopralluogo ai piani soprastanti, in
modo da evitare contestazioni dopo l’intervento, senza la dovuta documentazione.
14. 4 - Tetto e Solai
È la copertura superiore dell’edificio ed ha la funzione di preservare gli ambienti interni dagli agenti
atmosferici.
Normalmente impedisce l’insorgere di umidità, e di resistere alle sollecitazioni date dalla neve,
pioggia e vento.
Il manto di copertura normalmente è costruito in: tegole, coppi, pietre (lose), lamiere grecate,
legno, rappresenta lo strato esterno del tetto (in questi anni molti sono ricoperti di pannelli
fotovoltaici e solari), deve garantire la tenuta dell’acqua durante le piogge, mentre la struttura
portante deve sostenere il peso del manto e dei carichi di neve e accidentali. Esistono diversi
tipi di coperture:
- coperture continue ; coperture discontinue ; coperture a falde ; tetti piani.
Per costruire i tetti esistono diversi tipi di struttura portante:
- orditura in legno strutturale ora anche lamellare;
- capriate e profilati in acciaio:
- capriate e pannelli in calcestruzzo armato precompresso.
La tecnologia e la ricerca in questo settore ha effettuato dei progressi che unitamente all’entrata in
vigore di normative specifiche Europee, hanno imposto delle caratteristiche e dei vincoli sulla
realizzazione dei tetti che consentono migliore efficienza costruttiva e quindi sicurezza garantita
nel tempo e consistenti risparmi di energia. Vedasi tetti coibentati, aerati, termotetti, con l’utilizzo
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di molti metri quadrati di pannelli fotovoltaici.
L’amministratore preparato deve quindi conoscere le normative che discendono dalla normativa
Europea 2002/91/CE e sua modifica la 2010/31/CE, che sono state recepite dallo stato italiano con
vari decreti : dlgs. (192/2005, 311/2006), e varie leggi regionali che anno stravolto il modo di
costruire e di fare manutenzione sui tetti. E’ importante altresì sapere cosa si intende per
pendenza, impermeabilizzazione, barriere di vapore.
Coperture Continue
Il manto è costituito, con vari materiali, e si distingue dal modo con cui gli elementi anche molto
ampi vengono collegati insieme durante la posa in opera; viene assicurata la tenuta dell’acqua con
qualsiasi pendenza, che deve essere calcolata a seconda del tipo di elemento che si utilizza . Si
dividono ancora per il tipo di :
- tetti impermeabilizzati a freddo a caldo, con membrane bituminose, membrane sintetiche;
- coperture di tegole in laterizio, di cemento, di lastre di fibrocemento, lastre di pietra e rame.
Esistono diverse altre soluzioni.
Tetti a Falde
La forma della superficie della copertura di un edificio caratterizza una o più facce inclinate dette
falde o pioventi. Le caratteristiche sono:
- la linea di colmo, è una retta orizzontale a massima quota che si ottiene come unione tra due
falde inclinate del tetto;
- la linea di gronda, è una retta orizzontale a minima quota che si ottiene come unione tra la falda
inclinata e l’intersezione del piano orizzontale, detto piano d’imposta del tetto.
I tetti a falde sono caratterizzati dal carico che devono sopportare in merito alle precipitazioni
nevose oltre ché, dal tipo di materiale utilizzato per effettuarle. Un ruolo importante lo assumono le
pendenze che normalmente sono del 30- 45%.
Coperture normalmente realizzate con tegole di laterizio sono:
- alla Romana, con tegole Marsigliesi, con tegole Portoghesi, con tegole Olandesi.
Questi tipi di copertura sono caratterizzati da una buona funzionalità, carico di rottura elevato,
facilità di manutenzione, ottima impermeabilizzazione e scorrimento delle acque. Usate anche nei
centri storici con particolari trattamenti per integrarsi nel contesto architettonico della costruzione.
Nei centri storici bisogna stare molto attenti alla manutenzione e ristrutturazione del manto di
copertura, in quanto, ogni comune impone delle regole che devono essere rispettate.(es. non
cambiare il tipo di coppo, usare quello antichizzato, lastre in pietra ecc.). L’amministratore deve
consigliarsi con un tecnico abilitato e verificare presso gli uffici comunali, che tipo di procedura
amministrativa bisogna eseguire onde evitare sanzioni per opere non autorizzate, e quindi
considerate abusive prima di effettuare l’assemblea in cui si discuta la ristrutturazione del manto di
copertura.
Coperture realizzate con tegole di cemento
Si differenziano principalmente in:
coperture in coppi di Francia, coppi di Grecia, in tegole doppia Romana. Esistono altri tipi di
coperture realizzate in materiali lapidei, come l’ardesia, lastre di pietra, soprattutto nei paesi
montani dove questo materiale è facilmente reperibile e il piano regolatore generale prevede per
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le costruzione il tetto con tali caratteristiche (Valle d’Aosta, Trentino).
Esistono coperture più moderne e molto più funzionali costituite in lastre di fibra di cemento, di
facile manutenzione oltre che ad un prezzo più conveniente.
Altri tipi di copertura sono realizzate con tegole bituminose, in rame, o in lamiera grecata,
consentono di realizzare falde con superfici complesse, come cupole o falde con particolari
inclinazioni o di grandi superfici.
Isolamento Termico del tetto a Falde
Le superfici di un edificio disperdono calore, in misura maggiore anche quelle che costituiscono il
tetto. Pertanto nelle costruzioni di oggi viste le innovazioni tecnologiche dei materiali e la
particolare attenzione nella posa per cercare di ridurre il più possibile la dispersione termica.
Si possono effettuare delle distinzioni che servono a chiarire meglio i concetti di isolamento
termico di sottotetto abitabile, e di sottotetto non abitabile.
Il modo di isolare è diverso, come diverse sono le soluzioni adattabili: inserendo lo strato isolante
nella struttura portante, oppure sopra la struttura nella costruzione dei nuovi edifici.
Lo strato isolante può essere applicato sull’estradosso del solaio di una copertura dell’ultimo piano
dell’edificio. Normalmente si getta un massetto di cemento sopra l’isolamento per non danneggiare
il tipo di isolante e rendere agevole l’utilizzo del piano sottotetto.
Canali di Gronda
Sono usati per raccogliere e smaltire le acque piovane del tetto. Vengono posati con particolare
attenzione fissandoli alla struttura portante mediante staffe a distanza stabilita (50-80cm), deve
essere garantita una pendenza nei punti di raccolta in modo che l’acqua possa essere trasferita in
canali di discesa di apposita sezione chiamati Pluviali.
Tali canali possono essere realizzati in: lamiera zincata, acciaio, rame, oppure formati da
cornicioni di calcestruzzo armato e successivamente impermeabilizzati con guaine bituminose.
Esistono anche canali di gronde in PVC sia incassate nelle strutture che esterne, vantano un
indubbio primato in termini di sicurezza, leggerezza, economicità , funzionalità, durata, resistenza
e facilità nel montaggio Ruolo molto importante gioca la manutenzione di questi tipi di canali che è
la più diversificata, considerando poi che non sono facilmente raggiungibili (vista l’altezza dal suolo
che sono installati) se non con cestello aereo, quindi visti gli elevati costi per l’intervento,
l’eventuale manutenzione o sostituzione deve essere
curata
da artigiani qualificati e
l’amministratore, deve essere in grado di poter valutare i lavori e controllarne l’esecuzione, oltre
che consigliare inizialmente i condomini quale tipo di gronda o pluviale installare.
Tetti Piani
Molte costruzioni e anche tanti condominiì hanno la copertura che termina con un tetto piano. Una
norma UNI definisce tetto piano quelli con una pendenza inferiore al 5%.
Il sistema di impermeabilizzazione deve essere particolarmente curato e viene eseguito
normalmente con uno o più strati di guaina bituminosa, in modo da assicurare con la relativa
pendenza lo scorrimento dell’acqua fino allo scarico. Pertanto la zona di imbocco deve essere ad
un livello inferiore alla quota minima di pendenza. Bisogna effettuare delle accurate considerazioni
per scegliere il tipo di impermeabilizzazione:
- quanto la copertura sia accessibile e come sono dislocati e gestibili gli scarichi;
- le condizioni climatiche
come possono danneggiare
irraggiamento solare, sbalzi termici, temperature elevate;
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la copertura, eccessivo
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- possibilità e necessità di avere un isolamento termico all’interno.
È importante effettuare ulteriori considerazioni, se il tetto piano è accessibile e praticabile,
oppure se l’accesso è consentito solo al personale tecnico per la manutenzione.
Se il tetto piano è praticabile deve essere protetto contro il rischio di cedimento o danneggiamento
del materiale impermeabilizzante, di solito sono dotati di pavimentazione.
Nel caso di adattamento a terrazzi i tetti piani possono essere dotati anche di giardini pensili,
oppure possono essere tetti carrabili adatti per esposizione o parcheggi auto.
E’ importante che l’amministratore sappia, che tipo di tetto piano è presente in quel condominio,
cosa prescrive il regolamento di condominio e il codice civile per quanto riguarda la
manutenzione o l’eventuale rifacimento, e la ripartizione delle spese. Altra considerazione
importante da effettuare sul tetto piano è il tipo di isolamento termico.
Durante la stagione invernale il vapore risale attraverso la soletta portante e può
condensarsi dentro lo strato isolante.
A causa della membrana impermeabilizzante, non può evaporare verso l’esterno, così si
accumula negli strati e una parte ridiscende verso il basso.
Nella stagione estiva l’acqua accumulata negli strati si trasforma in vapore, causando la
formazione di bolle sulla membrana impermeabile.
Una barriera al vapore riesce ad evitare entrambi gli inconvenienti in quanto impedisce la
formazione della condensa.
I materiali più usati fogli di alluminio, membrane di bitume polimero. Quindi la barriera al
vapore è necessaria quando l’isolante possiede una forte permeabilità al vapore; non è
indispensabile quando l’isolante non è permeabile al vapore (vetro cellulare). Anche in questi casi
la competenza dell’amministratore è importante per capire se trattasi di condensa, o di perdita e
quindi decidere l’intervento più appropriato.
Altre caratteristiche che devono possedere i tetti piani sono: impermeabili all’acqua, resistenti ai
carichi, (vento neve carichi accidentali) per evitare situazioni critiche, come per capillarità a causa
del ciclo di gelo e disgelo,sé non verificate possono causare condensazioni in superficie e negli
strati che compongono la copertura.
14.5 - La Trasmittanza termica
L’isolamento della copertura è essenziale per ridurre la dispersione termica, comportando
notevole economia di esercizio e vantaggi in termini di comfort abitativo.
L’isolamento termico del tetto svolge anche una funzione protettiva, nei confronti della struttura,
soprattutto se questa è in legno e durante i periodi estivi.
L’effetto delle radiazioni solari può alzare la temperatura superficiale dell’estradosso del manto di
copertura da 10°C a 30°C superiore alla temperatura dell’aria esterna. Si crea quindi un ponte
termico tra l’interno e l’esterno della copertura molto elevato. Questo fa aumentare ulteriormente la
temperatura interna dell’edificio attraverso la trasmissione del calore che può avvenire attraverso il
tetto nel caso non sia presente un buon isolante termico.
Lo stesso ragionamento si deve effettuare per il periodo invernale e quindi con un buon
isolamento termico si possono ridurre i consumi di combustibile e migliorare il comfort nelle
abitazioni.
Gli interventi per isolare termicamente il tetto né esistono di diverso tipo con varietà di costi in
relazione ai consumi energetici che si intendono ottenere. Le dispersioni di calore attraverso i tetti
non isolati termicamente sono dell’ordine del 25%- 30% delle dispersioni totali dell’edificio.
14.6 - Resistenza al fuoco
Le strutture portanti e separanti devono rispettare le normative stabilite dal D. M. del 9 aprile 1994
in funzione dell’altezza del canale di gronda dal livello antincendio dell’edificio. Nel caso in cui gli
elementi strutturali della copertura, non collaborino alla statica complessiva dell’edificio ma
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debbano garantire solo la propria stabilità, devono avere caratteristiche di resistenza al fuoco
equivalenti ai locali immediatamente sottostanti con un minimo di REI30 indipendentemente
dall’altezza del fabbricato.
È molto importante ottenere la libera circolazione dell’aria dalla linea di gronda al colmo in
quanto consente: lo smaltimento dell’eccessivo calore causato dall’irraggiamento estivo,
maggiore durata delle tegole grazie al mantenimento di condizioni di temperatura e di umidità
simili.
14.7 - Solai
Sono delle strutture bidimensionali piane, caricate ortogonalmente al proprio piano, con
comportamento resistente principalmente monodirezionale. Svolgono il compito di assolvere alla
sicurezza statica, ripartendo i carichi sulle travi perimetrali della struttura.
La struttura portante del solaio può essere realizzata: legno, calcestruzzo armato, acciaio con
presenza di altri materiali, (laterizio,polistirolo) con la funzione di alleggerire la struttura.
Con l’esigenza di avere delle abitazioni elevate in altezza o il piano di calpestio più alto del terreno
è nata la tecnica per realizzare solai sempre più sicuri ed avanzati tecnologicamente.
Il modo, più semplice di realizzare un solaio è quello di utilizzare un’orditura in legno, le cui travi
principali coprono la luce del locale.
I solai in legno strutturale se ben progettati non temono: l’umidità, le termiti, e resistono
meglio di altri all’incendio.
Questo perché il processo di carbonizzazione dello strato esterno protegge la parte interna della
trave consentendo un tempo necessario per abbandonare l’edificio.
Solai con travi in legno e calcestruzzo
Si possono utilizzare travetti in legno opportunamente dimensionati con elementi interposti tipo
tavelle o tavelloni per alleggerire la struttura.
Sull’estradosso si realizzano dei cassettoni metallici che tengono insieme la struttura,
successivamente si completa l’opera con un getto di calcestruzzo su tutta la superficie.
Gia i romani realizzavano i solai in legno strutturale e laterizio, mentre per coprire i grandi ambienti
usavano la tecnica della volta in laterizio che a sua volta veniva riempita nell’intradosso fino a
creare un piano di appoggio, del piano superiore o per la copertura.
Solai in acciaio e laterizi
Con
l’utilizzo dell’acciaio, vengono usati travetti costituiti da profilati a doppio T, chiamati
putrelle, interponendo tra gli spazi tavelle o tavelloni per alleggerire la struttura.
Successivamente su tutta la superficie si stende una rete elettrosaldata, completando poi
con un getto di calcestruzzo, dopo aver realizzato con apposita armatura la caldana. Per
tutto l’800 e meta del 900 si usava realizzare delle voltine dette alla romana, piccole volte
a botte in mattoni tra la luce dei travetti. È un solaio molto elastico ma può trasferire
umidità all’interno se i travetti sono a contatto con l’esterno.
Solaio in calcestruzzo armato e laterizio
È una tecnica sviluppata per ultima in ordine di tempo, è molto diffusa e utilizzata per realizzare
solai semplici in normali abitazioni visti i costi relativamente contenuti.
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Quanto è stato trattato in merito alle nozioni sulle costruzioni non è certo completo in tutte
le parti, né dettagliata nei particolari costruttivi o ricco di normative a cui si deve
fare riferimento per tutti i punti trattati, ma vuole essere una guida semplice per
informare e rendere consapevole l’amministratore immobiliare che le problematiche
da affrontare per gestire con professionalità e competenza il difficile e impegnativo
lavoro a cui siamo chiamati, richiede oltre che l’impegno, la serietà, la competenza
e il continuo aggiornamento professionale. E’ molto importante che l’amministratore
immobiliare, sia continuamente informato sulle normative che cambiano
velocemente e quindi necessario essere molto attenti e oculati quando si devono
effettuare manutenzioni o ristrutturazioni sui condomini per sapere quali siano i
dispositivi e i procedimenti autorizzativi di cui bisogna essere in possesso, prima di
procedere ad effettuare i lavori per non incorrere in eventuali sanzioni
amministrative oltre che essere coinvolti i possibili procedimenti civili o penali per
negligenza.
14.8 – Piscine
“Si definisce piscina un complesso attrezzato per la balneazione che comporti la presenza
di uno o più bacini artificiali utilizzati per attività ricreative, formative sportive e
terapeutiche esercitate nell’acqua contenuta nei bacini stessi”
Progetto tipo di piscina Castiglione
Questa è la definizione contenuta nel documento della seduta n. 1605 del 16 gennaio 2003 della
Conferenza Stato Regioni del 16 gennaio 2003, (successivamente l’accordo Regione-Province
autonome di Trento e Bolzano del 16 dicembre 2004 che contiene la disciplina interregionale
per le piscine) che definisce e classifica il tipo di piscina e stabilisce i criteri igienico-sanitari
per la costruzione, manutenzione e vigilanza delle Piscine.
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Le piscine vengono classificate in base alla loro destinazione, le cui caratteristiche strutturali e
gestionali specifiche sono stabilite da ogni Regione. Né esistono varie tipologie: possono
essere di proprietà pubblica o privata destinate ad un’utenza pubblica; piscine pubbliche
(come le comunali), piscine ad uso collettivo (alberghi, palestre, complessi), piscine ad uso
speciale (stazioni termali), piscine condominiali, (art. 1117 c.c ) sono destinate
esclusivamente ai condomini e suoi ospiti .
Il CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) con deliberazione n.° 851 del 15 luglio 1999, ha
approvato i livelli minimi quantitativi e qualitativi da rispettare nella ristrutturazione e
realizzazione di nuove piscine sportive, destinati alla pratica di discipline regolamentate dalle
Federazioni.
Per eseguire la progettazione di una piscina servono delle specifiche competenze e deve essere
eseguita con molta cura vista la delicatezza della materia. La sua realizzazione deve rispettare
regole e normative per non avere in seguito problemi di difficile soluzione. Non sono solo quattro
muri che si riempiono d’acqua, ma deve essere mantenuta sana e pulita, queste semplici
caratteristiche non sono cosi semplici da ottenere.
Molti progettisti dedicano molta attenzione alla forma, sicuramente importante ma pochi si
dedicano con le giuste competenze a progettare un buon sistema di ricircolo.
Per quanto riguarda la progettazione bisogna effettuare subito una distinzione tra: piscine private,
dove non esiste una normativa tecnica obbligatoria a cui fare riferimento, piscine pubbliche,
semi-pubbliche, condominiali
o quelle inserite in strutture turistiche ricettive, sarebbe
consigliabile adattare il progetto alla norma UNI n. 10637. Il 10giugno 2009 sono state pubblicate
due norme: UNI EN n°. 15288-1/2 dove nella parte 1: vengono stabiliti i requisiti di sicurezza per
la progettazione, la pianificazione, la costruzione.
Nella parte 2: sono specificati i requisiti di sicurezza per il funzionamento e la gestione delle
piscine, e tutela i rischi per il personale e per gli utenti delle piscine pubbliche, identificando le
precauzioni
necessarie
per
l’utilizzo
delle
piscine
in
sicurezza.
Non progettare correttamente una piscina, causa nel tempo delle conseguenze fastidiose per
problemi strutturali ed impiantistici e a volte anche per esecuzioni eseguite in modo
approssimativo.
Autorizzazioni necessarie per costruire una piscina.
La normativa italiana in merito è molto confusa e spesso viene interpretata non correttamente. In
ogni regione e spesso in molti comuni le normative sono diverse e non consentono di avere un
indirizzo univoco su quali autorizzazioni siano necessarie.
Pertanto chiariamo che per costruire una piscina occorre una autorizzazione, costruirla senza
titolo significa esporre a dei provvedimenti penali, il proprietario, il costruttore, il progettista.
Vediamo quale tipo di autorizzazione sia necessaria:
- permesso di costruire;
necessario per tutti gli interventi di nuova costruzione, che comportano una trasformazione edilizia
urbanistica del territorio, sia per opere
realizzate fuoriterra che per quelle interrate;
- D.I.A (Denuncia Inizio Attività);
Si possono eseguire delle opere non riconducibili all’edilizia libera (manutenzione ordinaria) o nel
permesso di costruire, ma rientrano gli interventi di natura pertinenziale, quelli per cui non si
supera una volumetria superiore al 20% del fabbricato principale. Mentre se la costruzione di una
piscina intesa come opera pertinenziale supera il volume del 20% del fabbricato principale, viene
considerata nuova costruzione ed è necessario il permesso di costruire, oppure se la zona è di
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particolare pregio o sottoposta a vincoli urbanistici. Se dopo 30 giorni dalla presentazione
della D.I.A. non si riceve risposta dall’autorità comunale il titolo, costituisce autorizzazione a
costruire ed ha lo stesso valore giuridico del permesso di costruire.
- Autorizzazione Edilizia.
Molti regolamenti edilizi comunali prevedono ancora diversi interventi soggetti ad autorizzazione
edilizia indicando le modalità per il rilascio, nonostante che il provvedimento legislativo D.L. del
23gennaio 1982 n. 9 convertito in legge il 25/marzo 1982 n. 94, ma abrogato dall’entrata in vigore
del T.U.E., prevedeva l’autorizzazione edilizia gratuita per interventi di piscine pertinenziali e
impianti tecnologici al servizio di edifici esistenti.
Una sentenza della cassazione penale sez. III n. 6930 - del 27/gennaio/ 2004 chiarisce senza
dubbio che la costruzione di una piscina non rientra in un intervento di Edilizia Libera, anche se
trattasi di interventi interrati in quanto la sentenza specifica :”sono subordinati al preventivo
rilascio del permesso di costruire anche gli interventi che comportano la trasformazione in
modo permanente del suolo inedificato”
Dopo l’entrata in vigore del Testo Unico dell’Edilizia (T.U.E) con D.P.R. n. 380 del 6/giugno 2001,
viene chiarito che per la trasformazione del suolo in modo permanente occorre il permesso di
costruire, come stabilito da una recente sentenza della cassazione penale sez. III del 4 aprile
2008 n. 14243.
Specificamente anche in merito ai lavori per la costruzione delle piscine la cassazione penale sez.
III ha ribadito il concetto con due sentenze: del 27 settembre 2000 n. 12288 e del 29aprile 2003 n.
26197.
Non occorre specifico permesso di costruire se la piscina è già prevista nel progetto iniziale di un
albergo, stazione termale, o condominio .
Il Testo Unico Edilizia prevede che le Regioni a statuto ordinario con legge possono modificare le
disposizioni che riguardano le opere eseguibili con D.I.A. ma conformi ai piani regolatori generali.
Rivestono particolare importanza i controlli che vengono effettuati e si distinguono:
- controllo interno;
Il responsabile della piscina in base alle normative deve garantire e far applicare il corretto
funzionamento igienico-sanitario e di tutti gli elementi funzionali e della sicurezza, oltre a tenere
aggiornato il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR);
- controllo esterno;
Controlli effettuati dalla Azienda Sanitaria Locale (A.S.L.) di competenza, devono effettuare
prelievi e controlli dell’acqua secondo criteri stabiliti dalla competente Regione.
Qualora accertino che non sono garantiti i requisiti possono disporre sanzioni amministrative e
ordinare anche la chiusura della piscina fino a che non sono rispettati i requisiti e una successiva
verifica dell’ASL non revoca il provvedimento.
Elenchiamo le Regioni che hanno emesso normativa in merito alle piscine:
Provincia di Bolzano D.(delibera) del 28giugno 2004;
Emilia Romagna DGR.(Delibera Giunta Regionale ) del 18 luglio 2005:
Lombardia DGR. del 17 maggio 2006;
Marche DGR. del 24 luglio 2006;
Liguria DGR. del 4 agosto 2006;
Toscana LR.(legge Regionale)
del 9marzo 2006;
Provincia di Trento D. 9 marzo 2007;
Umbria LR. del 6 febbraio 2007;
Calabria LR. del 12 dicembre 2007;
Puglia LR. del 15 dicembre 2008;
Repubblica di San Marino Delibera del 6 marzo 2006.
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La Regione Piemonte, ha in discussione un disegno di legge la n. 150 ma che ancora non è stata
approvata.
Mentre, per le regioni che non si sono dotate di una normativa, è difficile consigliare che cosa sia
necessario fare quando si deve progettare la costruzione, o la ristrutturazione di una piscina.
Devono essere tenuti presenti due punti:
1°) riguarda le indicazioni contenute nell’Allegato 1 dell’Accordo 2003, che indica i parametri
impiantistici che devono essere rispettati, quali i requisiti chimico-batteriologici dell’acqua della
piscina. Tali indicazioni non sono derogabili dalle Regioni e sono state recepite praticamente da
tutte, le ASL quindi quando eseguono i propri controlli, si adeguano a quanto riportato in questo
documento;
2°) riguarda la Norma UNI 10637 aggiornata nel 2006, ed è punto di riferimento di tutte le
normative regionali emanate fino ad oggi e indica le regole per la realizzazione degli impianti di
trattamento dell’acqua. Anche nelle regioni che non hanno legiferato si consiglia di seguire questa
norma, poiché in caso di contenzioso il Tribunale la terrà come riferimento e in giusta
considerazione per emettere la sentenza, visto che è l’unico atto a cui oggettivamente ci si può
attenere.
Altre normative da consultare e tenere presenti: norme CONI, norme FIN (Federazione Italiana
Nuoto), norme FINA, norme UNI, D.M. (Decreto Ministeriale ) del 18 marzo 1996, Dlgs. n.
152/1999 e allegati del 11 maggio 1999 legislazione sulle acque di scarico, norme ISPELS e
molte altre ancora.
Pertanto l’amministratore che amministra stabilimenti balneari o strutture dove sono presenti
piscine, deve fare particolare attenzione, informandosi sulle normative vigenti Regionale di
competenza e normative generali, per essere correttamente informato e poter gestire con
professionalità, gli importanti adempimenti relativi della costruzione della manutenzione e gestione
di una piscina riducendo al minimo i rischi e le responsabilità un mandato non certo facile e
sicuramente impegnativo.
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MODULO 15
Compravendita e locazione immobiliari
(Gian Vincenzo Tortorici - Francesca Raia)
15.1 - Il contratto di compravendita
Il contratto di compravendita è disciplinato dagli artt. 1470 e ss. c.c. ed è definito: come “il
contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro
diritto verso il corrispettivo di un prezzo”.
Ne deriva che la compravendita dà luogo ad un acquisto inter vivos (ovvero che si perfeziona a
seguito di un atto o di un negozio tra persone viventi, a differenza dell’acquisto mortis causa che
avviene a titolo ereditario), a titolo derivativo (che trova fonte nel diritto di un precedente titolare
che trasmette all’acquirente un proprio diritto, così come sussiste in capo a se medesimo) e
oneroso. Inoltre, è un contratto consensuale, essendo sufficiente il solo consenso delle parti
legittimamente manifestato per perfezionare tale negozio giuridico e dallo scambio dei consensi ne
discende direttamente il trasferimento del diritto oggetto del contratto (contratto ad effetti reali).
E’, inoltre, un contratto a prestazioni corrispettive, nel senso che il suddetto trasferimento del
diritto determina il pagamento del pagamento del prezzo e viceversa.
Quanto alla forma del contratto, essa è libera, salvo che abbia ad oggetto beni immobili, dato
che in tal caso la forma richiesta è quella scritta a pena di nullità (art. 1350 c.c.). Nel caso della
compravendita immobiliare, infatti, la forma scritta è obbligatoria per la validità del contratto e, anzi,
è prescritta la cosiddetta forma solenne dell’atto pubblico redatto da un pubblico ufficiale e
successivamente trascritto alla Conservatoria dei Registri Immobiliari; tale trascrizione ha effetto di
pubblicità-notizia tale da rendere opponibile ai terzi il contenuto dell’atto e dei suoi allegati, tra i
quali il regolamento di condominio e le tabelle millesimali.
Oggetto del contratto di compravendita possono essere sia beni mobili che beni immobili e, per
quanto interessa in questa sede, ci si occuperà di trattare solo del contratto di compravendita
aventi ad oggetto cose immobili.
15.2 - La compravendita immobiliare
La vendita di cose immobili è sottoposta a vincoli di forma e di pubblicità, ma, soprattutto in
taluni settori del mercato, è molto sentita l’esigenza di una regolamentazione più specifica che si
coordini con le norme di pianificazione pubblica del territorio e di tutela degli acquirenti dei beni
destinati alla soddisfazione dei bisogni primari, quali l’abitazione.
Occorre ora analizzare nello specifico le principali fasi che costituiscono la compravendita
immobiliare e, innanzitutto, non si può non rilevare il fatto che gli atti di compravendita immobiliare
dal punto di vista giuridico sono semplici scritture private che non necessiterebbero dell’intervento
di terzi, oltre al compratore e al venditore, se non all’atto dell’autentica delle firme da parte del
notaio, necessaria affinché si abbia per riconosciuta in caso di controversia (art. 2703 c.c.).
Considerata però sia la complessità e la delicatezza del tipo di transazione economica in
questione, dove ogni errore od omissione produce effetti giuridici rilevanti, sia l’obbligo di redigere
con atto pubblico i contratti che trasferiscono la proprietà di tali beni, le parti si rivolgono al notaio
anche per la stesura degli atti prodromi (ad es., il compromesso) nella forma di “atto pubblico”,
delegando a quest’ultimo i controlli di rito.
Discorso diverso riguarda la figura dell’agente immobiliare, tipico intermediario nell’attività di
ricerca della controparte (acquirente o venditore che sia) e nella gestione dei primi contatti. Pur se
utile e comoda, la sua intermediazione non è però strettamente necessaria.
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15.3 - La mediazione immobiliare
Chi deve vendere e chi deve comprare un bene immobile sovente non sa come concretamente
svolgere tutti gli incombenti necessari e, pertanto si reca presso una o più agenzie immobiliari
conferendo l’incarico di provvedere a vendere o acquistare un immobile e sottoscrivendo, pertanto,
un contratto di mediazione. Il mediatore è definito dall’art. 1755 c.c. come “colui che mette in
relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da
rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”.
Per tale contratto di mediazione non è prevista alcuna forma particolare ai fini della validità dello
stesso ed è, quindi, un contratto a forma libera (c.d. “verbale”), ma sempre più agenzie immobiliari,
ai fini della garanzia di “trasparenza”, sottopongono ai clienti un contratto scritto sulla falsariga di
quello che le loro maggiori associazioni di categoria (F.I.M.A.A., F.I.A.I.P. e A.N.A.M.A.) hanno
predisposto proprio a vantaggio dei loro aderenti.
Allorché il proprietario di un immobile decide di alienarlo conferisce l’incarico di vendita che
rappresenta l’accordo che l’aspirante venditore sottoscrive con l’agente immobiliare, impegnandosi
per un determinato lasso di tempo ad avvalersi della sua opera ai fini di una futura vendita e a tal
riguardo occorre fare particolare attenzione alla durata del rapporto, alla presenza dell’eventuale
clausola di esclusiva e alle c.d. penali.
La durata, infatti, deve essere specificata dettagliatamente e potrebbe rinnovarsi tacitamente in
mancanza di una disdetta scritta inviata con un prestabilito anticipo. Al di fuori di tale ipotesi il
recesso del venditore non è possibile, poiché si tratta generalmente di impegni irrevocabili, a meno
che non si paghino le penali che normalmente vengono convenute in contratto.
Quanto alla “clausola di esclusiva”, se viene precisato che l’accordo è in esclusiva, il venditore
non potrà concludere l’affare con l’aiuto di altre agenzie o privatamente, pena il pagamento, non
solo della provvigione, ma anche delle penali. Diversamente, quando la clausola di esclusiva non è
pattuita , è sufficiente la comunicazione – per raccomandata con ricevuta di ritorno – di aver
venduto l’immobile tramite altri canali per far sì che l’incarico si risolva senza penalizzazioni né
oneri.
Resta da approfondire l’argomento della “provvigione” (art. 1755 c.c.), ovvero il compenso
dovuto per la mediazione, cioè la commissione di un’agenzia immobiliare per la vendita di un bene
immobile.
Il contratto di mediazione, con la rilevante riforma legislativa operata dalla legge 3 febbraio
1989, n. 39 e successive integrazioni (legge 5 marzo 2001, n. 57) è caratterizzato dalla
professionalità dell’agente immobiliare che proprio in quanto professionista ha diritto alla
provvigione, solo se iscritto al ruolo camerale.
La provvigione, peraltro, non è fissata da alcuna legge e quindi è liberamente stabilita tra le
parti; in caso contrario è stabilita nel suo massimo e nel suo minimo dalle giunte camerali, sentite
le apposite commissioni provinciali, istituite presso le Camere di Commercio. Ad ogni modo, essa
oscilla usualmente tra il 2 e il 3% del valore del prezzo di vendita ed è dovuta da entrambe le parti,
venditore e acquirente, a garanzia della neutralità e dell’indipendenza del mediatore.
Inoltre il diritto del mediatore a ricevere il compenso si perfeziona nel momento in cui “l’affare è
concluso per effetto del suo intervento”, ovvero il diritto del mediatore alla provvigione è
strettamente correlato alla conclusione dell’affare attuata tramite la sua opera, quindi, nel momento
in cui viene firmato il compromesso o l’accettazione di una proposta irrevocabile di acquisto (Cass.
15 settembre 2006, n. 19066). Affinché il diritto alla provvigione sussista, è sufficiente che le parti
si servano consapevolmente dell’attività dell’intermediario. Anche se poi le parti consensualmente
risolvono il contratto, la provvigione è comunque dovuta.
Quanto alle responsabilità del mediatore, occorre sottolineare che queste sorgono in relazione
al mancato adempimento degli obblighi contrattuali e di legge posti a suo carico. Tra questi ultimi si
rammenta che a partire dal 1° gennaio 2007, per effetto della legge 27 dicembre 2006, n. 296,
l’agente immobiliare diventa co-responsabile, con i contraenti, della registrazione e del pagamento
dell’imposta di registro per quanto riguarda tutti gli atti – redatti come scrittura privata non
autenticata – stipulati a seguito della sua attività. Inoltre gli agenti immobiliari sono soggetti agli
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adempimenti della legge 16 marzo 2006, n. 141 in tema di antiriciclaggio.
15.4 - La proposta irrevocabile di acquisto
La proposta irrevocabile d’acquisto è l’atto sottoscritto dal potenziale acquirente di un immobile
(su modulo proposto dall’agenzia, se viene usato un intermediario), contenente precise promesse
fatte al venditore inerenti alle condizioni di acquisto.
I dati che devono necessariamente essere presenti sull’atto, indirizzato al venditore, sono
relativi al compratore, all’identificazione dell’immobile, al prezzo, alle modalità e ai termini di
pagamento, alla data e al luogo dell’atto definitivo, alla data di scadenza di validità della proposta e
alle eventuali penali previste in caso di inadempienza.
Il documento, che deve essere inoltrato al venditore tramite raccomandata con ricevuta di
ritorno, o tramite lo stesso agente immobiliare incaricato, impegna solo il compratore almeno fino
all’eventuale accettazione scritta del venditore, da inoltrarsi sempre con raccomandata a/r entro il
termine indicato dall’acquirente.
Si deve rilevare che se il venditore non accetta nei modi e nei tempi prefissati, il compratore è
liberato dalla proposta avanzata, poiché questa perde di efficacia; in tal caso, se l’acquirente
avesse versato somme a titolo di caparra confirmatoria o di acconto, queste devono essere
restituite. Se, per contro, il venditore accetta la proposta l’acquirente è obbligato ad acquistare alle
condizioni concordate, in quanto la sua proposta si trasforma in un contratto valido per ambedue le
parti (art. 1326 c.c.).
Perfezionatosi l’accordo una delle parti può successivamente divenire inadempiente e pertanto
se il promissario acquirente rifiuta di concludere il contratto il venditore ha diritto di trattenere la
caparra confirmatoria quale risarcimento dei danni patiti, salva la possibilità di provare un maggior
danno patito; se, invece, l’inadempimento è imputabile al venditore, questi deve restituire la
caparra in misura raddoppiata, salvo il diritto dell’acquirente di ottenere giudizialmente il
trasferimento coatto della proprietà dell’immobile (art. 2932 c.c.), purché abbia offerto formalmente
il pagamento del prezzo o del saldo del medesimo (Cass. 13 luglio 2007, n. 26226).
15.5 - Il contratto preliminare e il compromesso
Nella fase precedente la stipulazione del contratto definitivo di compravendita immobiliare,
normalmente chiamato “rogito”, quindi al termine delle trattative per la vendita e l’acquisto di uno
specifico immobile, le parti possono stabilire di sottoscrivere un contratto preliminare o un
compromesso.
Con il contratto preliminare le parti determinano, in linea generale il contenuto essenziale del
contratto definitivo e si obbligano a stipulare tale contratto definitivo entro un determinato tempo.
Tuttavia, solo con la stipulazione di quest’ultimo atto l’acquirente acquisterà la proprietà del bene in
oggetto.
Con il compromesso, viceversa, le parti dichiarano di volere immediatamente gli effetti del
contratto (ad esempio, il trasferimento del possesso dell’appartamento al fine di poterlo
ristrutturare), promettendo di riprodurre tutte le clausole contrattuali già pattuite dettagliatamente
nell’atto notarile, ai fini della trascrizione nei Registri Immobiliari.
Spesso nella pratica risulta difficile stabilire con precisione se le parti abbiano voluto
sottoscrivere un contratto preliminare o un compromesso e la giurisprudenza ha stabilito che
l’espressione usata dai contraenti non è determinante per accertarne la natura.
In entrambi i casi, comunque, il contratto preliminare o il compromesso sono nulli se non sono
stipulati nella stessa forma che la legge prescrive per l’atto definitivo e, dunque, in forma scritta.
Nel preliminare vanno inserite tutte le clausole che le parti ritengono opportune a loro garanzia
e soprattutto a tutela di quella ritenuta dallo stesso legislatore soggetta a maggiori rischi finanziari,
cioè dell’acquirente; tra queste ha particolare rilievo quella con cui il venditore afferma che
l’immobile oggetto del contratto è libero da oneri e pesi pregiudizievoli (Cass. civ. 4 ottobre 2004,
n. 19812).
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Nel preliminare devono essere definiti gli accordi presi, poiché questo è il documento che
impegna le parti, con precise conseguenze in caso di mancato rispetto delle convenzioni pattuite. Il
rogito, infatti, rappresenta, la formalizzazione degli impegni assunti anche se è possibile apportare
alcune variazioni, purché le parti siano consapevolmente d’accordo.
Il compromesso e l’atto preliminare contengono diverse clausole obbligatorie o convenzionali
inerenti a:
– generalità complete delle parti;
– dati identificativi dell’immobile (risultanze catastali, vani, pertinenze);
– prezzo dell’immobile nonché modalità e termini di pagamento;
– regolarità dell’immobile rispetto alle norme edilizie ed esistenza di eventuali vincoli (ipoteche,
servitù, etc.);
– titolo di provenienza della proprietà ed eventuali limitazioni;
– ricevuta contestuale del versamento dell’acconto o della caparra (per prassi il 20-25% del
prezzo totale);
– penali in caso di inadempimento di una delle parti;
– regolarità fiscale per quanto attiene all’assolvimento delle imposte da parte del venditore;
– data entro la quale deve essere sottoscritto il rogito;
– arbitrato per risolvere le eventuali controversie insorgende.
Tali atti devono essere datati e firmati.
Si segnala altresì che i contratti preliminari, nel caso in cui siano redatti come atto pubblico o
scrittura privata autenticata, devono essere registrati e trascritti in Conservatoria a garanzia
dell’acquirente per la solvibilità del venditore; infatti una siffatta trascrizione consente al
compratore, nell’ipotesi di fallimento del venditore, di insinuare il proprio credito, derivante dagli
acconti versati, in via privilegiata (art. 2645 bis c.c.) al fine di poter soddisfare il suo credito in tutto
o in parte con l’attivo ricavato dalla vendita dei beni del fallito.
Gli effetti della suddetta trascrizione cessano, in ogni caso, se il contratto definitivo non viene a
sua volta trascritto entro o un anno dalla data in cui era prevista la sua stipula o, comunque, tre
anni dalla trascrizione del preliminare.
15.6 - L’atto di compravendita: il c.d. rogito
Il contratto definitivo di compravendita segna il definitivo passaggio della proprietà del bene e fa
sorgere l’obbligo di pagare il prezzo, o il saldo di questo, da parte dell’acquirente, salvo specifiche
clausole con le quali il venditore si riserva il diritto di trasferirla successivamente, ad esempio
terminata la rateizzazione concessa per il pagamento dell’intero prezzo di vendita.
Tutti gli accordi precedenti, formalizzati o meno, sono volti a giungere alla stipula del contratto
definitivo e se ivi non riportati si intendono rinunciati dalle parti.
Considerati gli adempimenti di natura civile, amministrativa e fiscale, generalmente l’atto viene
redatto dal notaio nella forma dell’atto pubblico.
In particolare, il notaio dà all’atto efficacia pubblica, garantendo non solo l’identità delle parti
sottoscrittrici, ma anche la veridicità di quanto in esso viene dichiarato e asserito in sua presenza;
l’atto pubblico si differenzia dalla scrittura privata autenticata, in quanto in questa il notaio si limita
a riconoscere avvenuta in sua presenza la sottoscrizione dell’atto. Al notaio spettano tutti i controlli
formali riguardo l’eventuale esistenza di ipoteche o altri vincoli pregiudizievoli (pignoramenti,
sequestri, servitù, etc.), nonché riportare le dichiarazioni delle parti concernenti la regolarità
urbanistica e fiscale dell’immobile ammonendole delle responsabilità nelle quali incorrono in caso
di loro falsità.
Nel caso in cui il compratore non abbia la disponibilità complessiva della somma necessaria ad
acquistare il bene immobile può contestualmente al rogito stipulare il contratto di mutuo erogatogli
da un istituto bancario.
Con la sottoscrizione del rogito sono assolte anche le imposte (registro, IVA, ipocatastali, etc.) e
contestualmente viene pagata la parcella del notaio e la provvigione al mediatore.
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Il contratto di compravendita definitivo deve riportare, oltre a quanto già contenuto nel
preliminare o nel compromesso, anche:
– la dichiarazione delle parti o anche di una sola di esse concernente la circostanza se si sono
avvalse di un mediatore, i suoi dati identificativi e il compenso versato;
– la prestazione della garanzia da parte del venditore per i vizi;
– tutte le specifiche pattuizioni richieste dai contraenti quale, per esempio, la richiesta delle
agevolazioni per l’acquisto della c.d. prima casa da parte dell’acquirente.
L’atto definitivo di compravendita deve essere obbligatoriamente registrato presso l’Agenzia
delle entrate e trascritto alla Conservatoria dei registri immobiliari; nel solo caso di vendita di uno
stesso immobile a più acquirenti, la trascrizione ha efficacia costitutiva, cosicché è proprietario chi
tra gli acquirenti ha trascritto l’atto per primo.
Al rogito vanno allegate la “dichiarazione di conformità” degli impianti dell’immobile alle norme
sulla sicurezza (D.M. 22 gennaio 2008, n. 37) e l’attestazione della certificazione energetica
(D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192), salvo diverso accordo fra le parti.
E’ compito del venditore fornire tutta la documentazione che il notaio richiede per il miglior
adempimento dell’incarico conferitogli.
15.7 - La vendita a corpo e la vendita a misura
Il codice civile nella sezione dedicata alla compravendita di cose immobili, disciplina in
particolare la vendita a misura e quella a corpo (artt. 1537 e 1538 c.c.).
Infatti, il codice civile del 1942 ha l’obiettivo, non solo di disciplinare le varie fattispecie che
giuridicamente coinvolgono le persone – fisiche o giuridiche che siano –, ma anche di risolvere a
grandi linee i possibili conflitti e divergenze che, inevitabilmente, possono insorgere concernenti la
reale estensione e quantificazione del bene immobile compravenduto individuato con le sue
coerenze e con la planimetria depositata con apposita scheda al Nuovo Catasto Edilizio Urbano;
pur tuttavia le parti possono fare riferimento ai confini topografici per accertare l’esatta consistenza
del bene compravenduto, per cui gli elementi catastali rimangono meramente indicativi (Cass. civ.
22 novembre 2004, n. 22038).
La distinzione consiste nel fatto che nella vendita a misura sono indicate le unità di misura
dell’immobile (ad esempio, “x” metri quadri) ed il prezzo è stabilito in ragione di un tanto per ogni
unità di misura. La circostanza rileva anche in ordine ad eventuali successive integrazioni o
restituzioni del prezzo, che possono essere richieste anche dopo la conclusione del contratto,
qualora si riscontri una differenza rispetto alla superficie dichiarata, maggiore o minore che sia: se
la misura effettiva dell’immobile è inferiore il compratore ha diritto ad una riduzione del prezzo, se,
invece, è superiore il venditore ha diritto ad un supplemento del prezzo, ma il compratore ha la
facoltà di recedere dal contratto se l’eccedenza supera la ventesima parte della misura dichiarata.
La vendita è a corpo quando il prezzo viene fissato globalmente con riguardo all’immobile preso
in considerazione nel suo complesso. Si noti che anche nella vendita a corpo, però, può aversi
titolo ad una richiesta di un conguaglio del prezzo qualora la misura sia comunque indicata (e ciò
anche se la vendita sia dichiaratamente a corpo), se la differenza fra il valore indicato e quello
effettivamente riscontrato sia maggiore di un ventesimo, in più o in meno.
Pertanto, il criterio fondamentale di distinzione tra la vendita a misura e la vendita a corpo sta
nel fatto che nella prima la determinazione della consistenza della cosa venduta è effettuata
attraverso la misurazione, mentre la seconda è caratterizzata dalla determinazione e delimitazione
del bene in modo che esso resti identificato indipendentemente dalla misura. (Cass. civ. sez. II, 28
giugno 2000, n. 8793).
15.8 - Il prezzo ed il criterio del “prezzo-valore”:
le novità del decreto “Bersani” e della Finanziaria del 2007
Con riferimento al prezzo della compravendita, il decreto “Bersani” (d.l. 4 luglio 2006, n. 223,
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convertito con modificazioni nella legge 4 agosto 2006, n. 248) e la legge finanziaria 2007 (legge n.
296/2006 citata) hanno introdotto diverse novità anche se concernenti le sole cessioni di immobili
destinati ad uso abitativo.
La legge precisa che nel rogito, stipulato tra privati, deve essere riportato l’effettivo corrispettivo
pattuito. Ciascuna delle parti, inoltre, deve indicare l’eventuale utilizzo di un mediatore immobiliare,
dichiarando in caso positivo i dati identificativi del titolare, se persona fisica, o la denominazione, la
ragione sociale ed i dati identificativi del legale rappresentante, se soggetto diverso da persona
fisica, ovvero del mediatore, non legale rappresentante, che ha operato per la stessa società; il
codice fiscale o la partita IVA; il numero di iscrizione al ruolo degli agenti di affari in mediazione e
della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di riferimento per il titolare ovvero
per il legale rappresentante o mediatore che ha operato per la stessa società; l’ammontare della
spesa sostenuta per tale attività e le analitiche modalità di pagamento della stessa.
Merita ricordare, al riguardo, che la finanziaria 2006 (legge 23 dicembre 2005, n. 266) ha
introdotto per questo tipo di cessioni la possibilità per l’acquirente di chiedere al notaio che la base
imponibile ai fini dell’applicazione delle imposte (di registro, ipotecarie e catastali) sia costituita dal
valore catastale dell’immobile rivalutato, indipendentemente dal reale corrispettivo pattuito dalle
parti.
Il decreto “Bersani” ha integrato questa disciplina, detta del “prezzo-valore”, prevedendo che
sull’atto debba essere comunque riportato l’effettivo prezzo pattuito e precisando che se tale dato
viene occultato oppure dichiarato in misura inferiore, il suddetto “criterio agevolato” di
determinazione della base imponibile viene meno. In tal caso, le parti dovranno corrispondere le
imposte calcolate sull’intero corrispettivo effettivamente pattuito, con applicazione della sanzione
amministrativa dal 50% al 100% della differenza tra l’imposta dovuta e quella già applicata.
In pratica, la conseguenza è che nel rogito, quando le parti decidono di assolvere le imposte in
base al valore catastale, devono apparire due valori, quello catastale e quello reale di
compravendita (il prezzo pattuito).
Per quanto concerne le vendite effettuate da una società, l’IVA, come avveniva
precedentemente, continua ad essere calcolata sul valore di cessione (il prezzo pattuito) che deve
corrispondere – come minimo – a quello cosiddetto “normale”, ovvero di mercato. La legge
introduce un nuovo criterio di “presunzione”, di tale valore normale, precisando che esso, nel caso
venga acceso un mutuo o un finanziamento, deve coincidere col valore dell’importo finanziato.
In caso contrario l’Ufficio accertatore può procedere in modo diretto ad una rettifica in termini
d’IVA, senza dover per forza dimostrare la falsità o l’incompletezza dei dati. Ulteriori importanti
norme prescrivono che debba essere fornita, in modo analitico, l’indicazione delle modalità di
pagamento, con descrizione dei mezzi utilizzati anche quelli precedenti al rogito, per esempio per
l’assegno va indicato il soggetto emittente, la banca trattaria, il numero e la data di emissione,
l’importo, il soggetto beneficiario la clausola di non trasferibilità.
A tal proposito, si ricorda che l’attuale normativa antiriciclaggio (art. 49 D.lgs. 21 novembre
2007, n. 231) vieta il trasferimento in contanti quando il valore dell’operazione sia
complessivamente pari o superiore a 12.500,00 euro.
Le sanzioni amministrative, in caso di dichiarazioni omesse, incomplete o mendaci, variano da
500 a 10.000 euro (sanzioni penali a parte, che ai sensi dell’art. 483 del c.p. prevedono la
reclusione fino a due anni).
In merito di imposta di registro, inoltre, è prevista la possibilità che i beni oggetto di
compravendita subiscano accertamenti di valore.
15.9 - Le obbligazioni del venditore
Il venditore è tenuto a consegnare il bene immobile al compratore in modo da consentirgli di
ottenere la materiale disponibilità del bene acquistato; tale consegna comporta anche la consegna
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di eventuali beni accessori o pertinenziali del bene principale.
Normalmente la consegna di un bene immobile avviene, non soltanto con la materiale rimessa
dei documenti relativi alla proprietà del bene oggetto della compravendita, ma anche con quella
delle chiavi.
L’obbligazione del venditore di consegnare l’immobile all’acquirente va eseguita nel luogo ove è
sito l’immobile, se la consegna è convenuta in maniera effettiva, o nel domicilio del venditore se è
convenuta in maniera simbolica; lo scambio dei documenti e delle chiavi, quale controprestazione
al pagamento del prezzo dell’immobile, però, avviene normalmente presso lo studio del notaio
rogante.
Inoltre, la consegna del bene immobile deve essere eseguita nel termine pattuito tra le parti e
indicato nel preliminare di vendita, potendo determinare il ritardo nella stessa un danno
all’acquirente addebitabile al venditore, soprattutto se trattasi di termine essenziale che a sua volta
determina la risoluzione di diritto dello stesso contratto preliminare.
15.10 - Le garanzie collegate alla compravendita
La prima fondamentale garanzia che si ricollega al contratto di compravendita è la c.d.
“garanzia per evizione” concernente una vendita di cose altrui.
Si deve distinguere tra evizione totale o evizione parziale, in caso di evizione totale, il venditore
deve restituire al compratore il prezzo pagato e rimborsargli sia le spese sostenute per la
formalizzazione del contratto sia le spese necessarie e utili sostenute per la conservazione della
cosa acquistata. In caso di evizione parziale, invece, il compratore può ottenere una riduzione del
prezzo, oltre al risarcimento del danno; tuttavia, si applicano le norme sull’evizione totale, qualora
risulti, secondo le circostanze, che egli non avrebbe acquistato la cosa senza la parte di cui non è
potuto divenire proprietario (art. 1480 c.c.).
La garanzia per evizione costituisce un effetto naturale del negozio e pertanto non occorre una
specifica pattuizione che la preveda. Il compratore può, però, rinunciarvi e comunque le parti
possono pattuire una diminuzione o un aumento degli effetti che possono derivarne (art. 1487
c.c.). La clausola di esclusione della garanzia è nulla, però, nel caso di dolo o colpa grave del
venditore e qualora l’evizione sia derivata da un fatto suo proprio.
Un altro fondamentale obbligo del venditore è la “garanzia per vizi” che rappresenta un impegno
del venditore di consegnare il bene compravenduto immune da vizi che lo rendano inidoneo alla
sua funzione o ne diminuiscano sensibilmente il valore.
La garanzia per evizione concerne la condizione giuridica dell’oggetto del trasferimento, la
garanzia per vizi attiene alla sua condizione materiale inerente a:
– i vizi della cosa;
– la mancanza in essa delle qualità promesse o di quelle essenziali per l’uso cui è destinata;
– la diversità del bene consegnato rispetto a quello a cui le parti hanno fatto riferimento nel
contratto (aliud pro alio);
– il buon funzionamento della cosa.
La garanzia per vizi si riferisce specificamente ai vizi materiali del bene che non ne consentono
l’uso per il quale è destinato o sono tali da rendere la cosa inidonea o da diminuirne sensibilmente
il valore.
La mancanza delle qualità promesse o delle qualità necessarie per l’utilizzo cui la cosa è
destinata, può determinare la risoluzione contrattuale se la mancanza delle qualità eccede il limite
di tollerabilità determinato dagli usi e dalle consuetudini provinciali.
La garanzia si riferisce soltanto ai vizi occulti, ossia a quelli non facilmente riconoscibili (né
conosciuti) al momento della conclusione del contratto da parte dell’acquirente; anche i vizi
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facilmente riconoscibili sono, però, coperti dalla garanzia, se il venditore abbia dichiarato che la
cosa era esente da vizi (art. 1491 c.c.).
La garanzia per i vizi può essere contrattualmente esclusa o limitata, ma il relativo patto non
opera per i vizi che siano stati in malafede taciuti dal venditore. La garanzia non è dovuta dal
venditore per i vizi che erano, al momento della stipulazione del contratto, conosciuti o conoscibili
dall’acquirente usando la diligenza dell’uomo medio (art. 1176 c.c., ovvero la c.d. “diligenza del
buon padre di famiglia”).
Il contenuto della garanzia consiste, a scelta del compratore, nella riduzione del prezzo (azione
estimatoria o actio quanti minoris) o nella risoluzione contrattuale (azione redibitoria). La
risoluzione del contratto comporta, per il venditore, la restituzione del prezzo, nonché i rimborsi
delle spese e dei pagamenti legittimamente eseguiti per la vendita, e per l’acquirente, la
restituzione della cosa.
E’ prevista anche un’azione generale di risarcimento del danno (art. 1494, 1° comma, c.c.) e
un’altra, più specifica, relativa ai danni che i vizi della cosa abbiano arrecato ad altri beni o alla
stessa persona del compratore (art. 1494, 2° comma, c.c.), anche se nel primo caso si prevede
espressamente che il venditore possa liberarsi dalla responsabilità provando di aver ignorato
senza colpa i suddetti vizi.
La garanzia deve essere fatta valere dal compratore entro due anni dalla consegna della cosa
sempreché abbia denunciato il vizio lamentato entro due mesi dalla scoperta del difetto (art. 1321
D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206).
Si rammenta che i vizi delle parti comuni di un edificio condominiale devono essere contestati
direttamente dai condomini e non dall’amministratore entro i termini sopra indicati, eccettuata la
fattispecie dei gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c.
15.11 - Il certificato di agibilità
Il certificato di agibilità attesta sia la sussistenza delle condizioni di sicurezza statica, igiene,
salubrità degli edifici, sia il rispetto della normativa inerente al risparmio energetico e alla sicurezza
degli impianti.
La disciplina è attualmente contenuta nell’art. 24 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U. in materia
edilizia) che indica quali debbano essere le attestazioni contenute nel certificato.
Il certificato di agibilità non ha alcun rilievo urbanistico edilizio, assolvendo, invece, all’esclusiva
funzione di controllo sanitario attestante le condizioni dell’edificio sopra riportate (TAR Sardegna,
26 novembre 2002, n. 1699).
Quanto ai soggetti autorizzati a rilasciare il suddetto certificato il comma 2 dell’art. 24 del T.U.
attribuisce il relativo potere al dirigente o al responsabile dello Sportello unico dell’edilizia.
Quanto, invece, agli interventi edilizi che debbono essere assoggettati alla certificazione di
agibilità essi sono:
– le nuove costruzioni;
– le ricostruzioni o le sopraelevazioni, totali o parziali;
– gli interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di statica e sicurezza
degli impianti, igiene, salubrità, risparmio energetico.
Il comma 3 dell’art. 24 del T.U. indica, invece, i soggetti obbligati a chiedere il rilascio del
certificato per gli interventi sopra indicati, ovvero:
a) il titolare del permesso di costruire;
b) colui che ha presentato la denuncia di inizio attività, nonché i loro successori o aventi causa.
Si prevede, inoltre, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 77,00 euro a
464,00 euro nel caso in cui il soggetto obbligato non abbia presentato la domanda per ottenere il
rilascio del certificato di agibilità e il potere-dovere di irrogare la sanzione amministrativa de qua
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compete agli stessi soggetti preposti al rilascio della certificazione.
Pertanto, la consegna da parte del venditore all’acquirente del suddetto certificato è obbligatorio
e ciò indipendentemente da quello che convenzionalmente possono aver stabilito le parti. Ne
consegue che il venditore, qualora non provveda a tale suo incombente, risponde per i danni che
l’acquirente subisce in conseguenza di tale omissione, comprese le spese per il suo
conseguimento, purché l’immobile sia stato costruito conformemente alle disposizioni normative
igienico-sanitarie o possa esservi adeguato; in caso contrario non potendo il bene essere utilizzato
per l’uso economico e sociale al quale è destinato, l’acquirente ha diritto di ottenere la risoluzione
del contratto per il combinato disposto degli artt. 1477 e 1497 c.c.
15.12 - La certificazione energetica degli edifici
E’ obbligatorio allegare ai trasferimenti immobiliari l’attestato di certificazione energetica (ACE),
ex del D.lgs 19 agosto 2005, n. 192 emanato in attuazione della direttiva europea 2002/91/CE
relativa al rendimento energetico nell’edilizia, per stabilire “i criteri, le condizioni e le modalità per
migliorare le prestazioni energetiche degli edifici al fine di favorire lo sviluppo, la valorizzazione e
l’integrazione delle fonti rinnovabili e la diversificazione energetica, contribuire a conseguire gli
obiettivi nazionali di limitazione delle emissioni di gas a effetto serra posti dal c.d. Protocollo di
Kyoto, promuovere la competitività dei comparti più avanzati attraverso lo sviluppo tecnologico”
(art. 1).
Si tratta di un documento previsto dall’art. 6 del precitato decreto legislativo che “fotografa” il
consumo energetico delle unità immobiliari, riportando i dati sugli usi di energia concernenti il
riscaldamento, la produzione di acqua calda, la climatizzazione estiva e l’utilizzo di fonti rinnovabili,
con una stima delle emissioni di gas ad effetto serra determinate da tali usi.
L’attestato di certificazione energetica è, quindi, il documento che stabilisce, in valore assoluto,
il livello di consumo dell’immobile inserendolo in una apposita classe di appartenenza. Più è bassa
la lettera associata alla dispersione di energia dell’immobile e minore è il suo consumo in termini
energetici. Malgrado tale obbligatorietà non è ora sanzionata l’eventuale omissione; infatti l’art. 6
commi 3 e 4 del d.lgs.192/2005, così come modificato dal d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 311, che
prevedeva la nullità dell’atto invocabile però solo dall’acquirente, è stata abrogato dal d.l. 25
giugno 2008, n. 112 convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133.
Considerato il potere concorrente delle Regioni, se queste avessero già legiferato in modo
diverso da quanto disposto dalla norma statale, devono provvedere al loro adeguamento.
La questione è delicata perché, pur se non vige allo stato alcun obbligo di allegazione, la
mancata consegna della certificazione all’acquirente può essere fonte di responsabilità civile del
venditore, se non derogata da una opportuna clausola quanto meno per la mancata informazione
sull’inesistenza del documento.
15.13 - La compravendita di immobili da costruire
e le garanzie dell’acquirente in caso di fallimento del costruttore
Il pericolo per chi intende acquistare un’unità immobiliare, sita in condominio o in una villetta
singola non rileva, ancora da edificare è quello che il costruttore possa fallire nelle more della
costruzione o anche subito dopo averla ultimata, ma prima che sia stato stipulato l’atto notarile di
acquisto.
In realtà, il fallimento rappresenta una procedura che pone tutti i creditori del fallito su uno
stesso piano paritario in quanto congela alla data della sentenza dichiarativa di fallimento i loro
crediti e conferisce alla massa attiva del fallimento stesso tutti i beni del fallito al fine di poterli
vendere e con il ricavato soddisfare, spesso però solo pro-quota, i creditori che si distinguono in
privilegiati e chirografari.
Sono creditori privilegiati tutti coloro che hanno una particolare qualifica soggettiva (ad esempio:
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i lavoratori dipendenti dell’imprenditore fallito) o un particolare titolo riconosciuto ad hoc da una
norma di legge (per esempio: un’ipoteca sull’immobile). I creditori privilegiati hanno il diritto di
essere preferiti, nel riparto dell’attivo realizzato dalla curatela fallimentare, ai creditori chirografari.
Il curatore della procedura concorsuale, può in caso di contratti preliminari di compravendita
decidere di sciogliere i precitati contratti, qualora non abbia interesse a perfezionare quelli di
definitivi per qualsiasi ragione posta a tutela della massa dei creditori (Cass. civ., Sezioni Unite, 14
aprile 1999, n. 239).
La conseguenza di un siffatto scioglimento consiste nel fatto che il promissario acquirente perde
la proprietà del bene acquistando e può solo insinuare al passivo fallimentare l’importo che ha già
anticipato al costruttore fallito; e il promissario acquirente è un creditore chirografario destinato
troppo spesso a non ricavare alcuna somma dal riparto del fallimento, sempre che non avesse, per
qualche motivo, trascritto il preliminare ex art. 2645 bis c.c., come sopra dedotto.
Peraltro il promissario acquirente che abbia il sospetto di un possibile fallimento del costruttore,
può sospendere il pagamento del prezzo in relazione al timore di una rivendica da parte, appunto,
del curatore fallimentare.
Il legislatore con la legge 2 agosto 2004, n. 210 e il successivo regolamento attuativo (D.lgs. 20
giugno 2005, n. 122) ha ampliato la tutela a favore del promissario acquirente di un immobile in
costruzione o, addirittura, ancora da edificare in toto, prevedendo che:
– i contratti preliminari devono essere garantiti con una fideiussione bancaria o assicurativa per le
somme versate dai promissari acquirenti quali acconti sul prezzo in relazione ai singoli stati di
avanzamento dei lavori;
– i contratti definitivi di compravendita devono essere garantiti da una assicurazione decennale a
copertura dei vizi di costruzione dell’edificio.
L’importante è che sia stipulato un contratto preliminare ad hoc con un contenuto preciso per
cui è opportuno incaricare un notaio affinché rediga il preliminare così come prescritto dalla legge.
15.14 - La natura del contratto di locazione
La disciplina codicistica si rinviene negli articoli da 1571 a 1614 e prevede che il proprietario di
un bene immobile, o comunque colui che ne ha il possesso, possa trasferire il godimento
dell’immobile al conduttore che, a fronte dell’obbligazione del locatore di consegnare il bene in
buono stato, di conservarlo nell’identico modo e di garantirne il suo pacifico godimento, deve
osservare l’obbligo di pagare tempestivamente il canone e di utilizzare l’immobile secondo l’uso al
quale è destinato senza arrecare danni al medesimo.
Il diritto del conduttore non è un diritto reale in quanto egli ha la semplice detenzione
dell’immobile urbano concesso in locazione che può essere rappresentato anche da un’area nuda
sulla quale si svolga un’attività destinata alla produzione e/o al commercio di beni e servizi. Infatti,
per l’area nuda ciò che viene ritenuto prevalente è il terreno che l’uomo destina a sede
permanente della sua attività lavorativa.
Il conduttore, peraltro, rimane custode del bene concesso in locazione con le conseguenze
derivanti da eventi dannosi provocati dall’errata gestione del bene o dall’abuso nella sua
utilizzazione.
Il contratto di locazione è un contratto sinallagmatico per l’esistenza contestuale di diritti e di
obbligazioni reciproci tra il locatore e il conduttore.
Il Codice civile non definisce esattamente la natura del contratto di locazione, per cui la dottrina
si è sostituita al legislatore stesso nell’interpretare tale natura ed è giunta alla conclusione che il
contratto di locazione costituisce un diritto personale di godimento non essendo inquadrabile, in
modo certo, né in un diritto reale né in un diritto di credito pur avendo caratteristiche sia dell’uno
che dell’altro. Infatti, a fronte di una detenzione e di un godimento esclusivo del bene immobile da
parte del conduttore, sussiste un diritto di credito al pagamento del canone di locazione e degli
oneri accessori da parte del locatore.
La locazione pertanto è un contratto in forza del quale il locatore assume l’obbligo di concedere
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in godimento il suo immobile al conduttore per un determinato tempo e verso il pagamento di un
determinato corrispettivo il tutto con prestazioni periodiche e continuative.
Trattasi, pertanto, di un contratto a prestazioni corrispettive, il cui sinallagma è costituito da una
parte dalla concessione del godimento dell’immobile e dall’altra dal pagamento del canone e di un
contratto consensuale per il cui perfezionamento non necessita la consegna materiale
dell’immobile locato.
D’altronde la semplice occupazione di un immobile non determina di per sé stessa il sorgere di
un contratto di locazione, ben potendo questo essere utilizzato in modo gratuito, ad esempio in
forza di un contratto di comodato.
Il contratto di comodato è anch’esso un contratto tipico ex art. 1810 Codice civile, ma è
essenzialmente gratuito; è pur ammesso un modesto onere economico a carico del comodatario
purché sia di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di un corrispettivo del
godimento del bene concesso in comodato.
È pertanto necessaria l’esistenza, nel contratto di locazione, di una clausola che preveda un
corrispettivo da pagarsi da parte del conduttore o, comunque, sia provato con ogni mezzo di prova
che un corrispettivo viene pagato, eccependo la simulazione di un qualsiasi altro contratto scritto
eventualmente redatto tra le parti.
La locazione di un bene immobile riguarda qualsiasi bene esso sia e quindi un appartamento
destinato ad uso abitativo o ad uso ufficio, un fondo commerciale, un box, una fabbrica, un
albergo, un teatro e così via.
La locazione di un bene immobile destinato a uso alberghiero si distingue comunque dall’affitto
di un’azienda alberghiera poiché viene concesso in godimento soltanto il bene immobile che ha un
vincolo di tale destinazione, ma che è attivato e gestito quale albergo con accessori e beni
finanziati direttamente dal conduttore medesimo.
D’altronde la locazione immobiliare inerisce al mero godimento della sola struttura immobiliare
e, per contro, l’affitto concerne un’attività produttiva funzionante e attiva, per la quale l’immobile
costituisce soltanto uno tra i beni produttivi dell’azienda, quali ad esempio macchinari, attrezzature,
e così via; con l’affitto d’azienda viene, infatti, ceduta in godimento un’organica entità, capace di
un’autonoma vita economica.
Il locatore, come sopra indicato, può essere un soggetto diverso dal proprietario, purché sia in
grado di assicurare il godimento della cosa locata in relazione all’obbligazione assunta. Per tale
motivo il locatore può essere lo stesso conduttore che sublochi l’immobile, un rappresentante della
proprietà, quale può essere un amministratore, un genitore esercente la potestà per il minore. Può
sussistere, tra l’altro, la possibilità che un bene immobile sia in comproprietà di più soggetti e,
quindi, il locatore può essere sia il singolo individuo che abbia l’autorizzazione dagli altri a locare
l’immobile sia la stessa comunione proprietaria dell’immobile; in entrambi i casi è necessario che la
locazione sia stipulata con l’accordo di tutti o comunque della maggioranza dei comunisti ex art.
1105 c.c.
Nel caso, invece, vi siano più conduttori dell’immobile, come capita spesso per i contratti con
studenti universitari, i rapporti interni sono decisi esclusivamente tra loro non potendosi applicare a
tale fattispecie, neppure per analogia, gli articoli del codice in tema di comunione.
Individuati i soggetti stipulanti, l’oggetto e la causa del contratto, quali elementi essenziali del
contratto, si deve rilevare che, per i contratti relativi a immobili destinati a uso diverso
dall’abitazione, la forma del contratto è libera, così detta verbale, anche se le parti redigono un
contratto scritto che potrà servire, in caso di controversia, a provarne le relative clausole
convenzionali, mentre il contratto per immobili destinati a uso abitativo la forma necessariamente
deve essere scritta per la stessa validità del contratto (art. 1 legge 431/1978).
Il contratto di locazione è disciplinato anche da altre norme che, pur riguardando differenti
materie giuridiche, sono comunque collegate.
Così con D.L. 21 marzo 1978, n. 59 convertito in legge 18 maggio 1978, n. 191, il locatore di un
immobile deve denunciare all’autorità di Pubblica Sicurezza locale, le generalità complete del
conduttore con l’indicazione del documento d’identificazione.
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L’autorità di Pubblica Sicurezza è il Questore nelle città capoluogo di provincia e il Sindaco negli
altri Comuni.
La violazione di questo disposto di legge costituisce una contravvenzione a carattere
permanente e si prescrive nel termine di cinque anni dall’avvenuta cessazione del reato,
coincidente con la cessazione effettiva della permanenza del conduttore nell’unità immobiliare
locata.
Con D.L. 23 maggio 2008, n. 92 (art. 5), convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125, poi, chiunque
cede in locazione un appartamento a un extracomunitario, privo di permesso di soggiorno, per
trarre un ingiusto profitto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni; la condanna, con
sentenza definitiva, comporta anche la confisca dell’immobile, eccettuata l’ipotesi che il locatore
sia persona differente dal proprietario.
15.15 - Excursus storico
Il contratto di locazione ha conosciuto, nel tempo, diverse discipline e, soprattutto, limitazioni
all’autonomia delle parti alla quale il Codice civile ha sempre dato preminenza normativa.
Nell’immediato dopoguerra il legislatore è intervenuto con la legge 23 maggio 1950, n. 253 e
successive leggi di blocco dei canoni, e durante la crisi petrolifera degli anni settanta dello scorso
secolo, è intervenuto con le leggi 12 agosto 1973, n. 841 e 27 luglio 1978, n. 392, così detta
dell’equo canone.
Quest’ultima disciplina, peraltro, aveva riabilitato l’autonomia negoziale delle parti, seppure
limitatamente alla pattuizione del solo canone iniziale, per i contratti ad uso diverso dall’’abitazione.
Negli anni novanta, non ritenuta più necessaria una pregnante tutela del conduttore di un
immobile destinato ad uso abitativo, anche per i relativi contratti, il legislatore ha ridato dignità
all’autonomia delle parti ancora limitata agli aspetti economici, anche per adeguarsi alla disciplina
europea in tema di contratti, considerata l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea.
Con la legge 9 dicembre 1998, n. 431, infatti, il locatore di un immobile destinato ad uso
abitativo può liberamente pattuire con il conduttore l’ammontare del corrispettivo da questi dovuto,
essendo stati abrogati, conseguentemente, numerosi articoli della legge 392/1978.
Da ultimo con il D.L. 25 giugno 2008, n. 112 convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 e con
D.L. 30 dicembre 2008, n. 207 convertito con legge 27 febbraio 2009, n. 14, il legislatore è
nuovamente intervenuto per abrogare o modificare qualche residua disposizione.
15.16 - La durata del contratto
La durata del contratto rappresenta una delle clausole più rilevanti di un contratto di locazione e
si differenzia per periodi di tempo tra gli immobili destinati ad uso abitativo e quelli destinati ad uso
diverso dall’abitazione, come segue:
A) Abitazioni
Il legislatore del 1998 ha individuato tre tipologie di contratti
1. con durata liberamente pattuibile tra le parti;
2. con durata quadriennale, rinnovabile tacitamente ex lege di ulteriori quattro anni;
3. con durata limitata predeterminata in relazione a differenti fattispecie.
1. La durata del contratto può essere liberamente stabilita inter partes in relazione alle loro
reciproche esigenze, per gli immobili di particolare pregio storico e artistico, per gli appartamenti di
tipo signorile, per le ville e per gli alloggi destinati a scopi turistici e di vacanza. Per questi ultimi,
osservate anche le eventuali disposizioni regionali in tema di turismo, la durata non
necessariamente deve essere breve, purché la finalità che il conduttore persegue sia
esclusivamente di svago, divertimento e piacere.
Normalmente, però, la durata riguarda una stagione, invernale o estiva, ovvero un periodo della
medesima (un mese, quindici o sette giorni); in quest’ipotesi è opportuno redigere un verbale di
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consegna con l’indicazione di quanto contenuto nell’appartamento (arredo, stoviglie, etc.) e dello
stato di conservazione degli infissi e degli impianti.
Si deve rilevare che i motivi turistici ineriscono a viaggi di diporto e d’istruzione, mentre quelli di
villeggiatura a riposo e a relax.
2. I contratti stipulati per tutti gli altri tipi di appartamenti possono avere, a scelta del locatore, una
durata di almeno quattro anni, con l’obbligo per il locatore di rinnovare tacitamente per un identico
periodo il contratto stesso alla sua prima scadenza, eccettuato il verificarsi delle fattispecie
specificatamente individuate dal legislatore. Queste ipotesi sono relative prevalentemente ai
seguenti motivi (art. 3 legge 431/1998):
a) quando il locatore intenda destinare l’immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o
professionale proprio, del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado;
b) – omissis -;
c) quando il conduttore abbia la piena disponibilità di un alloggio libero ed idoneo nello stesso
comune;
d) quando l’immobile sia compreso in un edificio gravemente danneggiato che debba essere
ricostruito o del quale debba essere assicurata la stabilità e la permanenza del conduttore sia di
ostacolo al compimento di indispensabili lavori;
e) – omissis -;
f) quando, senza che si sia verificata alcuna legittima successione nel contratto, il conduttore non
occupi continuativamente l’immobile senza giustificato motivo;
g) quando il locatore intenda vendere l’immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad
uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. In tal caso al conduttore
è riconosciuto il diritto di prelazione, da esercitare con le modalità di cui agli articoli 38 e 39
della legge 27 luglio 1978, n. 392.
Considerata la durata lunga di questi contratti, il legislatore ha concesso al locatore, quale
contropartita, la facoltà di stabilire il quantum del corrispettivo contrattuale.
3. La minor durata di tre anni, con proroga del contratto biennale, prevista usualmente per i
conduttori che necessitano di una stabile dimora per soddisfare le esigenze proprie e della propria
famiglia (articoli 2 e 3) ovvero una durata da un mese a diciotto mesi per soddisfare le esigenze di
natura transitoria del conduttore o, ancora, da sei a trentasei mesi per soddisfare le esigenze
abitative degli studenti universitari (art. 5).
Tali contratti sono stati individuati dal legislatore per agevolare le famiglie meno abbienti, tanto
è vero che sono previsti canoni calmierati concordati, Comune per Comune, tra le organizzazioni
sindacali dei proprietari di immobili e degli inquilini e, per quanto concerne i contratti per studenti,
anche con le associazioni dei medesimi e le aziende per il diritto allo studio.
Per i contratti destinati a soddisfare esigenze transitorie, le parti devono precisare quali siano
tali esigenze tra quelle individuate dalle organizzazioni sindacali, anche se possono inerire all’uno
o all’altro contraente e non contestualmente ad entrambi; nel caso di rinnovo del contratto le
suddette esigenze devono essere confermate.
Per i contratti concernenti gli studenti universitari, il contratto si rinnova ex lege per un uguale
periodo alla prima scadenza, eccettuate le ipotesi sopra indicate per esigenze del locatore.
In tutte le fattispecie contrattuali trattate, il contratto si rinnova tacitamente alle medesime
condizioni economiche e normative se non perviene da una delle due parti contraenti una disdetta
dello stesso. Tale disdetta che, malgrado la dizione letterale del testo di legge, può essere inviata
con qualsiasi mezzo, anche orale purché dimostrabile, come indica la giurisprudenza, deve
giungere all’altra parte entro sei mesi dalla scadenza legale del contratto; trattasi, infatti, di un atto
unilaterale recettizio che esplica i suoi effetti giuridici allorché perviene al domicilio del destinatario,
indipendentemente dal fatto che questi ne abbia presa effettiva conoscenza, ad esempio per aver
respinto la raccomandata o averla fatta tornare al mittente per compiuta giacenza.
Anche il preavviso relativo al recesso del conduttore, in costanza del contratto è di sei mesi, e il
conduttore può recedere dal contratto solo se sopraggiungano gravi motivi, ad esempio, il
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trasferimento del luogo di lavoro, o se convenuto esplicitamente in contratto; in quest’ultima ipotesi
le parti possono convenire un termine più breve, ad esempio tre mesi o addirittura un solo mese.
Alla scadenza del contratto le parti, però, possono attivare la procedura per la stipulazione di un
nuovo contratto e la parte interpellata deve rispondere entro sessanta giorni dal ricevimento della
proposta di nuovo contratto, dovendosi ritenere, in caso contrario, non interessata a proseguire il
rapporto locatizio.
Il diniego di rinnovazione notificato dal locatore al conduttore, che deve riportare
specificatamente i motivi della necessità invocata, pena la nullità, e quindi l’inefficacia, del diniego
medesimo e deve sempre pervenire al conduttore almeno nel termine di sei mesi prima della
scadenza contrattuale.
Qualora il locatore non destini all’uso invocato l’immobile liberato dal conduttore, questi ha
diritto al ripristino del contratto o, in alternativa, al risarcimento dei danni pari a una somma non
inferiore a trentasei mensilità dell’ultimo canone corrisposto.
B) Uso commerciale, terziario, industriale, professionale
L’art. 27 legge 392/1978 stabilisce, per i contratti concernenti immobili destinati ad uso diverso
dall’abitazione, una durata minima del contratto in sei anni, rinnovabili tacitamente di sei anni in sei
anni; pur tuttavia alla prima scadenza dei sei anni il locatore può esercitare solo il diniego di
rinnovazione per uno dei seguenti motivi (art. 29 legge 392/1978):
a) adibire l’immobile ad abitazione propria o del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in
linea retta;
b) adibire l’immobile all’esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo
grado in linea retta, di una delle attività indicate nell’articolo 27, o, se si tratta di pubbliche
amministrazioni, enti pubblici o di diritto pubblico, all’esercizio di attività tendenti al
conseguimento delle loro finalità istituzionali;
c) demolire l’immobile per ricostruirlo, ovvero procedere alla sua integrale ristrutturazione o
completo restauro, ovvero eseguire su di esso un intervento sulla base di un programma
comunale pluriennale di attuazione ai sensi delle leggi vigenti. Nei casi suddetti il possesso
della prescritta licenza o concessione è condizione per l’azione di rilascio; gli effetti del
provvedimento di rilascio si risolvono se, prima della sua esecuzione, siano scaduti i termini
della licenza o della concessione e quest’ultima non sia stata nuovamente disposta;
d) ristrutturare l’immobile al fine di rendere la superficie dei locali adibiti alla vendita conforme a
quanto previsto nell’art. 12 della legge 11 giugno 1971, n. 426 e ai relativi piani comunali,
sempre che le opere da effettuarsi rendano incompatibile la permanenza del conduttore
nell’immobile. Anche in tal caso il possesso della prescritta licenza o concessione è condizione
per l’azione di rilascio; gli effetti del provvedimento di rilascio si risolvono alle condizioni previste
nella precedente lettera c).
La disdetta del contratto e il diniego di rinnovazione devono pervenire all’altro contraente entro il
termine di dodici mesi dalla scadenza legale del contratto stesso; si deve rilevare che per queste
manifestazioni di volontà valgono gli stessi principi esposti per quanto concerne i contratti stipulati
per uso abitativo.
Per la validità del diniego di rinnovazione è necessario che espressamente indicato il motivo
della necessità del locatore, affinché il conduttore possa valutarne la serietà; in caso contrario, il
diniego è nullo.
E ancora, se il locatore non destini l’immobile, di cui ha riottenuto il possesso, all’uso invocato, il
conduttore ha diritto al ripristino del contratto, fatti salvi i diritti dei terzi in buona fede, o al
risarcimento dei danni non superiore a 48 mensilità dell’ultimo canone corrisposto.
La precitata durata di sei anni è elevata a nove per gli alberghi e i teatri.
Nell’ottica di favorire il contraente più debole il legislatore ha previsto tre differenti fattispecie:
1. recesso del conduttore;
2. durata transitoria;
3. contratto stagionale.
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1. Il conduttore più esercitare il recesso dal contratto in due ipotesi:
1.1 per intervenuto patto contrattuale liberamente contrattato con il locatore e dunque il recesso
può non essere sorretto da alcuna motivazione e può essere comunicato con il preavviso
temporale stabilito concordemente;
1.2 per gravi necessità sopravvenute alla stipula del contratto e indipendenti dalla volontaria
determinazione del conduttore, prevalentemente per questioni che riguardano negativamente
l’attività del conduttore stesso, in quest’ipotesi il preavviso di recesso deve pervenire al
locatore obbligatoriamente almeno sei mesi prima della data nella quale il recesso deve avere
esecuzione.
2. Allorché il conduttore abbia necessità di locare un immobile per una breve durata, può stipulare
un contratto di natura transitoria.
Il conduttore deve, perciò, locare l’immobile per svolgervi un’attività destinata, per la sua natura
oggettivamente considerata a completarsi in un breve periodo; sono irrilevanti le motivazioni
soggettive che hanno indotto le parti a stipulare questo tipo di contratto con durata breve in
deroga al principio generale della durata del contratto di sei o nove anni.
3. Nelle località tipiche di villeggiatura, accade sovente che si alternino le così dette stagioni
morte, costituite dai mesi di rara o nulla frequentazione turistica. L’attività, soprattutto
commerciale, non può che supinamente adattarsi a questo andamento e il conduttore ha la
convenienza a stipulare un contratto stagionale per un periodo dell’anno solare; questo tipo di
contratto ha, comunque, la durata di sei anni qualora il conduttore ne faccia esplicita richiesta
(Cass. 21 febbraio 2006, n. 3684). Alla scadenza di ciascun periodo stagionale, il conduttore
deve lasciare i locali affittati nella piena e libera disponibilità del locatore, salvo espresso
accordo inter partes.
15.17 - Il corrispettivo della locazione
Dopo un lungo periodo di blocco dei canoni e di proroga dei contratti, durato dalla fine degli anni
quaranta del secolo passato, il legislatore del 1978, per quanto concerne i contratti per immobili
destinati ad uso diverso dall’abitazione e quello del 1998, per quanto riguarda i contratti per
immobili destinati ad uso abitativo, hanno consentito alle parti di determinare liberamente e
autonomamente il corrispettivo dovuto dal conduttore, seppure con alcuni limiti o privilegi per
alcune particolari situazioni. Infatti, ogni patto contrario a tali norme imperative è da considerarsi
nullo.
Anche per la trattazione di questo argomento è necessario distinguere le due tipologie di
contratto indicate sopra.
a) Contratto per negozi, uffici, opifici, alberghi, teatri
Il canone è stato liberalizzato con la legge 392/1978 e le parti potevano soltanto aggiornarlo
annualmente, in base alla percentuale del 75 per cento degli indici dei prezzi al consumo per le
famiglie di operai e impiegati accertati dall’ISTAT.
La clausola che concerne l’aggiornamento del canone è facoltativa e quindi l’aggiornamento
stesso non può essere preteso se non contemplato in contratto.
La norma prevista dall’art. 32 legge 392/1978 si applica sia ai contratti stagionali, che si
protraggono per i sei anni canonici, sai ai contratti per immobili destinati alle particolari attività
individuate dall’art. 42 della stessa legge 392/1978, quali, ad esempio, attività ricreative, culturali e
scolastiche non gestite ai fini di lucro.
L’esigibilità del credito del locatore è subordinata all’invio di una raccomandata di richiesta.
Si ritiene ammissibile anche una clausola che preveda un adeguamento del canone di
locazione purché ancorata a elementi certi e oggettivi e non sia sperequativa del sinallagma
originario del contratto .
È altresì lecita una clausola che preveda, nel corso del sessennio, una maggiorazione
preordinata del canone, a condizione che questa non simuli un illecito aumento del canone stesso
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in violazione del precitato art. 32.
Dal 1° marzo 2009, in forza della sopra richiamata legge 14/2009, è possibile convenire una
percentuale ISTAT al 100%, purché la durata del contratto sia prevista per un periodo superiore ai
sei anni, rammentando che, nell’ipotesi il contratto sia stipulato per una durata superiore a nove
anni, il contratto stesso deve essere trascritto ai Registri immobiliari per poter essere opponibile ai
terzi (art. 2643 c.c.)
b) Contratto per uso abitativo
La determinazione del canone per i contratti per immobili destinati ad uso abitativo varia in
relazione alla tipologia di contratto che le parti stipulano.
1) Immobili di lusso, storici e destinati ad uso vacanza
Come per la clausola relativa alla durata del contratto, anche quella inerente al corrispettivo
dovuto dal conduttore è liberamente pattuita tra le parti sia per quanto attiene al canone sia per
quanto riguarda il rimborso degli oneri accessori.
Il quantum dovuto è, dunque, rimesso alla convenzione pattizia, computato l’eventuale
aggiornamento ISTAT annuale.
2) Altri immobili
2.1
Contratti con durata quadriennale
Il canone è liberamente concordato tra le parti poiché il legislatore ha consentito al locatore di
richiedere un canone di mercato, quale contropartita di una lunga durata del rapporto instaurando.
Si deve ritenere che le parti possano derogare al disposto dell’art. 9 legge 392/1978 in tema di
rimborso degli oneri accessori e l’aggiornamento ISTAT può essere previsto nella misura del 100
per cento.
2.2 Contratti a canone concertato
Per i contratti con durata triennale o transitoria, il legislatore, inizialmente, ha rimesso la
determinazione del canone alle rappresentanze sindacali dei proprietari di immobili e dei
conduttori, nonché alle associazioni degli studenti universitari, seppure con il limiti territoriali dei
Comuni ad alta tensione abitativa previsti, da ultimo, con delibera del CIPE del 13 novembre 2003.
I criteri guida per effettuare tale operazione sono stabiliti in sede nazionale e ad essi devono
attenersi i sindacati provinciali.
Innanzi tutto si deve rilevare che il canone concordato è d’importo più esiguo rispetto a quello di
mercato, al fine di agevolare le persone o le famiglie meno abbienti, che non rientrano nella
categoria che può accedere a un alloggio di edilizia residenziale pubblica per carenza dei requisiti
economici del reddito familiare.
Il canone si rapporta alla zona della città in cui è sito l’immobile, ad esempio centro storico o
periferia, nonché alla sua vetustà, allo stato di manutenzione e alle eventuali caratteristiche di
pregio, oltre che alla superficie utile dell’appartamento e delle sue pertinenze.
Si determina in tal modo una forcella di un minimo e di un massimo entro la quale le parti
pattuiscono concretamente il canone.
Il canone, così individuato, è soggetto all’aggiornamento ISTAT nella misura del 75 per cento in
forza dei criteri stabiliti nei singoli accordi comunali.
Le organizzazioni sindacali, sopra indicate, sono convocate al tavolo delle trattative dal Sindaco
del Comune o da un suo delegato, normalmente dall’assessore alla casa.
Gli oneri accessori, dei quali è previsto il rimborso da parte del conduttore, sono individuati dallo
stesso legislatore con decreto Ministero delle Infrastrutture 14 luglio 2004.
2.3 Contratti transitori
I contratti transitori, come si è già avuto modo di rilevare, riguardano coloro che hanno
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particolari esigenze, per un figlio che si sposa o per un insegnamento annuale extra residenza,
ovvero, solo quali conduttori, per gli studi universitari.
Per la prima categoria di contraenti il canone relativo a immobili siti nei capoluoghi di provincia
deve corrispondere a quello individuato dalle organizzazioni sindacali di categoria dei proprietari e
di conduttori di appartamenti, mentre per gli altri Comuni ad alta tensione abitativa il canone può
essere liberamente pattuito tra le parti. Per contro, per i contratti stipulati dagli studenti universitari,
il canone di locazione deve sempre essere quello concordato tra le associazioni indicate nel
paragrafo della durata, sempre che l’immobile si trovi in una città sede di università o in città
limitrofe, anche non ad alta tensione abitativa.
c) Disposizioni varie
1) Registrazione
Il contratto di locazione, prevedendo un sinallagma di natura patrimoniale, deve essere
registrato ogni anno con l’aliquota del due per cento, da assolvere direttamente in banca tramite il
modello F23, con il versamento minimo di €67,00, anche se la somma debenda effettiva fosse
inferiore, soltanto per il primo anno di contratto.
Qualora nel contratto si indicassero anche un importo, quale rimborso degli oneri accessori, e
uno relativo alla cauzione, queste somme sono esenti da imposta.
L’imposta di registro, ex art. 8 legge 392/1978, è addebitata in parti uguali al locatore e al
conduttore, mentre le marche da bollo per il contratto e per le ricevute dei singoli versamenti sono
a carico del conduttore, salvo patto contrario tra le parti.
Per combattere l’evasione fiscale, il legislatore ha decretato la nullità dei contratti di locazione
che non siano registrati (legge 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346) e la Corte
Costituzionale, con ordinanza 19/25 novembre 2008, n. 389, ha dichiarato la legittimità di tale
norma.
Per invogliare i proprietari di immobili a locare i loro appartamenti con contratti a canone
concertato, il legislatore ha concesso loro alcune agevolazioni fiscali, quali: a) la riduzione del 30
per cento dell’imposta di registro; b) un’agevolazione ICI da determinarsi nella percentuale da
parte dei singoli Comuni interessati; c) l’ulteriore detrazione del 30 per cento, che integrando la
detrazione già concessa con il DPR 22 dicembre 1986, n. 917, determina una detrazione
complessiva del 40,5 per cento.
2) Accordi sindacali
Con decreto 12 luglio 2004 Ministero delle Infrastrutture, è stata prorogata l’efficacia degli
accordi sindacali, che dovrebbero essere ricontrattati ogni anno, qualora tali convenzioni non
fossero state rinegoziate con il solo aggiornamento ISTAT annuale.
Inoltre, è stato stabilito che, qualora in un Comune non fossero mai stati definiti gli accordi de
quibus, si deve far riferimento all’accordo vigente nel Comune demograficamente omogeneo di
minore distanza territoriale, anche situato in altra regione.
3) Patti in deroga
Si rammenta, inoltre, che qualsiasi clausola contrattuale fornita dal locatore in violazione delle
norme imperative delle leggi 27 luglio 1978, n. 392 e 9 dicembre 1998, n. 431 sono nulle per il
disposto, rispettivamente, dell’art. 79 e dell’art. 13; la prova dell’eventuale simulazione del
contratto, invocata dal conduttore, è onere del medesimo che, peraltro, può provarla con qualsiasi
mezzo, anche per testimoni.
La domanda di ripetizione, dell’indebito corrisposto, può essere avanzata dal conduttore entro
sei mesi dal rilascio per l’intero periodo contrattuale ed entro dieci anni per i soli ultimi cinque anni.
4) Oneri accessori
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Il conduttore è tenuto a rimborsare al locatore gli oneri accessori rappresentati dalle spese
condominiali di gestione ordinaria; peraltro il legislatore del 1978 aveva previsto che le spese per il
servizio di portineria sono da addebitarsi al conduttore solo nella percentuale del 90%.
Alcune spese condominiali sono sempre state oggetto di diatriba tra locatore e conduttore, che
né l’art. 9 della legge 392/1978 né il D.M. 14 luglio 2004 hanno risolto; tali spese ineriscono al
compenso dell’amministratore e al premio della polizza d’assicurazione. Considerato che, il
servizio prestato dall’amministratore e il rischio assicurato possono essere goduti e usufruiti dal
conduttore, anche se non totalmente, la prassi ha indotto le parti a suddividerle al 50%.
Le parti possono concordare che, durante la gestione condominiale, il conduttore versi alcuni
acconti, calcolati sovente sulla base del rendiconto consuntivo dell’anno precedente, e poi
provveda al conguaglio a fine gestione. Prima di provvedere in tal senso, il conduttore ha diritto di
ricevere il rendiconto de quo e i criteri di riparto della sua unità immobiliare. Se, trascorsi sessanta
giorni, non provveda a pagare il saldo, o comunque quanto dal medesimo non contestato, si
determina la sua morosità.
Il conduttore ha diritto di verificare direttamente presso l’amministratore i documenti giustificativi
delle spese delle quali il locatore chiede il rimborso, ma non ha diritto di prendere visione del
riparto complessivo del condominio, in quanto, così agendo, viola la privacy degli altri condomini
(D.Lgs. 196/2003).
Il diritto del locatore a pretendere il rimborso degli oneri accessori si prescrive nel termine di
cinque anni ex art. 2948 Codice civile.
5) Cauzione
Il locatore può pretendere che il conduttore versi, a garanzia delle obbligazioni assunte,
soprattutto concernenti l’uso dell’unità immobiliare locata, un deposito cauzionale che deve essere
fruttifero di interessi, se versato in contanti (art. 11 legge 392/1978).
Gli interessi devono essere corrisposti dal locatore ogni anno, dovendosi, in caso contrario,
calcolare gli interessi composti.
Il deposito cauzionale può essere sostituito da una fideiussione di un terzo, ritenuto solvibile dal
locatore, ad esempio, un istituto bancario o assicurativo, o da titoli anche nominativi.
Qualora il locatore abbia sfrattato per morosità il conduttore, può compensare il suo credito,
totalmente o parzialmente, con il deposito cauzionale a sue mani.
Le parti, essendo stato abrogato il primo comma del precitato art. 11, possono pattuire un
importo che ritengono congruo non vincolato alle mensilità del canone (D.L. 25 giugno 2008, n.
122 convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133).
Il diritto del conduttore alla restituzione del deposito cauzionale, una volta riconsegnato
l’immobile in buono stato, si prescrive nel termine ordinario di dieci anni ex art. 2946 c.c.
15.18 - Le norme vigenti della legge 392/1978
1) La successione nel contratto ad uso abitativo
Il legislatore del 1978 ha concesso agli eredi del conduttore defunto o al coniuge separato o
“divorziato”, di poter subentrare, nel contratto relativo all’appartamento già detenuto dal de cuius o
dall’altro coniuge.
Perché possa verificarsi questa fattispecie è però necessario che:
a) gli eredi dovevano essere abitualmente conviventi con il conduttore defunto;
b) il coniuge separato o divorziato abbia ottenuto dal Tribunale l’assegnazione della casa
coniugale.
Al coniuge separato è equiparato il convivente more uxorio; questi deve però restare
nell’appartamento con la prole naturale nata dall’unione con l’altro convivente (Corte Cost. 7 aprile
1988, n. 404).
2) L’avviamento commerciale
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Il legislatore del 1978, ridisegnando un istituto già introdotto nel nostro ordinamento dal 1963
(legge 27 gennaio 1963, n. 19), ha concesso ai conduttori che, in relazione alla cessazione del
contratto, abbiano perso la propria clientela un’indennità risarcitoria. L’indennità è stata preordinata
dallo stesso legislatore, fissando l’ammontare dell’avviamento commerciale in diciotto mensilità
dell’ultimo canone, corrisposto dal conduttore, prima della scadenza legale del contratto, ed è stata
elevata a ventuno mensilità se si tratta di attività alberghiere; l’indennità si raddoppia nell’ipotesi
l’immobile dal locatore o da un altro conduttore venga adibito alla medesima attività merceologica
già svolta dal precedente conduttore.
Per la suddetta quantificazione è, quindi, totalmente irrilevante l’effettivo danno patito dal
conduttore, dovuto alla circostanza di aver dovuto trasferire altrove la propria attività commerciale.
La corresponsione dell’avviamento commerciale è dovuto, però, soltanto a favore dei conduttori
che, da una parte, abbiano un contratto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori
nell’unità immobiliare locata e, dall’altro, non siano inadempienti o risolvano volontariamente il
contratto; ciò si verifica nel caso il conduttore sia fallito o sia sfrattato per morosità ovvero il
contratto sia risolto per inadempienza del conduttore giudizialmente provata ex articoli 1453 e
1455 Codice civile, o sia cessato per disdetta inviata dallo stesso conduttore. Non rileva, peraltro, il
limitato numero di clienti che frequentano il negozio. L’avviamento commerciale non è neppure
dovuto per i conduttori che svolgono un’attività di carattere transitorio o professionale, ovvero si
tratti di immobili interni e complementari a stazioni, aeroporti, stazioni di servizio, alberghi e villaggi
turistici, ovvero adibiti ad attività culturali, sindacali, scolastiche non svolte a fini di lucro.
L’accertamento della frequentazione della clientela deve essere effettuato locale per locale,
considerata, anche, la stretta connessione funzionale dei locali non frequentati dalla clientela con
quelli, invece, frequentati; così, ad esempio, la superficie di un mero deposito di vestiario non viene
conteggiata per la determinazione dell’avviamento, mentre la cucina di un ristorante viene
ricompresa.
L’importo corrisposto dal locatore a titolo d’avviamento commerciale costituisce un onere
deducibile fiscalmente ex art. 10 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
La liquidazione dell’avviamento deve precedere la riconsegna dei locali da parte del conduttore,
costituendone un presupposto processuale; ne consegue che il conduttore non è in mora nella
restituzione dell’immobile sino a che l’avviamento commerciale non gli viene corrisposto (Cass. 11
luglio 2006, n. 15721).
3) La cessione del contratto
Al fine di favorire l’attività produttiva dei conduttori, il legislatore ha consentito, in deroga ai
principi generali di sublocare e cedere il contratto di locazione, di poterlo effettuare, purché
congiuntamente venga ceduta l’azienda o un ramo d’azienda del conduttore (Cass. 6 marzo 2006,
n. 4800). La deroga, soprattutto inerente all’art. 1406 Codice civile, è relativa alla circostanza che
per il perfezionamento della cessione del contratto non necessita il consenso del locatore; questi
può soltanto opporsi all’intervenuta cessione, per gravi motivi concernenti la persona del
cessionario, allorché ne venga, in qualunque modo, a conoscenza, pur essendo obbligato il
cedente, a notiziario.
Peraltro, per il principio di solidarietà, il conduttore cedente rimane obbligato al pagamento del
canone con il cessionario, sempre che il locatore non lo abbia liberato dalle sue obbligazioni
originarie.
Il cessionario subentra nel contratto alle stesse identiche condizioni del cedente e, dunque, al
medesimo compete il diritto di percepire l’avviamento commerciale o di ricevere la comunicazione
dell’eventuale prelazione nell’acquisto dell’immobile che il locatore intende alienare.
Si rammenta che la cessione d’azienda deve realizzarsi con atto pubblico e non costituisce
cessione d’azienda la semplice vendita dei singoli beni che la costituiscono.
Intervenendo la cessione del contratto il locatore o il cessionario ben possono pattuire un nuovo
contratto, risolvendo consensualmente quello precedente, liberando in tal modo il cedente dalle
sue obbligazioni.
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4) La successione del contratto ad uso diverso
Allorché intervenga il decesso del conduttore, hanno diritto a subentrargli nel contratto sia gli
eredi sia coloro che, a qualunque titolo, hanno diritto a proseguire l’attività svolta dal de cuius.
Non hanno diritto, pertanto, i meri collaboratori o sostituti professionali del defunto.
Identico principio di successione nel contratto si applica in caso di separazione coniugale o
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio a favore del coniuge che rimane
nell’unità immobiliare locata e prosegua l’attività dell’altro coniuge allontanatosi.
Ovviamente tutti questi aventi diritti possono non subentrare nel contratto e riconsegnare
l’immobile libero di persone e cose nella disponibilità del locatore.
5) La prelazione o il riscatto
Sempre ai fini di agevolare l’attività commerciale rispetto al rapporto locatizio, il legislatore ha
concesso al conduttore il diritto di prelazione nell’acquisto dell’unità immobiliare condotta in
locazione e il corrispondente diritto di riscatto nell’ipotesi il locatore non gli abbia offerto il suddetto
diritto di prelazione.
Come per l’indennità d’avviamento commerciale, anche per quest’istituto sussistono alcuni limiti
ed eccezioni.
Il diritto di prelazione compete soltanto ai conduttori che nell’unità immobiliare locata hanno la
frequentazione della propria clientela e non siano inadempienti alle proprie obbligazioni
contrattuali.
Deve, comunque, trattarsi di una vendita, quindi di un contratto oneroso, volontariamente
decisa dal locatore, con esclusione nella qualità di acquirenti dei coeredi, del coniuge e dei parenti
entro il secondo grado.
La prelazione consiste in un’offerta al conduttore di acquistare l’unità immobiliare condotta in
locazione in primis rispetto ad altri possibili acquirenti; nella comunicazione, che deve essere
notificata tramite ufficiale giudiziario, devono essere riportate esattamente tutte le condizioni di
vendita, ad esempio, il subentro in un mutuo.
Entro sessanta giorni dalla comunicazione, il conduttore deve accettare tale offerta ed entro i
successivi trenta giorni pagare il prezzo d’acquisto.
Se il conduttore rimanga silente, trascorsi i sessanta giorni, l’offerta si considera non accettata.
Il locatore, però, non è obbligato a notificare al conduttore l’eventuale preliminare di
compravendita stipulato con altro acquirente.
Il conduttore, inoltre, non ha diritto alla prelazione nei seguenti casi:
a) allorché il contratto di locazione sia già scaduto;
b) allorché siano cedute soltanto le quote della società proprietaria dell’immobile;
c) allorché avvenga una permuta tra due differenti immobili;
d) allorché il locatore sia persona differente dal proprietario che aliena l’immobile;
e) allorché il proprietario dell’intero stabile, nel quale è sita l’unità locata, venda in blocco l’edificio,
non essendo distinguibile la singola unità locata; nell’ipotesi, però, di vendita simulata il
conduttore conserva il diritto alla prelazione.
Qualora il locatore sia inadempiente a questo suo obbligo, il conduttore, entro il termine
perentorio di sei mesi dall’avvenuta trascrizione del contratto di compravendita, può agire nei
confronti del solo acquirente, non sussistendo alcun litisconsorzio necessario con il venditore,
per conseguire coattivamente il riscatto dell’immobile.
All’acquirente retratto deve essere pagato esclusivamente il prezzo della vendita, senza
interessi compensativi.
Il diritto di riscatto permane anche nella fattispecie nella quale il locatore abbia volontariamente
fatto scadere il periodo di sessanta giorni dalla notifica della prelazione, per alienare ad un prezzo
inferiore l’immobile.
Per contro, qualora, fraudolentemente, il locatore e l’acquirente abbiano indotto in errore il
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conduttore, per evitare che questi eserciti il diritto di prelazione, il conduttore non può agire per il
riscatto dell’immobile, se trascorsi i sei mesi, ma solo chiedere il risarcimento dei danni subiti ex
art. 2043 c.c
Una peculiare prelazione è prevista dall’art. 40 legge 392/1978 che obbliga il locatore, alla
scadenza del contratto ritualmente disdettato, di offrire il nuovo contratto al proprio conduttore,
prima di locare l’immobile a terzi e sempre che decida di non volerlo più locare. Almeno sessanta
giorni prima della scadenza legale del contratto, il locatore deve indicare le nuove condizioni,
soprattutto economiche, del contratto ed entro trenta giorni dalla precitata comunicazione il
conduttore deve accettare, o meno, la proposta avanzata dal locatore pur ritenendosi ammissibile
una trattativa sulle condizioni prospettate.
Anche per questa fattispecie non ha diritto alla prelazione il conduttore inadempiente alle
proprie obbligazioni o sia addirittura fallito o abbia dato la disdetta dal contratto.
Nel caso, poi, il locatore non offra la prelazione ovvero dichiari di non voler più affittare
l’immobile e, invece, lo lochi nuovamente a un terzo, il conduttore ha soltanto il diritto di richiedere
il risarcimento dei danni patiti ex art. 1218 c.c.
15.19 - Le norme codicistiche
Malgrado il Codice civile del 1942 sia stato modificato e integrato dalla normativa
successivamente emanata, alcuni articoli sono tuttora in vigore ed esplicano una loro rilevante
disciplina nel complessivo rapporto di un contratto di locazione.
1) La disdetta
Come si è già rilevato, alla prima scadenza dei contratti, disciplinati dall’art. 27 legge 392/1978
e dall’art. 2, comma 1, legge 431/1998, questi si rinnovano tacitamente per espressa rinuncia del
locatore ad avvalersi della facoltà di disdire il contratto stesso, disposta ex lege, salvo il suo diritto
di denegare il rinnovo verificatesi le fattispecie individuate dal medesimo legislatore.
Per tutti gli altri contratti, e per questi sopra indicati al secondo periodo di rapporto, il rinnovo
avviene tacitamente alle identiche condizioni economiche e normative per un identico periodo, se
non venga disdettato da una delle parti entro il termine di sei mesi previsti dall’art. 3 legge
431/1998 o di un anno o di diciotto mesi disposti dall’art. 28 legge 392/1978, ovvero nei termini
pattiziamente stabiliti nelle altre fattispecie, ad esempio, trattandosi di un contratto pluriennale per
scopo di vacanza.
La disdetta è un atto unilaterale recettizio e, dunque, deve pervenire a destinazione nei termini
sopra previsti; nell’ipotesi il conduttore non ritiri la relativa raccomandata, questa esplica comunque
la sua efficacia e deve essere conservata chiusa dal mittente locatore.
Per inviare la disdetta, nei termini di legge, il locatore non deve addurre alcuna giustificazione
motivata; non è richiesta alcuna particolare forma e, quindi, può essere anche verbale purché il
locatore riesca a provarne l’avvenuta conoscenza da parte del conduttore; perciò il modo più
usuale per notificare la disdetta del contratto consiste nell’invio o di una raccomandata con avviso
di ricevimento o di un telegramma.
A maggior ragione la disdetta può essere contenuta in un’intimazione di licenza per finita
locazione finalizzata a conseguire un provvedimento di condanna del conduttore a rilasciare
l’immobile alla scadenza del contratto.
Si richiama alla memoria che la licenza per finita locazione si differenzia dallo sfratto per finita
locazione in quanto è un atto giudiziario antecedente la scadenza del contratto, mentre lo sfratto è
sempre un atto giudiziario successivo alla precitata scadenza; in quest’ultimo procedimento il
conduttore è condannato altresì a rimborsare le spese legali sostenute dal locatore intimante,
mentre in quello di licenza le spese legali rimangono a carico del locatore.
Qualora, infine, risulti errata la data di scadenza del contratto, se quell’effettiva è posteriore, la
disdetta esplica il suo effetto per questa scadenza, se invece è anteriore e non vi siano i termini di
preavviso previsti dalla legge, il contratto si rinnova tacitamente e la disdetta può valere per la
nuova scadenza contrattuale.
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Se regolarmente inviata, la disdetta non viene annullata né dalla riscossione del corrispettivo da
parte del locatore, essendo un onere del conduttore provvedervi sino all’effettivo rilascio
dell’immobile, né dall’assolvimento dell’imposta di registro dovuta per legge.
2) Danni per ritardata restituzione
Ai sensi dell’art. 1591 c.c. il conduttore che è in ritardo nella riconsegna dell’immobile dopo la
scadenza del contratto deve, oltre a versare il corrispettivo, risarcire i maggiori danni che il locatore
possa concretamente dimostrare di aver subito.
La tesi giurisprudenziale prevalente è che il conduttore sia in mora nella restituzione
dell’immobile, una volta scaduto il contratto, anche se abbia ottenuto dal magistrato, ex art. 56
legge 392/1978, un periodo di tempo per effettuare materialmente la riconsegna dell’immobile
libero di persone e cose; infatti, il locatore può legittimamente rifiutare la riconsegna se questa
condizione non si sia verificata.
L’art. 6 legge 431/1998 ha, peraltro, disposto che il maggior danno patito dal locatore non possa
eccedere la percentuale del venti per cento del canone corrisposto per l’intero periodo fissato dal
magistrato, ex art. 56 citato; successivamente a tale scadenza il locatore può provare
concretamente la quantificazione dei danni subiti. La domanda del locatore, da radicarsi ex art.
447 bis c.p.c., si prescrive nel termine ordinario di dieci anni.
3) Le obbligazioni del locatore
Le principali obbligazioni del locatore, ex articoli 1575-1577 c.c., sono:
a) consegnare al conduttore il bene locato in buono stato manutentivo;
b) mantenerlo nello stato idoneo a servire all’uso pattuito;
c) garantirne il pacifico godimento;
d) provvedere al suo mantenimento in buono stato locativo, effettuando tutte le riparazioni
necessarie allo scopo, soprattutto se si tratti di vizi che possano provocare danni alla salute del
conduttore e dei suoi familiari (art. 1580 c.c.).
Qualora, però, il contratto sia scaduto e il conduttore sia inadempiente all’obbligo di restituire
l’immobile, l’obbligazione del locatore di provvedere alla manutenzione del medesimo viene meno.
Tale obbligo è particolarmente rilevante, soprattutto per le conseguenze, anche di natura
penale, che possano derivare dalla non corretta manutenzione degli impianti sussistenti
nell’immobile (art. 134 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e D.M. 27 gennaio 2008, n. 37).
Nessun obbligo, invece, si pone a carico del locatore qualora, per le esclusive vicende aziendali
o professionali del conduttore, sia necessario provvedere a ristrutturare l’immobile sia sotto il
profilo tecnico-impiantistico sia sotto l’aspetto urbanistico; questi incombenti competono al
conduttore per la relativa progettazione e per la conseguente spesa.
Competono, altresì, al conduttore le piccole manutenzioni previste dall’art. 1609 c.c.
Nell’ipotesi d’inadempienza del locatore, eccettuato il caso nel quale il conduttore sia a
conoscenza dei vizi dell’immobile, questi può chiedere la riduzione del canone o la risoluzione del
contratto.
Il locatore inadempiente risponde nei confronti di eventuali terzi danneggiati, salvo che possa
provare di non aver avuto alcuna segnalazione da parte del conduttore della necessità di effettuare
riparazioni all’immobile e di esserne rimasto totalmente all’oscuro senza sua colpa.
L’obbligo di garantire il pacifico godimento dell’immobile inerisce a molestie dei terzi di natura
strettamente giuridica, quale ad esempio di essere egli il legittimo conduttore; non è, invece,
responsabile il locatore nel caso di furto o d’infiltrazioni d’acqua provenienti da un’altra unità
immobiliare, essendo fatti colposi attribuibili esclusivamente a terzi.
Ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, il locatore non può divulgare i dati personali
concernenti il conduttore se non per l’adempimento ex lege dello stesso contratto di locazione,
quale ad esempio, la sua registrazione.
4) Le obbligazioni del conduttore
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Le principali obbligazioni del conduttore, ex articoli 1587-1590 c.c., sono:
a) prendere in consegna l’immobile e utilizzarlo con la diligenza del buon padre di famiglia,
secondo l’uso pattuito in contratto;
b) pagare il corrispettivo;
c) restituire l’immobile alla scadenza del contratto nelle identiche condizioni di manutenzione
sussistenti alla stipula del contratto stesso, salvo il normale deterioramento derivante dall’uso.
Il conduttore, pertanto, risponde per i danni provocati all’immobile, e ad eventuali terzi, per il
non corretto uso del medesimo anche attuato dai propri familiari o da persone del cui
comportamento sia responsabile, quale può essere una collaboratrice domestica.
Inoltre, il conduttore deve versare al domicilio del locatore-creditore, che può essere eletto
presso un istituto bancario, sia il canone di locazione pattuito, anche se nelle fasce concordate tra
le organizzazioni sindacali della proprietà e dell’inquilinato, per i contratti stipulati ex art. 2, comma
3, legge 431/1998, sia gli oneri accessori di cui debba effettuare il rimborso ex art. 9 legge
392/1978.
Il pagamento deve avvenire con denaro contante in euro, anche se le parti possano accordarsi
per una modalità differente, ad esempio con assegno bancario o con altra valuta straniera.
Il mancato pagamento del canone di locazione determina la risoluzione del contratto, come si è
già avuto modo di analizzare, anche attraverso il procedimento sommario dello sfratto per
morosità, ex art. 658 c.p.c. Questo, per l’uso abitativo, può essere promosso soltanto se la
morosità del canone sia protratta per almeno venti giorni dalla scadenza del contratto o se la
morosità, per il mancato rimborso degli oneri accessori, ammonta almeno a due mensilità del
canone di locazione.
Il conduttore, in sede d’udienza di comparizione delle parti nel procedimento giudiziario per
convalida di sfratto per morosità, può chiedere un termine così detto di grazia, ex art. 55 legge
392/1978, che non può eccedere i tre mesi, entro il quale deve saldare sia il canone e gli oneri
accessori, sia gli interessi di mora, sia le spese legali liquidate dal magistrato, che rinvierà
l’udienza a una data successiva ala scadenza del suddetto termine, e se il conduttore avrà saldato
interamente il suo debito il procedimento si estinguerà, altrimenti il magistrato convaliderà lo sfratto
per morosità.
Il precitato art. 55 non può essere invocato dai conduttori di immobili destinati ad uso diverso
dall’abitazione non essendo stato richiamato nell’art. 41 legge 391/1978 il correlato art. 5 della
stessa legge tra gli articoli inerenti all’uso abitativo applicabili anche all’uso diverso.
Il conduttore, qualora contesti la misura del canone legale, non può ridurlo automaticamente,
incorrendo pur sempre nella sua inadempienza per morosità.
Alla scadenza del contratto, il conduttore deve riconsegnare l’immobile al locatore che ha la
facoltà di rifiutare tale restituzione soltanto nell’ipotesi l’immobile non presenti le condizioni
manutentive descritte in contratto; in caso contrario, il locatore deve collaborare a tale restituzione.
Qualora il locatore rifiuti illegittimamente la riconsegna dei locali, il conduttore deve farne offerta
formale ex art. 1216 c.c..
5) Migliorie e addizioni
Ai sensi degli articoli 1592 e 1593 c.c., il conduttore è legittimato, anche senza il consenso del
locatore, ad apportare migliorie e addizioni all’immobile locato, purché facilmente rimovibili alla
scadenza del contratto.
Per questo motivo il locatore usualmente pattuisce in contratto una clausola che escluda
comunque il suo consenso, anche in caso di mera tolleranza.
Le migliorie apportate non danno diritto al conduttore ad alcuna indennità, ma se attuate con il
consenso del locatore, questi è tenuto a pagare, all’atto della riconsegna dell’immobile, una
somma corrispondente al minor importo tra quello della spesa e il valore del risultato utile
conseguito.
Per le addizioni apportate dal conduttore si applica lo stesso principio, fatto salvo il diritto del
conduttore di asportarle se tecnicamente possibile senza nocumento per l’immobile.
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Si possono qualificare migliorie tutte quelle innovazioni che qualitativamente migliorano
l’immobile accrescendone il godimento senza, per contro, mutarne la struttura e la destinazione
d’uso.
In caso di controversia tra le parti, l’interessato deve ricorre al Tribunale ex art. 447 bis c.p.c.
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MODULO 16
Evoluzione del mercato immobiliare
e property management
(Maurizio Voi)
16.1 - L’evoluzione del mercato immobiliare in generale
Di “evoluzione del mercato immobiliare” e “property management” si inizia a parlarne
seriamente in Italia negli anni ’90.
Nel 1994, infatti, è entrata in vigore la legge n.86 del 25 gennaio denominata “Istituzione e
disciplina dei fondi comuni di investimento immobiliare” (poi abrogata dal D.Lgs 24 febbraio n. 58
del 1998 ad accezione degli artt. 14-bis e 15).
Ma se per tutti gli anni ’90 termini come “fondi comuni di investimento immobiliare” “società di
gestione del risparmio (SGR)” “due diligence” “property management” ecc. rimanevano circoscritti
in capo a pochi operatori professionali, sul finire degli anni ’90 e all’inizio del 2000 questi concetti e
la sostanza delle attività che racchiudevano hanno cominciato ad espandersi in un maggior
numero di operatori del comparto immobiliare.
Infatti nel 1996 viene approvato dal Governo italiano il D.Lgs n. 104 del 16 febbraio 1996 che
prevede una riforma complessiva, o meglio una radicale trasformazione secondo criteri di
razionalità ed efficienza nella gestione del patrimonio immobiliare degli Enti previdenziali pubblici.
Enti come: INPDAP, INPDAI, INAIL, INPS ecc., il cui patrimonio veniva stimato in circa 16
milioni di metri quadrati di superficie edificata e 1,4 milioni di spazi a parcheggi (circa 110.000
abitazioni; 9.500 negozi), per legge, dovevano quindi affidarsi ad un nuovo modello di gestione con
garanzia di risultato del loro patrimonio immobiliare.
Nel 2001 viene poi approvato il D.L. 25 settembre 2001 n.351 denominato “Disposizioni urgenti
in materia di privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di
investimento immobiliare”; in pratica una legge diretta al riordino, gestione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare pubblico che si applica ai beni c.d. “non strumentali” anche delle regioni,
provincie e comuni.
Ulteriore spinta al sistema si rileva ora nell’ art.58 della legge 6 agosto 2008 n.133 che
semplifica la possibilità per gli enti pubblici di conferire a Fondi comuni di investimento immobiliare
i propri beni immobili; per arrivare poi al c.d. “piano casa” (art.11 legge 133/08) che individua
preferibilmente nella “costituzione di fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all’incremento
dell’offerta abitativa” lo strumento per la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione delle
misure di recupero del patrimonio abitativo esistente.
Nel settore privato con l’ approvazione della legge sui fondi comuni di investimento immobiliare
(L.86/94 poi modificata con D.Lgs 58/98) le grandi industrie italiane (es. Pirelli; Telemaco;
Telecom; Istituti Bancari e Assicurativi) hanno iniziato a porre in essere operazioni di “spin off” cioè
separare dall’attività originaria dell’impresa (core business) il patrimonio immobiliare per conferirlo
ad un’ altra società o Fondo.
Come si può comprendere sia analizzando il settore privato che quello pubblico il mercato
immobiliare italiano ha subito delle profonde trasformazioni richiedendo quindi soggetti in grado di
gestirlo.
Il nuovo tipo di gestione viene definito come “property management” cioè il coordinamento delle
attività amministrative e tecniche necessarie alla gestione di un patrimonio immobiliare oltre al
coordinamento delle attività di valorizzazione, finalizzate rispettivamente alla massimizzazione
della redditività (canoni di locazione), al controllo dei costi e al miglioramento del livello tecnicomanutentivo dei singoli immobili, all’interno del più ampio processo di incremento del valore di un
asset/patrimonio immobiliare, in sinergia con la strategia di investimento della proprietà (Tronconi,
Ciaramella, Pisani: La gestione di edifici e di patrimoni immobiliari, ed. Il Sole24ore, 2002).
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Al property management si affianca il “facility management” che invece concerne tutti gli aspetti
di conduzione per il mantenimento in efficienza dell’edificio (gestione della manutenzione) e per il
suo funzionamento (gestione impianti tecnologici, impianti di produzione, attrezzature fisse,
utenze, pulizie ecc.) nel tempo, in stretto rapporto alle esigenze dell’utenza (Tronconi, Ciaramella,
Pisani: La gestione di edifici e di patrimoni immobiliari, ed. Il Sole24ore, 2002).
16.2 - Una nuova chiave di lettura.
L’attività e ruoli del Real Estate Management
Per comprendere il “nuovo mercato” e la “nuova gestione” è necessario capire a quale tipologia
immobiliare ci si sta riferendo.
Il tipo di gestione property-facility, mutuata dall’esperienza anglosassone, principalmente è
applicata al sistema dei grandi patrimoni mono-proprietari in cui la proprietà è in capo ad un unico
soggetto, quindi, unico centro decisionale.
L’intervento del property manager (che normalmente sono società di capitali) inizia con la
valutazione degli assets (patrimonio) immobiliare da acquisire o vendere per arrivare alla sua
gestione quotidiana.
Quando si incontra un Fondo comune di investimento immobiliare di tipo chiuso ci riferisce ad
un organismo finanziario, costituito da un patrimonio immobiliare autonomo, suddiviso in quote di
proprietà di una pluralità di partecipanti.
Semplificando al massimo, il Fondo immobiliare è un insieme di beni immobili - di proprietà del
Fondo che li ha acquisiti - che deve essere gestito e produrre reddito, che poi sarà suddiviso fra gli
investitori.
La gestione del fondo è, per legge, di pertinenza di una tipica società denominata SGR (Società
di gestione del risparmio) che deve essere autorizzata ad operare dalla Banca d’Italia. La SGR può
gestire direttamente il Fondo (ed allora svolge lei l’attività di property) ovvero delegarla ad una
società terza.
Quando ci si riferisce alla gestione del patrimonio pubblico, si intende la sua amministrazione
che può arrivare anche alla valutazione degli assets per la successiva dismissione.
Chiaro a questo punto che il ruolo del property management nel ciclo della gestione
amministrativa non è solo la semplice amministrazione dell’immobile, ma un “complesso di attività”
che si possono così riassumere:
– attività amministrative: gestione delle locazioni, della contabilità, fiscalità, assicurazioni, rapporti
con enti ed autorità, rapporti con imprese e professionisti;
– attività tecniche: gestione della manutenzione di tutti gli elementi dell’immobile, dai servizi ai
beni strutturali, valorizzazione dell’ immobile, rapporti con i conduttori e i fornitori;
– attività di valorizzazione: miglioramento del livello tecnologico dell’edificio ed impianti;
– attività nell’acquisizione: supporto e consiglio nella fase del patrimonio immobiliare da acquisire
fornendo le analisi precedentemente viste sopra (amministrativa, tecnica di valorizzazione);
– evidenziazione delle criticità: individuare ed evidenziare costi e tempi dei problemi di gestione;
– due diligence: analizzare, valutare, confrontare i costi di gestione degli ultimi anni dell’immobile;
le attività di miglioramento possibili; elaborare piani di manutenzione programmata sull’ edificio
ed i suoi impianti; verificare i contratti.
Tutte queste attività sono quindi finalizzate non ad una gestione “statica” dell’ immobile, ma ad
una gestione “dinamica” che è diretta alla “VALORIZZAZIONE” del bene per l’incremento della sua
redditività, il miglioramanto della tecnologia e quindi all’ “INCREMENTO DEL VALORE”.
L’attività è complessa e deve essere precisa e altamente professionale poiché se rivolta alla
gestione dei Fondi immobiliari su essa si basano i reports obbligatori semestrali che la Società di
Gestione del Risparmio (SGR) del Fondo, deve inviare alla Banca d’ Italia; se diretta alla gestione
dei patrimoni pubblici fornire un risultato di economicità che poi viene riportato nei bilanci dell’ente
e soggetti al controllo della Corte dei Conti.
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16.3 - La definizione dei ruoli nel Real Estate Management
– Building manager: è il responsabile di ogni singolo edificio dei costi di
- manutenzione;
- velocità di risposta ai problemi;
- efficienza dell’edificio;
- funzionamento dei servizi.
– Facility manager:
è il responsabile delle “facilities” cioè:
- dei servizi all’edificio;
- dei servizi alle persone;
. responsabile dell’ efficienza.
– Property manager: è il responsabile a livello del portafoglio degli immobili della:
- amministrazione/efficienza degli incassi;
- amministrazione dei costi/rispetto del budget di spesa;
- implementazione degli interventi di valorizzazione;
- responsabile delle procedure di gestione ed amministrazione.
– Project manager è il responsabile dei progetti
- garanzia del risultato tecnico;
- garanzia del risultato economico;
- rispetto del budget di spesa;
- rispetto dei tempi di realizzazione;
- responsabilità delle procedure di gestione del progetto.
– Asset manager
è il responsabile a livello di tutto il patrimonio immobiliare
- monitoraggio del patrimonio;
- valutazione;
- valutazione della redditività;
- individuazione delle azioni idonee per l’incremento della redditività;
- definizione delle strategie;
- ottimizzazione delle strutture finanziarie;
- ottimizzazione delle strutture fiscali;
- pianificazione investimenti/disinvestimenti;
- business plan pluriennale/budget annuale.
Sviluppo dei rapporti tra i vari soggetti sopra identificati
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16.4 - L’evoluzione della professione di amministrazione immobiliare
La nuova figura professionale del gestore, che è fortemente specializzata anche nella
preparazione economica, oggi è quella del property manager che opera all’interno di una property
company (srl o spa).
Il Property manager svolge un’attività di “servizi all’immobile” usufruiti dalle persone.1
Coloro che intervengono in questo mercato, oggi, in una visione europea dove la concorrenza
(articoli 81, 82 e 86 del Trattato CE) ne è il fulcro - anche se esercitano come singoli professionisti
intellettuali - sono considerati come una categoria delle attività produttive di servizi e la loro attività
è equiparata all’attività d’impresa.2
Abbiamo poi visto che i servizi all’immobile possono essere divisi in due categorie generali: a)
servizi amministrativi; b) servizi tecnici.
Dove per (a) servizi amministrativi dobbiamo intendere tutte le attività dirette alla gestione dei
contratti di fornitura dei beni primari (luce, acqua, gas ecc.); servizi complementari (pulizia,
giardinaggio, assicurazione ecc.); contabilità dell’ immobile (suddivisione delle spese dei beni
primari e complementari ecc..), fiscalità; rapporti con enti ed autorità ed imprese, regolamentazione
del diritto di proprietà sui beni.
Servizi tecnici (b) intendiamo la gestione diretta delle manutenzioni, rapporti diretti con fornitori
e manutentori dei servizi tecnici nel momento della loro prestazione.
Del resto l’analisi della prospettiva gestionale-economica dell’ art. 1130 c.c. sui doveri
dell’amministratore di condominio considera proprio queste due categorie.
Nell’attività di property management si aggiunge un’ ulteriore categoria di servizi, (la
valorizzazione), e che le attività amministrative e tecniche sono implementate in funzione della
peculiarità del rapporto tra property manager e titolare del patrimonio immobiliare e/o monoproprietà.
I complessi immobiliari moderni hanno quindi la necessità del coordinamento continuo e
professionale di tutte le attività descritte con un costante monitoraggio del risultato e dei costi in
funzione del budget assegnato al gestore dalla proprietà.
Vi è poi la necessità di delegare a fornitori esterni il coordinamento di alcune attività ausiliarie
(es. intervento immediato per una prima analisi del problema in caso di malfunzionamento di
impianti, servizi o piccole manutenzioni alle parti comuni, monitoraggio periodico dei servizi e dei
beni strumentali, poiché è intuitivo che il manager non può essere sempre immediatamente sul
posto e non può avere le competenze necessarie a comprendere e risolvere i vari problemi.
Infine queste attività richiedono un approccio al servizio fatto di orientamento al cliente, velocità,
creatività e flessibilità che sono uno dei punti fondamentali del Sistema di Qualità.
Negli studi economici della “gestione immobiliare” tali qualità sono decisive in senso assoluto e
risultano dei fattori fondamentali per un’ azienda di servizi.3
Lessico
Real Estate: letteralmente significa proprietà immobiliare e nel lessico comune identifica il
sistema di valutazione, valorizzazione, gestione e fornitura di servizi alla proprietà.
Si parla anche del mondo del “ Real Estate” per identificare il complesso dei servizi per la
gestione di edifici e di patrimoni immobiliari.
Compreso il significato ora useremo sempre questo vocabolo nel procedere allo studio e alla
comprensione degli altri termini.
Management: è l’organizzazione ed il controllo, nel mondo immobiliare degli immobili e dei
terreni.
Attorno al real estate si sviluppano cinque principali attività di gestione che sono quelle dell’
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“Asset Management”; “Project Management”; Property Management”; Building Management”;
Facility Management”.
Asset Management: con la parola “asset” si intende un qualcosa di valore che appartiene ad
una persona, sia fisica che giuridica e nel mondo immobiliare si intende un immobile o complesso
di immobili, ma anche attrezzature con un valore economico che deve essere mantenuto per un
periodo di tempo dopo il suo acquisto.
L’asset management è quindi la gestione strategica di patrimoni immobiliari diretta alla
valorizzazione e ottimizzazione della loro redditività attraverso vari tipi di operazioni come:
acquisizioni, vendite, conferimenti, studi di fattibilità, riconversioni, ristrutturazioni.
Project Management: project è il progetto; se più genericamente è il piano o proposito più o
meno definito, in particolare è l’ideazione, accompagnata da uno specifico studio, della possibilità
di attuazione ed esecuzione del piano o proposito.
La norma UNI 7867 lo definisce come “processo edilizio” cioè sequenza organizzata di fasi
operative che partono dal rilevamento di esigenze al loro soddisfacimento in termini di produzione
edilizia.
Project management può quindi essere definito come un “processo” che identifica i risultati da
ottenere, arriva al loro conseguimento attraverso l’organizzazione di azioni opportunamente
organizzate.
Property Management: premesso che negli scritti in lingua inglese si utilizzano le parole
properties e property e che in Italia si conosce il property, esso indica uno o più oggetti che
appartengono a qualcuno.
Per property management si intende la gestione manageriale delle strategie ed attività di natura
tecnico-amministrativa-commerciale finalizzate al conseguimento di un reddito periodico da un
edificio o da un patrimonio immobiliare.
Building Management: building è l’edificio, la casa, la costruzione; con tale locuzione si
intende la responsabilità degli immobili singolarmente considerati quanto ai costi di manutenzione,
velocità di intervento, efficienza e funzionamento dei servizi.
Facility Management: la definizione di facility è abbastanza controversa ma con riferimento alla
gestione immobiliare, o meglio agli immobili, possono essere considerate come le attrezzature, i
servizi forniti per uno scopo particolare. Aggiunta a management esso è la conduzione per il
mantenimento in efficienza degli edifici e il funzionamento dei loro impianti (es. gestione delle
manutenzioni, degli impianti tecnologici, del verde, delle pulizie) in rapporto alle esigenze
dell’utente.
1 E’ interessante notare come anche la Corte di cassazione inizi a prendere coscienza –
giuridicamente- che nel condominio la realtà dei servizi sia ben diversa dalle norme che
regolano l’istituto del condominio. Ciò si comprende in uno dei primi punti della motivazione nella
sentenza n. 9096 del 7-7-2000 : “Il codice civile - nel capo dedicato al condominio negli edifici
(capo II, titolo VII del Libro terzo) - fa menzione dei “servizi in comune” (art. 1117 n. 2); delle
“spese necessarie per la prestazione dei servizi nell’interesse comune” (art. 1123 comma 1); di
“esercizio dei servizi comuni” (art. 1130 n. 3). Del diritto di condominio su un servizio è corretto
parlare solo in senso figurato, e non certo in senso tecnico, perché il servizio non si annovera tra
i beni (le cose e gli impianti), capaci di proprietà comune. Per la verità, il servizio in comune - e,
specificamente per ciò che interessa, il servizio di portierato - in quanto consistente nella
prestazione di una attività può formare oggetto non di proprietà comune, ma di godimento in
comune. (..) al diritto di proprietà comune sulle cose e sugli impianti destinati all’attuazione del
servizio si ricollega per legge la comunione di godimento concernente il medesimo servizio. In
questo senso debbono interpretarsi e la norma di cui all’art. 1117 n. 2 c.c. e le disposizioni
attributive del condominio sui servizi, contenute nei negozi di compravendita delle unità
immobiliari, o nei regolamenti contrattuali di condominio predisposti dall’unico proprietario
originario in virtù dei quali il condominio si costituisce. Avuto riguardo alla stessa funzione e al
medesimo fondamento ai servizi comuni si applicano le norme specificamente concernenti i beni
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comuni”.
2 La recente sentenza della Cassazione del 16.10.2008 n. 25251 in tema di responsabilità
dell’amministratore, ribadendo che oggi a causa dei numerosi compiti che presidiano la
gestione del condominio, ha riconosciuto che una società di servizi può assolvere alle
incombenze in modo più efficace.
3 RAGO, Strategie in evoluzione, in Soluzioni, n.5, maggio 2004 p.32 ss.
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MODULO 17
Cenni di Diritto penale e processuale
(Floria Carucci)
17.1 - Premessa
La normativa del diritto penale sostanziale vigente è contenuta sia nel codice penale sia in
alcune leggi speciali di diritto penale che disciplinano particolari materie (come, ad esempio, la
legge a tutela della salute e la sicurezza dei luoghi di lavoro), cui fanno – poi – immediato
complemento le disposizioni del codice di procedura penale che stabilisco i principi e le regole del
processo.
Poste queste doverose premesse di natura meramente nozionistica, sembra quasi superfluo
evidenziare come la figura dell’amministratore di condominio non rappresenti, per l’ordinamento
penale italiano, un soggetto destinatario di particolari norme ovvero di specifica disciplina, non
rilevandosi alcuna differenza rispetto alla normativa dettata in via generale e risultando –
conseguentemente – applicabili alla menzionata figura professionale tutte le disposizioni ordinarie
attualmente vigenti, indistintamente riferibili a qualunque soggetto presente sul territorio nazionale,
salvo la previsione di alcuni reati specificamente attribuiti allo stesso da leggi speciali.
E’ chiaro, dunque, che l’amministratore di condominio (tanto nella sua vita privata quanto
nell’esercizio della sua professione) può assumere, come qualunque altra persona, sia la veste di
imputato (vale a dire di responsabile di una condotta di reato) sia di persona offesa (e, dunque, di
soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma che si assume essere stato violato dalla
condotta di reato).
Sul punto sembra, inoltre, doveroso puntualizzare come il condominio (che è un ente privo di
personalità giuridica) non possa mai assumere la veste di imputato in un processo penale poiché
la responsabilità penale è – come noto – esclusivamente personale, ma ben potrà – invece –
avere la qualifica di persona offesa nel caso in cui la condotta di reato tenuta dal responsabile
abbia offeso un diritto proprio del condominio complessivamente inteso.
17.2 Condizioni di procedibilità
Pur nella consapevolezza di richiedere al lettore un apprezzabile sforzo di comprensione, si
ritiene opportuno affrontare a questo punto dell’esposizione un importante argomento di diritto
processuale relativo alle c.d. “condizioni di procedibilità”, introducendo la distinzione tra “reati
procedibili d’ufficio” e “reati procedibili a querela della persona offesa”.
I reati previsti dal codice penale sono, infatti, generalmente procedibili d’ufficio eccezion fatta
per quelle ipotesi di reato in relazione alle quali la legge espressamente richiede doversi procedere
a querela della persona offesa, evidentemente in ragione del diverso interesse specifico dello
Stato alla persecuzione penale di quel determinato fatto di reato, così rimettendo la decisione in
ordine alla procedibilità alla esclusiva volontà della persona offesa che può valutare se presentare
o meno la querela.
17.3 - La denuncia-querela
La querela rappresenta, dunque, “un atto processuale di natura negoziale, con la quale il
soggetto privato, titolare del relativo diritto, indica, con dichiarazione unilaterale di volontà, il fatto
per il quale chiede che l’organo pubblico di giustizia inizi l’azione penale”.1
La normativa vigente non prevede alcuna specifica formalità in ordine al contenuto della
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querela, limitandosi a stabilire all’art. 336 c.p.p. che “La querela è proposta mediante dichiarazione
nella quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si manifesta la volontà che si
proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato”.
Nonostante sia opinione largamente diffusa quella secondo la quale – ai fini della procedibilità –
la querela debba contenere la c.d. “istanza di punizione”, la Cassazione, negli ultimi anni, ha
chiarito in modo pressoché uniforme come “la sussistenza della volontà di punizione da parte della
persona offesa, non richiede formule particolari e può essere riconosciuta dal Giudice anche in atti
che non contengono la sua esplicita manifestazione; ne consegue che tale volontà può essere
riconosciuta anche nell’atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile”2 ovvero nel
fatto stesso di recarsi presso gli Uffici dell’Autorità Giudiziaria al fine di presentare querela.
La querela deve, però, essere presentata personalmente dalla persona offesa o dal suo legale
rappresentante o, ancora, da un suo procuratore speciale entro e non oltre il termine di tre mesi
dal giorno in cui si sono verificati i fatti di reato ovvero da quello in cui se ne è avuta notizia; è
sufficiente che venga formalizzata anche da uno soltanto dei soggetti passivi e si estende a tutti i
partecipanti al reato anche se presentata contro uno soltanto di questi.
Spettando, dunque, alla persona offesa l’esclusiva legittimazione a proporre querela, alla stessa
è – conseguentemente – attribuito anche il potere di rinunciarvi (espressamente o tacitamente)
ovvero, ancora, di rimettere la querela vale a dire di ritirarla in un momento successivo alla sua
presentazione (e fintanto che la sentenza non passi in giudicato).
Tali formalità non sono, invece, richieste in ordine alla procedibilità dei reati perseguibili d’ufficio
in relazione ai quali è sufficiente che l’Autorità Giudiziaria (mediante la presentazione di denuncia,
esposto, ecc.) abbia conoscenza di un fatto penalmente rilevante affinché sia obbligata
all’iscrizione della comunicazione nel registro delle notizie di reato tenuto ex art. 335 c.p.p. presso
la Procura della Repubblica di ogni Tribunale Penale.
La fondamentale differenza va, dunque, individuata nel fatto che nel primo caso la
presentazione della querela deve necessariamente avvenire a mezzo della persona offesa (o del
suo procuratore speciale) entro il termine di tre mesi mentre nell’altra ipotesi chiunque, ed in
qualunque tempo, può dare comunicazione (a mezzo denuncia, esposto, referto ecc.) alla Autorità
Giudiziaria che si è verificato un fatto di reato; inoltre, mentre nei reati procedibili a querela la
manifestata volontà della persona offesa di ritirarla pone fine al processo penale, nei reati
perseguibili d’ufficio una volta iscritta la notizia di reato nel registro ex art. 335 c.p.p., il
procedimento va avanti indipendentemente dalla volontà della persona offesa di rinunciarvi o
meno.
17.4 - Legittimazione dell’amministratore
Pare opportuno, allora, chiarire a chi sia attribuita la legittimazione a presentare denuncia –
querela nell’ipotesi in cui persona offesa dal reato sia il condominio generalmente e
complessivamente considerato.
La Giurisprudenza è, oggi, univocamente orientata nel ritenere che – nell’ipotesi in cui persona
offesa sia un ente di mera gestione privo di personalità giuridica, come è appunto il condominio –
“il diritto di querela deve essere esercitato a mezzo di rappresentante specialmente autorizzato
dallo Statuto o da tutti insieme i condomini, componenti dell’ente collettivo. Quando lo Statuto non
preveda un rappresentante speciale, il rappresentante ordinario dell’ente non ha veste di
querelarsi per l’ente stesso e deve essere munito della procura speciale di tutti i componenti
dell’ente medesimo”.3
In tema di legittimazione a proporre querela, infatti, per la proposizione di una valida istanza di
punizione da parte di un condominio di edifici, occorre la preventiva manifestazione di volontà da
parte dei condomini, volta a conferire all’Amministratore l’incarico di perseguire penalmente un
soggetto in ordine ad un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune.4
Parimenti, però, ogni singolo condomino ha diritto di presentare querela in ordine a reati
commessi in danno del condominio.5
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Recentemente, la Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi circa la
legittimazione dell’Amministratore di condominio a presentare querela in ordine a reati in danno del
condominio.
La Cassazione ha sul punto chiarito come “(…) Il condominio di edifici non è un soggetto
giuridico dotato di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti (CASS. CIVILE, SEZ. II,
SENTENZA 29.08.1997, N. 8257; CASS. CIVILE, II, SENTENZA 27.01.1997, N. 826; CASS. CIVILE, SEZ.
II, SENTENZA 12.03.1994, N. 2393), bensì uno strumento di gestione collegiale di interessi comuni
dei condomini, che non è suscettibile, in quanto tale, di essere portatore di propri autonomi
interessi direttamente protetti dall’ordinamento penale, la cui violazione, prescindendo dalle
diverse formalità eventualmente imposte dalla natura ordinaria o straordinaria dell’atto, possa
consentire una legittimazione all’esercizio del diritto di querela dell’amministratore che lo
rappresenta.
Un tale esercizio da parte dell’amministratore non è ipotizzabile, inoltre, in relazione alla lesione
degli interessi individuali, anche se collettivi dei partecipanti, dal momento che l’amministratore
esplica, come mandatario dei condomini, soltanto le funzioni esecutive, amministrative, di gestione
e di tutela dei beni e servizi a lui attribuite dalla legge, dal regolamento di condominio o
dall’assemblea, a norma degli artt. 1130 e 1131, comma primo c.c., ed esclusivamente nell’ambito
di queste ha la rappresentanza degli stessi e può agire in giudizio.
Non può, infatti, ricomprendersi la querela tra gli atti di gestione dei beni o di conservazione dei
diritti inerenti alla parti comuni dell’edificio, anche se avente ad oggetto un fatto lesivo del
patrimonio condominiale, costituendo la stessa un presupposto della validità del promovimento
dell’azione penale e non un mezzo di cautela processuale o sostanziale, ed il competere il relativo
diritto in via strettamente personale alla persona offesa dal reato esclude anche che, in assenza
dello speciale mandato, previsto dagli artt. 122 e 336 c.p.p., lo stesso possa essere esercitato da
un soggetto diverso dal suo titolare.
Corretta, pertanto, appare la decisione del Giudice che ha negato, in assenza di una unanime
manifestazione di volontà dei condomini che si procedesse penalmente in ordine al fatto
contestato all’imputato e di un corrispondente unanime specifico incarico conferito
all’Amministratore, l’esistenza e la legittimazione del rappresentante del condominio alla
presentazione della querela (CFR. CASSAZIONE PENALE, SENTENZA 16.10.1950, SILVESTRI)”6.
Pare opportuno sottolineare come la Giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione sia
oramai univocamente orientata nel ritenere che “In tema di legittimazione a proporre la querela,
per la proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un condominio di edifici occorre
la preventiva unanime manifestazione di volontà da parte dei condomini volta a conferire
all’amministratore l’incarico di perseguire penalmente un soggetto in ordine ad un fatto ritenuto
lesivo del patrimonio comune”.7
Alla persona offesa dal reato l’ordinamento processuale penale vigente riconosce, poi, il diritto
di agire nel processo per fornire il proprio contributo, evidentemente volto all’accertamento della
responsabilità penale dell’imputato e ad ottenere, in conseguenza di questo, il riconoscimento del
proprio diritto al risarcimento di tutti i danni patiti in ragione della condotta di reato contestata
all’imputato.
Lo strumento attraverso il quale poter agire in sede penale per formalizzare la propria richiesta
di risarcimento danni è rappresentato dalla costituzione di parte civile, disciplinata agli artt. 74 e ss.
c.p.p., che inserisce l’esercizio dell’azione civile all’interno del processo penale.
L’art. 185 c.p. stabilisce, infatti, che “Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili.
(artt. 2043-2059 c.c.). Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale
(art. 2059 c.c.) obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili,
debbono rispondere per il fatto di lui”.
In tema di parte civile, l’art. 74 c.p.p. dispone, innanzitutto, che “l’azione civile per le restituzioni
e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale dal
soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti
dell’imputato e del responsabile civile”.
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La legittimazione a costituirsi parte civile nel processo penale spetta – dunque – al “soggetto”
offeso o danneggiato dal reato.
Tenuto conto del combinato disposto di cui agli artt. 185 c.p. e 74 e ss. c.p.p., si pone il
problema se legittimato alla costituzione di parte civile sia soltanto colui che ha subito un danno
diretto dalla condotta del soggetto agente ovvero possa ritenersi compreso anche il danno indiretto
e, conseguentemente, se ex art. 74 c.p.p. possa costituirsi parte civile solo colui che abbia subito
un danno diretto ovvero anche chi abbia subito un danno indiretto.
La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha chiarito come
l’ammissibilità della costituzione di parte civile sia subordinata al fatto che il danno risarcibile sia
conseguenza diretta ed immediata del reato, con ciò – però – non volendo affermare che il
soggetto danneggiato dal reato coincide necessariamente ed esclusivamente con il soggetto
titolare dell’interesse specifico direttamente tutelato dalla norma violata.
Tale coincidenza, infatti, rappresenta la regola, ma la Corte di Cassazione ha –comunque –
lasciato intendere che in talune situazioni può risultare legittimato a costituirsi parte civile anche un
danneggiato diverso dal soggetto passivo del reato, sempre che il danno da questi subito sia
conseguenza diretta ed immediata della condotta di reato.
Pur non rilevandosi specifiche pronunce giurisprudenziali sul punto, pare corretto ritenere (in
modo speculare a quanto indicato in tema di legittimazione a presentare querela) che nel caso in
cui la persona offesa o il danneggiato dal reato sia l’intero condominio, l’Amministratore possa
validamente rilasciare ad un difensore procura speciale ex artt.76 ss. c.p.p. ai fini della costituzione
di parte civile in giudizio penale soltanto se – a sua volta – preventivamente e specificamente
autorizzato sul punto con delibera unanime dell’assemblea condominiale, ritenuto che portatore
dell’interesse giuridicamente protetto e leso dal reato è solo ed esclusivamente il condominio.
1
2
3
4
5
6
7
Cassazione Penale, 17.01.1983, Werner, CP 84, 558; GP 84, III, 100.
Cassazione Penale, sentenza 19.10.2001, Cosenza, CP 03, 386.
Cassazione Penale, sentenza 16.10.1950, Silvestri, GP 51, II, 274.
Cassazione Penale, sentenza 29.11.2000, Panichella, CP 02, 1719.
Cassazione Penale, sentenza 9 giugno 1958, Cecchi, GP 59, II, 140.
Cassazione Penale, Sez. II, 29.11.2000, Presidente dott. N. ZINGALE
Cassazione Penale, Sezione II, 05.01.2001, n. 6, Panichella.
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